Un’idea – Audio lettura 2

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Legge Giuseppe Tizza
«È dunque un’idea. Ancora, sempre quella idea ch’egli non riesce in alcun modo a precisare. Appena ne avverte confusamente la presenza, si sente opprimere da quel peso. Appena gli svanisce, ecco: vuoto come un’ombra.»

Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 2 giugno 1934, poi in Berecche e la guerra, Mondadori, Milano 1934.

Un idea. audiolibro
René Magritte, (1898-1967), Il vaso di Pandora, 1951

Un’idea

Voce di Giuseppe Tizza

******

             Lasciata la solita compagnia nel caffè (tra i lumi e gli specchi pieno di fumo) si trova davanti la notte: vitrea, quasi fragile nella purezza degli astri sfavillanti sulla vastissima piazza deserta.

             Attraversarla, gli pare impossibile; la vita, in cui deve rientrare, irraggiungibilmente remota da essa; e tutta la città come da secoli disabitata, coi fanali che ancora la vegliano nel chiarore misterioso di quella gelida azzurrità notturna. Impossibile il rumore dei suoi passi in quel silenzio che pare eterno.

             Ah se davvero per prodigio si fosse spenta la vita della città! Seduto come un mendico sul paracarro all’imboccatura della via, davanti la piazza, rimarrebbe come quei fanali vani a mirare e sostenere la stupefazione immota di tutte le cose ormai vuote per sempre d’ogni senso.

             Si scuote alla fine da quel fascino, per attraversare la piazza.

             Leggero come un’ombra, il suo corpo; e, andando, nessun rumore. Dov’è più il peso di cui s’è sentito gravare poc’anzi? Tutt’intorno, ora, la città ha come una vaporosa evanescenza di sogno; e il suo corpo vi si muove quasi fluido, ombra tra ombre.

             È dunque un’idea. Ancora, sempre quella idea ch’egli non riesce in alcun modo a precisare. Appena ne avverte confusamente la presenza, si sente opprimere da quel peso. Appena gli svanisce, ecco: vuoto come un’ombra.

             Ma non dev’essere dell’idea, quel peso. Il peso è del tempo che perde a guardar vivere gli altri. Non riesce più a capirne la ragione, o meglio, aspetta di capire che altro vi stiano a cercare, se è questa la vita, così tutta fatta di cose che si sanno, usuali e necessarie, le stesse ogni giorno, magari con l’illusione che ogni tanto ce ne possano esser di nuove solo perché hanno preso un giro più largo, con qualche imprevisto in principio, una sensazione insospettata, tanto da parere che s’apra un altro mondo, e poi o ci s’abitua poco dopo o si ricasca subito, delusi, nel solito d’una indifferenza continua. Prova per la mollezza di certe sue bontà, tutte un po’ artificiose, un tale schifo che, tante volte, a ripensarci, vorrebbe essere piuttosto una bestia feroce. E queste donne che si guastan la faccia per farsene una maschera! Se domandi a qualcuna: – A che pensi? – non pensano a nulla; ma basta che tu gliel’abbia domandato, perché subito s’affacci loro alla mente qualcosa che non ti possono dire. Come svegliare le gatte. E la vanità di tutti questi segreti ragionamenti, sempre con un sorriso da scemo pronto sulle labbra a un minimo richiamo dei cari amici che ti burlano perché non sai dir loro che cos’hai né che cosa vuoi. Il peso è questo. Mentre forse, per sé, quell’idea è la cosa più lieve, la più semplice e, chi sa? la più comune, forse.

             Ha attraversato la piazza. Prima d’entrare nello stretto delle case torna a fermarsi. Andare a chiudersi, nell’animo in cui è, più che nausea gli fa paura. Prende a destra per il lungo viale che conduce al ponte e, di là, ai sobborghi solitarii oltre il fiume. È certo che tornerà indietro appena giunto al ponte. Sul ponte non salirà. Senza volerlo avvertire, un brivido, solo a pensarci. Il freddo è pungente; perfino il selciato ne sembra illividito. Nota, camminando, che ogni qual volta passa sotto una delle lampade elettriche sospese alte in fila in mezzo al viale, l’ombra del suo corpo s’allunga, crescendogli curiosamente da un piede e dall’altro, e più s’allunga e più si rarefa, finché non svanisce. Anche l’ombra del suo corpo, come quell’idea.

             Non può più illudersi che, la mattina dopo, ristorato dal sonno della notte, si scrollerà d’addosso il ricordo di quei momenti d’ossessione, esclamando per non dar loro importanza:

             – Stanchezza!

             Troppe volte ha esclamato così. Gli pare ormai l’esclamazione d’un altro, per certi conforti che, inutile darli, eppure si danno. Se è veramente stanchezza, del resto, non essendo più di momenti e non bastando più il sonno né altro a fargliela passare, che sollievo e che conforto può più essere per lui chiamarla così quell’idea? E non è neppure disgusto di quella sua vita. No, è che proprio non lo sa che cosa sia precisamente né donde gli venga, ormai così spesso, quell’idea, come un arresto improvviso che lo tiene sospeso e assorto in una opaca attesa.

             Ma come? È già entrato?

             Da sé, i suoi piedi, in un portone ben noto di quel viale; e hanno anche salito la prima rampa d’una scala per cui altre volte, di tempo in tempo, egli è salito con una vaga speranza nel cuore, e da cui ogni volta è disceso col proposito di non tornare a salirla mai più.

             Una saletta, e poi lo scrittojo, tutto in ombra, rischiarato soltanto sui grandi fogli bianchi d’un registro aperto sul piano della scrivania. Traspare appena in quell’ombra un paralume verde di vetro. E su quei fogli illuminati due mani rosee, piccole, con tante fossette quante sono le dita. Dall’ombra viene una voce. Senza sorpresa, senza rimprovero, quasi sbocciata da un lieve, lieto sorriso:

             – Ah tu ancora qui?

             Bisogna far gli occhi a discernere in quell’ombra; ma lui ci vede e va diritto alla voce e ha, come al solito, le mani troppo pronte; come al solito lei gliele prende e, più che respingerle, fa il gesto di restituirgliele. Così non le vuole; neppure se egli fosse ancora il suo fidanzato. Ah, lo è ancora? Bel coraggio! Non si fa più vedere da quattro mesi. Lei non l’ha richiamato; ma non lo richiamerà mai lei. Se vuol venire, è sempre il benvenuto, e la troverà tutte le sere al lavoro, in casa, dopo il servizio giornaliero alla banca, là coi suoi registri e tra le sue cifre, e due penne, già, e due inchiostri, cifre rosse e cifre nere, regoli, matite e la macchinetta per le operazioni automatiche.

             – Zia!

             Inutile svegliarla, povera zia. Dorme al solito sul divano, fingendo di lavorare a maglia. S’ostina ad aspettare, così con gli occhiali sul naso, che lei abbia finito, per andare a letto insieme. La testa le ciondola ora su una spalla ora sull’altra; le mani le sono scivolate in grembo: anche gli occhiali a momenti le scivoleranno dal naso.

             Quelle cifre? Ma no, che vuole che rappresentino per lei? Il suo lavoro, da eseguire con la massima attenzione. Poi restano lì, per la banca. Non la interessano affatto. E così dicendo, si passa le mani sui biondi capelli lisci e lucidi e gli sorride coi chiari occhi azzurri. La bocca è così fresca e la fronte così serena! Non ha mai desiderii?

             – No. Perché averne?

             Oh Dio, qualcuno, momentaneo, solo se possibile. È contenta così.

             Se lui la sposasse?

             Eh sì, perché no, tanto contenta.

             Ma lui non la sposerà mai. Ora glielo domanda soltanto per sapere che cosa lei gli risponderà.

             Bene, lei gli risponde così. E dolce supporlo anche senza crederci.

             Per una donna come lei, del resto, meglio non sposare. Non saprebbe immaginarsi in una vita diversa. Questa casetta signorile, benché su al quinto piano, tutta messa con gusto di colori appropriati, tende, tappeti, la soddisfazione che tutto è dovuto al suo lavoro, la tranquillità della zia, qualche piacere che di tanto in tanto si possono prendere, il mese ai bagni o in collina, qualche passeggiata, le feste, con questa o quella amica. Ne ha, sì, qualcuna. E sorride. Perché non dovrebbe averne? E anche qualche giovanotto, perché no! Poche donne sanno sorridere con una così aliena dolcezza. Pare lontana da tutto, lontana anche da sé, come se neppure il suo corpo le appartenga e non abbia il minimo sospetto né dei desiderii che può accendere né del piacere che può dare. E difatti di una piacenza così nobilmente placida e pura, che nessuna bramosia carnale può sorgere in chi la miri. Ma possibile che non pensi a nulla? Almeno al suo avvenire! Vivrà sempre così, in codesto ritegno, sempre con l’aria di ritrarsi da tutto? Ci sono gli altri; c’è la vita, solo a farsi un po’ avanti. Non vuole. I pensieri della giornata, delle cose da fare. Legge, a volte, qualche libro; ma ha così poco tempo per la lettura! Libri di viaggio. Al polo? No. Perché dice al polo? Un’altra bella risata, liquida, schietta, luminosa. La crede proprio così fredda? Eppure, dicono che le donne esquimesi sono invece così calde!

             – Io? Non so. D’inverno soffro molto il freddo. Giù le mani. Le ho fredde, sì.

             E questo silenzio. Sempre questo silenzio. – Dormo quieta. Sogno di rado.

             Sul ponte, quella sera, che purezza d’astri!

             Guarda il cielo, per non guardare, giù, l’acqua del fiume. L’idea che non riesce a precisare è forse proprio questa. Ma non ne ha il coraggio. Poggia le mani sul parapetto del ponte; se le sente quasi restituire anche qui, dal freddo della pietra, come prima dal tepore di quelle altre mani. E resta lì, di nuovo assorto, opacamente, in quella sua singolare attesa. Il tempo s’è fermato e fra le cose rimaste tutt’intorno in uno stupore attonito pare che un segreto formidabile sia nel fatto che in tanta immobilità solo l’acqua del fiume si muova.

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