Uno, nessuno e centomila – Libro Terzo

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 I. Pazzie per forza     

            Ma voglio dirvi prima, almeno in succinto, le pazzie che cominciai a fare per scoprire tutti quegli altri Moscarda che vivevano nei miei più vicini conoscenti, e distruggerli a uno a uno.

            Pazzie per forza. Perché, non avendo mai pensato finora a costruire di me stesso un Moscarda che consistesse a’ miei occhi e per mio conto in un modo d’essere che mi paresse da distinguere come a me proprio e particolare, s’intende che non mi era possibile agire con una qualche logica coerenza. Dovevo a volta a volta dimostrarmi il contrario di quel che ero o supponevo d’essere in questo e in quello dei miei conoscenti, dopo essermi sforzato di comprendere la realtà che m’avevano data: meschina, per forza, labile, volubile e quasi inconsistente.

            Però ecco: un certo aspetto, un certo senso, un certo valore dovevo pur averlo per gli altri, oltre che per le mie fattezze fuori della veduta mia e della mia estimativa, anche per tante cose a cui finora non avevo mai pensato.

            Pensarci e sentire un impeto di feroce ribellione fu tutt’uno.

 II. Scoperte 

            Il nome, sia: brutto fino alla crudeltà. Moscarda. La mosca, e il dispetto del suo aspro fastidio ronzante.

            Non aveva mica un nome per sé il mio spirito, né uno stato civile: aveva tutto un suo mondo dentro; e io non bollavo ogni volta di quel mio nome, a cui non pensavo affatto, tutte le cose che mi vedevo dentro e intorno. Ebbene, ma per gli altri io non ero quel mondo che portavo dentro di me senza nome, tutto intero, indiviso e pur vario. Ero invece, fuori, nel loro mondo, uno – staccato – che si chiamava Moscarda, un piccolo e determinato aspetto di realtà non mia, incluso fuori di me nella realtà degli altri e chiamato Moscarda.

            Parlavo con un amico: niente di strano: mi rispondeva; lo vedevo gestire; aveva la sua solita voce, riconoscevo i suoi soliti gesti; e anch’egli, standomi a sentire se gli parlavo, riconosceva la mia voce e i miei gesti. Nulla di strano, si, ma finché io non pensavo che il tono che aveva per me la voce del mio amico non era affatto lo stesso di quella ch’egli si conosceva, perché forse il tono della sua voce egli non se lo conosceva nemmeno, essendo quella, per lui, la sua voce; e che il suo aspetto era quale io lo vedevo, cioè quello che gli davo io, guardandolo da fuori, mentre lui, parlando, non aveva davanti alla mente, certo, nessuna immagine di se stesso, neppur quella che si dava e si riconosceva guardandosi allo specchio.

            Oh Dio, e che avveniva allora di me? avveniva lo stesso della mia voce? del mio aspetto? Io non ero più un indistinto io che parlava e guardava gli altri, ma uno che gli altri invece guardavano, fuori di loro, e che aveva un tono di voce e un aspetto ch’io non mi conoscevo. Ero per il mio amico quello che egli era per me: un corpo impenetrabile che gli stava davanti e ch’egli si rappresentava con lineamenti a lui ben noti, i quali per me non significavano nulla; tanto vero che non ci pensavo nemmeno, parlando, né potevo vedermeli né saper come fossero; mentre per lui erano tutto, in quanto gli rappresentavano me quale ero per lui, uno tra tanti: Moscarda. Possibile? E Moscarda era tutto ciò che esso diceva e faceva in quel mondo a me ignoto; Moscarda era anche la mia ombra; Moscarda se lo vedevano mangiare; Moscarda, se lo vedevano fumare; Moscarda, se andava a spasso; Moscarda, se si soffiava il naso.

            Non lo sapevo, non ci pensavo, ma nel mio aspetto, cioè in quello che essi mi davano, in ogni mia parola che sonava per loro con una voce ch’io non potevo sapere, in ogni mio atto interpretato da ciascuno a suo modo, sempre c’erano per gli altri impliciti il mio nome e il mio corpo.

            Se non che, ormai, per quanto potesse parermi stupido e odioso essere bollato così per sempre e non potermi dare un altro nome, tanti altri a piacere, che s’accordassero a volta a volta col vario atteggiarsi de’ miei sentimenti e delle mie azioni; pure ormai, ripeto, abituato com’ero a portar quello fin dalla nascita, potevo non farne gran caso, e pensare che io infine non ero quel nome; che quel nome era per gli altri un modo di chiamarmi, non bello ma che avrebbe potuto tuttavia essere anche più brutto. Non c’era forse un Sardo a Richieri che si chiamava Porcu? Sì.

            – Signor Porcu…

            E non rispondeva mica con un grugnito.

            – Eccomi, a servirla…

            Pulito pulito e sorridente rispondeva. Tanto che uno quasi si vergognava di doverlo chiamare così.

            Lasciamo dunque il nome, e lasciamo anche le fattezze, benché pure – ora che davanti allo specchio mi s’era duramente chiarita la necessità di non poter dare a me stesso un’immagine di me diversa da quella con cui mi rappresentavo – anche queste fattezze sentivo estranee alla mia volontà e contrarie dispettosamente a qualunque desiderio potesse nascermi d’averne altre, che non fossero queste, cioè questi capelli così, di questo colore, questi occhi così, verdastri, e questo naso e questa bocca; lasciamo, dico, anche le fattezze, perché alla fin fine dovevo riconoscere che avrebbero potuto essere anche mostruose e avrei dovuto tenermele e rassegnarmi a esse, volendo vivere; non erano, e dunque via, dopo tutto, potevo anche accontentarmene.

            Ma le condizioni? dico le condizioni mie che non dipendevano da me? le condizioni che mi determinavano, fuori di me, fuori d’ogni mia volontà? le condizioni della mia nascita, della mia famiglia? Non me l’ero mai poste davanti, io, per valutarle come potevano valutarle gli altri, ciascuno a suo modo, s’intende, con una sua particolar bilancia, a peso d’invidia, a peso d’odio o di sdegno o che so io.

            M’ero creduto finora un uomo nella vita. Un uomo, così, e basta. Nella vita. Come se in tutto mi fossi fatto da me. Ma come quel corpo non me l’ero fatto io, come non me l’ero dato io quel nome, e nella vita ero stato messo da altri senza mia volontà; così, senza mia volontà, tant’altre cose m’erano venute sopra dentro intorno, da altri; tant’altre cose m’erano state fatte, date da altri, a cui effettivamente io non avevo mai pensato, mai dato immagine, l’immagine strana, nemica, con cui mi s’avventavano adesso.

            La storia della mia famiglia! La storia della mia famiglia nel mio paese: non ci pensavo; ma era in me, questa storia, per gli altri; io ero uno, l’ultimo di questa famiglia; e ne avevo in me, nel corpo, lo stampo e chi sa in quante abitudini d’atti e di pensieri, a cui non avevo mai riflettuto, ma che gli altri riconoscevano chiaramente in me, nel mio modo di camminare, di ridere, di salutare. Mi credevo un uomo nella vita, un uomo qualunque, che vivesse così alla giornata una scioperata vita in fondo, benché piena di curiosi pensieri vagabondi; e no, e no: potevo essere per me uno qualunque, ma per gli altri no; per gli altri avevo tante sommarie determinazioni, ch’io non m’ero date né fatte e a cui non avevo mai badato; e quel mio poter credermi un uomo qualunque, voglio dire quel mio stesso ozio, che credevo proprio mio, non era neanche mio per gli altri: m’era stato dato da mio padre, dipendeva dalla ricchezza di mio padre; ed era un ozio feroce, perché mio padre…

            Ah, che scoperta! Mio padre… La vita di mio padre…

 III. Le radici 

            M’appare. Alto, grasso, calvo. E nei limpidi quasi vitrei occhi azzurrini il solito sorriso gli brillava per me, d’una strana tenerezza, ch’era un po’ compatimento, un po’ derisione anche, ma affettuosa, come se in fondo gli piacesse ch’io fossi tale da meritarmela, quella sua derisione, considerandomi quasi un lusso di bontà che impunemente egli si potesse permettere.

            Se non che, questo sorriso, nella barba folta, così rossa e così fortemente radicata che gli scoloriva le gote, questo sorriso sotto i grossi baffi un po’ ingialliti nel mezzo, era a tradimento, ora, una specie di ghigno muto e frigido, lì nascosto; a cui non avevo mai badato. E quella tenerezza per me, affiorando e brillando negli occhi da quel ghigno nascosto, m’appariva ora orribilmente maliziosa: tante cose mi svelava a un tratto che mi fendevano di brividi la schiena. Ed ecco, lo sguardo di quegli occhi vitrei mi teneva, mi teneva affascinato per impedirmi di pensare a queste cose, di cui pure era fatta la sua tenerezza per me, ma che pure erano orribili.

            «Ma se tu eri e sei ancora uno sciocco… sì, un povero ingenuo sventato, che te ne vai appresso ai tuoi pensieri, senza mai fermarne uno per fermarti; e mai un proposito non ti sorge, che tu non ti ci metta a girare attorno, e tanto te lo guardi che infine ti ci addormenti, e il giorno appresso apri gli occhi, te lo vedi davanti e non sai più come ti sia potuto sorgere se jeri c’era quest’aria e questo sole; per forza, vedi, io ti dovevo voler bene così. Le mani? che mi guardi? ah, questi peli rossi qua, anche sul dorso delle dita? gli anelli… troppi? e questa grossa spilla alla cravatta, e anche la catena dell’orologio… Troppo oro? che mi guardi?»

            Vedevo stranamente la mia angoscia distrarsi con sforzo da quegli occhi, da tutto quell’oro e affiggersi in certe venicciuole azzurrognole che gli trasparivano serpeggianti sù sù per la pallida fronte con pena, sul lucido cranio contornato dai capelli rossi, rossi come i miei – cioè, i miei come i suoi – e che miei dunque, se così chiaramente m’erano venuti da lui? E quel lucido cranio a poco a poco, ecco, mi svaniva davanti come ingojato nel vano dell’aria.

            Mio padre!

            Nel vano, ora, un silenzio esterrefatto, grave di tutte le cose insensate e informi, che stanno nell’inerzia mute e impenetrabili allo spirito.

            Fu un attimo, ma l’eternità. Vi sentii dentro tutto lo sgomento delle necessità cieche, delle cose che non si possono mutare: la prigione del tempo; il nascere ora, e non prima e non poi; il nome e il corpo che ci è dato; la catena delle cause; il seme gettato da quell’uomo: mio padre senza volerlo; il mio venire al mondo, da quel seme; involontario frutto di quell’uomo; legato a quel ramo; espresso da quelle radici.

 IV. Il seme 

            Vidi allora per la prima volta mio padre come non lo avevo mai veduto: fuori, nella sua vita; ma non com’era per sé, come in sé si sentiva, ch’io non potevo saperlo; ma come estraneo a me del tutto, nella realtà che, tal quale egli ora m’appariva, potevo supporre gli dessero gli altri.

            A tutti i figli sarà forse avvenuto. Notare come alcunché d’osceno che ci mortifica, laddove è il padre per noi che si rispetta. Notare, dico, che gli altri non dànno e non possono dare a questo padre quella stessa realtà che noi gli diamo. Scoprire com’egli vive ed è uomo fuori di noi, per sé, nelle sue relazioni con gli altri, se questi altri, parlando con lui o spingendolo a parlare, a ridere, a guardare, per un momento si dimentichino che noi siamo presenti, e così ci lascino intravedere l’uomo eh’essi conoscono in lui, l’uomo ch’egli è per loro. Un altro. E come? Non si può sapere. Subito nostro padre ha fatto un cenno, con la mano o con gli occhi, che ci siamo noi. E quel piccolo cenno furtivo, ecco, ci ha scavato in un attimo un abisso dentro. Quello che ci stava tanto vicino, eccolo balzato lontano e intravisto là come un estraneo. E sentiamo la nostra vita come lacerata tutta, meno che in un punto per cui resta attaccata ancora a quell’uomo. E questo punto è vergognoso. La nostra nascita staccata, recisa da lui, come un caso comune, forse previsto, ma involontario nella vita di quell’estraneo, prova d’un gesto, frutto d’un atto, alcunché insomma che ora, sì, ci fa vergogna, ci suscita sdegno e quasi odio. E se non propriamente odio, un certo acuto dispetto notiamo anche negli occhi di nostro padre, che in quell’attimo si sono scontrati nei nostri. Siamo per lui, lì ritti in piedi, e con due vigili occhi ostili, ciò che egli dallo sfogo d’un suo momentaneo bisogno o piacere, non si aspettava: quel seme gettato ch’egli non sapeva, ritto ora in piedi e con due occhi fuoruscenti di lumaca che guardano a tentoni e giudicano e gl’impediscono d’essere ancora in tutto a piacer suo, libero, un altro anche rispetto a noi.

 V. Traduzione d’un titolo 

            Non l’avevo mai finora staccato così da me mio padre. Sempre l’avevo pensato, ricordato come padre, qual era per me; ben poco veramente, ché morta giovanissima mia madre, fui messo in un collegio lontano da Richieri, e poi in un altro, e poi in un terzo ove rimasi fino ai diciott’anni, e andai poi all’università e vi passai per sei anni da un ordine di studii all’altro, senza cavare un pratico profitto da nessuno; ragion per cui alla fine fui richiamato a Richieri e subito, non so se in premio o per castigo, ammogliato. Due anni dopo mio padre morì senza lasciarmi di sé, del suo affetto altro ricordo più vivo che quel sorriso di tenerezza, ch’era – com’ho detto – un po’ compatimento, un po’ derisione.

            Ma ciò ch’era stato per sé? Moriva ora, mio padre, del tutto. Ciò ch’era stato per gli altri… È così poco per me! E gli veniva anche dagli altri, certo, dalla realtà che gli altri gli davano e ch’egli sospettava, quel sorriso per me… Ora l’intendevo e ne intendevo il perché, orribilmente.

            – Che cos’è tuo padre? – mi avevano tante volte domandato in collegio i miei compagni.

            E io:

            – Banchiere.

            Perché mio padre, per me, era banchiere.

            Se vostro padre fosse boja, come si tradurrebbe nella vostra famiglia questo titolo per accordarlo con l’amore che voi avete per lui e ch’egli ha per voi? oh, egli tanto tanto buono per voi, oh, io lo so, non c’è bisogno che me lo diciate; me lo immagino perfettamente l’amore d’un tal padre per il suo figliuolo, la tremante delicatezza delle sue grosse mani nell’abbottonargli la carnicina bianca attorno al collo. E poi, feroci domani, all’alba, quelle sue mani, sul palco. Perché anche un banchiere, me lo immagino perfettamente, passa dal dieci al venti e dal venti al quaranta per cento, man mano che cresce in paese con la disistima altrui la fama della sua usura, la quale peserà domani come un’onta sul suo figliuolo che ora non sa e si svaga dietro a strani pensieri, povero lusso di bontà, che davvero se lo meritava, ve lo dico io, quel sorriso di tenerezza, mezzo compatimento e mezzo derisione.

 VI. Il buon figliuolo feroce 

            Con gli occhi pieni dell’orrore di questa scoperta, ma velato l’orrore da un avvilimento, da una tristezza che pur mi atteggiavano le labbra a un sorriso vano, nel sospetto che nessuno potesse crederli e ammetterli in me davvero, io allora mi presentai davanti a Dida mia moglie.

            Se ne stava – ricordo – in una stanza luminosa, vestita di bianco e tutta avvolta entro un fulgore di sole, a disporre nel grande armadio laccato bianco e dorato a tre luci i suoi nuovi abiti primaverili.

            Facendo uno sforzo, acre d’onta segreta, per trovarmi in gola una voce che non paresse troppo strana, le domandai:

            – Tu lo sai, eh Dida, qual’è la mia professione?

            Dida, con una gruccia in mano da cui pendeva un abito di velo color isabella, si voltò a guardarmi dapprima, come se non mi riconoscesse. Stordita, ripetè:

            – La tua professione?

            E dovetti riassaporar l’agro di quell’onta per riprendere, quasi da un dilaceramento del mio spirito, la domanda che ne pendeva. Ma questa volta mi si sfece in bocca:

            – Già – dissi – che cosa faccio io?

            Dida, allora, stette un poco a mirarmi, poi scoppiò in una gran risata:

            – Ma che dici, Gengè?

            Si fracassò d’un tratto allo scoppio di quella risata il mio orrore, l’incubo di quelle necessità cieche in cui il mio spirito, nella profondità delle sue indagini, s’era urtato poc’anzi, rabbrividendo.

            Ah, ecco – un usurajo, per gli altri; uno stupido qua, per Dida mia moglie. Gengè io ero; uno qua, nell’animo e davanti agli occhi di mia moglie; e chi sa quant’altri Gengè, fuori, nell’animo o solamente negli occhi della gente di Richieri. Non si trattava del mio spirito, che si sentiva dentro di me libero e immune, nella sua intimità originaria, di tutte quelle considerazioni delle cose che m’erano venute, che mi erano state fatte e date dagli altri, e principalmente di questa del denaro e della professione di mio padre.

            No? E di chi si trattava dunque? Se potevo non riconoscer mia questa realtà spregevole che mi davano gli altri, ahimè dovevo pur riconoscere che se anche me ne fossi data una, io, per me, questa non sarebbe stata più vera, come realtà, di quella che mi davano gli altri, di quella in cui gli altri mi facevano consistere con quel corpo che ora, davanti a mia moglie, non poteva neanch’esso parermi mio, giacché se l’era appropriato quel Gengè suo, che or ora aveva detto una nuova sciocchezza per cui tanto ella aveva riso. Voler sapere la sua professione! E che non si sapeva?

            – Lusso di bontà… – feci, quasi tra me, staccando la voce da un silenzio che mi parve fuori della vita, perché, ombra davanti a mia moglie, non sapevo più donde io – io come io – le parlassi.

            – Che dici? – ripetè lei, dalla solidità certa della sua vita, con quell’abito color isabella sul braccio.

            E com’io non risposi, mi venne avanti, mi prese per le braccia e mi soffiò sugli occhi, come a cancellarvi uno sguardo che non era più di Gengè, di quel Gengè il quale ella sapeva che al pari di lei doveva fingere di non conoscere come in paese si traducesse il nome della professione di mio padre.

            Ma non ero peggio di mio padre, io? Ah! Mio padre almeno lavorava… Ma io! Che facevo io? Il buon figliuolo feroce. Il buon figliuolo che parlava di cose aliene (bizzarre anche): della scoperta del naso che mi pendeva verso destra: oppure dell’altra faccia della luna; mentre la così detta banca di mio padre, per opera dei due fidati amici Firbo e Quantorzo, seguitava a lavorare, prosperava. C’erano anche socii minori, nella banca, e anche i due fidati amici vi erano – come si dice – cointeressati, e tutto andava a gonfie vele senza ch’io me n’impicciassi punto, voluto bene da tutti quei consocii, da Quantorzo, come un figliuolo, da Firbo come un fratello; i quali tutti sapevano che con me era inutile parlar d’affari e che bastava di tanto in tanto chiamarmi a firmare; firmavo e quest’era tutto. Non tutto, perché anche di tanto in tanto qualcuno veniva a pregarmi d’accompagnarlo a Firbo o a Quantorzo con un bigliettino di raccomandazione; già! e io allora gli scoprivo sul mento una fossetta che glielo divideva in due parti non perfettamente uguali, una più rilevata di qua, una più scempia di là.

            Come non m’avevano finora accoppato? Eh, non m’accoppavano, signori, perché, com’io non m’ero finora staccato da me per vedermi, e vivevo come un cieco nelle condizioni in cui ero stato messo, senza considerare quali fossero, perché in esse ero nato e cresciuto e m’erano perciò naturali; così anche per gli altri era naturale ch’io fossi così; mi conoscevano così; non potevano pensarmi altrimenti, e tutti potevano ormai guardarmi quasi senz’odio e anche sorridere a questo buon figliuolo feroce.

            Tutti?

            Mi sentii a un tratto confitti nell’anima due paja d’occhi come quattro pugnali avvelenati: gli occhi di Marco di Dio e di sua moglie Diamante, che incontravo ogni giorno sulla mia strada, rincasando.

 VII. Parentesi necessaria, una per tutti 

            Marco di Dio e sua moglie Diamante ebbero la ventura d’essere (se ben ricordo) le prime mie vittime. Voglio dire, le prime designate all’esperimento della distruzione d’un Moscarda.

            Ma con qual diritto ne parlo? con qual diritto do qui aspetto e voce ad altri fuori di me? Che ne so io? Come posso parlarne? Li vedo da fuori, e naturalmente quali sono per me, cioè in una forma nella quale certo essi non si riconoscerebbero. E non faccio dunque agli altri lo stesso torto di cui tanto mi lamento io?

            Sì, certo; ma con la piccola differenza delle fissazioni, di cui ho già parlato in principio; di quel certo modo in cui ciascuno si vuole, costruendosi così o così, secondo come si vede e sinceramente crede di essere, non solo per sé, ma anche per gli altri. Presunzione, comunque, di cui bisogna pagar la pena.

            Ma voi, lo so, non vi volete ancora arrendere ed esclamate:

            – E i fatti? Oh, perdio, e non ci sono i dati di fatto?

            – Sì, che ci sono.

            Nascere è un fatto. Nascere in un tempo anziché in un altro, ve l’ho già detto; e da questo o da quel padre, e in questa o quella condizione; nascere maschio o femmina; in Lapponia o nel centro dell’Africa; e bello o brutto; con la gobba o senza gobba: fatti. E anche se perdete un occhio, è un fatto; e potete anche perderli tutti e due, e se siete pittore è il peggior fatto che vi possa capitare.

            Tempo, spazio: necessità. Sorte, fortuna, casi: trappole tutte della vita. Volete essere? C’è questo. In astratto non si è. Bisogna che s’intrappoli l’essere in una forma, e per alcun tempo si finisca in essa, qua o là, così o così. E ogni cosa, finché dura, porta con sé la pena della sua forma, la pena d’esser così e di non poter più essere altrimenti. Quello sbiobbo là, pare una burla, uno scherzo compatibile sì e no per un minuto solo e poi basta; poi dritto, sù, svelto, agile, alto…, ma che! sempre così, per tutta la vita che è una sola; e bisogna che si rassegni a passarla tutta tutta così.

            E come le forme, gli atti.

            Quando un atto è compiuto, è quello; non si cangia più. Quando uno, comunque, abbia agito, anche senza che poi si senta e si ritrovi negli atti compiuti, ciò che ha fatto, resta: come una prigione per lui. Se avete preso moglie,o anche materialmente, se avete rubato e siete stato scoperto; se avete ucciso, come spire e tentacoli vi avviluppano le conseguenze delle vostre azioni; e vi grava sopra, attorno, come un’aria densa, irrespirabile, la responsabilità che per quelle azioni e le conseguenze di esse, non volute o non previste, vi siete assunta. E come potete più liberarvi?

            Già. Ma che intendete dire con questo? Che gli atti come le forme determinano la realtà mia o la vostra? E come? perché? Che siano una prigione, nessuno può negare. Ma se volete affermar questo soltanto, state in guardia che non affermate nulla contro di me, perché io dico appunto e sostengo anzi questo, che sono una prigione e la più ingiusta che si possa immaginare.

            Mi pareva, santo Dio, d’avervelo dimostrato! Conosco Tizio. Secondo la conoscenza che ne ho, gli do una realtà: per me. Ma Tizio lo conoscete anche voi, e certo quello che conoscete voi non è quello stesso che conosco io, perché ciascuno di noi lo conosce a suo modo e gli dà a suo modo una realtà. Ora anche per se stesso Tizio ha tante realtà per quanti di noi conosce, perché in un modo si conosce con me e in un altro con voi e con un terzo, con un quarto e via dicendo. Il che vuol dire che Tizio è realmente uno con me, uno con voi, un altro con un terzo, un altro con un quarto e via dicendo, pur avendo l’illusione anche lui, anzi lui specialmente, d’esser uno per tutti. Il guajo è questo;o lo scherzo, se vi piace meglio chiamarlo così. Compiamo un atto. Crediamo in buona fede d’esser tutti in quell’atto. Ci accorgiamo purtroppo che non è così, e che l’atto è invece sempre e solamente dell’uno dei tanti che siamo o che possiamo essere, quando, per un caso sciaguratissimo, all’improvviso vi restiamo come agganciati e sospesi: ci accorgiamo, voglio dire, di non essere tutti in quell’atto, e che dunque un’atroce ingiustizia sarebbe giudicarci da quello solo, tenerci agganciati e sospesi a esso, alla gogna, per un’intera esistenza, come se questa fosse tutta assommata in quell’atto solo.

            – Ma io sono anche questo, e quest’altro, e poi quest’altro! – ci mettiamo a gridare.

            Tanti, eh già; tanti ch’erano fuori dell’atto di quell’uno, e che non avevano nulla o ben poco da vedere con esso. Non solo; ma quell’uno stesso, cioè quella realtà che in un momento ci siamo data e che in quel momento ha compiuto l’atto, spesso poco dopo è sparito del tutto; tanto vero che il ricordo dell’atto resta in noi, se pure resta, come un sogno angoscioso, inesplicabile. Un altro, dieci altri, tutti quegli altri che noi siamo o possiamo essere, sorgono a uno a uno in noi a domandarci come abbiamo potuto far questo; e non ce lo sappiamo più spiegare.

            Realtà passate.

            Se i fatti non sono tanto gravi, queste realtà passate le chiamiamo disinganni. Sì, va bene; perché veramente ogni realtà è un inganno. Proprio quell’inganno per cui ora dico a voi che n’avete un altro davanti.

            – Voi sbagliate!

            Siamo molto superficiali, io e voi. Non andiamo ben addentro allo scherzo, che è più profondo e radicale, cari miei. E consiste in questo: che l’essere agisce necessariamente per forme, che sono le apparenze ch’esso si crea, e a cui noi diamo valore di realtà. Un valore che cangia, naturalmente, secondo l’essere in quella forma e in quell’atto ci appare.

            E ci deve sembrare per forza che gli altri hanno sbagliato; che una’ data forma, un dato atto non è questo e non è così. Ma inevitabilmente, poco dopo, se ci spostiamo d’un punto, ci accorgiamo che abbiamo sbagliato anche noi, e che non è questo e non è così; sicché alla fine siamo costretti a riconoscere che non sarà mai né questo né così in nessun modo stabile e sicuro; ma ora in un modo ora in un altro, che tutti a un certo punto ci parranno sbagliati, o tutti veri, che è lo stesso; perché una realtà non ci fu data e non c’è, ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere: e non sarà mai unà per tutti, una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile. La facoltà d’illuderci che la realtà d’oggi sia la sola vera, se da un canto ci sostiene, dall’altro ci precipita in un vuoto senza fine, perché la realtà d’oggi è destinata a scoprircisi illusione domani. E la vita non conclude. Non può concludere. Se domani conclude, è finita.

 VIII. Caliamo un poco

            Vi pare che l’abbia presa troppo alta? E caliamo un poco. La palla è elastica; ma per rimbalzare bisogna che tocchi terra. Tocchiamo terra e facciamola rivenire alla mano.

            Di quali fatti volete parlare? Del fatto ch’io sono nato, anno tale, mese tale, giorno tale, nella nobile città di Richieri, nella casa in via tale, numero tale, dal signor Tal dei Tali e dalla signora Tal dei Tali; battezzato nella chiesa madre di giorni sei; mandato a scuola d’anni sei; ammogliato d’anni ventitré; alto di statura un metro e sessantotto; rosso di pelo, ecc. ecc.?

            Sono i miei connotati. Dati di fatto, dite voi. E vorreste desumerne la mia realtà? Ma questi stessi dati che per sé non dicono nulla, credete che importino una valutazione uguale per tutti? E quand’anche mi rappresentassero intero e preciso, dove mi rappresenterebbero? in quale realtà?

            Nella vostra, che non è quella d’un altro; e poi d’un altro; e poi d’un altro. C’è forse una realtà sola, una per tutti? Ma se abbiamo visto che non ce n’è una neanche per ciascuno di noi, poiché in noi stessi la nostra cangia di continuo! E allora?

            Ecco qua, terra terra. Siete in cinque? Venite con me.

            Questa è la casa in cui sono nato, anno tale, mese tale, giorno tale. Ebbene, dal fatto che topograficamente e per l’altezza e la lunghezza e il numero delle finestre poste qua sul davanti questa casa è la stessa per tutti; dal fatto che io per tutti voi cinque vi sono nato, anno tale, mese tale, giorno tale, rosso di pelo e alto ora un metro e sessantotto, segue forse che voi tutti e cinque diate la stessa realtà a questa casa e a me? A voi che abitate una catapecchia, questa casa sembra un bel palazzo; a voi che avete un certo gusto artistico, sembra una volgarissima casa; voi che passate malvolentieri per la via dov’essa sorge perché vi ricorda un triste episodio della vostra vita, la guardate in cagnesco; voi, invece, con occhio affettuoso perché – lo so – qua dirimpetto abitava la vostra povera mamma che fu buona amica della mia.

            E io che vi sono nato? Oh Dio! Quand’anche per tutt’e cinque vojaltri in questa casa, che è una e cinque, fosse nato l’anno tale, il mese tale, il giorno tale un imbecille, credete che sia lo stesso imbecille per tutti? Sarò per l’uno imbecille perché lascio Quantorzo direttore della banca e Firbo consulente legale, cioè proprio per la ragione per cui mi stima avvedutissimo l’altro, che crede invece di veder lampante la mia imbecillità nel fatto che conduco a spasso ogni giorno la cagnolina di mia moglie, e così via.

            Cinque imbecilli. Uno in ciascuno. Cinque imbecilli che vi stanno davanti, come li vedete da fuori, in me che sono uno e cinque come la casa, tutti con questo nome di Moscarda, niente per sé, neanche uno, se serve a disegnar cinque differenti imbecilli che, sì, tutt’e cinque si volteranno se chiamate: – Moscarda! – ma ciascuno con quell’aspetto che voi gli date; cinque aspetti; se rido, cinque sorrisi, e via dicendo.

            E non sarà per voi, ogni atto ch’io compia, l’atto d’uno di questi cinque? E potrà essere lo stesso, quest’atto, se i cinque sono differenti? Ciascuno di voi lo interpreterà, gli darà senso e valore a seconda della realtà che m’ha data.

            Uno dirà:

            – Moscarda ha fatto questo.

            L’altro dirà:

            – Ma che questo! Ha fatto ben altro!

            E il terzo:

            – Per me ha fatto benissimo. Doveva fare così!

            Il quarto:

            – Ma che così e così! Ha fatto malissimo. Doveva fare invece…

            E il quinto:

            – Che doveva fare? Ma se non ha fatto niente!

            E sarete capaci d’azzuffarvi per ciò che Moscarda ha fatto o non ha fatto, per ciò che doveva o non doveva fare, senza voler capire che il Moscarda dell’uno non è il Moscarda dell’altro; credendo di parlare d’un Moscarda solo, che è proprio uno, sì, quello che vi sta davanti così e così, come voi lo vedete, come voi lo toccate; mentre parlate di cinque Moscarda; perché anche gli altri quattro ne hanno uno davanti, uno per ciascuno, che è quello solo, così e così, come ciascuno lo vede e lo tocca. Cinque; e sei, se il povero Moscarda si vede e si tocca uno anche per sé; uno e nessuno, ahimè, come egli si vede e si tocca, se gli altri cinque lo vedono e lo toccano altrimenti.

 IX. Chiudiamo la parentesi 

            Tuttavia mi sforzerò di darvi, non dubitate, quella realtà che voi credete d’avere; cioè a dire, di volervi in me come voi vi volete. Non è possibile, ormai lo sappiamo bene, giacché, per quanti sforzi io faccia di rappresentarvi a modo vostro, sarà sempre «un modo vostro» soltanto per me, non «un modo vostro» per voi e per gli altri.

            Ma scusate: se per voi io non ho altra realtà fuori di quella che voi mi date, e sono pronto a riconoscere e ad ammettere eh’essa non è meno vera di quella che potrei darmi io; che essa anzi per voi è la sola vera (e Dio sa che cos’è codesta realtà che voi mi date!); vorreste lamentarvi adesso di quella che vi darò io, con tutta la buona volontà di rappresentarvi quanto più mi sarà possibile a modo vostro?

            Non presumo che siate come vi rappresento io. Ho affermato già che non siete neppure quell’uno che vi rappresentate a voi stesso, ma tanti a un tempo, secondo tutte le vostre possibilità d’essere, e i casi, le relazioni e le circostanze. E dunque, che torto vi fo io? Me lo fate voi il torto, credendo ch’io non abbia o non possa avere altra realtà fuori di codesta che mi date voi; la quale è vostra soltanto, credete: una vostra idea, quella che vi siete fatta di me, una possibilità d’essere come voi la sentite, come a voi pare, come la riconoscete in voi possibile; giacché di ciò che possa essere io per me, non solo non potete saper nulla voi, ma nulla neppure io stesso.

 X. Due visite 

            E sono contento che or ora, mentre stavate a leggere questo mio libretto col sorriso un po’ canzonatorio che fin da principio ha accompagnato la vostra lettura, due visite, una dentro l’altra, siano venute improvvisamente a dimostrarvi quant’era sciocco quel vostro sorriso.

            Siete ancora sconcertato – vi vedo – irritato, mortificato della pessima figura che avete fatto col vostro vecchio amico, mandato via poco dopo sopravvenuto il nuovo, con una scusa meschina, perché non resistevate più a vedervelo davanti, a sentirlo parlare e ridere in presenza di quell’altro. Ma come? mandarlo via così, se poco prima che quest’altro arrivasse, vi compiacevate tanto a parlare e ridere con lui?

            Mandato via. Chi? Il vostro amico? Credete sul serio d’aver mandato via lui?

            Rifletteteci un poco.

            Il vostro vecchio amico, in sé e per sé, non aveva nessuna ragione d’esser mandato via, sopravvenendo il nuovo. I due, tra loro, non si conoscevano affatto; li avete presentati voi l’uno all’altro; e potevano insieme trattenersi una mezz’oretta nel vostro salotto a chiacchierare del più e del meno. Nessun imbarazzo né per l’uno né per l’altro.

            L’imbarazzo l’avete provato voi, e tanto più vivo e intollerabile, quanto più, anzi, vedevate quei due a poco a poco acconciarsi tra loro a fare accordo insieme. L’avete subito rotto, quell’accordo. Perché? Ma perché voi (non volete ancora capirlo?) voi, all’improvviso, cioè all’arrivo del vostro nuovo amico, vi siete scoperto due, uno così dall’altro diverso, che per forza a un certo punto, non resistendo più, avete dovuto mandarne via uno. Non il vostro vecchio amico, no; avete mandato via voi stesso, quell’uno che siete per il vostro vecchio amico, perché lo avete sentito tutt’ altro da quello che siete, o volete essere, per il nuovo.

            Incompatibili non erano tra loro quei due, estranei l’uno all’altro, garbatissimi entrambi e fatti fors’anche per intendersi a maraviglia; ma i due voi che all’improvviso avete scoperto in voi stesso. Non avete potuto tollerare che le cose dell’uno fossero mescolate con quelle dell’altro, non avendo esse propriamente nulla di comune tra loro. Nulla, nulla, giacché voi per il vostro vecchio amico avete una realtà e un’altra per il nuovo, così diverse in tutto da avvertire voi stesso che, rivolgendovi all’uno, l’altro sarebbe rimasto a guardarvi sbalordito; non vi avrebbe più riconosciuto; avrebbe esclamato tra sé:

            «Ma come? è questo? è così?».

            E nell’imbarazzo insostenibile di trovarvi, così, due, contemporaneamente, avete cercato una scusa meschina per liberarvi, non d’uno di loro, ma d’uno dei due che quei due vi costringevano a essere a un tempo.

            Sù sù, tornate a leggere questo mio libretto, senza più sorridere come avete fatto finora.

            Credete pure che, se qualche dispiacere ha potuto recarvi l’esperienza or ora fatta, quest’è niente, mio caro, perché voi non siete due soltanto, ma chi sa quanti, senza saperlo, e credendovi sempre uno.

            Andiamo avanti.

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Uno, nessuno e centomila – Indice

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Quaderno quarto

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