183. Zuccarello distinto melodista – Novella

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Prime pubblicazioni: La Grande Illustrazione, dicembre 1914, col titolo Zuccarello, distinto melodista, poi in E domani, lunedì, Treves, Milano 1917.
«Mi sorse allora come in un lampo di follia la tentazione di mettermi a battere fragorosamente le mani, per rompere, per fracassare quel silenzio, per far balzare in piedi atterriti quei pochi, taciturni, oppressi avventori, aspiranti morti. Mi avrebbero preso per pazzo?»

Novella dalla Raccolta “Candelora” (1928)

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Zuccarello distinto melodista
Immagine dal Web

Zuccarello distinto melodista – Audio lettura 1 – Legge Renzo Clerico
Zuccarello distinto melodista – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
Zuccarello distinto melodista – Audio lettura 3 – Legge Giuseppe Tizza
Zuccarello distinto melodista – Audio lettura 4 – Legge Valter Zanardi

10. Zuccarello distinto melodista – 1914

             Sapevamo che Perazzetti, dopo avere sposato quella donna dal cane, non tanto per ridere, quanto per guardarsi dal pericolo di prender moglie sul serio, s’era dato da un pezzo, per non so quale connessione, allo studio della filosofia.

             Quali effetti un tale studio dovesse produrre in un cervello come il suo, era facile a noi tutti immaginare. Ma ce ne volle lui stesso rappresentare uno, l’altra sera, raccontandoci a suo modo la seguente avventura.

             –    Ero, – cominciò a dire, guardandosi al solito le unghie, – ero, amici miei, in uno di quei momenti, purtroppo non rari, in cui la ragione (ne ho, per disgrazia, ancora un poco), sicura d’aver raggiunto alla fine queir «assoluto» che tutti affannosamente, senza saperlo, andiamo cercando nella vita…

             –    Io, no,

             –    Io, no,  lo interrompemmo a coro.

             –    Io, no,

             –    Bestie – se vi dico senza saperlo!. La ragione, del resto, s’accorge a un tratto di tenere vittoriosamente stretto in pugno un codino, capite? invece dell’assoluto; un codino di parrucca, quel tal codino di parrucca, a cui s’aggrappava l’ineffabile barone di Münchhausen per tirarsi fuori dello stagno, nel quale era caduto.

             Protestammo che, se seguitava a parlare così difficile, non gli avremmo più dato ascolto, e allora Perazzetti ci spiegò, paziente, con gli occhi chiusi e le mani avanti:

             – Ecco qua. Prima o poi, il fine che ci siamo proposto, a cui tendono tutti i nostri affetti, tutti i nostri pensieri, e che ha perciò acquistato per noi il valore intrinseco della nostra stessa vita, un valore assoluto, capite?; appena raggiunto, o anche prima d’essere raggiunto, ci si scopre vano.

             –    Come? perché vano?

             –    Ma perché ci accorgiamo, santo Dio, che, come questo fine, qualunque altro avremmo potuto proporcene, che sarebbe stato vano lo stesso. Perché l’assoluto, cari miei, quell’assoluto in cui soltanto potrebbe quietarsi il nostro spirito, non si raggiunge mai.

             –    Ragion per cui è da imbecilli andarlo cercando, – osservò uno di noi.

             –    Bravo! Quel che dico io, – approvò Perazzetti. – Ma lasciatemi dire, per favore. Ogni principio è difficile; poi viene il bello. Ecco: la vita nostra corre protesa tutta verso quel fine, nel quale s’illude di poter toccare e sentire la propria realtà. Crolla o svanisce quel fine, crolla e svanisce all’improvviso con esso la nostra realtà, o, piuttosto, l’illusione della nostra realtà. E allora (che è, che non è) privi d’un tratto della realtà che c’immaginavamo di poter finalmente toccare, ci vediamo vaneggiare nel vuoto e a ogni canto di strada possiamo veder passare la follia e, come niente, metterci a conversare con essa (che potrebbe anche essere l’ombra del nostro stesso corpo) e domandarle, per esempio, con molta buona grazia e delicatezza:

             «Chi più ombra, o cara, di noi due?».

             State a sentire. Ero dunque in uno di questi deliziosi momenti, con in mano il codino della mia ragione.

             Quasi senza accorgermene, passavo, di sera, per una delle vie più popolose della nostra città. Mi pareva che la gente, tutta quanta impazzita come me, andasse in tumulto, e che i campanelli dei tram, le trombe delle automobili chiamassero ajuto, allorché, per caso, m’avvenne di posare lo sguardo su una tabella tra le due finestre ferrate d’un sotterraneo.

             Dalle grate di queste finestre s’intravvedevano giù un banco di mescita di lacca verde e luccicante di specchi, una diecina di tavolini di marmo, attorno a cui stavano seduti molti avventori, uomini, donne; poi, un armonium, ecc. Su quella tabella due arrabbiatissime lampade elettriche scaraventavano friggendo un violento sbarbaglio livido su un manifesto rosso, che recava a grossi caratteri la scritta:

             Ebbene, davanti a questo nome, con tanta rabbia folgorato da quelle due lampade, io mi fermai con la certezza acquistata lì per lì che questo signor Zuccarello, il quale si qualificava da sé con dolce probità distinto melodista, doveva aver raggiunto l’assoluto, e dunque, senza meno, essere un dio.

             – Un dio?

             Se ci riflettete bene, non può di conseguenza non essere un dio chi abbia raggiunto l’assoluto.

             Un nostro pernicioso errore è questo: immaginarci che, per diventare un dio, bisogni attingere con straordinarii mezzi altezze inaccessibili.

             No, amici miei. Niente fuori di noi, nessun’altezza. Coi mezzi più comuni e più semplici, un punto dentro di noi, il punto giusto, preciso, dove s’inserisca quel seme piccolissimo, che a mano a mano da sé sviluppandosi diverrà un mondo.

             Tutto è qui. Saper trovare in noi questo punto giusto per inserirvi il piccolo seme divino che è in tutti e che ci farà padroni d’un mondo.

             Nessuno lo trova, perché lo andiamo cercando fuori, in quell’errore che debba essere altissimo e che ci vogliano mezzi straordinarii. Abbagliati da vane illusioni, aberrati da ambiziose e stravaganti speranze, distratti o anche pervertiti da desiderii artificiosi, quel niente, quel puntino infinitesimale, che è la cosa più comune e più semplice del mondo, ci sfugge e non riusciamo mai a scoprirlo.

             Ma ecco qua questo signor Zuccarello.

             «La dolcezza stessa del suo nome», io mi diedi a pensare, «l’avrà portato un bel giorno a cantare, così, naturalmente, come fanno gli uccellini. S’è trovata in gola una discreta vocetta, e gli è bastata per distinguersi senza sforzo dagli altri. Un falso dio si sarebbe proclamato senz’altro: celebre melodista. Lui, no. Al signor Zuccarello, dio vero del suo mondo qual è, quale può essere, quale deve essere, basta proclamarsi distinto melodista. Tanto e non più. Cioè, quanto basta per esser lui, e non un altro.»

             Assolutamente bisognava ch’io lo vedessi, gli parlassi quella sera stessa. La sua vista, una conversazione con lui, mi avrebbero senza dubbio rimesso a posto lo spirito, ridato la calma e la fiducia nella vita.

             Entrai dunque in quel caffè-concerto sotterraneo.

             Si doveva andare più giù della sala col banco di mescita, che s’intravedeva dalla via.

             Più giù, di molto.

             Ma in fondo non mi dispiacque l’idea che dovessi andare a conoscere sottoterra l’uomo che aveva raggiunto l’assoluto. Mi parve anzi giustissimo, e che non potesse essere altrimenti.

             –    Quanto, il biglietto? – domandai allo sportellino.

             –    Sedie o poltrone?

             –    Ci sono anche poltrone?

             –    Poltrone, sissignore. Tre lire, compreso l’ingresso e, a scelta, anche una consumazione.

             Titubante, guardai il bigliettajo, come per domandargli:

             «Tutto questo, col signor Zuccarello?».

             Dio sa che cosa il bigliettajo arguì dalla mia aria smarrita, perché evidentemente il signor Zuccarello era per lui un numero come un altro del programma, e:

             –    Prezzi normali, – soggiunse, come per tenersi fermo a un dato di fatto nell’incertezza penosa, in cui quel mio strano modo di guardarlo lo teneva sospeso.

             –    Bene bene, – dissi per tranquillarlo.

             Diedi le tre lire, presi il biglietto e scesi due lunghe rampe di scala.

             Scendendo, avvertii subito che la terra si vendicava della violazione del suo grembo.

             Che questo grembo fosse squarciato per il riposo cieco e muto dei morti, la terra lo poteva tollerare; ma che fosse aperto, e così oscenamente, ad archi scosciati, e la cecità fosse rischiarata con tanta sfacciataggine da due grosse lampade, e il silenzio così profanamente offeso da canti sguajati, strimpellii di strumenti, acciottolio di stoviglie, risa sconce e applausi, questo no, questo non lo poteva tollerare.

             Ed ecco la sua vendetta: non ostanti gli sforzi del proprietario, la luce elettrica e la musica e gli specchi, quel caffè-concerto aveva il rigido squallore, d’una tomba.

             Confesso che mi sarebbe piaciuto molto trovar laggiù, nelle poltrone e nelle sedie, serii e composti, con la loro brava consumazione davanti, intatta, velata di polvere e con qualche ragnetto natante, una moltitudine di morti, venuti per vie sotterranee a quel loro caffè-concerto, con gli abiti neri, lustri d’umido, spiegazzati e chiazzati qua e là da bianche gromme di muffa.

             Trovai di peggio. Morti in anticamera, aspiranti morti, pochissimi e oppressi d’una disperata tristezza. Ogni stato incerto è peggiore d’ogni cattivo stato certo. Si recavano alle labbra la tazza di caffè, lo sciop di birra, il bicchiere di menta, col gesto di chi pensa:

             «Poiché è ancora necessario ch’io lo beva…».

             E nessuno guardava verso il piccolo palcoscenico, dove una scheletrica stella italiana miagolava, prima levando le braccia come per tentare d’aggrapparsi a un acuto che non riusciva a prendere, poi abbassando le mani con grazia squacquerata.

             La voce di questa canzonettista e il rombo dell’orchestrina facevano una violenza orribile, d’indegno stordimento, alla tragica, sconsolante solitudine di quelle poche mummie di avventori.

             Zitto zitto, in punta di piedi m’appressai a un cameriere e gli presentai il biglietto per avere indicato il mio posto.

             –    Ma segga dove vuole, – mi rispose il cameriere – Vede che non c’è nessuno?

             –    Già, possibile? E così ogni sera?

             –    Su per giù…

             –    Dunque il signor Zuccarello non richiama gente?

             – Chi?

             –    Il signor Zuccarello.

             Il cameriere guardò nel programma.

             – Ah, già, – disse. – Nossignore, chi vuole che richiami?

             Avvilito, presi posto in una poltrona.

             La stella italiana, inchinandosi a vuoto tre o quattro volte, si ritirò tra le quinte; l’orchestrina tacque; un silenzio sepolcrale si fece nel caffè sotterraneo.

             Mi sorse allora come in un lampo di follia la tentazione di mettermi a battere fragorosamente le mani, per rompere, per fracassare quel silenzio, per far balzare in piedi atterriti quei pochi, taciturni, oppressi avventori, aspiranti morti. Mi avrebbero preso per pazzo? Ma che ero io? A restare lì ancora per poco, in quel vuoto sotterraneo, in quel silenzio di morte, non sarei impazzito davvero?

             Soffocato, m’alzai rumorosamente, con una smania esasperata di parlar forte, di gridare, di pigliarmela con qualcuno. E, come il cameriere mi s’appressò per domandarmi:

             – Che cosa ordina il signore?

             – Niente, – gli risposi ad alta voce. – Non ordino niente! Lei ha detto che il signor Zuccarello non richiama nessuno? Sappia intanto, che ha richiamato me!

             Avvenne quel che avevo immaginato. Tutti, anche i sonatori dell’orchestrina, si voltarono sbalorditi a guardarmi; parecchi si levarono da sedere; il cameriere, quasi basito, mormorò:

             –    Ma io non ho mica inteso d’offenderla, signore…

             –    No, no, – seguitai con sdegno e con ira. – Tanto perché lei lo sappia! E lo dica al suo direttore o al signor proprietario del caffè, che fa di queste belle speculazioni, impiantare qua, in un sotterraneo, un caffè per fare impazzire i suoi avventori!

             Un signore, a questo punto, mi si fece incontro, turbato, pallidissimo. Lo fissai, per fermarlo a una certa distanza, e lo interpellai altezzosamente:

             –    Lei è il proprietario?

             –    Il proprietario, a servirla.

             –    Ah, bravo! La prego di dirmi, se lei, scritturando il signor Zuccarello, gli aveva detto che il suo nome sarebbe apparso su, nella via, in quella tabella folgorata da due lampade elettriche!

             Il proprietario mi guardò inebetito, balbettò:

             –    Io… nella tabella… il signor Zuccarello?… sissignore… è l’uso…

             –    Ah, è l’uso? – dissi, con un sorriso di trionfo. – E il signor Zuccarello dunque lo sapeva? Lo sapeva e s’è qualificato da sé distinto melodista!

             –    Sissignore, da sé. Ma io non capisco…

             – Lo vedo bene, – gridai, – lo vedo bene che lei non capisce nulla! Scusi, che cosa c’è lassù?

             Indicai, così dicendo, in alto, nella parete di fronte al palcoscenico, un riflettore per illuminare gli artisti alla ribalta.

             All’improvvisa diversione, tutti nella sala scoppiarono a ridere e alzarono il capo a guardare dove io indicavo con fiero cipiglio. Più che mai sconcertato, il proprietario, guardò anche lui, rispose:

             –    Un riflettore…

             –    Ah, è un riflettore? E lei non pensa d’accenderlo per illuminare alla ribalta un artista come il signor Zuccarello? un artista che si qualifica da sé distinto melodista, pur sapendo che il suo nome sarà esposto su, nella via, in quella tabella sfolgorante di luce?

             Un nuovo scoppio di risa accolse queste mie parole. Il proprietario ne fu scosso; il primo sbalordimento si cangiò in irritazione; forse gli balenò il sospetto ch’io fossi pagato dal signor Zuccarello per fare quella parte; si scrollò irosamente e disse:

             –    Ma io non debbo dar conto a lei, se accendo o non accendo…

             –    No no, scusi, scusi, – lo interruppi subito, facendomi manieroso, – lei deve rispettare in me un avventore attirato come una farfalletta dal lume di quella sua tabella nella via, un avventore che ha avuto fiducia nel signor Zuccarello e se ne promette una gioja, che lei non può neanche immaginarsi!

             – Ma questo… – si provò a interrompermi a sua volta il proprietario. Non gli diedi tempo:

             – Questo anche per suo tornaconto! Caro signore, qua siamo in un sotterraneo, lei lo sa bene; anzi in una catacomba! Dia ordine, via, che s’accenda il riflettore, e faccia un’altra cosa, sempre per suo tornaconto: inviti tutti gli avventori, che stanno a sbadigliare nella sala di sopra, a scendere qua, a sentire il signor Zuccarello! Gratis, non importa per una sera! E una vera indegnità che un distinto melodista come lui debba cantare alle sedie!

             Tutte quelle mummie d’avventori, già richiamate alla vita, a questa mia inattesa proposta batterono festosamente le mani, approvando a coro; il proprietario mi guardò ancora per un momento accigliato e perplesso, poi sorrise anche lui, aprì le braccia, s’inchinò e corse su a dare gli ordini.

             Poco dopo, la sala era quasi piena, rumorosa, ansiosa per la promessa d’un godimento insperato. Il riflettore di contro al palcoscenico cominciò a sfriggere, sbarbagliando, s’accese; l’orchestrina attaccò il preludio della prima romanza, e il signor Zuccarello in marsina, cravatta bianca, guanti bianchi, si fece avanti, raggiante, accolto da uno strepitoso applauso.

             Ah, miei cari amici, se l’aveste veduto! Piuttosto piccolino, con una faccia che pareva intagliata in un saponetto da barbiere, color di rosa, con un che di caprigno nei capelli fitti, ricci e neri, e anche nella voce, quando cominciò a belare, appassionatamente.

             Per me, la maggior prova, la prova più lampante che non m’ero affatto ingannato sul suo conto, fu questa: che non si sforzò per nulla. Tanto e non più, così nella voce come nei gesti e nei sorrisi. Dava quel che poteva, e perfettamente sapeva quanto poteva dare. Nelle pause, cacciava fuori la lingua, sorridendo, per umettarsi le labbra, e graziosamente, con due dita, si tirava i polsini di sotto le maniche.

             Perfetto!

             Ma naturalmente nessuno degli spettatori riusciva a rendersi conto di quella perfezione. Sentivo che tutti tenevano la loro disillusione sospesa in una aspettativa, che si volgeva dubbiosa da me a lui, da lui a me. Per fortuna, un buon acuto finale, smorzato con arte, rialzò, sostenne le sorti; io mi affrettai ad applaudire con entusiasmo, tutti applaudirono con me, e il signor Zuccarello venne fuori due o tre volte a ringraziare, inchinandosi con una mano sul petto.

             Ma voi capite, amici miei, che a me non importava tanto, quella sera, di salvare il signor Zuccarello, quanto di salvare «l’assoluto». Ne avevo proprio bisogno! E lo salvai, non ostante tutto; voglio dire, non ostante che il signor Zuccarello, dopo lo spettacolo, mi venne incontro adiratissimo, quasi con le mani in faccia, a domandarmi conto e ragione di quanto avevo fatto, del pericolo a cui lo avevo esposto d’un fiasco clamoroso e anche di fargli perdere la scrittura per l’inqualificabile soperchieria usata al proprietario del caffè.

             Stentai non poco a calmarlo, ma alla fine ci riuscii; non solo, mi riuscii anche a farmelo amico. Lo condussi con me per più d’un’ora per le vie già deserte, e lo feci entrare in un caffè notturno, perché seguitasse, bevendo una tazza di birra, a parlarmi di sé, della sua vita, delle sue speranze, dei suoi desiderii.

             Vi figurate che m’abbia detto cose straordinarie? Siete veramente imbecilli! Mi disse le cose più ovvie, più comuni, più semplici del mondo, quali poteva dirle uno che aveva saputo trovare in sé il punto giusto, il puntino infinitesimale, dove aveva inserito il seme che l’aveva fatto un dio modesto, padrone del suo piccolo mondo. Era contento e soddisfatto di tutto, anche di cantare alle sedie in quel lugubre caffè sotterraneo. Perché in quell’equilibrio perfetto che solamente può dare la piena soddisfazione di sé, egli aveva capito che a lui conveniva d’essere un piccolo dio provinciale, di condurre cioè nei paeselli di provincia la sua modesta divinità; e gli bastava perciò di poter dire, per accrescere colà il suo prestigio, d’aver cantato a Roma, in un caffè-concerto di Roma; quale, non importava.

             La prova maggiore della sua divinità mi fu data però da un’ombra, che, appena usciti dal caffè sotterraneo, prese a seguirci a distanza per più d’un’ora lungo le vie deserte; l’ombra d’una donna miserabile, che potei distinguere bene quando, schiudendo timidamente la porta a vetri del caffè notturno, strisciò dentro, dieci minuti dopo ch’eravamo entrati noi, e andò a rincantucciarsi in un angolo in fondo, vestita di un abito nero, inverdito e sfrittellato, con un cappellino frusto, guarnito di una piuma piangente da un lato; su le spalle curve, una vecchia mantiglia sfrangiata; ai piedi, un pajo di scarpacce da uomo.

             Avevo notato che, andando via, egli di tanto in tanto, pian piano e come di nascosto, si voltava a lanciare indietro un’occhiata inquieta.

             «Ma sì, lo so!» avrei voluto dirgli, per levarlo da quella inquietudine «Lo so ed è giusto che sia così: non credere che m’offenda il fatto che tu tenga così a distanza tua moglie e che ella sia così miserabile.»

             Ero sicuro che lui la teneva ancora con sé, non solo per farsi servire da lei, come da una schiava, ma anche per misurare da lei il cammino che aveva saputo percorrere; e parimenti ero sicuro che ella, senza muovere un lamento, faceva di tutto per tener lui come un damerino.

             Dite di no? Lasciatemi ripetere, amici, che siete veramente imbecilli. Sappiate che dopo aver accompagnato fino al portone dell’alberguccio il signor Zuccarello, nel ritornare indietro, io m’ebbi, nel bujo fitto della strada, un profondissimo inchino da quell’ombra. E non potei fare a meno di considerare che era giusto che ella s’inchinasse a me così, perché lo voleva in lei quello stesso Iddio, a cui io or ora avevo reso omaggio.

Raccolta Candelora
01 – Candelora – 1917
02 – Il signore della nave – 1916
03 – La camera in attesa – 1917
04 – Romolo – 1917
05 – La rosa – 1914
06 – Da sé – 1913
07 – La realtà del sogno – 1914
08 – Piuma – 1917
09 – Un ritratto – 1914
10 – Zuccarello distinto melodista – 1914
11 – Servitù – 1914
12 – «Ho tante cose da dirvi…» – 1911
13 – Mentre il cuore soffriva – 1917
14 – La carriola – 1917
15 – Nell’albergo è morto un tale – 1917

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