Uno, nessuno e centomila – Libro Ottavo

image_pdfvedi in PDF

««« Libro Settimo

««« Introduzione ai romanzi di Luigi Pirandello

Uno, nessuno e centomila - Libro OttavoAcquista «Uno, nessuno e centomila» su Amazon

 I. Il giudice vuole il suo tempo  

            Di solito, alle normali operazioni della giustizia non è da rimproverare la fretta.

            Il giudice incaricato d’istruire il processo contro Anna Rosa, onesto per natura e per principio, volle essere scrupolosissimo e perdere mesi e mesi di tempo prima di venire al così detto accertamento dei fatti, dopo aver raccolto, s’intende, dati e testimonianze.

            Ma non era stato possibile avere da me una qualunque risposta al primo interrogatorio che avrebbero voluto farmi, subito dopo trasportato dalla cameretta d’Anna Rosa all’ospedale. Quando poi i medici mi permisero d’aprir bocca, la prima risposta che diedi, anziché mettere nell’imbarazzo chi m’interrogava, mise nell’imbarazzo me.

            Ecco: così fulmineo era stato in Anna Rosa il trapasso da quella pietà, per cui mi aveva teso le braccia dal letto, all’impulso istintivo che l’aveva spinta a compiere su me quell’atto violento, ch’io, già cieco nel sentirmi accosto il calore della sua procacissima persona, veramente non avevo avuto né il tempo né il modo d’accorgermi di come avesse fatto a cavare improvvisamente la rivoltella di sotto al guanciale per tirarmi. Cosicché, non parendomi allora ammissibile ch’ella, dopo avermi attratto a sé, avesse poi voluto uccidermi, con la più schietta sincerità diedi, a chi m’interrogava, quella spiegazione del caso che mi sembrava più probabile, cioè che il ferimento, anche quel mio ferimento come già il suo al piede, fosse stato accidentale, dovuto al fatto, certo riprovevole, di quella rivoltella che si trovava sotto il guanciale e che certo io stesso dovevo avere urtato e fatto esplodere nello sforzo di sollevare l’inferma che m’aveva domandato d’essere messa a sedere sul letto.

            Per me la bugia (bugia doverosa) era soltanto in quest’ultima parte della risposta; a chi m’interrogava apparve invece tutta quanta così sfacciata, che ne fui aspramente rimbrottato. Mi si fece sapere che la giustizia si trovava già, per fortuna, in possesso della confessione esplicita della feritrice. Io allora, per un bisogno irresistibile di dimostrare la mia sincerità, fui così ingenuo da dare a vedere, nello sbalordimento, la più viva curiosità di conoscere qual mai ragione avesse potuto dare la feritrice del suo atto violento contro di me.

            La risposta a questa domanda fu una fragorosissima sbruffata che quasi mi lavò la faccia.

            – Ah, lei voleva soltanto metterla a sedere sul letto?

            Restai basito.

            La giustizia doveva già anche trovarsi in possesso d’una prima deposizione di mia moglie, la quale, ora più che mai con quella prova di fatto, aveva certo potuto testimoniare in perfettissima coscienza dell’antica data del mio innamoramento per Anna Rosa.

            Così sarebbe rimasto, senza dubbio, acquisito alla giustizia che Anna Rosa aveva tentato d’uccidermi per difendersi da una mia brutale aggressione, se Anna Rosa stessa non avesse assicurato con giuramento il giudice che non c’era stata veramente nessuna aggressione da parte mia, ma solo quel tale fascino involontariamente esercitato su lei con le mie curiosissime considerazioni sulla vita: fascino da cui ella s’era lasciata prendere così fortemente, da ridursi a commettere quella pazzia.

            Il giudice scrupoloso, non soddisfatto del sommario ragguaglio che Anna Rosa aveva potuto dargli di quelle mie considerazioni, stimò suo dovere averne una più precisa e particolare informazione, e volle venire di persona a parlare con me.

 II. La coperta di lana verde

            Ero stato ricondotto dall’ospedale a casa in barella; e, già entrato in convalescenza, avevo lasciato il letto e me ne stavo in quei giorni adagiato beatamente su una poltrona vicino alla finestra, con una coperta di lana verde sulle gambe.

            Mi sentivo come inebriato vaneggiare in un vuoto tranquillo, soave, di sogno. Era ritornata la primavera, e i primi tepori del sole mi davano un languore d’ineffabile delizia. Avevo quasi timore di sentirmi ferire dalla tenerezza dell’aria limpida e nuova ch’entrava dalla finestra semichiusa, e me ne tenevo riparato; ma alzavo di tanto in tanto gli occhi a mirare quell’azzurro vivace di marzo corso da allegre nuvole luminose. Poi mi guardavo le mani che ancora mi tremavano esangui; le abbassavo sulle gambe e con la punta delle dita carezzavo lievemente la peluria verde di quella coperta di lana. Ci vedevo la campagna: come se fosse tutta una sterminata distesa di grano; e, carezzandola, me ne beavo, sentendomici davvero, in mezzo a tutto quel grano, con un senso di così smemorata lontananza, che quasi ne avevo angoscia, una dolcissima angoscia.

            Ah, perdersi là, distendersi e abbandonarsi, così tra l’erba, al silenzio dei cieli; empirsi l’anima di tutta quella vana azzurrità, facendovi naufragare ogni pensiero, ogni memoria!

            Poteva, domando io, capitare più inopportuno quel giudice?

            Mi duole, a ripensarci, se egli quel giorno se n’andò da casa mia con l’impressione ch’io volessi burlarmi di lui. Aveva della talpa, con quelle due manine sempre alzate vicino alla bocca, e i piccoli occhi plumbei quasi senza vista, socchiusi; scontorto in tutta la magra personcina mal vestita, con una spalla più alta dell’altra. Per via, andava di traverso, come i cani; benché poi tutti dicessero che, moralmente, nessuno sapeva rigare più diritto di lui.

            Le mie considerazioni sulla vita?

            – Ah signor giudice, – gli dissi, – non è possibile, creda, ch’io gliele ripeta. Guardi qua! Guardi qua!

            E gli mostrai la coperta di lana verde, passandoci sopra delicatamente la mano.

            – Lei ha l’ufficio di raccogliere e preparare gli elementi di cui la giustizia domani si servirà per emanare le sue sentenze? E viene a domandare a me le mie considerazioni sulla vita, quelle che per l’imputata sono state la cagione d’uccidermi? Ma se io gliele ripetessi, signor giudice, ho gran paura che lei non ucciderebbe più me, ma se stesso, per il rimorso d’avere per tanti anni esercitato codesto suo ufficio. No, no: io non gliele dirò, signor giudice! È bene che lei anzi si turi gli orecchi per non udire il terribile fragore d’una certa rapina sotto gli argini, oltre i limiti che lei, da buon giudice, s’è tracciati e imposti per comporre la sua scrupolosissima coscienza. Possono crollare, sa? in un momento di tempesta come quello che ha avuto la signorina Anna Rosa. Che rapina? Eh, quella della gran fiumana, signor giudice! Lei l’ha incanalata bene nei suoi affetti, nei doveri che s’è imposti, nelle abitudini che s’è tracciate; ma poi vengono i momenti di piena, signor giudice, e la fiumana straripa, straripa e sconvolge tutto. Io lo so. Tutto sommerso, per me, signor giudice! Mi ci sono buttato e ora ci nuoto, ci nuoto. E sono, se sapesse, già tanto lontano! Quasi non la vedo più. Si stia bene, signor giudice, si stia bene!

            Restò lì, stordito, a guardarmi come si guarda un malato incurabile. Sperando di scomporlo da quel penoso atteggiamento, gli sorrisi; sollevai dalle gambe con tutt’e due le mani la coperta e gliela mostrai ancora una volta, domandandogli con grazia:

            – Ma davvero, scusi, non le sembra bella, così verde, questa coperta di lana?

 III. Remissione

            Mi consolavo con la riflessione che tutto questo avrebbe facilitato l’assoluzione d’Anna Rosa. Ma d’altra parte c’era lo Sclepis che più volte con un gran tremore di tutte le sue cartilagini era accorso a dirmi ch’io gli avevo reso e seguitavo a rendergli più che mai difficile il compito della mia salvazione.

            Possibile che non mi rendessi conto dello scandalo enorme suscitato con quella mia avventura, proprio nel momento che avrei dovuto dar prova d’avere più di tutti la testa a segno? E non avevo, invece, dimostrato che aveva avuto ragione mia moglie a scapparsene in casa del padre per l’indegnità del mio comportamento verso di lei? Io la tradivo; e solo per farmi bello agli occhi di quella ragazza esaltata avevo protestato di non volere più che in paese mi si chiamasse usurajo! E tanto era il mio accecamento per quella passione colpevole, che avevo voluto e m’ostinavo a voler rovinare me e gli altri, con tutto che per poco non m’era costata la vita, questa colpevole passione!

            Ormai allo Sclepis, di fronte alla sollevazione di tutti, non restava che riconoscere le mie deplorevoli colpe, e per salvarmi non vedeva più altro scampo che nella confessione aperta di esse da parte mia. Bisognava però, perché questa confessione non fosse pericolosa, che io dimostrassi nello stesso tempo così viva e urgente per la mia anima la necessità d’un eroico ravvedimento, da ridare a lui l’animo e la forza di chiedere agli altri il sagrifizio dei proprii interessi.

            Io non facevo che dir di sì col capo a tutto quello che lui mi diceva, senza forzarmi a scrutare quanto e fin dove quella che era soltanto argomentazione dialettica, prendendo a mano a mano calore, diventasse in lui realmente sincera convinzione. Certo appariva sempre più soddisfatto; ma dentro di sé, forse, un po’ perplesso, se quella sua soddisfazione fosse per vero sentimento di carità o per l’accorgimento del suo intelletto.

            Si venne alla decisione che io avrei dato un esemplare e solennissimo esempio di pentimento e d’abnegazione, facendo dono di tutto, anche della casa e d’ogni altro mio avere, per fondare con quanto mi sarebbe toccato dalla liquidazione della banca un ospizio di mendicità con annessa cucina economica aperta tutto l’anno, non solo a beneficio dei ricoverati, ma anche di tutti i poveri che potessero averne bisogno; e annesso anche un vestiario per ambo i sessi e per ogni età, di tanti capi all’anno; e che io stesso vi avrei preso stanza, dormendo senz’alcuna distinzione, come ogni altro mendico, in una branda, mangiando come tutti gli altri la minestra in una ciotola di legno, e indossando l’abito della comunità destinato a uno della mia età e del mio sesso.

            Quel che più mi coceva era che questa mia totale remissione fosse interpretata come vero pentimento, mentre io davo tutto, non m’opponevo a nulla, perché remotissimo ormai da ogni cosa che potesse avere un qualche senso o valore per gli altri, e non solo alienato assolutamente da me stesso e da ogni cosa mia, ma con l’orrore di rimanere comunquequalcuno, in possesso di qualche cosa.

            Non volendo più nulla, sapevo di non poter più parlare. E stavo zitto, guardando e ammirando quel vecchio diafano prelato che sapeva voler tanto e la volontà esercitare con arte così fina, e non per un utile suo particolare, né tiaìito forse per fare un bene agli altri, quanto per il merito che ne sarebbe venuto a quella casa di Dio, di cui era fedelissimo e zelantissimo servitore.

            Ecco: per sé, nessuno.

            Era questa, forse, la via che conduceva a diventare uno per tutti.

            Ma c’era in quel prete troppo orgoglio del suo potere e del suo sapere. Pur vivendo per gli altri, voleva ancora essere uno per sé, da distinguere bene dagli altri per la sua sapienza e la sua potenza, e anche per la più provata fedeltà e il maggior zelo.

            Ragion per cui, guardandolo – sì, seguitavo ad ammirarlo – ma mi faceva anche pena.

 IV. Non conclude  

            Anna Rosa doveva essere assolta; ma io credo che in parte la sua assoluzione fu anche dovuta all’ilarità che si diffuse in tutta la sala del tribunale, allorché, chiamato a fare la mia deposizione, mi videro comparire col berretto, gli zoccoli e il camiciotto turchino dell’ospizio.

            Non mi sono più guardato in uno specchio, e non mi passa neppure per il capo di voler sapere che cosa sia avvenuto della mia faccia e di tutto il mio aspetto. Quello che avevo per gli altri dovette apparir molto mutato e in un modo assai buffo, a giudicare dalla maraviglia e dalle risate con cui fui accolto. Eppure mi vollero tutti chiamare ancora Moscarda, benché il dire Moscarda avesse ormai certo per ciascuno un significato così diverso da quello di prima, che avrebbero potuto risparmiare a quel povero svanito là, barbuto e sorridente, con gli zoccoli e il camiciotto turchino, la pena d’obbligarlo a voltarsi ancora a quel nome, come se realmente gli appartenesse.

            Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace e non ne parli più. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo.

            L’ospizio sorge in campagna, in un luogo amenissimo. Io esco ogni mattina, all’alba, perché ora voglio serbare lo spirito così, fresco d’alba, con tutte le cose come appena si scoprono, che sanno ancora del crudo della notte, prima che il sole ne secchi il respiro umido e le abbagli. Quelle nubi d’acqua là pese plumbee ammassate sui monti lividi, che fanno parere più larga e chiara, nella grana d’ombra ancora notturna, quella verde plaga di cielo. E qua questi fili d’erba, teneri d’acqua anch’essi, freschezza viva delle prode. E quell’asinello rimasto al sereno tutta la notte, che ora guarda con occhi appannati e sbruffa in questo silenzio che gli è tanto vicino e a mano a mano pare gli s’allontani cominciando, ma senza stupore, a schiarirglisi attorno, con la luce che dilaga appena sulle campagne deserte e attonite. E queste carraje qua, tra siepi nere e muricce screpolate, che su lo strazio dei loro solchi ancora stanno e non vanno. E l’aria è nuova. E tutto, attimo per attimo, è com’è, che s’avviva per apparire. Volto subito gli occhi per non vedere più nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Così soltanto io posso vivere, ormai. Rinascère attimo, per attimo. Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni.

            La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane. Ma ora quelle campane le odo non più dentro di me, ma fuori, per sé sonare, che forse ne fremono di gioja nella loro cavità ronzante, in un bel cielo azzurro pieno di sole caldo tra lo stridìo delle rondini o nel vento nuvoloso, pesanti e così alte sui campanili aerei. Pensare alla morte, pregare. C’e pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l’ho più questo bisogno, perché muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori.

««« Libro Settimo

Uno, nessuno e centomila – Indice

Introduzione
Libro primo
Libro secondo
Quaderno terzo
Quaderno quarto

Libro quinto
Libro sesto
Libro settimo
Libro ottavo

««« Introduzione ai romanzi di Luigi Pirandello

Se vuoi contribuire, invia il tuo materiale, specificando se e come vuoi essere citato a
collabora@pirandelloweb.com

Shakespeare Italia

Skip to content