Uno, nessuno e centomila – Audio lettura 2

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Legge Edoardo Camponeschi
Il rapporto tra la forma e la vita domina questo Pirandello maturo, il quale, scardinando ogni forma, perviene in pratica al rifiuto della vita stessa. «Uno, nessuno e centomila» è un romanzo costruito come una scatola vuota, e certamente è una prodezza che basterebbe a dimostrare una vocazione irresistibile, talento di uno scrittore totalmente consegnato al suo demone.

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Uno, nessuno e centomila

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            Uno, nessuno e centomila è l’ultimo romanzo di Pirandello. Oltre che l’ultimo, è estremo nella sua concezione e nella sua struttura, e infatti rende difficile da immaginare un ulteriore cimento su questa strada e, più in generale, mette in crisi la possibilità stessa del romanzo, almeno quello di impostazione tradizionale. Pubblicato a puntate sulla «Fiera letteraria» già nel 1925 e poi in volume da Bemporad nel 1926, secondo la testimonianza del figlio Stefano occupò lo scrittore per ben quindici anni in un difficilissimo travaglio creativo, quando è chiaro che dopo Sei personaggi in cerca d’autore la via teatrale era ormai la più congeniale all’avanguardia pirandelliana.

           Un romanzo, dunque, da morte del romanzo. Con un titolo fortunato e divenuto proverbiale, a indicare un passaggio fondamentale della coscienza novecentesca.

            Non si potrà negare la coerenza dell’evoluzione di Pirandello, dall’esordio dell’Esclusa, in una ricerca incessante e lucidissima sulle forme, e sulla forma della narrazione; quando l’evoluzione, in un circolo virtuoso che da un altro punto di vista è vizioso, diventa inevitabilmente involuzione, ai limiti del silenzio. A un certo punto dell’opera, che stenta a decollare a dispetto del consistente numero di pagine già scritto, il personaggio-protagonista, in realtà l’autore dietro di lui, chiede al lettore disorientato e forse sconcertato:

            «Ma voi, lo so, non vi volete ancora arrendere ed esclamate:

            – E i fatti? Oh, perdio, e non ci sono i dati di fatto?

            – Sì, che ci sono.

            Nascere è un fatto. Nascere in un tempo anziché in un altro, ve l’ho già detto; e da questo o da quel padre, e in questa o quella condizione; nascere maschio o femmina; in Lapponia o nel centro dell’Africa; e bello o brutto; con la gobba o senza gobba: fatti».

            Come dire: quello che accadrà, quel poco e residuale, non è più un fatto ««strano e diverso», alla Mattia Pascal, ma invece è simbolico e indica piuttosto un percorso e un processo. Uno, nessuno e centomila è un manifesto teorico, un esercizio globale sul senso e sul non senso, che tracima sino a togliere il respiro.

            Si intende che quello che succede non succede, come in ipotesi, in Lapponia o in Africa, ma sempre in Sicilia, e sia pure una Sicilia non nominata; e in una Richieri che è l’eterna Girgenti, abitata dalla sua fauna umana febbrile di notai e giudici e piccoli possidenti e visionari e creature segnate, ma ormai resa metafisica: una Sicilia fuori della Sicilia o, forse meglio, il mondo intero dentro quella Sicilia e Girgenti che è un luogo da prototipo.

            Il personaggio dice «Io» e lo ripete centomila volte, e si chiama Vitangelo Moscarda. Ha cioè, all’inizio, un nome e un cognome. Un cognome che anche all’interessato appare brutto e fastidioso. Come la mosca ronzante, di cui rievoca il ricordo. Luciano di Samosata, suo diritto, ha scritto un Elogio della mosca. Mentre al complessato personaggio non piace. Questione di sensibilità irritata. Si noti che La mosca, inserita poi in una raccolta dal medesimo titolo, è una delle novelle più atroci scritte da Pirandello. E che per un rapporto analogo tra nome e personaggio, sia pure nella differenza, si può pensare allo sveviano Zeno, che in qualche modo riecheggia il grado zero.

            Ma il cognome Moscarda è un pretesto. Si muove, nell’assoluto, da un volto e da uno specchio. E da una moglie, che rappresenta l’altro e il motore della socialità e dell’infelicità.

            Il personaggio scopre per caso, in realtà per rivelazione ostile della moglie, che il suo naso pende a destra. È un dato infimo, in un ritratto senza volto, non è il nasone deforme di Cyrano de Bergerac, che peraltro ha ispirato a Edmond de Rostand delle variazioni sublimi; ma basta a scatenare una crisi, terribile e irreversibile, di identità. Moscarda si osserva meglio che in passato, dialoga con la propria immagine riflessa allo specchio, fa smorfie e ammiccamenti, esibizioni ma da solitario, in un cerimoniale sempre più esasperato. Mattia Pascal aveva il tratto del filosofo tedesco e scopriva di essere uno e due. Moscarda interiorizza e supera il caso di Pascal, scopre un suo sosia allo specchio.

            Ma non è il sognatore Goljadkin di Dostoevskij a Pietroburgo, che non a caso comincia la sua avventura svegliandosi e correndo a verificare la sua figura allo specchio: «Sarebbe un brutto tiro, – disse il signor Goljadkin sottovoce, – ecco, sarebbe un brutto tiro, se oggi avessi qualche imperfezione, se fosse venuto fuori, per esempio, qualche cosa che non va, se qualche foruncoletto noioso e qualche altra cosa sgradevole mi fossero capitati all’ improvviso…». Niente naso che pende, e niente moglie, dunque, per Goljadkin. Ma soprattutto, il sosia pirandelliano non è esterno, ma interno, e prolifera in maniera allarmante: sono presto tanti sosia, che convivono come estranei, e anzi come stranieri. La rissa è interna, tanto che tra l’uno e l’altro si manifestano addirittura gelosia e furto. E il dialogo è un monologo ininterrotto, che però è un delirio. Un lucidissimo delirio.

            Pirandello distrugge, a filo tagliente di logica, la logica della realtà. Nessuno scrittore italiano come lui, nel suo tempo, ha affrontato il dilemma dell’identità, mostrando la finzione che sta alla base della rappresentazione sociale, in un’operazione di smascheramento, quella che sta alla base del suo teatro. Tanto che lo stesso successo internazionale ottenuto sul palcoscenico attesta una novità culturale ed epistemologica, che va al di là del valore specificamente letterario.

            La narrazione procede a frammenti, a registrare un vuoto, una vertigine esistenziale. O si vive o si vede vivere. O si vive o si ragiona. E qui si ragiona a oltranza, con una predisposizione che diviene ormai vizio; e non soltanto la realtà come un’illusione, ma la vita stessa si rivela veramente impossibile.

            Lo spettro è quello della follia, che aleggia intorno e che dà al testo pirandelliano un tono inconfondibile, pericoloso, epidemico. Il seme della pazzia si sparge ovunque. Richieri è un microcosmo di infezione, un enorme sanatorio psichiatrico. Qua e là affiorano più precise notazioni storiche. Per esempio, viene evidenziata la condizione delle suore alla Badia Grande. Si rilegga questo passo: «Una di quelle suore, la meno vecchia, era zia anch’essa di Anna Rosa, sorella del padre; ed era, dicono, mezza matta. Ma ci vuol poco a fare ammattire una donna, chiudendola in un monastero. Da mia moglie, che fu per tre anni educanda nel convento di San Vincenzo, so che tutte le suore, così le vecchie come le giovani, erano, chi per un verso e chi per un altro, mezze matte». Noi lo sapevamo già da Maria e da suor Agata nella verghiana Storia di una capinera. Il personaggio pirandelliano lo ha saputo invece dalla moglie. Lo ha saputo perché quest’ultima glielo ha detto. Ma dietro la finzione, e al di là dell’accennata denuncia sociale, lo ha saputo perché se ne è reso conto, direttamente, l’autore. Salta fuori la moglie. Anche all’inizio, Moscarda si scaglia contro i suoi dipendenti e in particolare contro Firbo, che lo accusa di essere pazzo e a cui replica urlando una verità ingiuriosa: «Sì; come tua moglie, che ti conviene tener chiusa al manicomio!».

            E più avanti, spiega che quella non vuole essere un’ingiuria, infatti si inginocchia, batte la fronte contro terra e spiega che Firbo stesso dovrebbe inginocchiarsi, e che tutti dovrebbero mettersi in ginocchio dinanzi ai cosiddetti pazzi.

            Ognuno vede la matrice autobiografica di queste situazioni, la pressione ossessiva di un problema personale, altrimenti insostenibile, che solo l’elaborazione artistica può contribuire a reggere, e forse a riscattare. Anzi,il destino dello scrittore è così impietoso e tragico che, per sopravvivere, interviene una disperazione di chi non ha più nulla da perdere, e da quello scacco si risolve a ricavare il massimo profitto ricavabile, a cercare – è il caso di dirlo – lo scacco matto, di una rivalsa su un altro piano. Quella moglie davanti a cui bisogna inginocchiarsi, come di fronte a una statua di culto, che insegna quello che è possibile apprendere nel caos della vita e delle convenzioni sociali, è sicuramente Maria Antonietta Portulano, la moglie impazzita, la Medusa inguardabile e insieme la Musa ispiratrice e tormentosa.

            È come se Pirandello avesse in casa il Sancta Sanctorum, custodito gelosamente, nascosto e svelato al mondo, in una profezia nichilistica. E vale la testimonianza, a sorpresa in quel contesto, del figlio Stefano nella prefazione apposta sulla «Fiera letteraria», comprensibilmente commossa e anche troppo sentimentale e letteraria: «Padre mio, Uno, nessuno e centomila, breviario di fede per chi ha sentito vacillare qualche sostegno del suo mondo, è la storia della tua vittoriosa tragedia di uomo-fanciullo, schietto e sano, posto a contatto con la forma più perfetta – quasi un simbolo? – della vita vivente, con il caos perpetuo veloce creatore e distruttore di realtà momentanee: mia madre pazza».

            Si ricordi anche un altro brano, laddove Moscarda è ricevuto dal vescovo. È una giornata di vento terribile e, sul terrazzo di una vecchia casa dirimpetto al palazzo vescovile, scorge un vecchio, magro di una magrezza da incutere ribrezzo, con addosso una coperta rossa e con le braccia disposte a croce, che ride con le lacrime agli occhi, con gli occhi spiritati e i capelli sparsi al vento, che sta facendo esercizi di volo. È, al solito, un povero pazzo, uno dei tanti disturbati mentali di Richieri, ed è innocuo, secondo la rassicurazione del vescovo, che è abituato a quelle manifestazioni squilibrate. Al che, Moscarda obietta dispettoso: «No, sa: non sta lì. Sta qui, Monsignore. Quel pazzo che vuol volare sono io».

            Ecco, il folle che cerca di sottrarsi alla legge realistica della gravitazione terrestre non è il vecchio grottesco sul terrazzo che si slancia nel vento, ma Moscarda, ma Luigi Pirandello, il quale in Uno, nessuno, centomila effettua il suo tentativo definitivo di prendere quota, di liberarsi del peso corporeo, o almeno di quell’eredità storica e anagrafica, che è il suo peccato originale.

            Riprende il tentativo di Mattia Pascal, ma senza intervento favorevole e congiunturale della fortuna, senza vincita rocambolesca alla roulette e senza scambio di persona. Vitangelo Moscarda ha solo bisogno di guardarsi allo specchio, nella tensione, sì, esercitata da una moglie, con un dualismo e manicheismo degni di uno Strindberg, per prendere infine la decisione, per rompere con i condizionamenti e i legami della terrestrità.

            Gli esercizi di volo? C’è un tale Marco di Dio che non gli paga l’affitto da tempo immemorabile. È un uomo sgradevole e per giunta colpito da uno scandalo di natura sessuale. Moscarda, con atto spettacolare e dimostrativo, prima obbliga a evacuare dalla casa, sotto la pioggia e davanti alla comunità. Quindi annuncia che quella stessa casa gliela regala. Pazzo prima e ancor più pazzo dopo.

            La temperatura è quella della novella Quand’ero matto, che è del 1926, quindi più o meno coeva. Anche in Quand’ero matto la follia si esprime come francescanesimo e giullaresca vena di santità. Anche nella novella la partita decisiva si gioca alla fine, al di là di tutte le affermazioni intellettuali e di principio, come accettazione del sacrificio supremo del combattente a vita nella lotta per la sopravvivenza: quello di sbarazzarsi delle risorse economiche, e di metterle a disposizione della collettività. Atto ultimo e suicida di pazzia. La differenza è che nella novella la contestazione è immaginata umoristicamente al passato, mentre nel romanzo il tempo è quello del presente, di un esperimento in atto. Il titolo questa volta potrebbe essere: Mentre sono pazzo… Tanto più per questo Vitangelo Moscarda, Gengè ricco borghese, banchiere parassita e, in concreto, odiato usuraio, che sbaragliando la resistenza della moglie e dei complici, si risolve a liquidare la banca, a fondare un ospizio di mendicità, a rinchiudervisi dentro, «senz’alcuna distinzione, come ogni altro mendico, in una branda, mangiando come tutti gli altri la minestra in una ciotola di legno, e indossando l’abito della comunità destinato a uno della mia età e del mio sesso».

            Pascal ritornava nella biblioteca, tra i topi e i volumi polverosi di cultura maccheronica. Moscarda, fallita la contromossa di interdirlo in quanto pazzo, si seppellisce in un ospizio, santo, o almeno nudo. Ha scoperto un Dio di dentro e un Dio di fuori. È questo l’approdo a cui anela lo scrittore, che nel frattempo – non dimentichiamolo – ha preso la tessera del partito fascista, la soluzione a tutti i problemi, complessi e ingarbugliati? Quale che sia la risposta, certo si capisce meglio quel testamento giustamente celebre contenente le volontà sulle esequie, su quel funerale di terza classe, e su quelle ceneri da disperdere al vento o, al più, da sigillare sotto un sasso della campagna siciliana.

            Il rapporto tra la forma e la vita domina questo Pirandello maturo, il quale, scardinando ogni forma, perviene in pratica al rifiuto della vita stessa. Uno, nessuno e centomila è un romanzo costruito come una scatola vuota, e certamente è una prodezza che basterebbe a dimostrare una vocazione irresistibile, talento di uno scrittore totalmente consegnato al suo demone. È, in questo senso, la prova più ambiziosa, quella in cui ha rischiato di più, mettendo tutto in gioco, come un acrobata che nel suo salto mortale rinuncia alla rete di protezione.

            Nell’ultima parte, riaffiora inevitabilmente una materia minima: l’ombra del padre usuraio, come un rimosso che ritorna; e soprattutto, in una specie di svolta narrativa, la comparsa del personaggio di Anna Rosa, amica della moglie, poco convincente e pretestuosa, se non fosse che ha la funzione di dirottare il racconto, tra macchinazioni e sparatorie, all’esito finale.

            Esito finale che non vorrebbe concludere. L’ultimo paragrafo infatti si intitola così: Non conclude. È, almeno sulla carta, un progetto di opera aperta, quale sarà teorizzata nella seconda metà del secolo dall’avanguardia letteraria.

            A qualcuno queste pagine, talora alimentate di riporto da materiali eterogenei, potranno lasciare un senso di stanchezza e di sterilità, con le loro accanite logomachie, con il loro eccesso di cerebralismo, con quell’ansia di demolizione, su tutto e tutti e su se stessi, che suscita gli anticorpi. Ma l’indagine pirandelliana, provvista di patente filosofica o no, ha cambiato il senso o almeno la risonanza a tante parole nel vocabolario: nome, identità, coscienza, pazzia… Uno, nessuno e centomila è conosciuto anche da chi non lo ha letto, perché è una delle pietre miliari nel percorso angoscioso della modernità.

Uno, nessuno e centomila – Audio Lettura 1 – Legge Veronica Salvi
Uno, nessuno e centomila – Audio lettura 2 – Legge Edoardo Camponeschi

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