Volare – Audio lettura 3

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Legge Giuseppe Tizza
«Di tratto in tratto la signora Maddalena alzava gli occhi a un ritratto fotografico ingiallito e quasi svanito, appeso in cornice alla parete di faccia; e, contemplando quella figura d’uomo zazzeruto, tentennava amaramente il capo.»

Prima pubblicazione: Rivista popolare di politica, lettere e scienze sociali, 30 giugno 1907 col titolo La volata. 

Volare
Shilpa Majumdar Chauhan, Bleeding My Heart Free, Immagine dalla pagina Facebook dell’autrice

Volare

Voce di Giuseppe Tizza

******

             Cortesemente la morte, due anni fa, le aveva fatto una visitina di passata: – No, comoda! comoda!

             Solo per avvertirla che sarebbe ritornata tra poco. Per ora, lì, da brava, a sedere su quella poltrona; in attesa. Ma come, Dio mio? Così, senza più forza neanche di sollevare un braccio? Brodi consumati, polli, che altro? Latte d’uccello; lingue di pappagallo…

             Cari, i signori medici!

             Prima che questo male la assolasse così, poteva almeno ajutare un poco le due povere figliuole, recandosi a cucire a giornata ora da questa ora da quella signora, che le davano da mangiare e qualche soldo; più per carità che per altro, lo capiva lei stessa. Non ci vedeva quasi più; le dita avevano perduto l’agilità, le gambe la forza di mandare avanti il pedale della macchina. Eh, ci galoppava, prima, su un pedale di macchina! Ora, invece…

             Niente quasi, quel che portava a casa; ma pure poteva dire allora di non stare del tutto a carico delle figliuole. Le quali lavoravano, poverine, dalla mattina alla sera, la maggiore a bottega, la minore a casa: astucci, scatole, sacchettini per nozze e per nascita: lavoro fino, delicato; ma che non fruttava quasi più nulla ormai. Figurarsi che la maggiore, Adelaide, nella bottega dov’era anche addetta alla vendita e alla cassa, tirava in tutto tre lire al giorno. Guadagnava un po’ più la minore, col lavoro a cottimo; ma non trovava da lavorare ogni giorno, Nené.

             Tutt’e tre, insomma, riuscivano a mettere insieme appena appena tanto da pagar la pigione di casa e da levarsi la fame; non sempre.

             Ma ora, al principio di quell’inverno, anche Adelaide s’era ammalata, e come! Veramente avvertiva da un pezzo quello spasimo fisso alle reni; ma finché s’era potuta reggere, non ne aveva detto nulla. Poi le si erano gonfiate le gambe e aveva dovuto farsi vedere da un medico.

             – Dottore, che è?

             Niente. Cosa da nulla. Nefrite. State a letto tre o quattro mesi, ben riguardata dal fresco, con una bella fascia di lana attorno alla vita; letto, lana e latte; latte, lana e letto. Tre elle. La nefrite si cura così.

             Quel guadagno fisso, su cui facevano il maggiore assegnamento, era venuto per tanto a mancare. E allegramente! La padrona della bottega aveva promesso di serbare il posto ad Adelaide, e che intanto, per tutto il tempo della malattia, non avrebbe fatto venir meno il lavoro a Nené. Ma con un pajo solo di mani che poteva fare adesso questa povera figliuola, cresciute le spese per la cura di due malate?

             Tutto quello che avevano potuto mettere in pegno, lo avevano già messo. Fosse morta lei, almeno, vecchia e ormai inutile! Adelaide, dal letto, pur con quel tarlo alle reni, ajutava la sorella, incollava i cartoncini, li rifilava. Ma lei? Niente. Neanche la colla in cucina poteva preparare. Doveva rimanere lì, per castigo, lei, su quella poltrona, ad affliggere le due figliuole con la sua vista e i suoi lamenti. Perché si lamentava, anche, per giunta! Sicuro. Certi lamenti modulati, nel sonno. La debolezza – bestialmente – la faceva lamentare così, appena socchiudeva gli occhi. Per cui si sforzava di tenerli quanto più poteva aperti.

             Ma che bello spettacolo, allora! Pareva una tomba, quella camera. Senz’aria, senza luce, là, a mezzanino, in una delle vie più vecchie e più anguste, presso Piazza Navona. (E dalla piazza, piena di sole nelle belle giornate, arrivavano in quella tomba gli allegri rumori della vita!)

             Avrebbe tanto desiderato, la signora Maddalena, d’andare ad abitar lontano lontano, magari fuor di porta, non potendo dove sapeva lei. Si sarebbe contentata anche su ai quartieri alti, magari in una stanza più piccola, ma non così oppressa dalle case di rimpetto. Lì però eran più basse le pigioni, e vicina la bottega ove Adelaide doveva recarsi ogni mattina; quando vi si recava.

             Tre lettini, in quella camera, un cassettone, un tavolino, un divanuccio e quattro sedie. Puzzo di colla, tanfo di rinchiuso. La povera Nené non aveva più tempo, e neanche voglia, per dir la verità, di fare un po’ di pulizia. Sul cassettone, ci si poteva scrivere col dito, tanta era la polvere. Stracci e ritagli per terra. E lo specchio, su quel cassettone, fin dall’estate scorsa, tutto ricamato dalle mosche. Ma se non si curava più neanche della sua persona, quella povera figliuola…

             Eccola là, tutta sbracata, senza busto, in sottanina e col corpetto sbottonato, e i capelli spettinati che le cascavano da tutte le parti. Ma che seno e che respiro di gioventù!

             S’era forse ingrassata un po’; ma era pur tanto bellina ancora! Un po’ meno, forse, della sorella maggiore, che aveva un volto da Madonna, prima che il male glielo gonfiasse a quel modo. Ma ormai Adelaide aveva trentasei anni. Dieci di meno, Nené, perché tra l’una e l’altra c’erano stati tre maschi che il buon Dio aveva voluti per sé. I maschi, che avrebbero potuto sostener la casa e formarsi facilmente uno stato, morti; e quelle due povere figliuole, invece, che le avevano dato e le davano tuttora tanto pensiero, quelle sì, le erano rimaste. E non trovare in tanti anni da accasarsi, belline com’erano, sagge, modeste, laboriose. Eppure, oh, se ne facevano, di matrimonii! Quanti sacchetti, quante scatoline ogni giorno! Ma li facevano per le altre, i sacchetti e le scatoline, le sue figliuole.

             Uno solo s’era fatto avanti, l’inverno scorso: un bel tipo! Vecchio impiegato in ritiro, tutto ritinto, doveva aver messo da parte – chi sa come – una buona sommetta, perché prestava a usura. Nené aveva detto di sì, solo per farle chiudere gli occhi meno disperatamente. Ma poi s’era presto capito che tanta voglia di sposare colui non la aveva, e che invece… Ma sì, tutt’a un tratto, s’era sparsa la voce che lo avevano messo dentro per offese al buon costume.

             Così vecchio, e così… Ma già, il mondo, tutto rivoltato! E non aveva avuto il coraggio di ripresentarsi, dopo tre mesi, appena uscito dal carcere? Prima nero come un corvo, e ora biondo come un canarino… Per poco Nené non gli aveva fatto ruzzolar le scale. Eppure ancora, laido vecchiaccio sfrontato, la seguiva e la infastidiva per via, quand’ella si recava a lasciare a bottega i sacchettini e le scatolette o a prender le commissioni.

             Più che per Adelaide la signora Maddalena sentiva pietà per questa più piccola. Perché Adelaide, almeno, da ragazzina, aveva goduto, mentre Nené era nata e cresciuta sempre in mezzo alla miseria.

             Di tratto in tratto la signora Maddalena alzava gli occhi a un ritratto fotografico ingiallito e quasi svanito, appeso in cornice alla parete di faccia; e, contemplando quella figura d’uomo zazzeruto, tentennava amaramente il capo.

             Lo aveva sposato per forza. Ai suoi tempi, quel tomo lì, era stato un famoso baritono buffo.

             Da giovane lei aveva studiato canto, perché aveva una bellissima voce di soprano sfogato. Faceva all’amore, allora, con un giovanotto che forse l’avrebbe resa felice. Ma la madre, donna terribile, un giorno – rimedio spiccio – l’aveva schiaffeggiata pulitamente al balcone, coram populo, mentre stava in dolce corrispondenza con l’innamorato seduto sul balcone dirimpetto.

             Aveva esordito a Palermo, prima del 1860, al Carolino, e aveva fatto furore. Eh, altro… Ma quell’uomo là con la zazzera, che cantava con lei, innamorato cotto, l’aveva chiesta subito in moglie. E subito, appena sposati, le aveva proibito di seguitare a cantare. Per gelosia, pezzo d’imbecille! Sì, guadagnava tesori, lui, è vero, e la teneva come una regina, ma sempre incinta, e senza casa, di città in città, con un esercito di casse e di fagotti appresso. E i denari, com’erano entrati, eran volati via. Poi lui s’era ammalato, aveva perduto la voce di baritono buffo, e buonanotte ai sonatori! Lui, morto in un ospedale; e lei rimasta in mezzo alla strada con cinque figliuoli, tutti piccini così.

             Non solo il corpo, ma pure l’anima si sarebbe venduta per dar da mangiare a quei piccini. Aveva fatto di tutto; anche da serva, tre mesi; poi, i tre maschietti le erano morti fra gli stenti; e quelle due femminucce se le era tirate su, non sapeva più come neanche lei. Eccole là.

             –    Piove, Nené?

             –    Piove.

             Da quindici giorni pioveva, signori miei, senza smettere un momento. E per l’umidaccio che la acchiappava subito alle reni, Adelaide, ecco, non si poteva tenere neppure a sedere sul letto.

             Oh! sonavano alla porta. E chi poteva essere con quella bella giornata?

             La signora Elvira, che piacere!, la padrona della bottega d’Adelaide. S’era incomodata a venir lei stessa a pagare fino in casa la settimana? Quanta bontà… No?

             –   No, care mie, – prese a dire la signora Elvira, deponendo nelle mani di Nené l’ombrello sgocciolante e poi un fazzoletto e poi la borsetta, per tirarsi su e. commiserare le sue sottane zuppe da strizzare.

             In gioventù, una trentina d’anni fa, si doveva esser molto compiaciuta di se stessa, quella signora Elvira, se con tanta ostinazione aveva voluto conservarsi tal quale, coi capelli biondi d’allora e il roseo delle guance e il rosso delle labbra e quella ridicola formosità del busto e dei fianchi. Sapendo di non poter più ingannare nessuno e neanche se stessa, si ritruccava quella sua povera maschera sciupata con violento dispetto per rappresentare almeno per qualche momento, di sfuggita, davanti allo specchio quella lontana immagine di gioventù passata invano, ahimè. Se non che, certe volte, se ne dimenticava; e allora il contrasto fra quella truccatura di rosea zitellina e la sguajataggine della vecchia inacidita, strideva buffissimo e sconcio.

             –   No no, care mie, – seguitò. – Bontà, scusate, bontà fino a un certo punto! Se non mi sfogo, schiatto. Dov’è la tasca? Eccola qua! Leggi, leggi tu, anima mia; leggi qua!

             – Che cos’è? – domandò la signora Maddalena dalla poltrona, costernata. La signora Elvira porse a Nené una lettera e rispose con le mani per aria:

             –    Che cos’è? Centoquattordici lire di ritenuta! Bisogna che mi vuoti il cuore dalla bile, o schiatto! Sono parti da fare a una come me? Ma dico… Lo sa Dio quel che sto patendo per voi a bottega, per serbare il posto a Lalla, e tu intanto, anima mia, qua… centoquattordici lire di ritenuta? Impazzisco.

             –    Ma che c’entro io? – fece Nené.

             –    Che c’entri tu? – rimbeccò pronta quella. – E il lavoro chi l’ha fatto?

             –    Non io sola.

             –    Tu per la maggior parte; tu che vuoi prendertene sempre più di quello che puoi fare! Ed ecco che ne viene. Hai visto? Piombi la sera tardi a bottega, approfitti che non ho tempo di vedere e che mi fido di te… Ah, cara mia, no! Io non le pago. Centoquattordici lire? Fossi matta! Ci ho colpa anch’io, che non ho sorvegliato. Pagheremo, metà io, metà tu.

             –    E con che pago io? – fece Nené, quasi ridendo.

             –    Me lo sconti col lavoro, – rispose la signora Elvira. – Oh bella, toh! Cominciando da questa settimana.

             –    Signora Elvira…

             –    Non sento ragioni!

             –    Ma guardi come siamo tutt’e tre! Se ci toglie… Domani viene il padron di casa per la pigione…

             ^ E tu non gliela dare!

             –    Come non gliela do? Siamo in arretrato di due mesi. Ci butta in mezzo alla strada. Creda, signora Elvira, che le vogliono fare una soperchieria, perché il lavoro…

             –    Zitta, zitta, bella mia, non mi parlare del lavoro! – la interruppe quella. – Ridammi il paracqua e ringrazia Dio, anima mia, se non ti volto le spalle, come dovrei. Se non tutto in una volta, sconterai a poco a poco, in considerazione, bada bene! di tua sorella che mi lasciò sempre contenta e di tua madre. C’è malattie; compatisco. Ti do la metà, e basta. Statevi bene.

             Posò il denaro sul cassettone, e scappò via.

             Le tre donne rimasero un pezzo a guardarsi negli occhi senza fiatare. La signora Maddalena e Adelaide s’erano accorte, e lei stessa, Nené, sapeva bene, che veramente la manifattura di quelle scatoline per un dolciere d’Aquila lasciava molto a desiderare. Premeva a Nené di raggranellare il mensile per il padrone di casa, e aveva lavorato anche di notte, con le mani stanche e gli occhi imbambolati dal sonno. Ora, con la giunta di quelle poche lire, il mensile per il padrone di casa lo metteva insieme; ma non restava nulla per la settimana ventura. Cioè, restavano i debiti coi fornitori, i quali certo, non ricevendo neppure il piccolo acconto promesso, non le avrebbero fatto più credito per un’altra settimana.

             Stimando vano ogni sfogo di parole, si stettero zitte tutt’e tre. Nello sguardo della madre però e in quello d’Adelaide parve a Nené di scorgere come un rimprovero per quel lavoro eseguito male; quel rimprovero che forse avrebbero voluto rivolgerle a tempo e che non le avevano rivolto per delicatezza, giacché vivevano ormai alle spalle di lei. Parve anche a Nené che quel poco denaro lasciato lì sul cassettone dalla padrona della bottega fosse dato come in elemosina a lei che aveva lavorato, non perché lo meritasse, ma solamente per riguardo alla sorella che se ne stava a letto e alla madre che se ne stava in poltrona. Così infatti aveva detto colei. Non meritava dunque nessuna considerazione, lei come lei, pur essendo ridotta in quello stato, peggio d’una serva? E sissignori! Per disgrazia, a un certo punto, ad Adelaide scappò un sospiro in forma di domanda:

             –    E ora come si fa?

             –    Come si fa? – rispose agra Nené. – Si fa così, che mi corico anch’io e staremo a guardar dal letto tutte e tre come piove.

             Tiri tiri tiri – di nuovo alla porta. Un’altra visita? La provvidenza, questa volta.

             Un’amica di Nené. Una spilungona miope, tutta collo, dai capelli rossi crespi; e gli occhi ovati e una bocca da pescecane. Ma tanto buona, poverina! Da più d’un anno non si faceva vedere. Ora veniva tutta festante, vestita bene, ad annunziare all’amica il suo prossimo matrimonio. Sposava, sposava anche lei, e pareva non ci sapesse credere lei stessa. Stringeva forte forte le braccia a Nené nel darle l’annunzio, e rideva (con quella bocca!) e per miracolo non saltava dalla gioja, senza pensare che lì, in quella camera squallida, c’erano due povere malate e che la sua amica, tanto più giovane, tanto più bellina di lei… Oh, ma ella era venuta per un buon fine! Sapeva delle malattie, sapeva delle angustie, e aveva pensato subito alla sua Nené. Ecco: per commissionarle i sacchettini dei confetti. Li voleva fatti da lei. Cento. E belli, belli, belli li voleva, e senza risparmio. Pagava lui, lo sposo.

             – Un ottimo posto, sai! Segretario al Ministero della Guerra. E un anno meno di me. Un bel giovine, sì. Eccolo qua!

             Aveva il ritratto con sé: lo aveva portato apposta per farlo vedere a Nené. Bello, eh? E tanto buono, e tanto innamorato: uh, pazzo addirittura! Fra una settimana le nozze. Bisognava dunque che fossero fatti presto, quei sacchettini.

             Parlò sempre lei in quella mezz’oretta che si trattenne in casa dell’amica. Più non poteva, perché era già tardi: alle cinque e mezzo lui usciva dal Ministero, volava da lei, e guai se non la trovava a casa.

             –    Geloso?

             –    No, Dio liberi! Geloso no, ma non vuol perdere neanche un minutino, capisci? Oh, senti, Nené mia: senza cerimonie tra noi! Tu avrai certo bisogno di qualche anticipazioncina per le spese…

             –    No, cara, – le disse subito Nenè. – Non ho proprio bisogno di nulla. Va’ pure tranquilla.

             –    Proprio di nulla? E allora, cento, eh?

             –    Cento, ti servo io. E rallegramenti!

             La sposina corse a baciare la signora Maddalena, poi Adelaide; baciò e ribaciò Nené, bacioni di cuore, e via. Le tre donne, questa volta, non tornarono a guardarsi negli occhi. La madre li richiuse, mentre le labbra le fremevano di pianto. Adelaide li volse senza sguardo al soffitto. Poco dopo, Nené scoppiò in una fragorosa risata.

             –    Bello davvero, oh, quello sposino!

             –    Fortune! – sospirò, dalla poltrona, la madre. Adelaide, dal letto:

             –    Imbecille!

             L’ombra s’era addensata nella camera. E spiccava solo, in quell’ombra, un fazzoletto bianco sulle ginocchia della madre, e il bianco della rimboccatura del lenzuolo sul letto d’Adelaide. Ai vetri della finestra, lo squallore dell’ultimo crepuscolo.

             –    Intanto, – riprese la madre, che non si scorgeva quasi più, – l’anticipazione… Sei andata a dirle che non ne avevi bisogno…

             –    Già! Come farai? – soggiunse Adelaide.

             Nené guardò l’una e l’altra, poi alzò le spalle e rispose:

             –    Semplicissimo! Non glieli farò.

             –    Come? Se hai preso l’impegno! – disse la madre. E Nené:

             –   Mi prenderò il gusto di farla sposare senza sacchettini. Oh, a lei poi non glieli fo, non glieli fo e non glieli fo! Questo piacere me lo voglio prendere. Non glieli fo.

             La madre e la sorella non insistettero, sicure che la mattina dopo, ripensandoci meglio, Nené si sarebbe recata a provvedersi a credito della stoffa per quel lavoro di cui c’era tanto bisogno. Ma tutta la notte Nené s’agitò in continue smanie sul letto. Il padrone di casa venne nelle prime ore della giornata e si portò via tutto il denaro.

             –   Piove, Nené?

             Pioveva anche quel giorno; e tutta la notte era piovuto.

             Nené rifece il suo lettino; ajutò la madre a vestirsi; l’adagiò pian piano sulla poltrona; rifece anche il letto di lei e aggiustò alla meglio quello di Adelaide, che volle provarsi a seder di nuovo, sorretta dai guanciali. Ma perché? Se non c’era proprio nulla da fare…

             Stettero in silenzio per un lungo pezzo. Poi la madre disse:

             –    E pettinati almeno, Nené! Non posso più vederti così arruffata!

             –    Mi pettino, e poi? – domandò Nené, riscotendosi.

             –    E poi… poi t’acconci un po’ – aggiunse la madre. – Non vuoi davvero andare per quei sacchettini?

             –    Dove vado? con che vado? – gridò Nené, scattando in piedi, rabbiosamente.

             –    Potresti da lei…

             –    Da chi?

             –    Dalla tua amica, con una scusa…

             –    Grazie!

             –    Oh, per me, sai, – disse allora, stanca, la madre, – se mi lasci morire così, tanto meglio!

             Nené non rispose, lì per lì; ma sentì in quel breve silenzio crescere in sé l’esasperazione; alla fine proruppe:

             –   Ma se non basto! se non basto! Non vedete? M’arrabatto e, per far più presto, invece di guadagnare, la ritenuta a quella strega ritinta! e qua i sacchettini alla giraffa sposa, che li vuol belli… Non ne posso più! Che vita è questa?

             Adelaide allora balzò dal letto, pallida, risoluta:

             –   Qua la veste! Dammi la veste! Torno a bottega!

             Nené accorse per costringerla a rimettersi a letto; la madre si protese, spaventata, dalla poltrona; ma Adelaide insisteva, cercando di svincolarsi dalla sorella.

             –    La veste! la veste!

             –    Sei matta? Vuoi morire?

             –    Morire. Lasciami !

             –    Adelaide! Ma dici sul serio?

             –    Lasciami, ti dico!

             –    Ebbene, va’! – disse allora Nené, lasciandola. – Voglio vederti! Adelaide, lasciata, si sentì mancare; si sorresse al letto; sedette sulla seggiola,

             lì, in camicia; si nascose il volto con le mani e ruppe in pianto.

             – Ma non fare storie! – le disse allora Nené. – Non prendere altro fresco, e non scherziamo!

             La ajutò a ricoricarsi.

             – Esco io, più tardi, – poi disse, facendosi davanti allo specchio sul cassettone, e ravviandosi dopo tanti giorni i capelli con un tale gesto, che la madre dalla poltrona rimase a mirarla per un lungo pezzo, atterrita.

             Non disse altro Nené.

             Prima d’uscire, col cappello già in capo, stette a lungo, a lungo, presso la finestra a guardar fuori, attraverso i vetri bagnati dalla pioggia.

             Sul davanzale di quella finestra, in un angolo, era rimasta dimenticata una gabbietta, dalle gretole irrugginite, infradiciata ora dalla pioggia che cadeva da tanti giorni.

             In quella gabbietta era stata per circa due mesi una passerina caduta dal nido, nei primi giorni della scorsa primavera.

             Nené l’aveva allevata con tante cure; poi, quando aveva creduto ch’essa fosse in grado di volare, le aveva aperto lo sportellino della gabbia:

             – Godi!

             Ma la passeretta – chi sa perché! – non aveva voluto prendere il volo. Per due giorni lo sportellino era rimasto aperto. Accoccolata sulla bacchetta, sorda agli inviti dei passeri che la chiamavano dai tetti vicini, aveva preferito di morir lì, nella gabbia, mangiata da un esercito di formiche venute su per il muro da una finestrella ferrata del pianterreno, dov’era forse una dispensa. Proprio così. Quella passeretta era stata uccisa dalle formiche in una notte, mangiata dalle formiche, sciocca, per non aver voluto volare. Per non aver voluto cedere all’invito, forse, d’un vecchio passero spennacchiato, ch’era stato in gabbia anch’esso tre mesi, una volta, per offese al buon costume.

             Ebbene, no. Dalle formiche, no, lei non si sarebbe lasciata mangiare.

             – Nené, – chiamò la madre, per scuoterla.

             Ma Nené uscì di fretta, senza salutar nessuno. Mandò i denari, ogni giorno. Non la rividero più.

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