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««« Introduzione ai romanzi di Luigi Pirandello
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I. Complicazione
Fui invitato la mattina dopo con un bigliettino recato a mano ad andar subito in casa di Anna Rosa, l’amichetta di mia moglie che ho nominato una o due volte in principio, così di passata.
M’aspettavo che qualcuno cercasse di mettersi di mezzo per tentare la riconciliazione tra me e Dida; ma questo qualcuno nelle mie supposizioni doveva venire da parte di mio suocero e degli altri socii della banca, non direttamente da parte di mia moglie; già che l’unico ostacolo da rimuovere era la mia intenzione di liquidare la banca. Tra me e mia moglie non era avvenuto quasi nulla. Bastava ch’io dicessi ad Anna Rosa d’esser pentito sinceramente dello sgarbo fatto a Dida scrollandola e buttandola a sedere sulla poltrona del salotto, e la riconciliazione sarebbe avvenuta senz’altro.
Che Anna Rosa si fosse preso l’incarico di farmi recedere da quella intenzione, ponendolo come patto per il ritorno di mia moglie in casa, non mi parve in alcun modo ammissibile.
Sapevo da Dida che la sua amichetta aveva rifiutato parecchi matrimonii così detti vantaggiosi per disprezzo del danaro, attirandosi la riprovazione della gente assennata e anche di Dida che certo, sposando me (voglio dire il figlio d’un usurajo), aveva dovuto lasciare intendere alle sue amiche che lo faceva perché alla fin fine era un matrimonio «vantaggioso».
Per questo «vantaggio» da salvare Anna Rosa non poteva esser dunque l’avvocato più adatto.
Era da ammettere piuttosto il contrario: che Dida avesse ricorso a lei per ajuto, cioè per farmi sapere che il padre, d’accordo con gli altri socii, la tratteneva in casa e le impediva di ritornare a me se io non recedevo dall’intenzione di liquidare la banca. Ma conoscendo bene mia moglie, non mi parve ammissibile neppur questo.
Andai pertanto a quell’invito con una grande curiosità. Non riuscivo a indovinarne la ragione.
II. Primo avvertimento
Conoscevo poco Anna Rosa. L’avevo veduta parecchie volte in casa mia, ma essendomi sempre tenuto lontano, più per istinto che di proposito, dalle amiche di mia moglie, avevo scambiato con lei pochissime parole. Certi mezzi sorrisi, per caso sorpresi sulle sue labbra mentre mi guardava di sfuggita, mi erano sembrati così chiaramente rivolti a quella sciocca immagine di me che il Gengè di mia moglie Dida le aveva dovuto far nascere nella mente, che nessun desiderio m’era mai sorto d’intrattenermi a parlare con lei.
Non ero mai stato a casa sua.
Orfana di padre e di madre, abitava con una vecchia zia in quella casa che pare schiacciata dalle mura altissime della Badìa Grande: mura d’antico castello; dalle finestre con le grate inginocchiate da cui sul tramonto s’affacciano ancora le poche vecchie suore che vi sono rimaste. Una di quelle suore, la meno vecchia, era zia anch’essa di Anna Rosa, sorella del padre; ed era, dicono, mezza matta. Ma ci vuol poco a fare ammattire una donna, chiudendola in un monastero. Da mia moglie, che fu per tre anni educanda nel convento di San Vincenzo, so che tutte le suore, così le vecchie come le giovani, erano, chi per un verso e chi per un altro, mezze matte.
Non trovai in casa Anna Rosa. La vecchia serva che m’aveva recato il bigliettino, parlandomi misteriosamente dalla spia della porta senza aprirla, mi disse che la padroncina era sù alla Badìa, dalla zia monaca, e che andassi pure a trovarla là, chiedendo alla suora portinaja d’essere introdotto nel parlatorietto di Suor Celestina.
Tutto questo mistero mi stupì. E sul principio, anziché accrescere la mia curiosità, mi trattenne d’andare. Per quanto mi fosse possibile in quello stupore, avvertii il bisogno di riflettere prima sulla stranezza di quel convegno lassù alla Badìa in un parlatorietto di suora.
Ogni nesso tra la mia futile disavventura coniugale e quell’invito mi parve rotto, e subito rimasi apprensionito come per un’imprevista complicazione che avrebbe recato chi sa quali conseguenze alla mia vita.
Come tutti sanno a Richieri, poco mancò non mi recasse la morte. Ma qui mi piace ripetere ciò che già dissi davanti ai giudici, perché per sempre sia cancellato dall’animo di tutti il sospetto che allora la mia deposizione fosse fatta per salvare e mandare assolta d’ogni colpa Anna Rosa. Nessuna colpa da parte sua. Fui io, o piuttosto ciò che finora è stato materia di queste mie tormentose considerazioni, se l’improvvisa e inopinata avventura a cui quasi senza volerlo mi lasciai andare per un ultimo disperatissimo esperimento, rischiò d’avere una tal fine.
III. La rivoltella tra i fiori
Per una delle straducole a sdrucciolo della vecchia Richieri durante il giorno appestate dal lezzo della spazzatura marcita, andai sù alla Badìa.
Quando si sia fatta l’abitudine di vivere in un certo modo, andare in qualche luogo insolito e nel silenzio avvertire come un sospetto che ci sia qualcosa di misterioso a noi, da cui, pur lì presente, il nostro spiritò è condannato a restar lontano, è un’angoscia indefinita, perché si pensa che, se potessimo entrarci, forse la nostra vita si aprirebbe in chi sa quali sensazioni nuove, tanto da parerci di vivere in un altro mondo.
Quella Badìa, già castello feudale dei Chiaramonte, con quel portone basso tutto tarlato, e la vasta corte con la cisterna in mezzo, e quello scalone consunto, cupo e rintronante, che aveva il rigido delle grotte, e quel largo e lungo corridojo con tanti usci da una parte e dall’altra e i mattoni rosi del pavimento avvallato che lustravano alla luce del finestrone in fondo aperto al silenzio del cielo, tante vicende di casi e aspetti di vita aveva accolto in sé e veduto passare, che ora, nella lenta agonia di quelle poche suore che vi vagavano dentro sperdute, pareva non sapesse più nulla di sé. Tutto là dentro pareva ormai smemorato, nella lunghissima attesa della morte di quelle ultime suore, a una a una; perduta da gran tempo la ragione per cui, castello baronale, era stato dapprima costruito, divenuto poi per tanti secoli badìa.
La suora portinaja aprì uno di quegli usci nel corridojo e m’introdusse nel parlatorietto. Una campanella malinconica già era stata sonata da basso, forse per chiamare Suor Celestina.
Il parlatorietto era bujo, tanto che in prima non potei discernervi altro che la grata in fondo, appena intravista alla poca luce entrata dall’uscio nell’aprirlo. Rimasi in piedi, in attesa; e chi sa quanto ci sarei rimasto se alla fine una fievole voce dalla grata non m’avesse invitato ad accomodarmi, ché presto Anna Rosa sarebbe venuta sù dall’orto.
Non mi proverò a esprimere l’impressione che mi fece quella voce inattesa nel bujo, di là dalla grata. Mi folgorò in quel bujo il sole che doveva esserci in quell’orto della badìa, che non sapevo dove fosse, ma che certo doveva essere verdissimo; e d’improvviso mi s’illuminò in mezzo a quel verde la figura d’Anna Rosa come non l’avevo mai veduta, tutta un fremito di grazia e di malizia. Fu un baleno. Ritornò il bujo. O piuttosto, non il bujo, perché ora potevo discernere la grata, e davanti a quella grata un tavolino e due seggiole. In quella grata, il silenzio. Vi cercai la voce che mi aveva parlato, fievole ma fresca, quasi giovanile. Non c’era più nessuno. Eppure doveva essere stata la voce d’una vecchia.
Anna Rosa, quella voce, quel parlatorietto, il sole in quel bujo, il verde dell’orto: mi prese come una vertigine.
Poco dopo, Anna Rosa aprì di furia l’uscio e mi chiamò fuori del parlatorietto nel corridojo. Era tutta accesa in volto, coi capelli in disordine, gli occhi sfavillanti, la camicetta bianca di lana a maglia sbottonata sul petto come per caldo, e aveva tra le braccia tanti fiori e un tralcio d’edera che le passava sopra una spalla e le tentennava lungo, dietro. Corse, invitandomi a seguirla, in fondo al corridojo, salì sullo scalino sotto al finestrone, ma nel salire, forse per riparare con una mano una parte dei fiori che stava per sfuggirle, si lasciò invece cadere dall’altra la borsetta, e subito il fragore d’una detonazione seguito da un altissimo grido fece rintronare tutto il corridojo.
Feci appena in tempo a sorreggere Anna Rosa che mi s’abbatteva addosso. Nello sbalordimento, prima che riuscissi a rendermi conto di ciò che era avvenuto, mi vidi attorno sette vecchie suore pigolanti spaventate, le quali, pur essendo accorse per quello sparo nel corridojo e pur vedendomi tra le braccia Anna Rosa ferita, erano tuttavia in preda a un’altra costernazione ch’io in prima non potei intendere, tanto mi pareva impossibile che non si dovesse aver quella per cui a gran voce io chiedevo loro un letto, dove adagiare la ferita; mi rispondevano – Monsignore –; che stava per arrivare Monsignore. A sua volta, Anna Rosa mi gridava tra le braccia: – La rivoltella! la rivoltella! – cioè che rivoleva da me la rivoltella ch’era dentro la borsetta, perché era un ricordo del padre.
Che in quella borsetta caduta dovesse esserci una rivoltella la quale, esplodendo, l’aveva ferita a un piede, m’era apparso subito evidente; ma non così la ragione per cui la portava con sé, e proprio quella mattina che mi aveva dato convegno alla Badìa. Mi parve stranissimo; ma non mi passò neppur lontanamente per il capo in quel momento che l’avesse portata per me.
Più che mai stordito, vedendo che nessuno mi dava ajuto per soccorrere la ferita, me la tolsi di peso sulle braccia e la portai fuori della Badìa, giù per la straducola, a casa.
Mi toccò, poco dopo, risalire alla Badìa per riprendere dal corridojo sotto al finestrone quella rivoltella, che doveva poi servire per me.
IV. La spiegazione
La notizia di quello strano accidente alla Badìa Grande e di me che ne uscivo a precipizio reggendo sulle braccia Anna Rosa ferita, si propagò per Richieri in un baleno, dando subito pretesto a malignazioni che per la loro assurdità mi parvero in prima perfino ridicole. Tanto ero lontano dal supporre che potessero non solo parer verosimili, ma addirittura essere tenute per vere; e non già da coloro a cui tornava conto metterle in giro e fomentarle, ma finanche da colei che reggevo ferita sulle braccia.
Proprio così.
Perché Gengè, signori miei, quello stupidissimo Gengè di mia moglie Dida, covavi, senza ch’io ne sapessi nulla, una bruciante simpatia per Anna Rosa. Se l’era messo in testa Dida; Dida che se n’era accorta. Non ne aveva detto mai nulla a Gengè; ma lo aveva confidato, sorridendone, alla sua amichetta, per farle piacere e fors’anche per spiegarle che c’era il suo motivo, se Gengè la schivava, quand’ella veniva in visita; la paura d’innamorarsene.
Non mi riconosco nessun diritto di smentire codesta simpatia di Gengè per Anna Rosa. Potrei al più sostenere che non era vera per me; ma non sarebbe giusto neppure questo, perché effettivamente non m’ero mai curato di sapere se sentissi antipatia o simpatia per quell’amichetta di mia moglie.
Mi pare d’aver dimostrato a sufficienza che la realtà di Gengè non apparteneva a me, ma a mia moglie Dida che gliel’aveva data.
Se Dida dunque attribuiva quella segreta simpatia al suo Gengè, importa poco eh’essa non fosse vera per me: era tanto vera per Dida, che vi trovava la ragione per cui mi tenevo lontano da Anna Rosa; e tanto vera anche per Anna, che le occhiate che qualche volta io le avevo rivolte di sfuggita erano state anzi interpretate da lei come qualche cosa di più, per cui io non ero quel carino sciocchino Gengè che mia moglie Dida si figurava, ma un infelicissimo Signor Gengè che doveva soffrire chi sa che strazii in corpo a essere stimato e amato così dalla propria moglie.
Perché, se ci pensate bene, questo è il meno che possa seguire dalle tante realtà insospettate che gli altri ci dànno. Superficialmente, noi sogliamo chiamarle false supposizioni, erronei giudizii, gratuite attribuzioni. Ma tutto ciò che di noi si può immaginare è realmente possibile, ancorché non sia vero per noi. Che per noi non sia vero, gli altri se ne ridono. È vero per loro. Tanto vero, che può anche capitare che gli altri, se non vi tenete forte alla realtà che per vostro conto vi siete data, possono indurvi a riconoscere che più vera della vostra stessa realtà è quella che vi dànno loro. Nessuno più di me ha potuto farne esperienza.
Io mi trovai dunque, senza che ne sapessi nulla, innamoratissimo di Anna Rosa, e per questa ragione impigliato nell’accidente di quello sparo nella Badìa come non mi sarei mai e poi mai immaginato.
Assistendo Anna Rosa, dopo averla trasportata a casa sulle braccia e adagiata sul suo letto, corso per un medico, per un’infermiera, e prestato le prime cure del caso, sentii subito anch’io più che possibile, vero, ciò che ella aveva immaginato di me in seguito alle confidenze di Dida; la mia simpatia per lei. E potei avere dalla sua bocca, stando a sedere a piè del letto nell’intimità color di rosa della sua cameretta offesa dal cattivo odore dei medicinali, tutte le spiegazioni. E, prima, quella della rivoltella nella borsetta, causa dell’accidente.
Come rise di cuore immaginando che qualcuno potesse supporre ch’ella l’avesse portata per me nel darmi convegno alla Badìa!
La portava sempre con sé, nella borsetta, quella rivoltella, dacché l’aveva trovata nel taschino d’un panciotto del padre, morto improvvisamente da sei anni. Piccolissima, con l’impugnatura di madreperla e tutta lucida e viva, le era parsa un gingillo, tanto più carino in quanto nel suo grazioso congegno racchiudeva il potere di dare la morte. E più d’una volta, mi confidò, in qualche non raro momento che il mondo tutt’intorno, per certi strani sgomenti dell’anima, le si faceva come attonito e vano, aveva avuto la tentazione di farne la prova, giocando con essa, provando nelle dita sul liscio lucido dell’acciajo e della madreperla la delizia del tatto. Ora, che essa, invece che alla tempia o nel cuore per volontà di lei, avesse potuto per caso morderla a un piede, e anche col rischio – come si temeva – di farla restar zoppa, le cagionava uno stranissimo dispiacere. Credeva d’essersela appropriata tanto, che non dovesse avere più per sé quel potere. La vedeva cattiva, adesso. La traeva dal cassetto del comodino accanto al letto, la mirava e le diceva:
– Cattiva!
Ma quel convegno sù alla Badìa, nel parlatorietto della zia monaca, perché? E quelle sette suore che, invece di darsi pensiero di lei ferita, mi parlavano, quasi oppresse, della visita di non so qual Monsignore?
Ebbi la spiegazione anche di questo mistero.
Ella sapeva che quella mattina monsignor Partanna, vescovo di Richieri, sarebbe andato a far visita alle vecchie suore della Badìa Grande, come soleva ogni mese. Per quelle vecchie suore quella visita era come un’anticipazione della beatitudine celeste: rischiare d’averla guastata da quell’accidente era stato perciò per loro la costernazione più grave. Mi aveva fatto venire sù alla Badìa perché voleva ch’io parlassi subito, quella mattina stessa, col vescovo.
– Io, col vescovo? E perché?
Per ovviare a tempo ciò che si stava tramando contro di me:
Mi volevano proprio interdire, denunziandomi come alterato di mente. Dida le aveva annunziato che già erano state raccolte e ordinate tutte le prove, da Firbo, da Quantorzo, da suo padre e da lei stessa, per dimostrare la mia lampante alterazione mentale. Tanti erano pronti a farne testimonianza; finanche quel Turolla che avevo difeso contro Firbo e tutti i commessi della banca; finanche Marco di Dio a cui avevo fatto donazione d’una casa.
– Ma la perderà, – non potei tenermi dal fare osservare ad Anna Rosa. – Se sono dichiarato alterato di mente, l’atto della donazione diventerà nullo!
Anna Rosa scoppiò a ridermi in faccia per la mia ingenuità. A Marco di Dio dovevano aver promesso che, se testimoniava come volevano loro, non avrebbe perduto la casa. E del resto, poteva, anche secondo coscienza, testimoniarlo.
Guardai sospeso Anna Rosa che rideva. Ella se n’accorse e si mise a gridare:
– Ma sì, pazzie! tutte pazzie! tutte pazzie!
Se non che, lei ne godeva, le approvava, e più che più se con esse volevo arrivare veramente a quella più grande di tutte: cioè di buttare all’aria la banca e d’allontanare da me una donna che m’era stata sempre nemica.
– Dida?
– Non crede?
– Nemica, sì, adesso.
– No, sempre! sempre!
E m’informò che da tempo cercava di fare intendere a mia moglie ch’io non ero quello sciocco che lei s’immaginava, in lunghe discussioni che le erano costate una fatica infinita per frenare il dispetto che le cagionava l’ostinazione di quella donna a voler vedere in tanti miei atti o parole una sciocchezza che non c’era o un male che soltanto un animo deliberatamente nemico vi poteva vedere.
Strabiliai. D’un tratto, per quelle confidenze d’Anna Rosa, vidi una Dida così diversa dalla mia e pur così ugualmente vera, che provai – in quel punto, più che mai – tutto l’orrore della mia scoperta. Una Dida che parlava di me come assolutamente non mi sarei mai immaginato ch’ella ne potesse parlare, nemica anche della mia carne. Tutti i ricordi della nostra intimità comune, separati e traditi così indegnamente che, per riconoscerli, dovevo superarne con dispetto il ridicolo che prima non avevo avvertito, riparare una vergogna che prima, in segreto, non m’era parso di dover sentire. Come se a tradimento, dopo avermi indotto confidente a denudarmi, spalancata la porta, m’avesse esposto alla derisione di chiunque avesse voluto entrare a vedermi così nudo e senza riparo. E apprezzamenti sulla mia famiglia e giudizii sulle mie più naturali abitudini, che non mi sarei mai aspettati da lei. Insomma, un’altra Dida; una Dida veramente nemica.
Eppure, sono certo certissimo che col suo Gengè ella non fingeva: era col suo Gengè quale poteva essere per lui, perfettamente intera e sincera. Fuori poi della vita che poteva avere con lui, diventava un’altra: quell’altra che ora le conveniva o le piaceva o veramente sentiva di essere per Anna Rosa.
Ma di che mi maravigliavo? Non potevo io lasciarle intero il suo Gengè, così com’ella se l’era foggiato, ed essere poi un altro per conto mio?
Così era di me, come di tutti.
Non dovevo rivelare il segreto della mia scoperta ad Anna Rosa. Fui tentato da lei stessa, per ciò che ella mi fece sapere, così improvvisamente, di mia moglie. E non mi sarei mai immaginato che la rivelazione le avrebbe prodotto nello spirito il turbamento che le produsse, fino a farle commettere la follia che commise.
Ma dirò prima della mia visita a Monsignore, a cui ella stessa mi spinse con gran premura, come a cosa che non comportasse più altro indugio.
V. Il Dio di dentro e il Dio di fuori
Al tempo che conducevo a spasso Bibì, la cagnolina di mia moglie, le chiese di Richieri erano la mia disperazione.
Bibì a tutti i costi ci voleva entrare.
Alle mie sgridate, s’acculava, alzava e scoteva una delle due zampine davanti, sternutiva, poi con una orecchia sù e l’altra giù stava a guardarmi, proprio con l’aria di credere che non era possibile, non era possibile che a una cagnolina bellina come lei non fosse lecito entrare in una chiesa. Se non ci stava nessuno!
– Nessuno? Ma come nessuno, Bibì? – le dicevo io. – Ci sta il più rispettabile dei sentimenti umani. Tu non puoi intendere queste cose, perché sei per tua fortuna una cagnolina e non un uomo. Gli uomini, vedi? hanno bisogno di fabbricare una casa anche ai loro sentimenti. Non basta loro averli dentro, nel Cuore, i sentimenti: se li vogliono vedere anche fuori, toccarli; e costruiscono loro una casa.
A me era sempre bastato finora averlo dentro, a mio modo, il sentimento di Dio. Per rispetto a quello che ne avevano gli altri, avevo sempre impedito a Bibì di entrare in una chiesa; ma non c’entravo nemmeno io. Mi tenevo il mio sentimento e cercavo di seguirlo stando in piedi, anziché andarmi a inginocchiare nella casa che gli altri gli avevano costruito.
Quel punto vivo che s’era sentito ferire in me quando mia moglie aveva riso nel sentirmi dire che non volevo più mi si tenesse in conto d’usurajo a Richieri, era Dio senza alcun dubbio: Dio che s’era sentito ferire in me, Dio che in me non poteva più tollerare che gli altri a Richieri mi tenessero in conto d’usurajo.
Ma se fossi andato a dire così a Quantorzo o a Firbo e agli altri socii della banca, avrei dato loro certamente un’altra prova della mia pazzia.
Bisognava invece che il Dio di dentro, questo Dio che in me sarebbe a tutti ormai apparso pazzo, andasse quanto più contritamente gli fosse possibile a far visita e a chiedere ajuto e protezione al saggissimo Dio di fuori, a quello che aveva la casa e i suoi fedelissimi e zelantissimi servitori e tutti i suoi poteri sapientemente e magnificamente costituiti nel mondo per farsi amare e temere.
A questo Dio non c’era pericolo che Firbo o Quantorzo s’attentassero a dare del pazzo.
VI. Un vescovo non comodo
Andai dunque a trovare al Vescovado monsignor Partanna.
Dicevano a Richieri che era stato eletto vescovo per istanze e mali ufficii di potenti prelati a Roma. Il fatto è che, pur essendo da alcuni anni a capo della diocesi, non era ancora riuscito a cattivarsi la simpatia, a conciliarsi la confidenza di nessuno.
A Richieri si era avvezzi al fasto, alle maniere gioconde e cordiali, alla copiosa munificenza del suo predecessore, il defunto Eccell.mo Monsignor Vivaldi; e tutti perciò si erano sentiti stringere il cuore allorché avevano veduto per la prima volta scendere a piedi dal Palazzo Vescovile lo scheletro intabarrato di questo vescovo nuovo, tra i due segretarii che lo accompagnavano.
Un vescovo a piedi?
Dacché il Vescovado sedeva come una tetra fortezza in cima alla città, tutti i vescovi erano sempre scesi in una bella carrozza con l’attacco a due, gale rosse e pennacchi.
Ma all’atto stesso della sua insediatura monsignor Partanna aveva detto che vescovado è nome d’opera e non d’onore. E aveva licenziato servi e cuoco, cocchiere e famigli, smesso la carrozza e inaugurato la più stretta economia, con tutto che la diocesi di Richieri fosse tra le più ricche d’Italia. Per le visite pastorali nella diocesi, molto trascurate dal suo predecessore e da lui invece osservate con la massima vigilanza ai tempi voluti dai Canoni, non ostanti le gravi difficoltà delle vie e la mancanza di comunicazioni, si serviva di carrozze d’affitto o anche d’asini o di muli.
Sapevo poi da Anna Rosa che tutte le suore dei cinque monasteri della città, tranne quelle ormai decrepite della Badìa Grande, lo odiavano per le crudeli disposizioni emanate contro di loro appena insediatosi vescovo, cioè che non dovessero più né preparare né vendere dolci o rosolii, quei buoni dolci di miele e di pasta reale infiocchettati e avvolti in fili d’argento, quei buoni rosolii che sapevano d’anice e di cannella! e non più ricamare, neanche arredi e paramenti sacri, ma far soltanto la calza; e infine che non dovessero più avere un confessore particolare, ma servirsi tutte, senza distinzione, del Padre della comunità. Disposizioni anche più gravi aveva poi dato per i canonici e beneficiali di tutte le chiese, e insomma per la più rigida osservanza d’ogni dovere da parte di tutti gli ecclesiastici.
Un vescovo così non è comodo per tutti coloro che han voluto mettere fuori di sé il sentimento di Dio costruendogli una casa fuori, tanto più bella quanto maggiore il bisogno di farsi perdonare. Ma era per me il meglio che mi potessi augurare. Il suo predecessore, l’Eccell.mo Monsignor Vivaldi, benviso a tutti, con tutti alla mano, avrebbe senza dubbio cercato il modo e la maniera d’accomodare ogni cosa, salvando banca e coscienza, per accontentare me, ma anche Firbo e Quantorzo e tutti gli altri.
Ora io sentivo che non potevo più accomodarmi né con me né con nessuno.
VII. Un colloquio con Monsignore
Monsignor Partanna mi ricevette nella vasta sala dell’antica cancelleria nel Palazzo Vescovile.
Sento ancora nelle narici l’odore di quella sala dal tetro soffitto affrescato, ma così coperto di polvere che quasi non vi si scorgeva più nulla. Le alte pareti dall’intonaco ingiallito erano ingombre di vecchi ritratti di prelati, anch’essi bruttati dalla polvere e qualcuno anche dalla muffa, appesi qua e là senz’ordine, sopra armadii e scansìe stinte e tarlate.
In fondo alla sala s’aprivano due finestroni, i cui vetri, d’una tristezza infinita sulla vanità del cielo velato, erano scossi continuamente dal vento che s’era levato d’improvviso, fortissimo: il terribile vento di Richieri che mette l’angoscia in tutte le case.
Pareva a momenti che quei vetri dovessero cedere alla furia urlante del libeccio. Tutto il colloquio tra me e Monsignore ebbe l’accompagnamento sinistro di sibili acuti e veementi, di cupi, lunghi mugolìi che, distraendomi spesso dalle parole di Monsignore, mi fecero sentire con un indefinibile sbigottimento, come non l’avevo sentito mai, il rammarico della vanità del tempo e della vita.
Ricordo che da uno di quei finestroni si scorgeva il terrazzino d’una vecchia casa dirimpetto. Su quel terrazzino apparve a un tratto un uomo, che doveva essere scappato dal letto con la folle idea di provare la voluttà del volo.
Esposto lì al vento furioso, si faceva svolazzare attorno al corpo magro, d’una magrezza che incuteva ribrezzo, la coperta del letto: una coperta di lana rossa, appesa e sorretta con le due braccia in croce, su le spalle. E rideva, rideva con un lustro di lagrime negli occhi spiritati, mentre gli volavano di qua e di là, lingueggiando come fiamme, le lunghe ciocche dei capelli rossicci.
Quell’apparizione mi stupì tanto, che a un certo punto non potei più tenermi di farne cenno a Monsignore, interrompendo un discorso molto serio sugli scrupoli della coscienza a cui egli da un pezzo s’era lasciato andare con evidente compiacimento del suo eloquio.
Monsignore si voltò appena a guardare; e, con uno di quei sorrisi che fanno benissimo le veci d’un sospiro, disse:
– Ah, sì: è un povero pazzo che sta lì.
Con tal tono d’indifferenza lo disse, come per cosa da tanto tempo divenuta ai suoi occhi abituale, che mi sorse lì per lì la tentazione di farlo sobbalzare, annunziandogli:
«No, sa: non sta lì. Sta qui, Monsignore. Quel pazzo che vuol volare sono io».
Mi contenni, e non lo dissi. Anzi, con la stess’aria d’indifferenza gli domandai:
– E non c’è pericolo che si butti giù dal terrazzino?
– No, è così, da tant’anni, – mi rispose Monsignore. – Innocuo, innocuo.
Spontaneamente, proprio senza volerlo, mi scappò detto allora:
– Come me.
E Monsignore non potè fare a meno di sobbalzare. Ma io gli mostrai subito una faccia così placida e sorridente, che d’un tratto lo rimise a posto. M’affrettai a spiegargli che intendevo innocuo anch’io nel concetto del signor Firbo e del signor Quantorzo, di mio suocero e di mia moglie, e insomma di tutti coloro che mi volevano interdire.
Monsignore, rasserenato, riprese il discorso sugli scrupoli della coscienza, che a lui pareva il più proprio al mio caso, e l’unico a ogni modo da far valere con l’autorità e il prestigio del suo potere spirituale sulle intenzioni e le mene di quei miei nemici.
Potevo fargli intendere che il mio non era propriamente un caso di coscienza com’egli s’immaginava?
Se mi fossi arrischiato a farglielo intendere, sarei d’un tratto diventato pazzo anche ai suoi occhi.
Il Dio che in me voleva riavere il danaro della banca perché io non fossi più chiamato usurajo, era un Dio nemico di tutte le costruzioni.
Il Dio, invece, a cui ero venuto a ricorrere per ajuto e protezione, era appunto quello che costruiva. Mi avrebbe dato, sì, una mano per farmi riavere il danaro, ma a patto ch’esso servisse alla costruzione di almeno una casa a un altro dei più rispettabili sentimenti umani: voglio dire, la carità.
Monsignore, al termine del nostro colloquio, mi domandò con aria solenne se non volevo questo.
Dovetti rispondergli che volevo questo.
E allora egli sonò un vecchio annerito e insordito campanellino d’argento che stava timido timido sulla tavola. Apparve un giovane chierico biondo e molto pallido. Monsignore gli ordinò di far venire Don Antonio Sclepis, canonico della Cattedrale e direttore del Collegio degli Oblati, ch’era in anticamera. L’uomo che ci voleva per me.
Conoscevo più di fama che di persona questo prete. Ero andato una volta per incarico di mio padre a consegnargli una lettera sù al Collegio degli Oblati, che sorge non lontano dal Palazzo Vescovile, nel punto più alto della città, ed è un vasto, antichissimo edificio quadrato e fosco esternamente, roso tutto dal tempo e dalle intemperie, ma tutto bianco, arioso e luminoso, dentro. Vi sono accolti i poveri orfani e i bastardelli di tutta la provincia, dai sei ai diciannove anni, i quali vi imparano le varie arti e i varii mestieri. La disciplina vi è così dura, che quando quei poveri Oblati alla mattina e al vespro cantano al suono dell’organo nella chiesa del Collegio le loro preghiere, a udirle da giù, quelle preghiere accorano come un lamento di carcerati.
A giudicarne dall’aspetto, non pareva che il canonico Sclepis dovesse avere in sé tanta forza di dominio e così dura energia. Era un prete lungo e magro, quasi diafano, come se tutta l’aria e la luce dell’altura dove viveva lo avessero non solo scolorito ma anche rarefatto, e gli avessero reso le mani d’una gracilità tremula quasi trasparenti e su gli occhi chiari ovati le pàlpebre più esili d’un velo di cipolla. Tremula e scolorita aveva anche la voce e vani i sorrisi su le lunghe labbra bianche, tra le quali spesso filava qualche grumetto di biascia.
Appena entrato e informato da Monsignore dei miei scrupoli di coscienza e delle mie intenzioni, si mise a parlare con me in gran fretta, con grande confidenza, battendomi una mano su la spalla e dandomi del tu:
– Bene bene, figliuolo! Un gran dolore, mi piace. Ringraziane Dio. Il dolore ti salva, figliuolo. Bisogna esser duri con tutti gli sciocchi che non vogliono soffrire. Ma tu per tua ventura hai molto, molto da soffrire, pensando a tuo padre che, poveretto, eh… fece tanto tanto male! Sia il tuo cilizio il pensiero di tuo padre! il tuo cilizio! E lascia combattere a me col signor Firbo e il signor Quantorzo! Ti vogliono interdire? Te li accomodo io, non dubitare!
Uscii dal Palazzo Vescovile con la certezza che l’avrei avuta vinta su coloro che mi volevano interdire; ma questa certezza e gl’impegni che ne derivavano, contratti ora col vescovo e con lo Sclepis, mi gettavano in un mare d’incertezze senza fine su ciò che sarebbe stato di me, spogliato di tutto, senza più né stato, né famiglia.
VIII. Aspettando
Non mi restava per il momento che Anna Rosa, la compagnia ch’ella voleva le tenessi durante la sua infermità.
– Se ne stava a letto, col piede fasciatole diceva che non se ne sarebbe alzata più, se, come ancora i medici temevano, fosse rimasta zoppa.
Il pallore e il languore della lunga degenza le avevano conferito una grazia nuova, in contrasto con quella di prima. La luce degli occhi le si era fatta più intensa, quasi cupa. Diceva di non poter dormire. L’odore dei suoi capelli densi, neri, un po’ ricciuti e aridi, quando la mattina se li trovava sciolti e arruffati sul guanciale, la soffocava. Se non era per il ribrezzo delle mani d’un parrucchiere sul suo capo, se li sarebbe fatti tagliare. Mi domandò, una mattina, se io non avrei saputo tagliarglieli. Rise del mio imbarazzo nel risponderle, poi si tirò sul viso la rimboccatura del lenzuolo e rimase così un gran pezzo col viso nascosto, in silenzio.
Sotto le coperte s’indovinavano procaci le formosità del suo corpo di vergine matura. Sapevo da Dida che ella aveva già venticinque anni. Certo, standosene così col viso nascosto, pensava ch’io non avrei potuto fare a meno di guardare il suo corpo come si disegnava sotto le coperte. Mi tentava.
Nella penombra della cameretta rosea in disordine, il silenzio pareva consapevole dell’attesa vana d’una vita che i desiderii momentanei di quella bizzarra creatura non avrebbero potuto mai far nascere né consistere in qualche modo.
Avevo indovinato in lei l’insofferenza assoluta d’ogni cosa che accennasse a durare e stabilirsi. Tutto ciò che faceva, ogni desiderio o pensiero che le sorgevano per un momento, un momento dopo erano già come lontanissimi da lei; e se le avveniva di sentirsene ancora trattenuta, erano smanie rabbiose, scatti d’ira e perfino scomposte escandescenze.
Solo del suo corpo pareva si compiacesse sempre, per quanto a volte non se ne mostrasse per nulla contenta, anzi dicesse di odiarselo. Ma se lo stava a mirare continuamente allo specchio, in ogni parte o tratto; a provarne tutti gli atteggiamenti, tutte le espressioni di cui i suoi occhi così intensi lucidi e vivaci, le sue narici frementi, la sua bocca rossa sdegnosa, la mandibola mobilissima, potevano essere capaci. Così, come per un gusto d’attrice; non perché pensasse che per sé, nella vita, potessero servirle se non per giuoco: per un giuoco momentaneo di civetteria o provocazione.
Una mattina le vidi provare e studiare a lungo nello specchietto a mano che teneva con sé sul letto un sorriso pietoso e tenero, pur con un brillìo negli occhi di malizia quasi puerile. Vedermelo poi rifare tal quale, quel sorriso, vivo, proprio come se le nascesse or ora spontaneo per me, mi provocò un moto di ribellione.
Le dissi che non ero il suo specchio.
Ma non s’offese. Mi domandò se quel sorriso, come ora gliel’avevo visto, era quello stesso che lei s’era veduto e studiato nello specchio dianzi.
Le risposi, seccato di quell’insistenza:
– Che vuole che ne sappia io? Non posso mica sapere come lei se l’è veduto. Si faccia fare una fotografia con quel sorriso.
– Ce l’ho, – mi disse. – Una, grande. Là nel cassetto di sotto dell’armadio. Me la prenda, per favore.
Quel cassetto era pieno di sue fotografie. Me ne mostrò tante, di antiche e di recenti.
– Tutte morte, – le dissi.
Si voltò di scatto a guardarmi.
– Morte?
– Per quanto vogliano parer vive.
– Anche questa col sorriso?
– E codesta, pensierosa; e codesta, con gli occhi bassi.
– Ma come morta, se sono qua viva?
– Ah, lei sì; perché ora non si vede. Ma quando sta davanti allo specchio, nell’attimo che si rimira, lei non è più viva.
– E perché?
– Perché bisogna che lei fermi un attimo in sé la vita, per vedersi. Come davanti a una macchina fotografica. Lei s’atteggia. E atteggiarsi è come diventare statua per un momento. La vita si muove di continuo, e non può mai veramente vedere se stessa.
– E allora io, viva, non mi sono mai veduta?
– Mai, come posso vederla io. Ma io vedo un’immagine di lei che è mia soltanto; non è certo la sua. Lei la sua, viva, avrà forse potuto intravederla appena in qualche fotografia istantanea che le avranno fatta. Ma ne avrà certo provato un’ingrata sorpresa. Avrà fors’anche stentato a riconoscersi, lì scomposta, in movimento.
– È vero.
– Lei non può conoscersi che atteggiata: statua: non viva. Quando uno vive, vive e non si vede. Conoscersi è morire. Lei sta tanto a mirarsi in codesto specchio, in tutti gli specchi, perché non vive; non sa, non può o non vuol vivere. Vuole troppo conoscersi, e non vive.
– Ma nient’affatto! Non riesco anzi a tenermi mai ferma un momento, io.
– Ma vuole vedersi sempre. In ogni atto della sua vita. È come se avesse davanti, sempre, l’immagine di sé, in ogni atto, in ogni mossa. E la sua insofferenza proviene forse da questo. Lei non vuole che il suo sentimento sia cieco. Lo obbliga ad aprir gli occhi e a vedersi in uno specchio che gli mette sempre davanti. E il sentimento, subito come si vede, le si gela. Non si può vivere davanti a uno specchio. Procuri di non vedersi mai. Perché, tanto, non riuscirà mai a conoscersi per come la vedono gli altri. E allora che vale che si conosca solo per sé? Le può avvenire di non comprendere più perché lei debba avere quell’immagine che lo specchio le ridà.
Rimase a lungo con gli occhi fissi a pensare.
Sono certo che anche a lei, come a me, dopo quel discorso e dopo quanto le avevo già detto di tutto il tormento del mio spirito, s’aprì davanti in quel momento sconfinata, e tanto più spaventosa quanto più lucida, la visione dell’irrimediabile nostra solitudine. L’apparenza d’ogni oggetto vi s’isolava paurosamente. E forse ella non vide più la ragione di portare la sua faccia, se in quella solitudine neanche lei avrebbe potuto vedersela viva, mentre gli altri da fuori, isolandola, chi sa come gliela vedevano.
Cadeva ogni orgoglio.
Vedere le cose con occhi che non potevano sapere come gli altri occhi intanto le vedevano.
Parlare per non intendersi.
Non valeva più nulla essere per sé qualche cosa.
E nulla più era vero, se nessuna cosa per sé era vera. Ciascuno per suo conto l’assumeva come tale e se ne appropriava per riempire comunque la sua solitudine e far consistere in qualche modo, giorno per giorno, la sua vita.
Ai piedi del suo letto, con un aspetto a me ignoto, e a lei impenetrabile, io stavo lì, naufrago nella sua solitudine; e lei nella mia, là davanti a me, sul suo letto, con quegli occhi immobili e lontanissimi, pallida, un gomito puntato sul guanciale e il capo arruffato sorretto dalla mano.
Sentiva verso tutto ciò ch’io le dicevo un’invincibile attrazione e insieme una specie di ribrezzo; a volte, quasi odio: glielo vedevo lampeggiare negli occhi, mentre con la più avida attenzione ascoltava le mie parole.
Voleva tuttavia che seguitassi a parlare, a dirle tutto quello che mi passava per la mente: immagini, pensieri. E io parlavo quasi senza pensare; o piuttosto, il mio pensiero parlava da sé, come per un bisogno di rilasciare la sua spasimosa tensione.
– Lei s’affaccia a una finestra; guarda il mondo; crede che sia come le sembra. Vede giù per via passare la gente, piccola nella sua visione ch’è grande, così dall’alto della finestra a cui è affacciata. Non può non sentirla in sé questa grandezza, perché se un amico ora passa giù per la via e lei lo riconosce, guardato così dall’alto, non le sembra più grande d’un suo dito. Ah, se le venisse in mente di chiamarlo e di domandargli: «Mi dica un po’, come le sembro io, affacciata qua a questa finestra?». Non le viene in mente, perché non pensa all’immagine che quelli che passano per via hanno intanto della finestra e di lei che vi sta affacciata a guardare. Dovrebbe fare lo sforzo di staccare da sé le condizioni che pone alla realtà degli altri che passano giù e che vivono per un momento nella sua vasta visione, piccoli transitanti per una via. Non lo fa questo sforzo, perché non le sorge nessun sospetto dell’immagine che essi hanno di lei e della sua finestra, una tra tante, piccola, così alta, e di lei piccola piccola là affacciata con quel braccino che si muove in aria.
Si vedeva nella mia descrizione, piccola piccola a una finestra alta, col braccino che si moveva in aria, e rideva.
Erano lampi, guizzi; poi nella cameretta si rifaceva il silenzio. Ogni tanto compariva, come un’ombra, la vecchia zia con cui Anna Rosa abitava: grassa, apatica, con gli enormi occhi biavi orribilmente strabi. Stava un po’ sulla soglia, nella penombra liquida della cameretta, con le mani gonfie e pallide sul ventre; pareva un mostro d’acquario; non diceva nulla e se n’andava.
Con quella zia ella non scambiava che pochissime parole durante tutto il giorno. Viveva con sé, di sé; leggeva, fantasticava, ma sempre insofferente, così delle letture come delle sue stesse fantasticherie; usciva a far compere, a trovar questa o quella amica; ma le sembravano tutte sciocche e vane; provava piacere a sbalordirle; poi, rincasando, si sentiva stanca e seccata di tutto. Certi invincibili disgusti, che si potevano indovinare in lei da uno scatto o da un verso improvviso per qualche allusione, forse li doveva alla lettura di libri di medicina trovati nella biblioteca del padre, ch’era stato medico. Diceva che non avrebbe mai preso marito.
Io non posso sapere che idea si fosse fatta di me. Mi considerava certo con uno straordinario interesse, smarrito come in quei giorni le apparivo nei miei stessi pensieri e nell’incertezza di tutto.
Quest’incertezza che in me rifuggiva da ogni limite, da ogni sostegno, e ormai quasi istintivamente si ritraeva da ogni forma consistente come il mare si ritrae dalla riva; quest’incertezza, vaneggiandomi negli occhi, senza dubbio la attraeva, ma a volte, guardandola, avevo pure la strana impressione che le paresse un po’ divertente; una cosa infine un po’ anche da ridere, avere lì ai piedi del letto un uomo in quelle incredibili condizioni di spirito, così tutto scisso e che non sapeva come avrebbe fatto a vivere domani, quando, riavuto per mezzo dello Sclepis il danaro della banca, si sarebbe spogliato e liberato di tutto.
Perché ella era certa che io sarei ormai arrivato alle ultime conseguenze, come un perfettissimo pazzo. E questo la divertiva enormemente, con un certo orgoglio, anche, d’avere indovinato, nelle discussioni con mia moglie, non propriamente questo, ma ch’io fossi ad ogni modo un uomo non comune, singolare dall’altra gente; da cui ci si poteva aspettare, un giorno o l’altro, qualcosa di straordinario. Come per dare subito agli altri, e specialmente a mia moglie, la prova ch’ella aveva avuto ragione nel pensare così di me, s’era affrettata a chiamarmi, a informarmi delle intenzioni che si avevano contro di me, a spingermi ad andare da Monsignore; e adesso era di me contentissima, vedendomi là ai piedi del suo letto, come mi vedeva, fermo e placido in attesa di quanto doveva necessariamente avvenire, senza più cura di nulla né di nessuno.
Eppure fu proprio lei a volermi uccidere, e proprio quando da questa soddisfazione ch’io le davo, e che la faceva un po’ ridere, passò a una grande pietà di me, per rispondere, come affascinata, a quella che, certo, io dovevo avere negli occhi, mentre la guardavo come dall’infinita lontananza d’un tempo che avesse perduto ogni età.
Non so precisamente come avvenne. Quand’io, guardandola da quella lontananza, le dissi parole che più non ricordo, parole in cui ella dovette sentire la brama che mi struggeva di donare tutta la vita ch’era in me, tutto quello che io potevo essere, per diventare uno come lei avrebbe potuto volermi e per me veramente nessuno, nessuno. So che dal letto mi tese le braccia; so che m’attrasse a sé.
Da quel letto poco dopo rotolai, cieco, ferito al petto mortalmente dalla piccola rivoltella ch’ella teneva sotto il guanciale.
Devono esser vere le ragioni ch’ella poi disse in sua discolpa: cioè che fu spinta ad uccidermi dall’orrore istintivo, improvviso, dell’atto a cui stava per sentirsi trascinata dal fascino strano di tutto quanto in quei giorni io le avevo detto.
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