Di Ciro Sorrentino.
Quello di Pirandello è, dunque, uno stile personalissimo che, nella capacità di scomporre e deformare, nella propensione per l’ironia e per l’espressionismo, lo avvicina all’avanguardia europea e alla diffusa intenzione di svelare nelle forme dell’arte la rovina morale e le profonde contraddizioni psicologiche dell’individuo.
Una introduzione a Luigi Pirandello
Vissuto in un periodo storico-culturale segnato dalla crisi dei valori ottocenteschi e dalla fine delle certezze scientifico-razionali, Pirandello matura una personale riflessione critico-umoristica della realtà umana, manifestando l’urgente bisogno di rappresentare il disagio esistenziale e la conseguente penosa disillusione, che, in maniera definitiva, hanno stravolto le consuetudini della società borghese post-risorgimentale.
Attraverso una intelligente e spassionata attività letteraria, espressa soprattutto nella sua opera di narratore e di drammaturgo, lo scrittore fornisce una sentita e diretta testimonianza del malessere contemporaneo, e conduce una persistente inchiesta sullo stato di confusione e di inconsolabile isolamento in cui si ritrova l’individuo. Oggetto privilegiato di analisi diventa la dimensione intima e autentica della coscienza, riposta sotto l’inquietante angoscia dell’uomo moderno, stretto nella morsa inesorabile della vita che gli si scopre insidiosa e mutevole.
La coscienza del fallimento di un intero universo di valori è rigorosamente esplicitata nel saggio “Arte e coscienza d’oggi” del 1893, laddove viene denunciata l’irrisolutezza generale perchè “crollate le vecchie norme” e “non . ancor sorte o bene stabilite le nuove”, quando ormai “i termini astratti han perduto il loro valore, mancando la comune intesa, che li rendeva comprensibili”, “nessuno più riesce a stabilirsi un punto fermo e incrollabile”. La relatività che pervade tutti gli aspetti dell’epoca moderna trasforma inevitabilmente la vita in una realtà intricata e contraddittoria, e costringe l’uomo a ripiegare su se stesso, a sentirsi angosciato dagli insanabili conflitti personali e dalle incertezze sociali. La scoperta disarmonia della vita e della storia, l’incoerenza e l’inconsistenza del tempo oggettivo, sono, dunque, per Pirandello, i segni esterni, ormai visibili, che rispecchiano un identico e profondo dramma, quello del soggetto che, rimasto solo con i frammenti della sua coscienza, prova inutilmente a fissarsi in una forma unitaria, organica e compatta.
La riflessione pirandelliana, seria e pungente, dopo aver svelato il tragico nulla, dissimulato dall’immagine a volte buffa degli eventi, si sofferma sulle incoerenze e sulle dolorose disarmonie della realtà, che, in definitiva, proiettano l’uomo in una pressante e dolorosa inquietudine. Ed è naturale che Pirandello – pienamente convinto che “fare della letteratura, per gioco dello spirito, . par cosa stranamente vana” – ascolti il lamento dell’uomo e scriva per denunciare l’indissolubile conflitto tra l’essere e l’apparire, la desolazione e lo stato di abbandono in cui affonda la vita quotidiana. In questa convinzione critico-letteraria, la dialettica, spesso esasperata, e il paradosso, come espressione dell’antinomia degli eventi, si inseriscono come i procedimenti conoscitivi e gli espedienti comunicativi più congeniali per indagare la realtà e svelare i profondi e dolorosi drammi di tante creature tormentate dall’impossibile bisogno di fuggire “la pena del vivere così”.
Quello di Pirandello è, dunque, uno stile personalissimo che, nella capacità di scomporre e deformare, nella propensione per l’ironia e per l’espressionismo, lo avvicina all’avanguardia europea e alla diffusa intenzione di svelare nelle forme dell’arte la rovina morale e le profonde contraddizioni psicologiche dell’individuo. L’evidente indirizzo esistenziale e metafisico della ricerca pirandelliana è prossimo alle posizioni di Kafka, Camus, Sartre ai drammaturghi del teatro dell’assurdo (Beckett, Ionesco) ed è riconoscibile nell’amaro dialettizzare dello scrittore agrigentino per l’indagine inquietante della realtà interiore, per l’angoscia dell’esistenza, per l’illogicità e la contraddittorietà degli eventi che provocano la spersonalizzazione e l’alienazione dell’uomo moderno. Questi i segni riconoscibili di una singolare correlazione letteraria, che, oltre ad alcune analogie speculative e all’impegno artistico, si scopre piuttosto come naturale convergenza e autonoma adesione a valori universali, spontaneamente riconosciuti e in differenti modi espressi dalla genialità dei grandi pensatori.
L’uomo pirandelliano, pressato da un insoddisfatto ed impossibile desiderio di comunicare e di essere compreso, non è molto diverso dai personaggi che danno vita alle grandi opere letterarie dei più famosi scrittori europei del XX secolo e lo stesso pathos vive quando, spinto da forze inconsce, scopre “percezioni, ragionamenti, stati di coscienza che sono veramente oltre i limiti relativi della nostra esistenza normale e cosciente”: è qui segnato il passaggio dalla farsa del “vivere” al dramma del “vedersi vivere”. “Chi ha capito il gioco non riesce più ad ingannarsi; ma chi non riesce più ad ingannarsi, non può più prendere né gusto né piacere alla vita”, anzi sceglie di essere una maschera nuda dolorosamente consapevole della doppiezza dei comportamenti umani.
Ma tutto suo è l’intimo dolore e lo strazio indicibile, quando, di fronte alla caduta di ogni relazione spaziale e nesso temporale, non può che approdare alla constatazione di un relativismo conoscitivo e psicologico senza soluzione, alla sostanziale incomunicabilità tra gli uomini, alla convinzione che la realtà si riduce ad una temporanea proiezione del nostro io. Eppure allo sconforto reagisce, e fuggendo l’insensata “trappola” del vivere quotidiano, si rifugia, con una scelta del tutto singolare, nella dimensione dialettica e drammatica del suo ragionare e parla della vita con la distaccata e dolente ironia del saggio, che, ponendosi fuori dal tempo storico, osserva le vicende umane con imparziale e lucida logica.
Questa la storia dolorosa dell’uomo che, attraverso la lente flettente dell’umorismo, Pirandello scorge negli aspetti anomali e bizzarri della vita, svelandone le sensazioni risibili e pietose; e questo l’esercizio artistico che, nel linguaggio raziocinante e polemico di una innumerevole serie di personaggi, tradisce una tensione lirica, variamente significata nel grido lacerante di denuncia e di condanna della coscienza.
E siffatto pensiero poetico anima le pagine del romanzo “Il Fu Mattia Pascal”, nel quale Pirandello, attraverso la scomposizione dei moduli narrativi tradizionali e la critica al determinismo della filosofia moderna, sconvolge l’ordine tutto apparente e formale della storia dell’uomo per dare spazio alle ragioni profonde e alla spinte emotive dell’essere, alla protesta della persona contro gli artifici delle maschere e delle convenzioni sociali, che generano inevitabilmente alienazione e smarrimento.
La reazione alla morsa di una squallida esistenza, nascendo spontanea dal profondo ed istintivo bisogno di consistere, è disperato sforzo di costruirsi una vita diversa rispetto alle mistificazioni della vita civile, alle forme precostituite che, precludendo la possibilità di determinarsi nella realtà, alimentano un senso infinito di vuoto esistenziale. Al baratro del nulla e alla dimensione angosciosa di una sconcertante assenza psicologica e morale, che sospendono la coscienza in una spaventosa ed insopportabile noia, Mattia Pascal si ribella e, cercando di dare un senso alla propria vita, sceglie una nuova identità, quella di Adriano Meis.
Si sorprende, allora, nella vivacità e nella spontaneità dei suoi pensieri, ma, insieme, si scopre “forestiero” della vita, perché, la mancanza di un stato sociale gli vieta di dare spazio ai suoi sentimenti e di realizzare il sogno di sentirsi vivo in una realtà più vera ed autentica. Ad un’analisi più profonda , la duplice assenza di identità, significata nella vita di Mattia Pascal e del suo alter ego Adriano Meis, è assenza di liberalità e di umanità, perfidia di una società per la quale “fuori della legge” e del suo apparente e pretestuoso ordine costituito, “per cui noi siamo noi”, vale a dire forme indefinite e senza coscienza, “non è possibile vivere”.
Di conseguenza, l’apparente e quasi pacifica conclusione del racconto, nella quale è assolutamente significata la terribile e mostruosa verità scoperta da Mattia, non è rassegnazione e resa del soggetto alle complicate e intricate consuetudini, nelle quali irrimediabilmente si consuma la mercificazione dei rapporti umani, ma è denuncia sofferta dell’impossibilità a riconoscersi in una realtà svuotata di significato proprio dalle stesse regole degli istituti sociali. Il suo particolare rientro nella società si costituisce, dunque, come l’estremo tentativo per individuarsi in uno spazio effettivo; e la provvisoria sospensione di senso, in cui sembra interrompersi la storia, assurge piuttosto a simbolo di una rinascita dell’uomo che, di fatto, nella indubbia riconciliazione con la verità della sua essenza, è l’unica alternativa possibile alla massificazione di un vieto sistema.
L’antinomia, fin qui significata nel contrasto tra l’uomo e la maschera artefatta, si dilata nella storia di VitangeIo Moscarda, diventando prima dissidio interiore, poi impossibilità di comunicare con i propri simili, infine, negazione di una realtà sociale sempre più disarticolata, divisa, parcellizzata. Ancora una volta, e con estrema recrudescenza, l’uomo pirandelliano si ribella alle insopportabili e morte forme, ambiguamente dissimulate dalla consuetudini, e con maggiore intensità si adopera per attuare un gesto irrazionale e insensato, l’unico che possa annientare quella “regolarità delle espe¬rienze”, che lo individua come Vitangelo Moscarda. Al termine della sua audace esperienza si ritrova solo con la sua coscienza e per garantirne la sovranità, si rifugia nel dominio integro della natura, il solo non ancora violato dalla presunzione umana.
Questa la sostanza poetica dell’uomo senza maschera che, definitivamente libero dagli artifici storici di una artificiosa logica della convenienza, si conclude nella totale estraneità di Serafino Gubbio, nella coscienza tragica dell’impossibilità di vivere in una realtà sociale che, sul piano esistenziale, risulta essere interamente distorta e invalidata, dai miti del realismo ottocentesco e del nuovo storicismo.
Sua è la constatazione estrema dell’insanabile contrasto con la realtà, e solo sua è la disposizione tragica che, rispetto alle scelte parziali, ancora assimilate alla necessità di appartenere in qualche modo alla storia del mondo, gli impedisce di proseguire, come Mattia e Vitangelo, nella ricerca di una dimensione in cui consistere. Serafino non sente più la necessità di figurarsi nessuna forma, e, senza “né mondo, né tempo, né nulla… fuori di tutto, assente da se stesso”, ormai inabile ad esprimersi, aderisce al silenzio immutabile della sua “macchinetta”, per fissare impassibile, sulla pellicola cinematografica, l’insolvibilità ad essere e la pena del vivere. Serafino è cosciente che non è possibile stabilire una misura lineare e positiva, una regola intelligibile per trovare un senso alla realtà e, ripercorrendo le tappe conoscitive dell’uomo, mostra l’agghiacciante e terribile verità dell’inconsistenza, la devastante e inconsolabile solitudine dell’uomo.
Ciro Sorrentino
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