«Cu nesci, arrinesci». Verga e Pirandello dalla Sicilia all’Europa

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Di Michele Righini

Se un dato unisce i maggiori intellettuali espatriati è proprio la capacità di unire le due prospettive, quella che guarda alla tradizione culturale siciliana e quella che invece coglie i fermenti di più ampio respiro provenienti da Oltralpe.

Indice Tematiche

verga e pirandello

«Cu nesci, arrinesci»
Verga e Pirandello dalla Sicilia all’Europa

da Griseldaonline

1 – Una regione decentrata e centralissima

L’espatrio come condizione necessaria alla propria affermazione. Questo il senso del proverbio siciliano «Cu nesci, arrinesci», “Chi esce, riesce”. Dalla Sicilia non ci si può semplicemente allontanare, se ne deve “uscire” valicando confini sociali e culturali, spezzando un «cerchio di arretratezza, di convenzioni, di remore, di abitudini, di leggi» (Camilleri 2000, p. 141). Spesso i siciliani vi rimangono imprigionati, «Ma ci sono quelli che evadono», e qui è Pirandello che parla di Verga (Pirandello 1960, p. 399), ma anche di sé e di tutti gli altri conterranei che, a cavallo dei due secoli che segnano il passaggio alla modernità, capiscono che solo “andando in continente” potranno raggiungere gli obiettivi che si sono prefissi. Perché la loro isola è troppo periferica per cogliere in pieno le novità che la cultura europea propone, ma anche perché altrove sta quel nascente “mercato della letteratura” dal quale oramai non si può prescindere. Espatrio non significa però oblio delle origini, abbandono della cultura assorbita nell’infanzia e nella giovinezza. Se un dato unisce i maggiori intellettuali espatriati è proprio la capacità di unire le due prospettive, quella che guarda alla tradizione culturale siciliana e quella che invece coglie i fermenti di più ampio respiro provenienti da Oltralpe. L’opera di Verga e Capuana accoglie la lezione del Naturalismo francese, Pirandello risente di istanze tipiche della “filosofia della vita” di ascendenza tedesca, ma queste influenze si vanno a incardinare su un sostrato popolare e culturale strettamente legato a una Sicilia che è «modo di essere» (Sciascia, 1996, p. 13). Anche da qui la capacità della loro opera di superare i confini nazionali per proporsi all’Europa come modello innovativo e pienamente moderno.

Bisogna però chiedersi: è giusto mettere in diretta consequenzialità l’esperienza verghiana e quella pirandelliana? Fra i due corre una generazione (nasce nel 1840 il primo, il secondo nel 1867); il più vecchio ha la possibilità di partecipare attivamente agli eventi che hanno portato all’annessione dell’isola al Regno d’Italia, mentre il più giovane quegli eventi li vive solo attraverso i racconti dei familiari. Entrambi però avvertono con amarezza la delusione per le circostanze storiche post-unitarie, che hanno tradito lo spirito di quei giorni di lotta e di ideali. Ma Verga è il precursore sulle cui orme si incammina Pirandello? La questione è complessa, ci limitiamo a registrare che una risposta affermativa – pur non mancando voci contrarie – è stata spesso fornita dagli studiosi, ma in due diverse direzioni. Da una parte si sono annesse le prime prove pirandelliane al clima verista; dall’altra si è data una lettura più moderna delle opere maggiori di Verga, anticipatrici di istanze tipicamente novecentesche come la destituzione di senso dell’esistenza e la crisi del soggetto a confronto con la modernità. Ma lasciamo parlare uno dei diretti interessati, un Pirandello che nel 1920, di certo non sconosciuto ma ancora alla vigilia del successo mondiale che otterrà l’anno successivo, celebra a Catania gli 80 anni dell’illustre conterraneo. E lo fa onorando Verga in quanto maestro di quello «stile di cose» che – nel solco di autori spesso trascurati ma ai quali sempre si ritorna (Dante, Machiavelli, Ariosto, Leopardi, Manzoni) – si oppone alla vana magniloquenza di uno «stile di parole» che attraverso Petrarca, Guicciardini, Tasso, Monti è giunto al culmine della vuota esteriorità con d’Annunzio (Pirandello 1960, pp. 391-393). Concretezza contro fumosità, semplicità contro ampollosità. E, sul piano biografico, umiliazioni contro successo, esilio e silenzio contro incoronazioni poetiche e discorsi altisonanti. Un dualismo in parte già desanctisiano, ed è lungo questo versante, meno diretto, più mediato, che Pirandello non solo (non tanto) “costruisce” la propria discendenza verghiana, ma soprattutto colloca il proprio lavoro come ultima tappa di quel percorso che può annoverare tanti nomi illustri spesso misconosciuti in vita, dando nel contempo un colpetto al mito di d’Annunzio, ricco di fama e successo e quindi al tempo stesso  spregiato e invidiato (Petronio 1990, pp. 189-206).

Pirandello inoltre collega l’adesione di Verga allo «stile di cose» proprio al legame con la terra d’origine. Possiamo su questa base identificare una “linea siciliana” che prendendo le mosse dalla coppia Verga-Pirandello attraversa la letteratura italiana novecentesca con Brancati, Vittorini, Tomasi di Lampedusa, Sciascia, Consolo, Bufalino, e perché no, lo stesso Camilleri da cui siamo partiti? La domanda eccede le possibilità di questo breve lavoro, ma il solo porre la questione obbliga a partire da quei due, a cui dobbiamo però affiancare altre due figure a loro contemporanee: Luigi Capuana e Federico De Roberto. Del secondo diremo più avanti, il primo è il sodale di una vita per Verga – di cui è quasi coetaneo essendo nato a Mineo nel 1839 (morirà nel 1915) – col quale intrattiene un carteggio ricco di notizie biografiche e riflessioni letterarie. Fra le sue opere, capace di diventare un modello verista è il romanzo Giacinta (1879, poi profondamente rivisto nel 1886), storia di una donna dolorosamente “ribelle” alle convenzioni sociali della borghesia e fatalmente destinata al suicidio. Va inoltre ricordato quello che è unanimemente considerato il capolavoro di Capuana, Il marchese di Roccaverdina (1901), in cui il protagonista-assassino è tormentato da rovelli psicologici che lo condurranno alla follia.

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2 – Giovanni Verga: la Sicilia da lontano

2.1 – Conquista della distanza
Giovanni Verga nasce a Catania il 2 settembre 1840 in una famiglia con solide basi economiche. Il padre discende dal ramo cadetto di una famiglia nobile, la famiglia della madre appartiene alla buona borghesia catanese. L’interesse per la letteratura si manifesta fin da giovanissimo (fra il ’61 e il ’63 escono a puntate su rivista i romanzi patriottici I carbonari della montagna e Sulle lagune) portando presto con sé, oltre all’abbandono degli studi universitari di legge, la consapevolezza della necessità di lasciare la Sicilia per mettersi «all’unisono con la cultura del tempo» (Petronio 1990, p. 103) e ritagliarsi un posto all’interno del mondo letterario nazionale. Al ’65 va datato il primo soggiorno a Firenze (che diventerà residenza pressoché stabile dal 1869), la cui scelta è dovuta non solo al suo essere capitale del Regno, ma anche alla folta presenza di siciliani – a partire da Capuana, che poi si trasferirà a Roma diventando punto di riferimento anche per Pirandello – e all’interesse e alla curiosità diffusi in città per la cultura dell’isola, che si avverte come fortemente caratteristica e “diversa” e che solo ora, grazie alla recente annessione, è possibile scoprire. In Toscana Giovanni si autoimpone un apprendistato di studio duro e rigoroso. Sono gli anni nei quali scrive e pubblica Storia di una capinera (1871), che gli regala anche un primo, inaspettato successo. Ben presto però si rende conto che il vero cuore economico dell’Italia è a Milano e che, di conseguenza, lì stanno i grandi editori e il grande pubblico; lì quindi deve vivere chi voglia guadagnarsi il pane con la scrittura.Il trasferimento definitivo in Lombardia avviene nel 1872.

Ma occorre fermarsi un momento. L'”uscita” dalla Sicilia infatti non è per Verga questione che si risolve con la facilità che qui abbiamo lasciato supporre. Ci sono ripetuti e costanti ritorni a Catania, ma soprattutto lo scrittore sente continuamente il bisogno di giustificare ai familiari (in particolare alla madre) la scelta di abbandonare il “focolare domestico”. Giustificazione non richiesta, ma sempre messa in campo da Giovanni nelle lettere di questo periodo, sia per scusarsi delle spese che la famiglia è costretta a sostenere per il suo mantenimento in attesa che si faccia un nome, sia per motivare come necessità inderogabile quello che teme possa essere visto come un tradimento nei confronti della tradizione e della terra di nascita. Il tema della ricerca del successo e dell’abbandono della propria cultura di origine – che a sua volta spesso porta con sé la trasgressione morale e il colpevole ripudio dei valori in essa appresi – compaiono, con modalità e declinazioni diverse, nelle opere principali dei primi anni milanesi, i “romanzi mondani” Eva (1873), Eros e Tigre reale (entrambi 1875). Ma il tema dell’abbandono e del distanziamento dalla Sicilia deve compiere un passo ulteriore e, da argomento della narrazione, farsi vero e proprio principio compositivo dell’opera. Non più storie semi-autobiografiche di giovani intellettuali isolani in cerca di successo fuori dai rigidi e soffocanti confini della cultura d’origine, ma storie di siciliani-ostriche osservati a distanza – fisica e, almeno in parte, emotiva – da un giovane intellettuale espatriato.

2.2 – Ostriche e formiche
La situazione è narrativizzata nel bozzetto Nedda (1874), in cui una triste vicenda di miseria siciliana è rievocata da un narratore comodamente seduto di fronte al focolare che riscalda la sua agiata dimora cittadina. Verga rimane quasi sorpreso dall’ottima accoglienza ricevuta da quella che riteneva una cosa da poco e si rende conto delle potenzialità insite nella visione a distanza di quella per lui nuova materia narrativa. Ma la rivoluzione deve essere portata fino in fondo. La lezione del Naturalismo francese che aveva come modelli i fratelli Jules (1830-1870) e Edmond Goncourt (1822-1896) e Emile Zola (1840-1902) viene riletta e muta in Verismo, che porta a maturazione la necessità di un rapporto più diretto con la realtà, col “vero”, che già attraversava la cultura italiana almeno dal decennio precedente, in cui si erano registrati i tentativi di “romanzo sociale” degli Scapigliati. Questa esigenza di “realismo” trova adeguata soddisfazione grazie a un approccio “scientifico” all’osservazione della società – Le roman expérimental è l’emblematico e positivista titolo del saggio che Zola pubblica nel 1880 dopo avere già dato vita al ciclo narrativo dei Rougon-Macquart – che in Italia pone al centro dell’attenzione le questioni tecnico-formali più che quelle politiche privilegiate dai francesi, producendo la scomparsa di quel narratore che campeggiava nell’introduzione di Nedda. La via verso I Malavoglia (1881) è aperta e viene teorizzata nell’introduzione alla novella L’amante di Gramigna (in Vita dei campi, 1880). L’artificio che lo scrittore deve adottare è quello dell’impersonalità della narrazione e della regressione della voce dell’autore, in modo che il lettore si trovi faccia a faccia col «fatto nudo e schietto» e «l’opera d’arte sembri essersi fatta da sé» (Verga 2001, vol. 1, pp. 202-203).

Il narratore onnisciente del romanzo ottocentesco viene messo fuori gioco e il racconto è condotto da una voce popolare corale che si esprime in buona parte attraverso il discorso indiretto-libero (pur con le eccezioni messe in luce dai critici). In questo modo diventa principio costruttivo del testo quel fenomeno di distanziamento dalla materia narrata che, nelle lettere, Verga indica anche come concreta condizione lavorativa: solamente stando a Milano, fisicamente lontano e immerso in un ambiente del tutto diverso, si può rendere al meglio il mondo degli umili siciliani (Petronio 1990, pp. 119-120), la cui sofferenza e rassegnazione è sì strettamente legata a condizioni di vita storicamente determinate, ma allo stesso tempo è figura di una situazione più generale e socialmente trasversale di scacco dell’uomo nel mondo moderno. I Malavoglia infatti, nell’intenzione dell’autore, è solo il primo dei cinque romanzi che andranno a formare il “ciclo dei Vinti”, che mostrerà come in tutte le classi sociali il progresso – economico e tecnologico – mieta vittime fra coloro che non sanno adeguarsi al nuovo modo di vivere che esso impone.

Il punto di partenza del ciclo è quello più basso, quello dei poveri pescatori di Aci Trezza (un borgo marinaro in provincia di Catania), che l’autore e la sua accompagnatrice milanese – rispettivamente produttore e consumatore della letteratura, entrambi borghesi – incontrano nella novella Fantasticheria (ancora in Vita dei campi), una sorta di prologo al romanzo, di cui anticipa personaggi e vicende. È qui che viene esplicitato quell’«ideale dell’ostrica» che condensa in una formula efficace l’attaccamento di quei poveri personaggi allo scoglio da loro abitato, con pazienza e tenacia, ma anche con la rassegnazione di chi non può e non sa aspirare a una vita migliore. Quando quel piccolo mondo viene sconvolto da eventi eccezionali – il colera, la «malannata», una tempesta – quelli tornano a ricostruirlo uguale a prima, come formiche che sullo stesso monticello riedificano il formicaio distrutto dal viandante distratto. Lo scoglio, il monticello è nel romanzo la casa del nespolo, che la famiglia Toscano, alias Malavoglia, è costretta ad abbandonare in seguito a un rovescio finanziario – la perdita in mare di un carico di lupini – che conclude tragicamente un tentativo di evasione dalla misera vita di pescatori. La riconquista della dimora familiare è il punto chiave per la ricostituzione del focolare domestico, in ossequio a quella religione della famiglia i cui valori sono incarnati dal vecchio patriarca Padron ‘Ntoni e dal nipote Alessi. Ma quando quest’ultimo riuscirà nell’intento, nessuna ricomposizione sarà più possibile. L’esaltazione del tempo ciclico e idillico non ha più diritto di cittadinanza nel mondo moderno, dominato dalla ricerca spasmodica della ricchezza. E proprio quello della modernità – quello della grande città in cui Verga vive e lavora – è il punto di vista da cui si guardano le vicende di questi pescatori, con la dolorosa consapevolezza del fatto che la scelta di chiusura spaziale e temporale, di opposizione al progredire storico, non può che risultare perdente.

L’adesione al moderno è, contemporaneamente, colpa e necessità: il giovane ‘Ntoni – che da Aci Trezza se ne è andato e che è una nuova, più nascosta rappresentazione autobiografica dell’autore – scopre che il ritorno al paese è per lui impossibile. Ma la visione finale che egli ha di quel piccolo mondo come di un Eden perduto è falsa, perché filtrata da un’idealizzazione a distanza che cancella le sofferenze di quella misera vita e le angherie che la famiglia ha dovuto subire dagli stessi compaesani, tutti presi da quella darwiniana lotta per la vita che la modernità ha sì portato a livelli estremi, ma si rivela poi essere una «forza antica, di natura antropologica e astorica» (Luperini 2005, p. 45).

2.3 – Gesualdo, l’ultimo “vinto”
Ogni scelta quindi porta con sé una perdita dolorosa: i personaggi di Verga sono condannati a essere sommersi dalla marea del progresso. Anche chi spende l’intera vita nell’accumulare ricchezze è destinato alla sconfitta.
È quello che accade a Gesualdo Motta, self-made-man protagonista di Mastro-don Gesualdo (1889), secondo romanzo del “ciclo dei Vinti”, con cui si sale un gradino della scala sociale. Gesualdo, da muratore che era, con intraprendenza e spregiudicatezza, riesce a costruire un vero e proprio impero economico. La ricchezza gli permette di sposare Bianca, della nobile famiglia Trao, decaduta e senza più un soldo, ma proprio questa infrazione sociale è il primo passo verso la rovina. Gesualdo si trova ad allevare una figlia non sua, Isabella, che lo tratta con estraneità e superiorità a causa della sua origine popolare. Nonostante la piena assunzione della logica moderna del guadagno a ogni costo e l’indubbia capacità negli affari – mentre per i Malavoglia il tracollo era iniziato proprio quando avevano tentato la via del commercio – anche Gesualdo, come Padron ‘Ntoni, morirà solo e lontano da casa, nel palazzo palermitano della figlia che ha sposato un nobile, assistendo impotente alla dissoluzione della ricchezza da lui accumulata con tanti sacrifici.

Gesualdo è l’ultimo dei “vinti”, con lui il ciclo si interrompe. Verga pubblica novelle, da queste trae testi per il teatro, al tempo il mezzo più immediato per ottenere successo popolare e riconoscimenti economici. Ma del terzo romanzo dei Vinti, La duchessa di Leyra – che avrebbe narrato la vita della figlia di Gesualdo – rimane solo un frammento, mentre ai due che avrebbero dovuto chiudere il ciclo – L‘onorevole Scipioni, sulla vita parlamentare romana, e L’uomo di lusso, storia di un artista – non inizia neanche a lavorare. Se il metodo dell’impersonalità aveva trovato efficace applicazione nella descrizione del semplice mondo di Aci Trezza, già nel gradino superiore, quello del borghese Gesualdo, l’autore aveva compiuto un percorso di «riappropriazione della scrittura» (Mazzacurati 1998, p. 19). I romanzi successivi avrebbero dovuto affrontare mondi di maggiore complessità, che necessitavano dell’ulteriore ricerca di un nuovo “linguaggio”. Verga non riuscì proprio in ciò che era una delle regole della rappresentazione del reale, adattare la forma e la “voce” della narrazione al contenuto (Mazzacurati 1998, pp. 69-87).

Contrastato dalle nuove tendenze della reazione idealistica e spirituale di fine Novecento, il Verismo ha ormai consumato la sua esperienza, ma fra i suoi più tardivi frutti siciliani – una regionalizzazione delle esperienze è una delle caratteristiche salienti del Verismo post-verghiano – va citato I Viceré (1894), capolavoro di Federico De Roberto, nato a Napoli nel 1861 ma di origini isolane e presto stabilitosi  a Catania, dove muore nel 1927. Il romanzo abbraccia trent’anni di storia siciliana (dal 1855 al 1882) attraverso la vicenda della famiglia nobiliare degli Uzeda, che fra prepotenze ed egoismo si conclude con l’approdo del principe Consalvo al Parlamento italiano. Nel 1929 uscirà postumo e incompiuto L’Imperio, seguito del romanzo maggiore, mentre già nel 1891 De Roberto aveva pubblicato L’illusione, di cui era protagonista la cugina di Consalvo, Teresa.

Le opere maggiori di Verga sopravvivono a momenti di indifferenza e scarsa considerazione critica: ai maestri dello «stile di cose» si ritorna sempre, aveva detto Pirandello. Anche Verga sopravvive alla stagione verista, ma appartato nella sua Catania in cui è stabilmente rientrato per questioni familiari che lo tengono spesso lontano dalla scrittura: il ritorno e il silenzio vanno di pari passo. Muore il 27 gennaio 1922.

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3 – Luigi Pirandello: dal Caos al mondo

3.1 – Figlio del Caos
«Figlio del Caos»: così si autodefinisce Luigi Pirandello, perché nato il 28 giugno 1867 in una casa di campagna in cui la madre si è ritirata per sfuggire al colera, fra Girgenti (Agrigento) e Porto Empedocle, chiamata in dialetto Càvusu, «corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco Xáos» (Pirandello, 1960, p. 1241). La ricostruzione filologica in realtà non sembra corretta – “càvusu” in dialetto significa “pantaloni” – e la denominazione Caos era stata adottata in funzione nobilitante (Camilleri 2000, p. 16). Pirandello non può non saperlo ma accetta questo “gioco” fra filologia e dialetto, i suoi campi di studio universitario, da una parte mostrando il desiderio di costruire la propria figura di letterato attraverso questa classicheggiante rinominazione del luogo di nascita, dall’altra tradendo al tempo stesso un’ironica tendenza a sminuire una certa, dannunziana “monumentalizzazione” dello scrittore e della sua opera, che comunque lui stesso concretizzerà nelle edizioni complete dei testi teatrali (Maschere nude, dal 1918) e delle novelle (Novelle per un anno, dal 1922), non semplici raccolte ma vere e proprie architetture d’autore. Che questo frammento autobiografico sia datato 1893, anno in cui il nome di Pirandello è ancora pressoché sconosciuto, indica quanto precoce sia quella che si rivelerà una costante del suo atteggiamento, l’alternanza fra spregio della gloria e necessaria autopromozione, dettata a volte da banali motivi economici, ma più profondamente da una forte volontà di affermarsi costruita sulla piena coscienza del proprio valore.

Volontà di affermarsi, lo abbiamo detto, significa abbandono della Sicilia, meno sofferto che in Verga anche per i contrasti col padre Stefano, commerciante di zolfo. Una partenza tanto desiderata da dare vita, ancora nel frammento del ’93, a quella che sembra una vera e propria invenzione autobiografica: una avventurosa fuga a Como, dove il giovane Luigi avrebbe anche frequentato una delle classi liceali. Ma nei registri delle scuole comasche non c’è traccia del suo nome (Camilleri 2000, pp. 71-72) e Pirandello negherà l’episodio negli anni successivi. Nel 1887 si verifica l’abbandono certo e definitivo della Sicilia: Luigi si trasferisce a Roma per frequentare l’Università, ma a causa di un contrasto col preside della Facoltà di Lettere ne viene espulso due anni dopo. Continua gli studi a Bonn, spinto dall’interesse per la filologia romanza, disciplina in cui si laurea nel 1891, con la tesi Suoni e sviluppi di suono nella parlata di Girgenti, a conferma del persistente interesse per la cultura popolare della propria terra, ma anche della necessità di indagare il mondo siciliano a distanza, dai più avanzati osservatòri culturali europei. Rientrato in Italia Pirandello si stabilisce definitivamente nella capitale, imponendo anzi la residenza romana come condizione necessaria ad acconsentire al matrimonio con Maria Antonietta Portulano, la cui dote gli assicura l’indipendenza economica e quindi la possibilità di dedicarsi alla letteratura.

Numerosi sono gli scritti in ogni campo, dalla poesia alla saggistica, dalla narrativa al teatro, ma il successo tarda ad arrivare. Vedono la luce anche due romanzi “siciliani”, per ambientazione e tematiche, L’esclusa (1901) e Il turno (1902). Soprattutto nel primo – storia di una donna emarginata perché ingiustamente accusata di adulterio, poi reintegrata nel corpo civile proprio quando l’adulterio è stato segretamente commesso – compare il tema dell’identità sociale che a ogni persona viene appiccicata come una maschera. Strapparsi la maschera è il gesto (apparentemente) liberatorio con cui Mattia Pascal diventa Adriano Meis.

3.2 – «Storie di vermucci»
Il tracollo economico che colpisce la famiglia Pirandello nel 1903 a causa dell’allagamento di una zolfara in cui era stata investita la dote di Maria Antonietta – che da questo momento inizia ad accusare problemi psicologici sempre più gravi – costringe Luigi a moltiplicare il proprio impegno letterario per rimpinguare il magro stipendio di insegnante. Anche da questa urgenza nasce Il fu Mattia Pascal (1904), primo – e unico, fino al fatidico 1921 – successo di pubblico, presto tradotto in francese e tedesco e «primo romanzo italiano compiutamente moderno, in linea con la sperimentazione europea contemporanea» (Polacco 2011, p. 49), anche grazie all’affrancamento dallo scenario siciliano che è al tempo stesso un sottrarsi a una tradizione incarnata dai maestri isolani, Capuana in primis (Mazzacurati 1998, p. 121).

Questa la storia, raccontata dallo stesso protagonista una volta che si è conclusa la vicenda. Approfittando di un equivoco, Mattia si finge morto per fuggire da una vita diventata prigione, le cui sbarre erano state saldamente inchiodate non tanto da una moglie che non ama e da una suocera che lo disprezza, quanto dalla sua inettitudine. Assunta l’identità di Adriano Meis, gode inizialmente della libertà ritrovata: viaggia a lungo, per poi fermarsi a Roma presso la pensione di Anselmo Paleari, portavoce filosofico dell’autore, che lo invita a riflettere sulla piccolezza e l’insensatezza della vita umana. Cosa succederebbe se durante una rappresentazione di marionette, nel momento culminante del dramma, quando l’Oreste sofocleo sta compiendo la sua tragica vendetta sulla madre e il suo amante, «si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino»? «Oreste […] diventerebbe Amleto» (Pirandello 1993, pp. 164-165), prendendo coscienza di ciò che sta oltre quel cielo, dell’inanità del suo gesto di fronte alla grandezza dell’universo. Il senso del tragico non può esistere nel mondo moderno, perché l’uomo non è più al centro della scena. Siamo solo «vermucci» su un granello di sabbia, aveva detto il vecchio Mattia al momento di intraprendere la narrazione, istruito dalle parole di Paleari e dalla propria personale vicenda, che lo aveva condotto a una seconda finta morte, necessaria per uscire dai panni di Adriano Meis – identità che, pur fittizia, per essere mantenuta avrebbe dovuto di nuovo essere ingabbiata negli schemi imposti dalla società – e rientrare in quelli di Mattia Pascal. Che però, morto vivente, non può (né vuole) più riprendersi la vita di prima e si ritira in una polverosa biblioteca a guardare vivere gli altri.

La pluralità delle identità compresenti in ogni uomo – teoria scientifica cui Pirandello si avvicina grazie a Les altérations de la personnalité (1892) di Alfred Binet, che influenzò anche il lavoro di Marcel Proust (Macchia 1981, pp. 147-161) – dà vita a una trama fatta di vicende tradizionali inserite in una struttura innovativa, frammentata e intervallata da una riflessione filosofica che andrà poi a formare il nucleo centrale del saggio L’umorismo (1908), anche attraverso un vero e proprio travaso di pagine, secondo una modalità di economicità del lavoro tipicamente pirandelliana. L’opera umoristica si distingue da quella comica in quanto, attraverso l’intervento della riflessione, permette il passaggio dall’avvertimento del contrario (vediamo una vecchia signora truccata e agghindata in maniera ridicola per la sua età, e ridiamo di lei) al sentimento del contrario (pensando che la vecchia signora si comporta così per paura di perdere il giovane marito, la compassione per la sua sofferenza ci smorza il riso sulle labbra). Anche nell’esempio riportato emerge in primo piano l’idea della maschera che ognuno di noi porta sul viso per potere vivere in società.

Si concretizza così la dialettica fra Forma – la rigida impalcatura sociale – e Vita – il fluire inarrestabile che da questa impalcatura vorrebbe liberarsi – una delle formule critiche più diffuse per commentare l’opera di Pirandello, tanto da essere diventata essa stessa quasi una gabbia. Mattia ha cercato di strapparsi definitivamente la maschera, ma alla fine è dovuto tornare sui suoi passi. Più radicale la vicenda di Vitangelo Moscarda in Uno, nessuno e centomila, romanzo pubblicato in volume nel 1926 ma a cui Pirandello lavora fin dal 1909. La banale osservazione di un lieve difetto fisico di cui mai si era accorto – il suo naso pende verso destra – spinge Vitangelo a mettere radicalmente in crisi la propria identità, che ora coglie spezzettata nelle innumerevoli visioni che gli altri hanno di lui. Cancellare questi frammenti, che proprio perché così numerosi non possono essere ricomposti in unità, diventa lo scopo del protagonista, che arriverà, come Mattia, a isolarsi dal consorzio umano, ma in una dimensione di immersione nella Natura e nel flusso vitale che è un ritorno al Caos primigenio. Quindi, secondo la “filologicamente” falsata autobiografia del ’93, un ritorno a casa.

3.3 – Il teatro e il mondo
Il teatro porta Pirandello alla fama mondiale, tanto che egli stesso segue la rappresentazione di alcune sue commedie negli Stati Uniti e in Sud America, oltre che in molti paesi europei. L’opera che, dopo una prima accoglienza contrastata, decreta questo trionfo è Sei personaggi in cerca d’autore (prima rappresentazione nel 1921), in cui per la prima volta si realizza la cancellazione dei confini fra palcoscenico e platea, inaugurando così la trilogia del “teatro nel teatro” (completata da Ciascuno a suo modo, 1924, e Questa sera si recita a soggetto, 1930). Sei personaggi si recano da un Capocomico chiedendogli di mettere in scena la triste storia della loro vita. Il personaggio infatti è una creatura autonoma che, una volta uscita dalla mente dell’autore, può ribellarsi a una rappresentazione della propria storia che non lo soddisfa. Ma la tragedia dei sei personaggi sta proprio nel fatto che nel mondo moderno, come già visto nel Fu Mattia Pascal, il “tragico” non può trovare adeguata rappresentazione, perché l’emozione e la passione si stemperano nell’acqua ghiacciata della riflessione e la distanza umoristica dagli eventi narrati – concretizzata nello svelamento dell’artificialità e falsità della macchina teatrale – impedisce l’identificazione dello spettatore coi personaggi stessi.

Anche quando un testo viene espressamente definito “tragedia”, come accade per Enrico IV (1922), l’indicazione è da leggere con animo di umoristi. L’antica tragedia infatti, di cui il testo recupera ambientazioni e costumi, è solo una farsa messa in piedi per compiacere la follia del protagonista – come abbiamo visto tema autobiografico a causa della malattia della moglie – che, in seguito a una caduta da cavallo, da vent’anni è convinto di essere l’imperatore penitente Enrico IV. Ma la farsa è al quadrato, perché il falso Enrico ha in realtà da lungo tempo ritrovato il senno, pur continuando a fingersi pazzo per comodità e desiderio di vendetta verso i presunti amici che hanno inscenato quella grottesca rappresentazione, in cui gli eventi finiranno per imprigionarlo per sempre.

La rivoluzione di Pirandello – che influenzerà i più grandi drammaturghi novecenteschi – coinvolge tutti gli aspetti del mondo teatrale. Egli infatti cura fin nei minimi dettagli la messa in scena delle proprie opere, dagli aspetti della recitazione a quelli tecnici, tanto da potere essere indicato come l’iniziatore del teatro di regia in Italia. Dal 1925 assumerà anche la direzione artistica del Teatro d’Arte di Roma.
Le vicende biografiche degli ultimi quindici anni di vita sono influenzate dall’internamento della moglie per l’aggravarsi dei disturbi psicologici. Il non doversi più occupare quotidianamente della donna gli regala una nuova, pur sofferta, libertà di movimento e sentimentale (di questi anni il rapporto con l’attrice Marta Abba), accresciuta anche dalla fama mondiale raggiunta col teatro. L’adesione al fascismo nel 1924, entusiasta e sbandierata com’è in una lettera pubblica – poi sempre meno convinta col passare degli anni – sembra iscriversi in questo clima di accresciuta visibilità, di spettacolarizzazione della propria vita. Sono gli anni dei grandi miti, lavoro che culminerà nell’incompiuto I giganti della montagna, opera-testamento rappresentata postuma.

Il 10 dicembre 1934 riceve il premio Nobel. Il monumento di sé è ormai eretto: «Pirandello è l’unico scrittore italiano del Novecento che sia famoso in tutto il mondo» (Luperini 1999, p. 173). Ma, ancora una volta umoristico profeta della propria vicenda biografico-letteraria, appena un anno prima del Nobel Pirandello aveva messo in scena Quando si è qualcuno, storia di un letterato che, ormai vecchio e venerato, cerca di ribellarsi all’immagine che critici e pubblico hanno di lui e del suo lavoro. Ma la ribellione è vana e il “poeta laureato” non può che trasformarsi in uomo-statua: freddo, immobile, senza vita.
L’«involontario soggiorno sulla Terra» di Pirandello, come lui stesso definì la propria vita nell’abbozzo di un romanzo autobiografico (Pirandello 1960, pp. 1061-1069), si conclude a Roma il 10 dicembre 1936.

Michele Righini

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Bibliografia

Testi

Capuana L. (1988), Giacinta. Secondo la prima edizione del 1879, Milano, Mondadori.
De Roberto F. (2011), I Viceré, Milano, Feltrinelli.
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