Vexilla regis… – Audio lettura 2

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Legge Valter Zanardi
«– Ora sono sola, – disse come a se stessa. – Tutto questo tempo sono stata… così: per aria! un’estranea curiosa e leggera in mezzo alla vita… di qua, di là. Di vero, di concreto intorno a me, nulla: mia madre, che mi teneva posto di tutto, è vero, ma…»

Prime pubblicazioni: L’Italia, agosto 1897, poi in Il viaggio, Bemporad, Firenze 1928.

Vexilla regis
Immagine dal Web

«Vexilla regis…»

Legge Valter Zanardi

Da Youtube

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             Uscito? Così per tempo? E perché? La signorina Alvina Lander, tanto alta di statura, quanto nel corpo magra; lunga di gambe e le braccia ossute, ciondoloni; l’enorme volume dei capelli ritinti d’un color d’oro scialbo e cascanti su gli orecchi, su la fronte e, in neglette trecce, su la nuca; picchiò con le grosse nocche su un uscio del corridojo in penombra e attese, abbassando le palpebre su i vivi occhietti ceruli mobilissimi.

             Per infermità di molti anni era insordita, e per questa cagione dolentissima; benché non fosse questa sola. Ce n’erano altre, ciascuna delle quali avrebbe potuto fare più che infelice una donna, non che tutte insieme, com’ella spesso soleva esporre all’avvocato Mario Furri, della cui figliuola Lauretta era da tredici anni governante. E innanzi tutto, la perdita di tanta vita inutilmente; poi, un certo tradimento, di cui il signor avvocato era a conoscenza, e per cui quello stato di servitù in Italia; e la debolezza, se non la vecchiaja, venuta prima del tempo e la ignoranza infine delle cose del mondo, causa di tanti mali e di tanti mancamenti, per i quali veniva accusata, quand’invece avrebbe dovuto essere, non solo scusata, ma compatita e soccorsa anche; mah! mah!

             Sospettava la signorina Lander, che nell’animo delle persone, con cui praticava, fossero impressi due falsi concetti di lei, l’uno di malizia, l’altro di ipocrisia; del che era pur forse cagione la sordità. Ma questo sospetto era in lei ormai invecchiato, e lei nel sospetto. Così pure erano invecchiati e tenacemente radicati nell’aspra sua gorga tedesca alcuni errori di pronunzia, non ostante che ella intendesse benissimo l’italiano; troncava, per esempio, certe parole giusto dove non doveva e diceva sighnora e sighnor, con grazia particolare; come si ostinasse a non volere intendere che gli altri dicevano signora e signore.

             Quante volte intanto Lauretta aveva gridato avanti o herein? La signorina Lander attendeva ancora lì, paziente e assorta, stirandosi lo scialletto di seta verdastra, che teneva sempre addosso: «primavera su le spalle e giugno in testa» come Lauretta soleva dire. E giugno erano i capelli color di messe affienita. L’uscio s’aprì di furia, sbacchiando contro la strombatura e facendo sobbalzare la sorda, a cui Lauretta coi capelli disciolti, le belle braccia nude e un asciugamani sorretto col mento sul seno, ripetè stizzita:

             – Avanti! Avanti! Avanti!

             Scuse della signorina Alvina: ecco, eh già, non aveva inteso perché aveva la mente altrove: si scervellava da un’ora a immaginare che cosa potesse mai essere accaduta al sighnor avvocato uscito di casa sehr umwólkt, così per tempo.

             – Uscito? Come? – domandò Lauretta.

             Uscito. Il portiere gli aveva recato, al solito, la posta; ma lettere e giornali erano lì ancora, su la scrivania; quelle, non aperte; questi, sotto fascia.

             Was soli man denken, Fràulein Laura?

             Lauretta impallidì, con gli occhi appuntati nel sospetto che le balenava davanti: che il padre, oh Dio, fosse venuto a conoscere da qualche lettera la morte della sorella, la morte della zia Maddalena, che lei da circa tre mesi gli nascondeva? Ma, e perché era uscito? Rannuvolato, sehr umwólkt, come diceva la Lander? Indossò in fretta l’accappatojo, e corse alla camera del padre, seguita dalla Lander, che ripeteva: – Was soli man denken?

             Che pensare! Ma sì, questo, senza dubbio: che aveva saputo della disgrazia. Però, dov’era la lettera? Le lettere erano lì, ancora chiuse; ma erano tutte? Ah, ecco una busta sul tappetino, strappata. Subito Lauretta si chinò a raccoglierla: una busta listata a nero con un francobollo tedesco! L’indirizzo, di minutissima scrittura, diceva Furi in luogo di Furri. La signorina Lander vi fissò gli occhi, impallidendo lei, questa volta, e indicando: – Francobollo tetesco… – tolse di mano a Lauretta la busta; la esaminò, e aggiunse: – Scrittura feminina.

             – Sì, carattere di donna, – confermò Lauretta.

             – Ach Fraulein!  – esclamò allora la signorina Lander, portandosi alla fronte le grosse mani da maschio e sollevando la messe dei capelli: – Discrazia! discrazia! Certo lettera per me… Oh Je’! oh Je’!

              – Per lei? Perché per lei? Ma no, – s’affrettò a replicare Lauretta, non ostante che l’interpretazione della signorina Lander che la lettera fosse per lei, le paresse in fondo giusta. – Guardi, – aggiunse, per esortarla a far buon animo, – è indirizzata a papà. E poi, se fosse come lei sospetta, perché sarebbe uscito papà? Sarebbe venuto da me, a dirmelo.

             – Ach nein! nein! – negò subito, recisamente, la Lander, scotendo il capo e frignando in modo comicissimo.

             –    Come no! Certo, – replicò Lauretta, frenando a stento il riso per quel modo di piangere. Ma la signorina Lander seguitò a dir di no col capo e a frignare, mentre Lauretta: «Perché no?» avrebbe voluto insistere; ma ritorse invece a se stessa la domanda, guardando la vecchia governante che per la prima volta le appariva come strappata a una vita lontana, a lei ignota, e a cui ella non aveva mai avuto occasione di rivolgere il pensiero, non avendo mai concepito nella Lander un essere che per sé esistesse o che avesse potuto esistere fuori dei rapporti di vita con lei che, da bambina, se la era veduta sempre attorno. – Per chi teme del resto? – le domandò. – Se lei lassù non ha più nessuno?

             –    Dochl – esclamò tra le lagrime la sorda levando gli occhi dal fazzoletto.

             –    Ah sì? – fece Lauretta. – E chi?

             –    Das darf ich nicht Ihnen sagen!  – rispose la governante, nascondendosi la faccia tra le mani. – Non posso né debbo dirglielo. – E se ne uscì, ripetendo tra il pianto la preferita esclamazione: – Oh Je’! oh Je’!

             Quando Mario Furri tornò a casa, Lauretta era ancora lì, nella camera di lui, appoggiata alla scrivania e assorta.

             – Oh babbo! Che è accaduto?

             Il Furri guardò la figlia quasi in uno smarrimento di vertigine, come se la vista di lei e la subitanea domanda gli avessero dentro arrestato con freno violento un tumulto. Era pallido; impallidì vieppiù, mentre pur si sforzava a sorridere.

             –    Che è accaduto? – domandò a sua volta, con voce mal ferma.

             –    Sì, alla signorina Alvina. Sta a piangere di là; sostiene che tu hai ricevuto una lettera per lei dalla Germania.

             –    Per lei? Va’, dille che è matta! – rispose il Furri urtato, con asprezza.

             –    Ecco appunto! non era per lei! – esclamò Lauretta. – Gliel’ho detto; e lei, no: oh Je’! oh Je’! Abbiamo trovato questa busta per terra e, che vuoi? tu non sei mai uscito di casa così presto; abbiamo temuto che tu, sì… siamo entrate. – Un improvviso rossore infiammò il volto di Lauretta, come se le fosse nato il dubbio d’aver commesso un’indiscrezione. Si smarrì. Il padre allora sorrise mestamente dell’imbarazzo della figliuola e, carezzandola sotto il mento, le disse:

             –    Non è nulla, non è nulla. Va’ di là, lasciami vedere la posta.

             –    Sì, sì… io, guarda: ancora spettinata… – fece Lauretta scappando via sorridente e tuttavia confusa.

             Ma poco dopo, ecco picchiare all’uscio del signor avvocato la signorina Lander con gli occhi rossi dal pianto frenato a stento dal fazzoletto che teneva in mano pronto, se mai, a porre un altro argine.

             – Che vuole da me? – le disse il Furri duramente, senza darle tempo d’aprir bocca. – Chi le ha detto che ho ricevuto una lettera per lei? Lei entra qua; fruga tra le mie carte; trova una busta che non le appartiene, e subito le salta in capo non so che cosa. Ma mi dica un po’, di grazia, chi può mai averle scritto da Wiesbaden? e che sciagura potrebbe esserle occorsa? So, so ch’ella commette l’inqualificabile leggerezza di scrivere ancora alla sorella di quel signor Wahlen che ha moglie e figliuoli e debbo sperare non si curi più di lei né punto né poco. Può esser morta la sorella? può esser morto lui? Che gliene deve importare? scusi.

             –    Ach nein!  – strillò a questo punto, ferita nel cuore, la signorina Lander. – Patre di famiglia! No, no, non dica questa cosa, sighnor Morto? Morto?

             –    Non è morto nessuno! – gridò a sua volta il Furri. – Le ripeto che la lettera non è per lei, e non mi faccia perdere la pazienza con codeste follie. Guardi del resto il bollo postale: Wiesbaden, vede? Se non si rassicura, telegrafi a chi sa lei, e mi lasci in pace! Voglio restar solo; è permesso?

             La signorina Lander non rispose; si portò il fazzoletto a gli occhi e si mosse per uscire, scotendo il capo, certo col sospetto che ora ella non avrebbe potuto assicurarsi più che qualche lettera potesse capitare nelle sue mani, che non fosse prima aperta dal signor avvocato. Il Furri, quantunque avesse ben altro per il capo, la seguì con gli occhi, compreso di stupore: – Quella vecchia lì, ingannata in gioventù e tradita dall’amante ammogliatosi poi con un’altra donna, non solo si occupava ancora, dopo tant’anni, della vita di lui fino a farne segretamente la vita stessa del suo cuore; ma, sapendolo nella miseria, gli faceva pervenire, per via indiretta, tutti i suoi risparmi, e pareva non avesse altro piacere o sollievo se non quanto di lui pensava fantasticando dietro le notizie che gliene dava una sorella, con la quale era in corrispondenza, o davanti al ritratto di lui custodito in un cofanetto insieme con quelli dei figliuoli non suoi, ma che come suoi ella amava – quella vecchia lì.

             – Signorina! – chiamò il Furri improvvisamente, scotendosi, mentr’ella stava per varcare la soglia.

             La vecchia signorina si volse di scatto; tese le lunghe braccia e ruppe in singhiozzi. – Morto, è vero? Morto! Morto!

             – No, perdio! Vuol proprio farmi uscire dai gangheri questa mattina? – tuonò il Furri. – Voglio sapere qualcosa da lei. Segga, la prego.

             La Lander non piangeva più: imbalordita, con gli occhi rossi, guardava il Furri e, nell’attesa, era a tratti scossa da certi singulti nel naso. Il Furri stette un po’ con una mano su gli occhi, come per vedere quel che pensava dentro e studiare il modo di manifestarlo.

             –    Ricordo che lei una volta, molt’anni or sono, mi disse che conosceva la famiglia de Wichmann, è vero?

             –    Sì, – rispose con esitanza la Lander, non intendendo il perché di quella domanda, perché ormai non poteva più fare a meno di riferir tutto al suo segreto tormento. – La famiglia de Wichmann, conosco benissimo. Frau de Wichmann non stava molto lontano d’abitazione da me, ciusto nella Wenzel-gasse.

             –    Lo so, lo so, – disse il Furri recisamente, per impedire che la vecchia governante, richiamata dal ricordo al paese natale, si perdesse in inutili particolari, a lui per altro notissimi. – Mi dica: oltre alla vecchia zia della signora (quella Frau Lork che abitava a Colonia) sa ella se la famiglia de Wichmann avesse altri parenti in altre città della Germania?

             –    La città di nascita della sighnora de Wichmann, – rispose la Lander, dopo aver cercato nella memoria, – è Braunschweig.

             –    Lo so! – interruppe di nuovo il Furri. – Sono andato fin lassù; ma la madre della signora, che vi abitava ormai sola, era morta da circa un anno, come morta trovai pure a Colonia Frau Lork, la zia. A Braunschweig mi dissero che a Dusseldorf abitava un cugino della de Wichmann: ma a Dusseldorf il cugino non c’era più. Vorrei sapere da lei qualche notizia, se per caso ne avesse, dei parenti del marito.

             –    Il luogotenente de Wichmann, – s’affrettò a rispondere la signorina Lander con insolita scioltezza di lingua, – è morto cloriosamente nella guerra del Settanta! Ma non so la città di nascita, non so che famiglia.

             –    Né lui né la signora erano nativi di Bonn, dunque, – riprese il Furri. – Vi è nata soltanto la signorina?

             –    Sì, Anny! la mia Aennchen: Hans, come tutti la chiamavano, come maschio, perché era così… come si dice? tutto spirito… un cafallino… Hans l’ha conosciuta lei, sighnor?

             –    Sì, – rispose, più col cenno del capo che con la parola, il Furri.

             –    Qui in Italia?

             Il Furri ripetè il cenno.

             – Sono ancora in Italia? – domandò esitante la Lander. – No.

             –    A Bonn, tue anni, non erano più tornate, dopo loro viatcio in Italia: venduta casa, mobilio, tutto.

             –    Lo so, lo so. Io, andando in Germania, dovevo… dovevo rimettere nelle loro mani una lettera importantissima da Roma. Non le ho trovate: sono andato in giro per loro, ma così, senza nessuna traccia.

             –    E dove sono allora? – domandò costernata la Lander.

             –    Mi arriva ora una lettera da Wiesbaden. Speravo perciò che lei sapesse dirmi, se vi avesse mai avuto residenza qualche parente della famiglia de Wichmann. Se lei non sa, non ho altro da chiederle. Le raccomando… – S’interruppe; stava per aggiungere: «le raccomando di non far parola a Lauretta di questo nostro colloquio»; ma poi, temendo non farle intendere più che non bisognasse, la pregò d’uscire, e quella uscì stordita, ma pur rassicurata per sé, sebbene con la certezza che ci doveva esser sotto qualcosa di grave, se il sighnor era così umwolkt a cagione della lettera per cui tanto ella aveva lagrimato.

             –    Hans! – sospirò il Furri, appena rimasto solo, tentennando leggermente il capo. E quasi imitando una voce che venisse da molto lontano, aggiunse: – Riesin… meine liebe Riesin… -. Strizzò gli occhi, contrasse il volto come per un interno spasimo insopportabile, e si mise a passeggiare per la camera mormorando a capo chino: – Ora! Ora! –. Gli occhi a un tratto gli andarono sulla busta, lì su la scrivania; la prese e rilesse, con gli angoli della bocca contratti in giù dallo sdegno:

             – Furi. Ha dimenticato perfino il nome.

             Trasse di tasca la lettera listata a nero, ma non ebbe animo neanche di posarvi lo sguardo, e la richiuse nella busta lacerata.

             Si rimise a passeggiare.

             Poco dopo, quasi attirato dalla propria imagine, si fermò davanti allo specchio dell’armadio e, nel vedersi così stravolto, impallidì e si premè forte con una mano il grosso capo calvo, guardandosi fisso negli occhi, imponendo a se stesso di calmarsi, di domare l’interna agitazione. Sparve subito infatti la contrazione della fronte, gli ritornò agli occhi, quasi velati da costante cordoglio, lo sguardo fioco, che s’intonava al pallore del volto contornato da una corta barba brizzolata. Tutto il corpo stanco dimostrava una senilità precoce.

             Di questo suo rapido deperire s’era fatta il Furri una tremenda fissazione, una costernazione non ovviata mai, alla quale dava in apparenza sostegno di ragione o di scusa il fatto, che veramente nessuno della sua numerosa famiglia era pervenuto al limite d’età superato da lui (ma in quelle condizioni!), da lui e dalla sorella Maddalena, credeva ancora per la pietosa cura di Lauretta, vana cura in parte, perché i nipoti lontani, per scusare la mancanza di caratteri di colei, in ogni lettera erano costretti a ripetere che incessanti infermità le impedivano di scrivere.

             Ogni giorno per lui poteva esser l’ultimo!

             Certo, avvertiva una grande debolezza alle gambe, come un abbandono di tutte le membra divenute pesanti. Mormorava di tanto in tanto qualche frase su quel suo stato, e tendeva l’udito alle lugubri parole, come per sentire egli stesso con che voce le pronunziava. Le improvvise, impulsive ribellioni a quest’incubo sortivan sempre lo stesso effetto: una maggiore angoscia, la riprova ch’egli era un essere ormai finito. Non era terrore della morte, no: la morte l’aveva tante volte sfidata, da giovine; ma quel doverla aspettare così, quasi spiandola, quel sapere che di minuto in minuto poteva sopravvenire, quell’infinita sospensione nell’attesa che a un tratto qualcosa dovesse mancargli dentro: ecco il terrore, ecco l’orrenda ambascia.

             – Mario Furri, – mormorò additando e fissando con torvo sdegno la propria imagine nello specchio. Ma l’imagine ritorse e appuntò contro a lui l’indice teso, come se volesse significare: «Tu, non io: se tu ridessi, io riderei».

             Sorrise, difatti, tristemente.

             Poco dopo si staccò dallo specchio, fermo nel proponimento di non pensare più, per il momento, alla lettera inattesa e di studiare poi pacatamente quel che gli sarebbe convenuto di fare.

             Ritornò alla scrivania per leggere le altre lettere ricevute la mattina. Scorse la prima, scorse la seconda, a metà della terza piegò il capo sulle mani, sentendo l’incapacità di continuare e quasi la voglia d’addormentarsi. Balzò in piedi: la sonnolenza lo atterriva; ma simulò a se stesso che non tanto la paura d’addormentarsi lo avesse spinto ad alzarsi, quanto un pensiero sortogli in mente all’improvviso: «Era meglio, sì, era meglio, per prudenza, raccomandare alla Lander di non far cenno di quella lettera a Lauretta».

             Non aveva voluto far mai consapevole di nulla la vecchia governante. Si pentiva ora d’averle rivolto quelle inutili domande con la sciocca speranza di potere dalle risposte di lei trarre un filo per uscire dal labirinto delle tante sue supposizioni. Ma lo avergli la Lander domandato se egli conoscesse Anny lo assicurava che non aveva sospetti di sorta. Gli era poi sovvenuta a tempo la scusa verisimilissima della sua ricerca infruttuosa in Germania, quella lettera importante, cioè, da recapitare alla de Wichmann.

             Anny! Anny! Se egli la conosceva!

             Tredici anni erano trascorsi dal suo viaggio in Germania, che gli si ridestava adesso nella memoria come un sogno turbinoso. Nessuna traccia di lei, né vicina, né lontana. Ma quante notizie tuttavia e quanta parte della vita d’Anny non aveva raccolte a Bonn! Aveva voluto visitare finanche la casa abbandonata nella Wenzelgasse, come ogni altro luogo della città, per investigare la prima vita di lei; perché nulla, con l’ajuto delle notizie, al cospetto delle cose intorno, gli restasse ignoto. Lì, per la Poppelsdorfallée, ella era certo andata a passeggio con le amiche; e lì, su l’ampio e lungo argine del Reno, aveva certo atteso il piccolo battello a vapore che tutto il giorno, come una spola, riallaccia la vita di Bonn a quella di Beuel dirimpetto; o era andata fin dove l’argine termina in un sentieruolo su la riva che conduce a Godesberg, a diporto, i dì festivi. Tutto, tutto aveva voluto vedere, quasi con gli occhi di lei. E qual segreta corrispondenza non gli era parso di sorprendere tra l’aspetto di quei luoghi e l’indole di Anny! E come le notizie apprese su l’antecedente vita di lei e della madre lo avevano confermato nel concetto ch’egli s’era formato di loro! Della madre aveva sentito che tutti parlavano male, non quanto però l’odio ch’egli le portava avrebbe desiderato: era antipatica a tutti per le sue arie e velleità nobilesche così poco fondate, come quel de davanti al cognome, in luogo del voti, dimostrava. Notizie, notizie; ma nessuna traccia: nessuna! Come mai ora, improvvisamente, da Wiesbaden, quella lettera? Da Wiesbaden egli era pur passato; vi si era trattenuto otto giorni; ma c’era Anny allora? Veramente non aveva più alcun indizio per cercarla in quella città. Era morta dunque a Wiesbaden la signora de Wichmann, come la lettera di Anny annunziava? Quand’era morta? Anny non precisava né il tempo né il luogo; non precisava nulla, fuor che il giorno che sarebbe arrivata a Roma.

             Coi gomiti su la ribalta della scrivania, la testa tra le mani e gli occhi chiusi, il Furri s’immerse negli antichi ricordi. Era come se si conficcasse una lama in una vecchia ferita. Ma il pudore dell’età, la coscienza dello stato in cui era ridotto, non gli consentivano indugio nella tenerezza di certi ricordi. Ricordando, voleva giudicare; e, giudicando, raffermarsi in un proposito irremovibile. Dietro una porta chiusa, un mondo di cose morte: là dentro il sole non poteva né doveva più penetrare; vi entrava lui per cercare, ma con tal sentimento, come se dovesse trovarvi fra l’altro bambole e giocattoli appartenuti a bambini morti, cose che le mani d’un vecchio dovevano scostare e sfuggire; dopo, avrebbe richiuso la porta e si sarebbe messo a guardia contro chiunque avesse voluto forzarla. In quel nascondiglio bujo dei ricordi era pure una culla abbandonata: la culla di Lauretta ignara.

             –    Sì, la mamma è morta, figliuola mia; morta nel darti alla luce.

             –    E ritratti di lei non ne hai?

             –    No, nessuno.

             –    E com’era, babbo?

             Com’era? Il Furri, al ricordo di questo lontano dialogo con la figlia fanciulletta, s’addentò furiosamente una mano per soffocare i singhiozzi irrompenti che gli scotevano tutta la persona.

             –    Si parte, Lauretta! Domani andiamo via, – annunziò il Furri, uscendo dalla sua camera per la colazione.

             –    Si parte? e per dove? – domandò Lauretta sorpresa. – Domani, babbo, è la settimana santa!

             –    Che importa? Domani, mercoledì, è vero? l’essere santo impedisce forse di partire?

             –    No, ma domani è impossibile, babbo! Se non mi do prima a preparare ciò che fa bisogno! Avresti dovuto dirmelo avanti, che quest’anno intendevi anticipare di tanto la partenza.

             –    Ma non si anticipa! Andremo soltanto per una breve ricognizione. Mi spiego: quest’anno non vorrei andare in montagna, o andarci tardi. E allora ho pensato: la primavera qua, ai Castelli; poi al mare, per te; e, se mai, l’ultimo mese in montagna, al solito. Ora andremmo per tre o quattro giorni: una visitina ai Castelli. Ti sceglierai il nido, e ritorneremo. Via, padroncina, dite di sì; ne ho bisogno.

             –    Quand’è così! – esclamò Lauretta.

             –    Grazie, e le mìe civiltà,  – disse il Furri inchinandosi.

             Lauretta rise del buon umore del padre. Le mie civiltà era il modo d’accomiatarsi nelle lettere d’un mercante di Torino che provvedeva Lauretta delle stoffe per gli abiti. A tavola poi concertarono l’itinerario della gita.

             Il Furri non disse alla figlia, che il giovedì avrebbe dovuto lasciarla sola con la governante. «E allora perché partire domani?» avrebbe potuto domandargli Lauretta, che ora si mostrava tutta lieta di quella partenza improvvisa, e già proponeva, giusto per giovedì, un’ascensione a Monte Cave. E mentre il Furri ascoltava il caro chiacchierio, pensava: «Perché si parte? Se io te lo dicessi, figlia mia bella, figlia mia che ridi».

             Anny sarebbe appunto arrivata giovedì. Bisognava ch’egli si trovasse ad accoglierla alla stazione. L’interno sconvolgimento gli dava intanto un’insolita vivacità di gesti e di parole. Lauretta non ricordava d’aver mai veduto il padre così. E il Furri, nel compiacersi del buon effetto della sua dissimulazione, pigliava animo per la tremenda prova che lo attendeva, pur con la coscienza che quello sforzo avrebbe amaramente scontato, se pure non gli sarebbe riuscito addirittura fatale. E anche di questo faceva segretamente carico a colei, e non tanto per sé, quanto per la figliuola. Pensando alla quale, un dubbio angoscioso gli teneva tuttavia l’animo sospeso. Come sarebbe rimasta Lauretta, quando, tra poco, e forse anche per questo colpo improvviso, egli non sarebbe più? Non era forse provvidenziale e quasi un annunzio della sua prossima fine, la venuta di colei? – «In premio della tua vita intemerata, in compenso del tuo lungo soffrire e dei tuoi sacrificii, non morrai angosciato dal pensiero di lasciare sola tua figlia e senz’ajuto: eccoti la madre, che viene a prendere accanto a lei il tuo posto.» – Mario Furri era credente, e inoltre, per la sua fissazione, tenuto e legato da superstizioni. Se non che, quale madre veniva a prendere il suo posto? Per Lauretta la sua mamma era morta. Chi sarebbe stata ora costei? Un’estranea, un’intrusa che, comunque, non avrebbe mai potuto incarnare l’imagine che la figliuola, fantasticando in un passato senza ricordi, s’era creata della propria madre morta nel darle la vita. Quale comunione d’affetti, da un altro canto, avrebbe potuto stabilirsi tra colei e la figlia se egli le avesse detto tutto? Era meglio aspettare, prima di prendere una decisione; vederla, parlarle. Soltanto – ah questo sì! – condurre lontano la figlia, sottrarla a ogni probabile pericolo.

             Partirono la mattina dopo.

             Non fu possibile a Lauretta impedire che la signorina Lander si mettesse un cappellaccio di paglia, che pareva un canestro rovesciato su la messe dei capelli. La vecchia governante portava con sé il cofanetto, ov’erano custoditi i ritratti del signor Wahlen e famiglia; e s’ostinava intanto a sorprendere di tratto in tratto evidentissime somiglianze tra quel lembo laziale e le contrade del Reno presso Bonn. Lauretta ebbe l’ingenuità di mettersi a discutere con lei, ravvicinando piuttosto Monte Cave coi boschi e i laghi a un pezzo di Svizzera, lì – che delizia! – a due passi da Roma, con di più il mare, che di lassù si scorge benissimo, specie nelle notti di luna. Ma no; Monte Cave con la vetta incoronata d’aceri e faggi, per la signorina Lander era, naturalmente, tal quale il Drachenfels; tanto vero che, ove lì, su la vetta, ci sono le rovine d’un castello, qui c’è un convento: tal quale! E se n’appellava al sighnor avvocato. Il Furri non badava a quei discorsi; guardava fuori, dal finestrino. Ricordava, e gli pareva di sognare: ora, come allora, in treno: da Novara andava a Torino; gli era nata una bambina; andava in fretta per una balia; la bambina era là, dietro quei monti, in una campagna presso Novara, con la madre.

             –    Babbo, scommessa fatta! – gridò a un tratto Lauretta. – Rinunzio al mare, rinunzio alle Alpi: quest’estate, a Bonn sul Reno!

             –    Che scommessa? – domandò il Furri, turbato.

             –    Tra me e Fraulein Lander.

             –    No, io… – balbettò la signorina Alvina, per scusarsi.

             – Ecco, si scende! – interruppe entrambe il Furri. – Vedremo poi, vedremo. Si sforzò di parer lieto tutto quel giorno a Castel Gandolfo, ad Albano: la

             sera, rientrando all’albergo per la cena, annunziò alla figlia che la mattina seguente, per tempo, avrebbe dovuto trovarsi a Roma per un affare che s’era dimenticato di sbrigare.

             – E Monte Cave? – domandò Lauretta contrariata.

             Ma infine si rimise. Dalla finestra dell’albergo, la mattina dopo, gridò al padre che partiva:

             – Aspetto di scrivere, che tu sia ritornato!

             E il padre, già in vettura per la stazione, assentì sorridendo. Una veste nuova di mezza stagione e un cappellino di paglia: ecco a che pensava in quel momento la figlietta sua.

             «La riconoscerò?» domandava a se stesso il Furri passeggiando su la banchina della stazione, in attesa del treno da Firenze.

             Socchiudendo gli occhi, richiamava l’imagine di lei, rilevata e spirante nella sua memoria, di lei a diciannove anni: in una testina da birichino, coi capelli tagliati a tondo maschilmente, due occhietti furbi brillanti e provocanti, quasi armati di spilli luminosi, e la bocca accesa dai piccoli denti pari, aperta sempre a un riso vibrante di fremiti, dalla quale sgorgava la voce tutta trilli e scivoli: alto il corpo agile e svelto su l’esilissima vita, ma dovizioso il seno e incarnate le guance.

             E ora?

             Il Furri computava gli anni: doveva già averne trentacinque, e poiché aveva potuto abbandonare la figlia appena nata e vivere tant’anni senza domandarne notizia, ignorandone finanche il nome, poteva essere, nell’anima e nel corpo, se non più troppo giovane come prima, molto giovane ancora; a ogni modo, giovane.

             E lui?

             Non che sperare, riteneva il Furri assolutamente inammissibile ch’ella potesse riconoscere in lui, in quel suo corpo cadente, nel volto già disfatto, il Mario d’allora, il gigante: il Riese, come lei lo chiamava pretendendo ch’egli chiamasse lei Riesin, gigantessa, meine liebe Riesin, e ne rideva, giacché quel Riesin lui lo pronunziava così dolcemente, come se le dicesse invece: fiorellino.

             Molta gente attendeva con lui il treno da Firenze già in ritardo. Il Furri pensò di piantarsi presso l’uscita, per modo che tutti i viaggiatori gli passassero sotto gli occhi.

             Fu dato finalmente il segnale d’arrivo. I numerosi aspettanti s’affollarono, con gli occhi al treno che entrava sbuffando strepitoso nella stazione.

             – Roma! Roma!

             Si schiusero i primi sportelli; la gente accorse ansiosa, cercando da una vettura all’altra. Il Furri non seppe trattenersi alla posta, spinto quasi dall’ansia degli altri. A un tratto si fermò: «Eccola! Dev’esser lei!».

             Una signora bionda, vestita di nero, sporse il capo dal finestrino, e lo ritrasse subito, un signore aprì dall’interno lo sportello. Il Furri aspettò poco discosto. La signora fece per discendere, ma sul predellino si volse verso l’interno della vettura ad abbracciare e baciare un bambino di circa due anni:

             –   Adieu, adieu, mon petit riesi! Era la voce di lei.

             –   Anny !

             Si voltò, saltò agile e svelta dal predellino, guardò il Furri fermandosi e strizzando un po’ gli occhi, quasi in dubbio che la voce non fosse partita da lui. Ma egli le tese la mano.

             – Oh… – fece Anny accorrendo imbarazzata, con un sorriso nervoso su le labbra. – Aspetta! Le valige, – aggiunse subito, volgendosi verso la vettura.

             Il signore che aveva aperto lo sportello gliele porgeva. Il Furri spinse subito un facchino a prenderle, e Anny ringraziò in francese il signore; poi si rivolse al Furri aprendo la borsetta da viaggio a tracolla e, traendone uno scontrino, aggiunse in tedesco:

             – Subito subito, il mio piccolo povero Mopy! Povera bestia! Non vede da tre giorni la sua padroncina! E poi – (trasse altri due scontrini dalla borsetta) – i bauli!

             Il Furri, quantunque stupito da tanta disinvoltura, intuì subito che questa non veniva da sfrontatezza, per come aveva malignato all’annunzio dell’arrivo, ma da vera e propria incoscienza: lo dimostrava l’eleganza dell’abito da viaggio, tutta l’accurata persona ancora fresca e florida, sebbene di forme più complesse, ma forse perciò più piacente. Ecco, ed era venuta col cagnolino, e non si dava pensiero d’altro, appena giunta.

             – Subito! subito!

             Prese quasi esitante quegli scontrini; avrebbe voluto gridarle: «Ma guarda prima a chi li dai! Guardami! mi vedi? Come la vista mia non ti fa cadere le braccia?». Si mosse, e lei dietro.

             – Prima Mopchen! la povera bestia! Poi i bauli… Sei venuto solo… – riprese ella. – M’aspettavo che…

             Il Furri piegò il capo sul petto, alzando le spalle, come se ella lo avesse colpito di dietro.

             – Come si chiama?

             Non rispose: seguitò ad andare con le spalle alzate.

             –    Come si chiama?

             –    Non qui! non qui! – pregò smaniando il Furri. – Lauretta.

             –    Ah, Laura… Bionda? Egli chinò il capo più volte.

             –    Bionda! E ora tu, tutto bianco, povero vecchio Riese. E dimmi…

             – Parleremo poi, ti prego! parleremo poi, – la interruppe il Furri, non reggendo più alla tortura di quelle domande.

             Appena ella ebbe tra le mani il cagnolino che guagnolava e si storcignava tutto dalla gioja, cominciò a sbaciucchiarlo, a confortarlo con frasucce carezzevoli, e gli diceva che tra poco avrebbe trovato un’altra padroncina: – Laura, Mopchen, si chiama Laura… bionda, Mopchen, e tu così nero:… e quest’altro tuo padrone così bianco… e brutto… e cattivo, che non vuol dirti nulla… Fa’ vedere, Mopchen, come bacerai la nuova padroncina… Un bacio! Così… bravo, Mopchen! Basta… basta… Adesso prendi… – Aprì la borsetta da viaggio e ne trasse una zolla di zucchero per la bestiola festante.

             –    I bauli, – disse il Furri con voce roca, come se le parole gli facessero groppo alla gola, – i bauli sarà meglio lasciarli qui.

             –    Come! – esclamò sorpresa Anny.

             –    Sì, domani, se mai, manderemo a prenderli.

             –    Ma no, caro! E come faccio io? Vuoi che rimanga così? Uno almeno è necessario portarlo con noi. Vieni, ti dirò io quale dei due.

             Montati finalmente in vettura, Anny cominciò a sentirsi un po’ a disagio accanto al compagno, che si teneva chiuso e quasi ristretto in sé, come se sentisse freddo. Egli non la guardava, guardava innanzi a sé, con le ciglia un po’ aggrottate, triste e assorto.

             – Quante cose abbiamo da dirci – bisbigliò Anny, prendendogli una mano. Egli aggrottò maggiormente le ciglia accennando di sì col capo e traendo un

             lungo sospiro.

             –    Non mi stringi la mano? Non sei contento ch’io sia venuta? – domandò sommessamente, poco dopo; e aggiunse: – Eh, lo so… Ma vedrai… non ci ho colpa. La mamma… – S’interruppe; si portò subito il fazzoletto agli occhi. Il Furri si voltò a guardarla: il fazzoletto era listato di nero.

             –    Parleremo poi, ti prego, Anny! – ripetè, più commosso che intenerito.

             –    Sì, sì, a casa… Quieto, Mopy! Oh, ma non credere che sia venuta così… Non sarei venuta, se non avessi incontrato nel Kuhrgarten a Wiesbaden… indovina chi? il Giovi… l’amico nostro di Torino… che m’ha parlato tanto di te… Io pensavo… non so… pensavo tra l’altro… sì… che tu ti fossi ammogliato… pensavo che la piccina… potesse anche non vivere più… – «Vive!» m’ha detto il Giovi. «Sta con lui…» – E io sono corsa ad annunziarlo a questo mostro qui. E vero, Mopchen? Come t’ho detto? Vive! vive! la padroncina vive! Noi l’abbiamo chiamata Mary, è vero? Il Giovi m’ha anche detto che tu hai preso per lei una governante tedesca, una vecchia, è vero? Laura dunque parla il tedesco, mentre io non so più parlare l’italiano. Ho provato col Giovi: l’ho fatto ridere. Ah, com’egli si diverte a Wiesbaden! E sempre quello di prima… soltanto, non ha più quell’enorme barbone… Io non l’avrei riconosciuto. M’ha riconosciuta lui. Ma a momenti non ha più nemmeno i baffi! Diventa tutto bianco, e non volendo ricorrere ai cosmetici, taglia, taglia capisci? sarchia anche i baffi, quel bel paio di baffi! «Perché, Giovi?» gli domandai. – Dice, non lo sa neppure lui – «per istinto giovanile,» – m’ha risposto; ma poi s’è tolto il cappello e battendosi con una mano il capo calvo ha esclamato: «Eppure, ecco qua:Piazza della Vecchiaia!». M’ha detto che sei calvo anche tu. Fa’ vedere!

             Il Furri ebbe quasi l’impeto di saltare dalla vettura, fuggire. – Scommetto, – disse, – che tu non hai un solo capello bianco, è vero?

             – Ah, neppure uno! – esclamò Anny trionfante. – Ti sfido a trovarmene uno!

             Vedrai. Ma anche la mamma, sai, poverina! M’è morta, sai, con tutti quei suoi capelli ancora biondi come l’oro! Ah i capelli della mamma… Io non ne ho neanche la metà.

             «E ora mi parla della madre!» pensava il Furri stupito e, ormai, dall’incoscienza di colei irritato più a sdegno che a ira.

             –    Ah! – fece Anny improvvisamente, sollevando la mano di lui, che teneva ancora nella sua. – Il mio anellino! Fa’ vedere! – E poiché egli ritrasse la mano quasi istintivamente: – Fa’ vedere! – insistè Anny.

             –    Oh, come ti stringe il dito! Puoi tenerlo ancora? Non ti fa male? Io, il tuo… la mamma me lo levò… Credevo lo tenesse nascosto. L’ho cercato, non l’ho trovato. Chi sa che n’avrà fatto; l’avrà buttato via.

             –    Ha fatto bene! – disse il Furri, quasi senza volerlo.

             –    Ah no! guarda: – esclamò Anny, mostrandogli le due mani bellissime. – Non ne ho più tenuti, da allora!

             Il Furri la guardò fisso e quasi con durezza, come non potesse più trattenere le tante domande che gli facevan ressa alle labbra.

             – Nessuno! – ripetè Anny con fermezza. – Soltanto per pochi giorni quello tolto dalla mano della mamma morta: era l’anello nuziale del babbo: una sacra memoria.

             La carrozza si fermò davanti all’Albergo della Minerva.

             – Ah, stai qui? – domandò Anny, alzandosi col cagnolino in braccio; ma subito aggiunse: – Questo è un albergo. Intendo, intendo. Ma, bada, Laura voglio vederla subito, io!

             Entrati nella camera loro assegnata, Anny riprese: – Ora, lasciami sola. Tre giorni di viaggio: non ne posso più. Il baule è qui: farò la mia toletta. Tu intanto va’ a casa, e conducimi qui subito subito Laura.

             –    Ma no, cara, – fece il Furri – non è a Roma.

             –    Non sta con te? Qua, Mopy, qua, – gridò Anny correndo dietro al cagnolino che col musetto aveva aperto l’uscio accostato e se n’era uscito sul corridojo. Poco dopo rientrò con Mopy in braccio e, buttandolo sul canapè, gli gridò: – Cuccia lì!

             –    Dobbiamo prima parlare, – riprese il Furri severamente.

             –    Chiudi l’uscio, ti prego. Ho fatto male a venire: vuoi dirmi questo? Dimmelo semplicemente, ti prego, senza turbarti. Senti… – Esitò alquanto, grattandosi celermente l’insenatura tra la pinna destra del naso e la guancia, con un gesto che il Furri le riconobbe abituale. – Senti. La colpa non è mia, la colpa è del Giovi. Sono venuta spontaneamente, sì, ma egli m’assicurò più volte che tu vivevi solo solo e sempre in casa e malfermo in salute anche. Dunque ho supposto che – scusami, se rido – che, via! sarei potuta venire. Ho supposto male? Hai ragione: oh, non te ne fo, né potrei fartene un torto. Rido, vedi? La mia parte, infatti, non è bella, ora. Vorrei pigliarmela con quel burlone del Giovi. Ma, poveretto: gli amici non sono obbligati a saper tutto. Via, confessalo, Mario. Non stare così.

             Il Furri s’era portato ambo le mani su la faccia, premendovele vieppiù a ogni parola d’Anny.

             –    Guardami negli occhi, – riprese questa, cangiando tono, ma pur quasi affettando una seria preoccupazione: – Il caso è grave? altri figliuoli?

             –    Tu non sai ciò che voglia dire averne una! – disse egli con voce vibrante di sdegno, scoprendo il volto irosamente e stringendo le pugna come per trattenersi.

             –    Prima di rimproverarmi aspetta che ti dica. Credi forse, Mario, ch’io non abbia mai pianto? La mamma non c’è più, per dirtelo. Ma l’essere venuta così, col pericolo di rappresentare per te, ora, una parte poco gradita, non è una prova?

             –    Prova di che? – domandò il Furri interrompendo. – Prova della tua incoscienza, per non dire altro! E non già per quello che tu supponi di me, e che io potrei prendere per un’irrisione, se tu non fossi proprio incosciente: è la parola! Ma non hai neanche occhi per vedermi? Non parliamo di me, non parliamo di me, ora. Vuoi dire che l’essere tu venuta è una prova del tuo affetto per tua figlia?

             –    Aspetta, – disse Anny. – Parleremo di questo e di tutto, ma con calma, ti prego. Io mi confondo. Siedi. Ma prima apri, ti prego, quella finestra: un po’ d’aria. Così, grazie! Oh, siedi, ora: qua accanto a me; dammi una mano, codesta con l’anellino mio. Ora, è vero? ti senti vecchio tu, povero Riesel. Ma non importa. Senti: codeste due rughe cattive su le ciglia te le spianerò io. Senti: rientrando in Italia, dal treno guardavo la campagna e le ville sparse qua e là. Non era lo stesso paesaggio della nostra villetta, del nostro nido presso Novara ch’io vedo ancora, chiudendo gli occhi, e che ho sempre sempre ricordato; ma era Italia anche lì e campagna, e quel cielo, quell’aria, e io respiravo, correndo in treno, come nel bel tempo passato, con gli occhi a una villetta lontana, finché non spariva, e poi a un’altra, che gli occhi subito cercavano per non interrompere il sogno; e intanto il cuore mi si riempiva dell’antico amore, e non imaginavo che tu dovessi accogliermi così. Mi guardi? Non piango, no! vuoi crederlo tu, che sia tutto finito, non io. Perché, Mario? Me lo dici?

             –    Hai bisogno che te lo dica? Ma non mi vedi, ma non lo senti, Anny? Per te era quasi naturale imaginare che potesse accoglierti il Mario d’allora: tu sei la stessa, e non sai quello che hai fatto. Lasciami dire così: è l’unica scusa che potrei trovare per te. Dici di no? E quale altra dunque, sentiamo? Ma lo sai, lo sai tu quello che hai fatto? Lo sai che hai abbandonato la figlia? Per me forse, no; per quanti sforzi abbia fatto, non sono riuscito a uccidere il ricordo di te. Per me forse no, non eri morta, mi sopravvivevi. Ma lo sai che per tua figlia tu sei morta, morta davvero, e ch’ella è cresciuta e che adesso ha quasi gli anni che avevi tu quando la mettesti al mondo? Lo sai tutto questo? Posso ora dire a mia figlia: No, sai, bambina, non è vero, io ho mentito con te tant’anni, mi sono divertito a straziare il tuo coricino dicendoti che la tua mamma era morta nel darti alla luce: no, sai, la mamma vive, si rifa viva dopo tanto tempo, ed eccola qua, te la presento. Perché ho mentito? bisogna pure che glielo dica. E allora? Ma lo intendi? Come vuoi, che vuoi che le dica?

             –    Non le hai détto nulla? – domandò Anny sorpresa e addolorata.

             –    Ah, tu credevi?

             –    No: immaginavo ch’ella dovesse credermi morta; ma supponevo che tu in questi tre giorni…

             –    L’avrei preparata? Come? Ma dimmi, dimmelo tu, quel che avrei potuto dirle…

             –    La verità.

             –    Quale verità? La verità, dici? E che ne so io? Quella che so io, no! è troppo brutta: non potevo dirgliela. Perché farti rinascere agli occhi di lei, e farti morire nello stesso tempo nel suo cuore?

             Anny si levò da sedere e, lisciandosi con ambo le mani i capelli dietro la nuca, disse:

             –    Ma vedo che tu, mio caro, mi credi, non saprei… Mi fai accorgere d’esser venuta con altre, oh ben altre idee delle tue in mente e con ben altri sentimenti nel cuore. Ma già, dopo tanti anni… Ma perché io non sono mutata? Lo riconosci tu stesso… Capisco, lo dici in male… Ma si fa presto, sai, a giudicare dai fatti.

             –    E da che vuoi che giudichi?

             –    Scusa, si reggono i sacchi vuoti? No; e così i fatti, se tu li vuoti degli affetti, dei sentimenti, di tante cose che li riempivano.

             –    Affetti? sentimenti? E quale altro più forte di quello per la propria figlia?

             –    L’ho abbandonata: tu vedi il fatto. Ma se la piccina, quando sono partita, piangeva, credi che non piangessi anch’io?

             –    E intanto…

             –    Intanto sono partita, in quello stato, dopo tre giorni… e sperando di morire, sai, durante il viaggio, senza dirlo a nessuno. Potevo anche morire, solo che mi sopravvenisse una febbre. Dio non volle. Sperai in seguito ch’Egli volesse invece esaudire il mio voto, quello che feci segretamente baciando per l’ultima volta la creaturina: «Ci rivedremo, quando Dio vorrà!». La mamma è morta; sono corsa qui; e non Dio, ma tu pare che non voglia farmela vedere.

             –    Ah sì? E c’entra anche Dio, nella tua partenza? La volle Dio? Perché te ne partisti?

             –    Ma lo sai! la mamma…

             –    Ah, la mamma! E non potevi tu dirle: «Come pretendi che la figlia non abbandoni la madre, mentre vuoi che io abbandoni la mia creaturina?».

             –    Ragioni bene; ma non osservi due cose. Prima: che ella, madre, mi avrebbe abbandonata, se io mi fossi ricusata di seguirla: e non dovevo, capisci?, non dovevo, perché noi non avevamo più nulla, tranne una misera pensioncina: tutto quello che avevamo era mandato a me, a me soltanto dal fratello di mio padre, di cui dovevo raccogliere, com’ho raccolto, l’eredità. Per certe sue idee quel mio zio non poteva soffrire la mamma. Ella dunque se ne sarebbe andata sola, incontro alla miseria… oh credi! non era donna d’accettare da me ajuto, se la lasciavo andar via. Era cosiffatta: piuttosto morir di fame! Potevo permetterlo?

             –    Ma ella poteva rimanere qua con noi!

             –    Ecco l’altra osservazione. Doveva stare con te e t’odiava. Sosteneva che tu le avessi sedotta la figlia. Per quanto io le dicessi, non riuscii mai a toglierle quest’idea dal capo. Quante volte le chiedemmo perdono, ricordi? a te faceva le viste di perdonare, perché dentro meditava la fuga e temeva che tu, scorgendo ancora in lei avversità per il nostro matrimonio, non mi sottraessi a lei un’altra volta; ma a me, no, no, mai! E invano io ti difendevo, e le dicevo che le tue intenzioni erano state oneste, sempre, tanto vero che le avevi prima chiesto la mia mano, che la nostra fuga da Torino era avvenuta dietro il suo rifiuto. Ah sì! vedi, questo le toglieva appunto la ragione: che noi con la violenza e col tradimento avessimo voluto forzare la sua volontà. E i primi mesi, lì in campagna; ricordi? ti portò per le lunghe, prima con la scusa delle mie carte da sbrigare a Bonn, poi con l’altra del mio stato che non comportava più di presentarmi in chiesa e al municipio. E intanto per non legarmi maggiormente con cure e sollecitudini alla creaturina che portavo in grembo, non volle, ricordi? ch’io preparassi da me il corredo: volle che tu lo facessi venire bell’e fatto da Torino. E come ci spiava, ricordi? Io ti consigliavo pazienza; e tu ne avevi, povero Riese, sperando compenso nell’avvenire. Ah, quei mesi! quei mesi!

             –    Tu sapevi dunque, – disse il Furri concitato, – il delitto che tua madre meditava, e non me ne dicesti nulla?

             –    No, no! all’ultimo lo seppi! negli ultimi sei giorni! Voleva abbandonarmi; allora; in quel punto; quand’io avevo più paura e più che mai bisogno di lei!

             –    Infame! – muggì il Furri tra i denti.

             –    No, non dirlo! – pregò Anny. – Aveva in petto il suo cuore! Se ci avesse avuto il tuo o il mio, non l’avrebbe fatto! Per lei l’infame eri tu, e io la colpevole da punire. La pregai, la scongiurai, figurati come, in quel punto! E lei irremovibile. E allora io promisi… sì, ebbi paura… e poi pensai a lei – vecchia, senz’aiuto – e a me – sola, senza più la mamma accanto, in un paese che non era il mio…

             –    E a me non pensasti? a me? a tua figlia?

             –    Sì, sì, Mario… Ma in quel punto, senza mia madre, sentii di non poter vivere. Ti conoscevo da così poco… ti amavo! sì, ma avevo tanta soggezione di te: io non so, tu, col tuo carattere, con la tua serietà, mi avevi domata… io ero una bambina allora… e in quel punto, in quel punto…

             –    Poi? Partii con la fiducia che la mamma si sarebbe piegata tra breve, assistendo ogni giorno al mio tormento. Andammo a Neuwied, cioè ci fermammo colà, perché io non potei più proseguire il viaggio; mi ammalai, fui per morire, Mario: quattro mesi a letto. Ah, se tu mi avessi vista, quando mi rialzai! Scrissi allora, sai? di nascosto, scrissi a quel signor Berti che era a Novara, e che veniva qualche volta a trovarci in villa, mi desse notizia della bambina, mi dicesse soltanto: vivel nient’altro; non lo disturberei più, m’indirizzerei in seguito ad altri, e se ad altri non potessi, mi terrei paga d’una sua sola notizia, la meno precisa, ma me la desse. Nulla, non ebbi risposta. Attesi, attesi. Poi volli persuadermi che la creaturina fosse morta, e che il Berti non avesse voluto darmi questa notizia… o che, se viva, ero morta io per lei… almeno fintanto che la mamma… ma vedi: questo mi ripugnava: sperare su la morte della mamma.

             –    E su quella della figlia, no! per distrarti…

             –    È vero: mi sono distratta. Dopo la malattia. Mi parve d’uscire da un sogno angoscioso; e che tutto fosse finito. Ma com’io abbia vissuto, non te lo saprei dire. Non lo so nemmeno io: perché non sapevo nulla di voi. E la mamma intanto mi spingeva, mi assediava, cercava ogni mezzo per divagarmi. E se tu ti eri ammogliato? e se la bambina era morta davvero? Tanti pensieri… tanti sogni… e nulla di certo, né per me, né per voi… Ma sempre dentro di me qualcosa che m’impediva d’accogliere la vita, all’infuori delle minute frivolezze o dei piccoli avvenimenti senza vero interesse e senza scopo. Così ho vissuto fino alla morte della mamma. Che debbo dirti di più?

             –    A Neuwied! – mormorò il Furri assorto, dopo un lungo silenzio. – Quanto ti ci sei trattenuta?

             –    Oh, a lungo! Più d’un anno. Poi siamo andate a Coblenza.

             – Eri dunque a Neuwied! E io ci passai, al ritorno. – Tu?

             –   Io. Venni a cercarti; senza nessuna traccia. Fui a Bonn, a Colonia, a Braunschweig, a Dusseldorf, seguendo qualche indicazione raccolta qua e là. Passai da Neuwied, ritornando in Italia, ma non mi fermai: già non ti cercavo più! Fui anche a Wiesbaden.

             –    Povero Mario! – fece Anny con tenerezza. – Ma a Wiesbaden eravamo andate in quest’ultimi anni soltanto, per invito dello zio, che è morto, poveretto, due anni fa: era solo, vecchio e infermo: ci volle in casa, dimenticando gli antichi dissapori con la mamma. Dopo un anno e mezzo è morta lei: quattro mesi come l’altro jeri.

             –    Se ti avessi trovata allora! – sospirò il Furri, alzandosi.

             –    Ma vedi, ora, – disse Anny, – son venuta a trovarti io.

             –    A trovare chi? A trovare un morto! Oh Anny! Non vedi? non vedi! Fra tua madre e me e nostra figlia hai scelto quella. Che vuoi ora da me? Tua madre è morta; ma sei morta anche tu per Lauretta!

             –    Oh no, Mario! – fece con orrore Anny.

             –    Aspetta, Anny. Vedi: davanti a te, m’è caduto lo sdegno: io non so più parlarti, come forse dovrei. Ma è evidente che tu non sai renderti conto di quello che hai fatto, del tempo che è passato, di tutto quello che è avvenuto in questo tempo. Scommetto, che tu imagini ancora Lauretta come una bambina, ed è alta, sai, quanto te: è una donna davanti a cui tu, se ora la vedessi, resteresti come davanti a una estranea. Per te il tempo non è passato: lo vedo, lo sento. Tu sei ancora come una ragazza – quella di prima – e vedi, parlandoti, mi viene da piangere, perché io sono vecchio, Anny, vecchio, vecchio e finito. No, no, lasciami piangere. Non ho mai pianto. Ma mi vedo davanti ciò che ho perduto, ciò che tu mi hai rubato, e vedi: vorrei qua, sotto i piedi, la fossa di tua madre per calcarci sopra la terra con tutta la forza del mio odio! Ah, nessun fiore, se c’è Dio, crescerà su quella fossa, come nuda e senza un sorriso è stata la culla della figlia mia, e squallida e muta la mia vita, per causa di lei, e tua, e tua… Ti copri la faccia? Ah, c’è da inorridire davvero! Non è, non è reparabile quello che avete fatto. Ora tutto è finito! tutto e per sempre! Non può intenerirmi il tuo pianto. Non ti fo piangere io, ma tua madre. Domandane conto a lei. Ha spezzato la mia vita e la tua: ti ha uccisa per tua figlia. E stata lei: che vuoi ora da me? Io sono morto; non posso farti rivivere.

             Anny era caduta sul canapè e piangeva arrovesciata sulla spalliera. Il Furri passeggiò per un tratto per la camera, poi andò presso la finestra e vi si trattenne, fermo nell’odio, contro ogni suggerimento pietoso che potesse venirgli dai singhiozzi di lei. Il cagnolino nero si levò su le quattro zampette sul canapè, cacciando il musetto sotto il braccio della padrona; ma Anny lo respinse col gomito; allora Mopy si rizzò con le due zampette anteriori sul bracciuolo, e si mise a ringhiare contro il Furri alla finestra, poi abbajò. Anny si voltò subito a lui, e se lo strinse al petto piangendo. Il Furri si tolse dalla finestra senza guardare Anny. Entrambi stettero a lungo in silenzio. Poi ella, rimesso alla cuccia il cagnolino, si alzò, prese da una seggiola una valigetta e l’aprì per trarne un altro fazzoletto anch’esso listato di nero, col quale si asciugò a lungo gli occhi. Finalmente disse con durezza nella voce:

             – Mia figlia… non debbo vederla?

             Il Furri notò l’espressione torva del volto di lei e, urtato dal tono della voce, rispose:

             –    Te ne nasce tardi il desiderio.

             –    Io me ne riparto subito! – riprese Anny con la stessa espressione, ma più fiera, e la stessa voce. – Però mia figlia voglio vederla.

             E scoppiò di nuovo in singhiozzi, nascondendo la faccia nel fazzoletto.

             –    Come potrei fartela vedere? – disse il Furri. – E poi, perché?

             –    Voglio vederla! – insistè Anny tra i singhiozzi. – Anche da lontano, e poi me ne ripartirò.

             –    Ma io… – fece esitante il Furri.

             –    Temi che voglia tenderti un agguato? Oh inorridisci tu adesso! Ma è così naturale imaginare codesto sospetto in uno che ha accumulato tant’odio per rovesciarlo senza alcuna considerazione su una morta! Basta, basta… Ogni recriminazione è inutile! Sono accorsa a te, alla figlia, col cuore d’allora: tu me l’hai assiderato. Basta! Comprendo ora anch’io d’aver commesso una follia a venire.

             –    Sì, – disse il Furri, – come un delitto allora, nell’andartene. Questo è il mio giudizio. Delitto – disse allora il mio cuore, quando tornai da Torino alla villetta, ove trovai la bambina abbandonata. Follia – mi costringe ora a dire lo stato in cui sono ridotto; ed è veramente così, perché tu, che avresti potuto imaginare com’io dovessi rimanere allora, avresti potuto anche supporre come necessariamente dovevi ritrovarmi adesso. Ma non t’è passato neanche per la mente! Tu hai potuto scusare davanti a me quello che hai fatto e addurre come una giustificazione l’essere tornata a noi, dopo tant’anni! Via, via, Anny! Misura il baratro che s’è scavato tra noi due: tu credi di poterlo saltare a pie pari? Ma io non posso, vedi: mi reggo appena su le gambe, io. Basta, basta davvero. Perché vuoi vedere tua figlia? Tu non la conosci.

             –    Voglio vederla appunto per questo! – esclamò Anny tra le lagrime.

             –    Lo so, – riprese il Furri. – Ma la ragione dovrebbe imporre un freno a codesto tuo sentimento, nell’interesse tuo stesso.

             –    No, no! – negò Anny. – Sono venuta qua; so che mia figlia è qua; vuoi che me ne riparta senza vederla?

             –    Ma non è qua, non è a Roma, ti ripeto.

             –    Non è vero! Stai in campagna tu? O l’hai nascosta perché hai avuto paura, di’ la verità!

             –    Ebbene, sì, ma non giova rilevarlo, giacché dev’essere così.

             –    Ah non giova! Per te, si sa. Ma tu andrai a prenderla: voglio vederla, anche dalla finestra: la farai passare di qui, o per via – io non so! Non temere: saprò frenarmi.

             –    Ebbene… Ma è una follia anche questa, Anny! Ascoltami: io non temo, perché l’affetto o il desiderio che hai di vederla non potrebbe spingerti a commettere un altro delitto: quello d’uccidere in lei l’ideale senza imagine che ella ha della mamma sua; tu le sembreresti pazza, e tutt’al più, come pazza potresti farle pietà. Ma se ragioni, se la convinci, profanando l’idealità vaga e pura e santa che ha di te morta per lei, non pietà né alcun altro sentimento buono, credilo, potresti muovere in lei. Di questo sono convinto; perciò non temo. Io dicevo per te.

             –    Oh grazie! Dopo quello che hai detto, ti preoccupi ancora di un’altra spina che mi porterei nel cuore? Quanta carità! E del mio avvenire, adesso di’, non ti preoccupi? Che sarà di me? Ci penso anch’io.

             Tacquero un tratto, tutti e due assorti in questo nuovo pensiero; lui con gli occhi chiusi dolorosamente, nell’atteggiamento di chi è solito crucciarsi in cuore senza parola; lei con gli occhi alle punte aguzze delle scarpine.

             –    Ora sono sola, – disse come a se stessa. – Tutto questo tempo sono stata… così: per aria! un’estranea curiosa e leggera in mezzo alla vita… di qua, di là. Di vero, di concreto intorno a me, nulla: mia madre, che mi teneva posto di tutto, è vero, ma… E la gioventù: un soffio… passata così, senza nulla… – Si levò in piedi di scatto con un’esclamazione indeterminata: – Bah! A Coblenza, sai? più d’uno chiese alla mamma la mia mano… e poi tanti, uh! hanno perduto il tempo a corteggiarmi… Ora me ne ritornerò a Wiesbaden, nella casa che m’ha lasciato lo zio; e chi sa, ci sarà qualche altro ancora – benché io non sia più giovane – che vorrà avere la degnazione di credere che forse valga la pena di continuare a perdere un po’ di tempo a corteggiarmi, con fine onesto anche, perché no? sono ricca; potrei permettermi il lusso della franchezza: dichiarare che non sono zitellona come mi si crede, benché non sia né vedova, né maritata. È proprio così! Rimango così! Bisogna dire che rimango male… Mah! Tu in coscienza credi che non puoi né devi fartene un rimorso. Infatti, dici bene: sono voluta andar via io: tu mi avresti sposata subito, allora. Dell’esser io tornata, non vuoi tenere alcun conto: non fa più comodo a te, adesso, di sposarmi: per mia figlia sono morta, e ho commesso una follia a venire. Si deve dunque chiudere così la mia vita? Convieni almeno, via! che la follia che ho commessa non è poi brutta! Sono tornata; mi chiudi la porta in faccia; resto sola, senza più neanche un dolce ricordo, con la memoria soltanto dell’accoglienza che m’hai fatta e senza alcuno stato. Via, via, lascia che veda mia figlia, mi porterò almeno l’imagine di lei nel cuore; e questa imagine forse… – Non concluse, ritenuta improvvisamente dal fare, anche a se stessa soltanto, una promessa che poteva esser sacra e che la vita, a una prima svoltata, poteva smentire. Domandò: – Come potrò vederla?

             –    Io torno questa sera in campagna, – disse il Furri con voce arida, – domattina sarò a Roma con Lauretta: domani è venerdì… ah; è il venerdì santo! in chiesa… Senti: a San Pietro, domattina, per le funzioni: dalle dieci alle undici. Ti troverai lì; io entrerò con mia figlia, e la vedrai.

             –    E religiosa?

             –    Molto, sì.

             –    Allora certo, in chiesa, prega ogni volta per me… E se domani io la vedo inginocchiata, dirò: eccola, prega per me.

             –    Anny, Anny…

             –    Vuoi che non pianga? Io non sono morta, come tu le hai fatto credere. E a mia figlia che prega per me non posso neanche dire: sono viva, guardami! sono viva e piango per te.

             Attese un tratto, piangendo, che il Furri le dicesse qualcosa; poi si tolse il fazzoletto dagli occhi e vedendolo chiuso nel cordoglio e col volto contratto, si alzò e asciugandosi gli occhi, disse:

             –    Va’! va’! A domani, dunque… Lasciami sola. Verrai a salutarmi? Partirò domani l’altro: sabato.

             –    Verrò, – rispose il Furri.

             –    Intanto, a domani. Addio.

             La prima e più tremenda prova era superata. E quantunque il Furri, in treno con la figliuola, si sentisse ancora sotto l’incubo della presenza di colei, pure, come se da quel tuffo violento nel passato e dal cozzo interno di tanti opposti sentimenti un po’ dell’antico vigore si fosse ridestato in lui, notava che egli, non che soffrire il danno temuto da quell’incontro, ne aveva quasi tratto insperata energia; e, più che compiacersene, se ne stupiva. Uscito il giorno innanzi, com’ebbro, dall’albergo, gli era parso, è vero, che tutto gli fosse girato intorno, e aveva avuto appena il tempo e la forza di chiamare una vettura e di salirvi. Ma come aveva saputo poi dominarsi, la sera, in presenza della figliuola!

             Ora il rombar cadenzato del treno imponeva quasi un ritmo al turbinare di tante impressioni e di tanti sentimenti in lui. Si sentiva di tratto in tratto ferire acutamente dalla spina del rimorso infertagli dalle ultime parole d’Anny; e allora ripeteva a se stesso: «E passato! è passato!» come se l’aver potuto jeri andar via a tempo, rendesse oggi tardivo e per ciò inutile il rimpianto di non avere ceduto al sentimento di indulgente pietà ispiratogli dalle lagrime di lei. Ma così del resto doveva fare! La dura resistenza, per quanto in certi punti ora a lui stesso crudele, era necessaria. E gli bastava posare lo sguardo sulla figlia che gli sedeva dirimpetto per averne conforto e giustificazione. Lauretta gli parlava, e lui guardandola intentamente chinava di tanto in tanto il capo in segno d’approvazione, pur senz’intendere nulla di ciò che lei gli diceva.

             –    Ma no! ma no! se non m’ascolti! – gli gridò a un certo punto Lauretta.

             –    Hai ragione… – fece lui, riscotendosi e andando a sederle accanto. – Ma con questo fracasso…

             –    E allora perché dici di sì col capo, mentr’io invece dicevo di no, che non può essere?

             –    Che cosa? Scusami, pensavo…

             –    Già! Come la signorina Lander, quando le parlo e non mi sente.

             –    Che cosa? – domandò la sorda, a sua volta, nel vedersi indicata da Lauretta.

             –    Nulla! nulla! non dico più nulla! – fece questa indispettita, e si mise a guardar fuori.

             –    Brava Lauretta! Oh, senti: se facciamo a tempo… dopo la compera dell’abito, vuoi che andiamo a San Pietro per le funzioni?

             –    Bravo papà! – approvò Lauretta. – Ma non facciamo a tempo… Se andassimo prima a San Pietro? Però…

             –    Che cosa? – ridomandò la sorda, vedendosi guardata da Lauretta.

             –    Non dico a lei! – rispose questa, accompagnando le parole con un gesto della mano inguantata; e, rivolgendosi al padre, aggiunse: – Che ne facciamo di lei? Non possiamo mica portarcela in chiesa con quel cappellaccio…

             –    Si sa! – rispose il Furri. – Scendiamo prima a casa, e la lasciamo.

             –    Ma si fa a tempo?

             –    A momenti siamo arrivati. Vedi che, se non t’ascoltavo, pensavo di farti un regalo con la mia proposta. E tu, di’ la verità, pensavi al negozio delle stoffe; e a San Pietro, no.

             –    Non è vero! – negò Lauretta. – Ma se tu, scusa, hai sentito il bisogno di muoverti giusto la settimana santa… Se non fossimo andati via, all’abito forse non ci avrei pensato, e avrei pensato certo d’assistere alle funzioni. Poi supponevo che tu non mi ci volessi accompagnare. Hai tanto da fare, che jeri, prima, hai dimenticato la mia commissione, – fortuna, dico io, perché così scelgo da me e ti faccio spendere il doppio – e poi oggi, non so, mi pareva che avessi la testa tra le nuvole. Figurati se ti avrei detto: Papà, conducimi a San Pietro.

             –    Eh, lo sapevo! – disse il Furri ridendo. – Hai sempre ragione tu!

             –    Vuoi essere ringraziato?

             –    No no, – rispose egli turbandosi. – Mi ringrazierai dell’abito piuttosto, se mi farai spendere molto.

             –    Lo spero bene! – esclamò Lauretta.

             Il treno, entrato nella stazione quasi scivolando sul binario, s’arrestò di schianto, e la Lander, che già s’era alzata, ricadde improvvisamente a sedere esclamando: – Oh Je’!  – mentre il cappellaccio di paglia, urtando contro la spalliera, pùmfete!, le saltava sul naso. Lauretta scoppiò a ridere. Il Furri, che non s’era accorto di nulla, sconvolto alla vista della stazione dal ricordo del giorno innanzi, si voltò di scatto al riso della figlia, colpito: il riso della madre, lo stesso riso! Non l’aveva mai notato.

             – Se lei porta cappelli inverosimili! – gridò aspramente alla Lander. E come se la scoperta di quella somiglianza nel riso avesse avuto per lui un significato di condanna, cadde in preda a un’agitazione rabbiosa, di cui la signorina Lander volle per un buon tratto esser vittima ostinandosi a scusare il suo cappello e a incolpare il treno che s’era fermato di schianto, cosa che in Germania, naturalmente, non soleva mai avvenire.

             L’agitazione del Furri crebbe di punto in punto, fino a fargli perder ogni dominio di sé, davanti alla figlia; la quale, stupita dapprima ch’egli avesse potuto prendere in così mala parte l’incidente occorso alla signorina Lander, non intendeva ora perché avesse quell’angosciosa fretta di condurla in chiesa.

             –    Se non puoi, babbo, lasciamo andare! – gli disse.

             –    No no! – rispose recisamente il Furri. – Andiamo subito, anzi!

             E appena salito in vettura, gli parve che conducesse la figliuola a un sacrifizio entro la chiesa. Non tirava quasi più fiato dall’angoscia. E in quella tortura e in quello smarrimento dei sensi non discerneva più se fosse costernato maggiormente per sé o avesse paura per la figliuola. Più che determinata paura, . sentiva sgomento della chiesa, sapendovi in agguato, invisibile, colei, piccola sotto la poderosa vacuità di quell’interno sacro. Traversando la piazza immensa, sporse un po’ il capo a guardar la cordonata della chiesa in fondo: minuscole persone sparse vi salivano e scendevano, altre erano ferme là in alto. Oh se tra queste colei si fosse fermata ad aspettare! Strinse le pugna come per contenere in sé un impeto rabbioso d’odio. Come, come passarle davanti, sotto gli occhi, con la figliuola accanto? – Scese tremando dalla vettura.

             –    Babbo, tu non ti senti bene, – gli disse Lauretta vedendolo così stravolto e quasi in preda a brividi di febbre. – Torniamo a casa con la stessa vettura.

             –    No, – rispose, – entriamo! Mi sono troppo strapazzato jeri e oggi. Non è nulla! Dammi il braccio.

             A ogni passo, su per l’ampia cordonata, sentiva appesantirsi vieppiù le membra e l’ansito farsi più frequente e più corto. – Aspetta! – diceva alla figlia. Si provava a trarre un largo respiro, guardando intorno rapidamente, e soggiungeva:

             – Andiamo, non è nulla, un po’ d’asma.

             Introdottisi attraverso la pesante portiera di cuojo nella enorme basilica, egli lanciò uno sguardo fino in fondo; ma subito la vista gli s’intorbidò quasi perduta nella vastità dell’interno e chiamò sottovoce: – Lauretta, – stringendo a sé il braccio di lei, quasi senza volerlo o come per prevenirla di qualche cosa. – Lauretta! – ripetè forte, con schianto, quasi trabalzando, nel vedere la figlia lasciare il suo braccio e correre verso la pila a sinistra sorretta dai colossali angeletti. Nello smarrimento, gli parve in un baleno ch’ella accorresse alla madre nascosta lì dietro. Lauretta si voltò interdetta, e tornando a lui sorridente:

             – Che sciocca! Dimenticavo che oggi non c’è acqua benedetta. Tu lo sapevi?

             –    Non mi lasciare, ti prego, – le disse egli non rimesso ancora dall’interno rimescolamento.

             –    Bella figura, se qualcuno m’ha veduta! – aggiunse Lauretta, guardando intorno.

             – Bada a me… bada a me… Dove andiamo? Senti? che cosa cantano? Dall’ala destra della crociera in fondo venivano le parole confuse del canto.

             –    Sì, gl’improperia,  – disse Lauretta. – Vedi? è tardi. Andiamo qua a sinistra, al Sepolcro.

             –    Non tra la folla, – pregò lui, vedendo in quest’ala della crociera un fitto assembramento di gente curva inginocchiata presso la luminaria densa dell’altare di fianco.

             –    No, vieni, vieni qua, al di fuori… – rispose lei. – Qua, – e s’inginocchiò presso il padre.

             Il Furri a capo chino si provò a volgere gli occhi in giro, ma li riabbassò subito su la figlia inginocchiata, come se volesse nasconderla con lo sguardo. E non osando dirlo a lei, diceva piano a se stesso: – Ancora? ancora? – non resistendo più a vederla pregare. Era certo che colei la guardava da un punto forse vicinissimo della chiesa, e gli correvano brividi per la schiena, e tremava tutto, quasi in attesa che da un momento all’altro colei, non sapendo più trattenersi, irrompesse tra la folla silenziosa, piombasse sulla figlia. Ebbe un sussulto e guardò ferocemente una signora, venuta a inginocchiarsi presso Lauretta. Si voltò: uno scalpiccio confuso veniva dall’altro lato della crociera.

             –   Lauretta… Lauretta… – chiamò.

             Ella alzò gli occhi al padre, ancora inginocchiata, e subito sorse in piedi, sgomenta: – Babbo, che hai?

             –   Non resisto più… – balbettò il Furri, ansimando.

             Si mossero per la navata di centro; ma si videro venire incontro solenne la processione verso il Sepolcro. Parve al Furri che tutti gli occhi della folla sopravveniente fossero appuntati su lui e sulla figlia, e che tutti gli occhi fossero quelli di colei. In quel punto la madre sconosciuta conosceva certamente la figliuola ignara. Il Furri, impedito d’andare, stretto tra la folla, serrava con una mano convulsa il braccio di Lauretta, e incoscientemente, con gli occhi annebbiati, vaganti in giro, singhiozzava tra sé: «Eccola… eccola…» e cercava, tra tanti, due occhi ben noti, su cui appuntare lo sguardo, come per tenerli lontani. «Eccola…» diceva il suo sguardo a quei due occhi, che non riusciva a scoprire tra la folla: «Eccola, è questa, tua figlia!». E stringeva vieppiù il braccio di Lauretta. «Questa, la figlia che tu hai abbandonata, che ignora che tu, sua madre, sia qui, vicina, presente… Guardala e passa senza gridare… E mia, mia unicamente… Io solo so quanto mi sia costata, io che l’ho allevata tra le braccia, in vece tua, piangendo tante notti il suo piccolo pianto, nel sentirmela sul petto abbandonata da te.»

             – Vexilla Regis prodeunt…  – intonò in quel momento supremo il coro di ritorno dal Sepolcro; e il Furri che non se l’aspettava, a quelle voci fu quasi per cadere tramortito.

             –   Andiamo via! andiamo via! – ebbe appena la forza di balbettare alla figlia.

             Tornò, il giorno dopo, all’albergo.

             –    La signora è partita fin da jeri, – gli annunziò il cameriere ossequioso.

             –    Partita? – disse il Furri come a se stesso; e pensò: «Partita! Ha veduto la figlia? Era in chiesa jeri? O ha seguito il mio consiglio, ed è andata via senza vederla, senza conoscerla? Meglio così! meglio così!».

             Ritornò a casa e, aprendo la porta, si meravigliò sentendo Lauretta sonare, lieta e ignara, il pianoforte. Si accostò pian piano e, intenerito, si chinò a baciarla sui capelli:

             –   Suoni?

             Lauretta, senza smettere di sonare, reclinò il capo indietro, e rispose sorridendo al padre: – Non senti che hanno slegato le campane?

«Vexilla regis…» – Audio lettura 1 – Legge Mariateresa (Librivox)
«Vexilla regis…» – Audio lettura 2 – Legge Valter Zanardi
«Vexilla regis…» – Audio lettura 3 – Legge Giuseppe Tizza

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