Legge Valter Zanardi.
«Erano formiche piccolissime e della più lieve esilità, fievoli e rosee, che un soffio ne poteva portar via più di cento; ma subito cento altre ne sopravvenivano da tutte le parti; e il da fare che si davano; l’ordine nella fretta; queste squadre qua, quest’altre là; viavai senza requie…»
Prime pubblicazioni: La lettura, febbraio 1936, poi in Una giornata, Mondadori, Milano 1937.
Vittoria delle formiche
Legge Valter Zanardi
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Una cosa per sé forse ridicola ma, agli effetti, terribile: una casa invasa tutta dalle formiche. E questo pensiero folle: che il vento si fosse alleato con esse. Il vento con le formiche. Alleato, con quella sconsideratezza che gli è propria, da non potersi nell’impeto fermare neppure un minuto per riflettere a quello che fa. Detto fatto, a raffica, s’era levato giusto sul punto che lui prendeva la decisione di dar fuoco al formicaio davanti la porta. E detto fatto, la casa, tutta in fiamme. Come se per liberarla dalle formiche lui non avesse trovato altro espediente che il fuoco: incendiarla.
Ma prima di venire a questo punto decisivo sarà bene ricordarsi di molte cose precedenti che possono spiegare in qualche modo sia come le formiche avevano potuto invadere fino a tanto la casa e sia come poté nascere a lui il pensiero stravagante di quest’alleanza tra le formiche e il vento.
Ridotto alla fame, da agiato come il padre l’aveva lasciato morendo, abbandonato dalla moglie e dai figli che s’erano acconciati a vivere per conto loro alla meglio, liberati alla fine dalle sue soperchierie che si potevano quali ficaie in tanti modi, ma soprattutto incongruenti; lui che al contrario si credeva loro vittima per troppa remissione e non corrisposto mai da nessuno di loro nei suoi gusti pacifici e nelle sue vedute giudiziose; viveva solo, in un palmo di terra che gli era restato di tutti i beni che prima possedeva, case e poderi; un palmo di terra bonificata, sotto il paese, sul ciglio della vallata, con una catapecchia d’appena tre stanze, dove prima abitava il contadino che aveva in affitto la terra. Ora ci abitava lui, il signore ridotto peggio del più miserabile contadino; vestito ancora d’un abito da signore che addosso a lui appariva orribilmente più strappato e unto che addosso a un mendicante che l’avesse avuto in elemosina. Pur tuttavia quella sua signorile spaventosa miseria pareva a volte quasi allegra, come certe toppe di colore che i poveri portano sui loro abiti e quasi fanno loro da bandiera. Nella lunga faccia smorta, negli occhi pesti ma vivi, aveva un che di gajo che s’accordava coi ricci svolazzanti del capo, mezzi grigi e mezzi rossi; e certi ilari guizzi negli occhi, subito spenti al pensiero che, scorti per caso da qualcuno, lo facessero creder pazzo. Capiva lui stesso ch’era molto facile che gli altri si facessero di lui un tal concetto. Ma era proprio contento di farsi ormai tutto da sé come piaceva a lui; e assaporava con gusto infinito quel poco e quasi niente che poteva offrirgli la povertà. Non aveva nemmeno tanto da accendere il fuoco tutti i giorni per cucinarsi una minestra di fave o di lenticchie. Gli sarebbe piaciuto, perché nessuno sapeva cucinarla meglio di lui, dosandovi con tanta arte il sale e il pepe e mescolandovi certe verdure appropriate che, durante la cottura, solo a odorarla la minestra inebriava; e poi, a mangiarla, un miele. Ma sapeva anche farne a meno. Gli bastava, la sera, uscir fuori a due passi dalla porta, cogliere nell’orto un pomodoro, una cipolla per companatico alla solida pagnotta che con meticolosa cura affettava con un coltellino e con due dita, pezzetto per pezzetto, si portava alla bocca come un boccone prelibato.
Aveva scoperto questa nuova ricchezza, nell’esperienza che può bastar così poco per vivere; e sani e senza pensieri; con tutto il mondo per sé, da che non si ha più casa né famiglia né cure né affari; sporchi, stracciati, sia pure, ma in pace; seduti, di notte, al lume delle stelle, sulla soglia d’una catapecchia; e se s’accosta un cane, anch’esso sperduto, farselo accucciare accanto e carezzarlo sulla testa: un uomo e un cane, soli sulla terra, sotto le stelle.
Ma senza pensieri, non era vero. Buttato poco dopo su un pagliericcio per terra come una bestia, invece di dormire si metteva a mangiarsi le unghie e, senza badarci, a strapparsi coi denti fino al sangue le pipite dalle dita, che poi gli bruciavano gonfie e suppurate per parecchi giorni. Ruminava tutto ciò che avrebbe dovuto fare e che non aveva fatto per salvare i suoi beni; e si torceva dalla rabbia o mugolava per il rimorso, come se la sua rovina fosse accaduta jeri, come se jeri avesse finto di non accorgersi che sarebbe accaduta tra poco e che ormai non era più rimediabile. Non ci poteva credere! Uno dopo l’altro s’era lasciati portar via dagli usurai i poderi, e una dopo l’altra le case, per poter disporre d’un po’ di danaro di nascosto dalla moglie, per pagarsi qualche piccola passeggera distrazione (veramente, non piccola né passeggera; era inutile che cercasse adesso attenuazioni; doveva rotondamente confessarsi che aveva vissuto di nascosto per anni come un vero porco, ecco, così doveva dire: come un vero porco; donne, vino, giuoco) e gli era bastato che la moglie non si fosse ancora accorta di nulla, per seguitare a vivere come se neppur lui sapesse nulla della rovina imminente; e sfogava intanto le bili e le smanie segrete sul figlio innocente che studiava il latino. Sissignori. Incredibile: s’era messo a ristudiare il latino anche lui, per sorvegliare e ajutare il figlio; come se non avesse altro da fare e fosse davvero un’attenzione e una cura, questa sua, che potesse compensare il disastro che intanto preparava a tutta la famiglia. Questo disastro, per la sua segreta esasperazione, era lo stesso di quello a cui andava incontro il figlio se non riusciva a comprendere il valore dell’ablativo assoluto o della forma avversativa; e s’accaniva a spiegarglielo, e tutta la casa tremava dalle sue grida e dalle sue furie per l’imbalordimento di quel povero ragazzo, che piano piano forse lo avrebbe alla fine compreso da sé. Con che occhi lo aveva guardato una volta, dopo uno schiaffo! Nell’impeto del rimorso, ripensando a quello sguardo del suo ragazzo, si sgraffiava ora la faccia con le dita artigliate e s’ingiuriava: porco, porco, bruto; prendersela così con un innocente!
Lasciava il pagliericcio; rinunziava a dormire; tornava a sedere sulla soglia della catapecchia; e lì il silenzio smemorato della campagna immersa nella notte, a poco a poco, Io placava. Il silenzio, non che turbato, pareva accresciuto dal remoto scampanellio dei grilli che veniva dal fondo della grande vallata. Era già nella campagna la malinconia della stagione declinante; e lui amava le prime giornate umide velate, quando cominciano a cadere quelle pioggerelle fine, che gli davano, chi sa perché, una vaga nostalgia dell’infanzia lontana, quelle prime sensazioni meste e pur dolci che fanno affezionare alla terra, al suo odore. La commozione gli gonfiava il petto; l’angoscia gli serrava la gola, e si metteva a piangere. Era destino che lui dovesse finire in campagna. Ma non s’aspettava così veramente.
Non avendo né la forza né i mezzi di coltivare da sé quel po’ di terra, che fruttava appena tanto da pagar la tassa fondiaria di cui era gravata, l’aveva ceduta al contadino che aveva in affitto il podere accanto, a condizione che pagasse lui quella tassa e che gli desse soltanto da mangiare: poco, quasi per elemosina, di quel che produceva la terra stessa: pane e verdura, e da farsi, se gli andava, una minestra ogni tanto.
Stabilito quest’accordo, aveva preso a considerare tutto quello che si vedeva attorno, mandorli, olivi, grano, ortaglie, come cose che non appartenessero più a lui. Sua era soltanto la catapecchia; ma se si metteva a guardarla come la sua unica proprietà, non poteva fare a meno di sorriderne col più amaro dileggio. Già l’avevano invasa le formiche. Finora s’era divertito a vederle scorrere in processioni infinite su per le pareti delle stanze. Erano tante e tante, che a volte pareva che le pareti tremolassero tutte. Ma più gli piaceva vederle andare in tutti i sensi da padrone sui buffi mobili signorili di quella ch’era stata un tempo la sua casa in città, relitti del naufragio della sua famiglia, ammassati lì alla rinfusa e tutti con un dito di polvere sopra. Nell’ozio, per distrarsi, s’era messo anche a studiarle, quelle formiche, per ore e ore.
Erano formiche piccolissime e della più lieve esilità, fievoli e rosee, che un soffio ne poteva portar via più di cento; ma subito cento altre ne sopravvenivano da tutte le parti; e il da fare che si davano; l’ordine nella fretta; queste squadre qua, quest’altre là; viavai senza requie; s’intoppavano, deviavano per un tratto, ma poi ritrovavano la strada, e certo s’intendevano e consultavano tra loro.
Non gli era parso ancora, però, forse per quella loro esilità e piccolezza, che potessero essere temibili, che volessero proprio impadronirsi della casa e di lui stesso e non lasciarlo più vivere. Pur le aveva trovate da per tutto, in tutti i cassetti; le aveva vedute venir fuori donde meno se le sarebbe aspettate; se l’era trovate anche in bocca talvolta, mangiando qualche pezzo di pane lasciato per un momento sulla tavola o altrove. L’idea che se ne dovesse seriamente difendere, che le dovesse seriamente combattere, non gli era ancora venuta. Gli venne tutt’a un tratto una mattina, forse per l’animo in cui era, dopo una nottataccia più nera delle altre.
S’era levata la giacca per portar dentro la catapecchia alcuni covoni, una ventina, che dopo la mietitura il contadino non aveva ancora trasportato nel suo podere di là e aveva lasciato qua all’aperto. Il cielo, durante la notte, s’era incavernato, e la pioggia pareva imminente. Abituato a non far mai nulla, per quella fatica insolita e per quella sciocca previdenza, che poi del resto non spettava neanche a lui perché quei covoni di grano appartenevano come tutto il resto al contadino, s’era tanto stancato, che quando fu per trovar posto dentro la catapecchia, già tutta stipata, all’ultimo covone, non ne potè più, lasciò quel covone davanti la porta, e sedette per riposarsi un po’.
A capo chino, con le braccia appoggiate alle gambe discoste, lasciò penzolare tra esse le mani. E a un certo punto ecco che si vide uscire dalle maniche della camicia su quelle mani penzoloni le formiche, le formiche che dunque sotto la camicia gli passeggiavano sul corpo come a casa loro. Ah, perciò forse la notte lui non poteva più dormire e tutti i pensieri e i rimorsi lo riassalivano. S’infuriò e decise lì per lì di sterminarle. Il formicaio era a due passi dalla porta. Dargli fuoco.
Come non pensò al vento? Oh bella. Non ci pensò perché il vento non c’era, non c’era. L’aria era immota; in attesa della pioggia che pendeva sulla campagna, in quel silenzio sospeso che precede la caduta delle prime grosse gocce. Non crollava foglia. La raffica si levò d’improvviso a tradimento, appena lui accese il fascette di paglia raccolta per terra; lo teneva in mano come una torcia; nell’abbassarlo per dar fuoco al formicaio, la raffica, investendolo, portò le faville a quel covone rimasto davanti la porta, e subito il covone avvampando appiccò il fuoco agli altri covoni riparati dentro la casa, dove l’incendio d’un tratto divampò crepitando e riempiendo tutto di fumo. Come un pazzo, urlando con le braccia levate, lui si cacciò dentro alla fornace, forse sperando di spegnerla.
Quando dalla gente accorsa fu tratto fuori, fu uno spavento vederlo tutto orribilmente arso e non ancor morto, anzi furiosamente esaltato, annaspante con le braccia, le fiamme addosso, sugli abiti e nei ricci svolazzanti sul capo. Morì poche ore dopo all’ospedale, dove fu trasportato. Nel delirio, sparlava del vento, del vento e delle formiche.
– Alleanza… alleanza…
Ma già lo sapevano pazzo. E quella sua fine, sì, fu commiserata, ma pur con un certo sorriso sulle labbra.
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