Un ritratto – Audio lettura 3

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Legge Giuseppe Tizza
«Io sono per esperienza con coloro che stimano cattivo consiglio lasciare i fanciulli nell’ignoranza di tante cose che, scoperte alla fine improvvisamente per caso, sconvolgono l’animo e lo guastano talvolta irreparabilmente. Sono convinto che non c’è altra realtà fuori delle illusioni che il sentimento ci crea.»

Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 21 giugno 1914, poi in E domani, lunedì, Treves, Milano 1917.

Un ritratto audiolibro
Caravaggio, Fanciullo con canestra di frutta, 1593-1594.

Un ritratto

Voce di Giuseppe Tizza

******

             –    Stefano Conti?

             –    Sì, signore… Venga, s’accomodi.

             E la servetta m’introdusse in un ricco salottino.

             Che effetto curioso, quella parola «signore» rivolta a me su la soglia di casa di quel mio amico della prima giovinezza! Ero un «signore» adesso: e Stefano Conti, di certo un «signore» di trentacinque o trentasei anni anche lui.

             Nel salottino, tenuto in una triste penombra, restai in piedi a guardare con un senso indefinibile di fastidio i mobiletti nuovi, disposti in giro, ma come per non servire.

             Non stavano certo ad aspettar nessuno quei mobiletti in quel salottino appartato e sempre chiuso. E il senso di pena, con cui li guardavo, me li faceva ora sembrare intorno come stupiti di vedermi tra loro; non ostili, ma neppure invitanti.

             Ero ormai abituato da un pezzo agli antichi mobili delle case di campagna, comodi, massicci e confidenziali, che dalla lunga consuetudine e da tutti i ricordi d’una vita placida e sana hanno acquistato quasi un’anima patriarcale che ce li rende cari. Quei mobiletti nuovi mi stavano attorno rigidi e come compresi di tutte le regole della buona società. Si capiva che avrebbero sofferto e si sarebbero offesi d’una trasgressione anche minima a quelle regole.

             «Viva il mio divanaccio», pensavo, «il mio vecchio divanaccio di juta, ampio e soffice, che sa i miei sonni saporosi dei lunghi pomeriggi d’estate, e non s’offende del contatto delle mie scarpacce cretose e della cenere che cade dalla mia vecchia pipa!»

             Ma nell’alzar gli occhi a una parete, all’improvviso e con stupore misto a uno strano turbamento, mi parve di scorgere in un ritratto a olio, che raffigurava un giovanetto dai sedici ai diciassette anni, il mio stesso disagio e la mia stessa pena; ma molto più intensa, quasi angosciosa.

             Restai a mirarlo, come colto in fallo a tradimento. Mi parve come se a mia insaputa, zitto zitto, mentr’io facevo quelle considerazioni sui mobiletti del salottino, uno avesse aperto lì in alto nella parete una finestretta e si fosse affacciato a spiarmi di là.

             «Lei ha ragione: è proprio così, signore]», mi dissero, per togliermi subito d’impaccio, gli occhi di quel giovinetto. «Noi siamo qua tanto tristi d’esser lasciati così soli, senza vita, in questo stanzino privo d’aria e di luce, esclusi per sempre dall’intimità della casa!»

             Chi era quel giovinetto? Come e dond’era venuto in quel salottino questo ritratto? Forse era prima nell’antico salotto dei genitori di Stefano Conti, nella casa dov’io andavo, tanti e tanti anni fa, a trovarlo. In quel salotto non ero mai entrato, perché Stefano m’accoglieva nella sua stanzetta da studio o nella sala da pranzo.

             Il ritratto appariva d’una trentina d’anni fa.

             Misteriosamente però, e pur nel modo più certo, la vista di quell’immagine escludeva che questi trent’anni, dal giorno ch’era stata fissata lì dal pittore, fossero stati comunque vivi per lei.

             Doveva essersi fermato lì, quel giovinetto, alle soglie della vita. Negli occhi stranamente aperti, intenti e come smarriti in una disperata tristezza, aveva la rinunzia di chi resta indietro in una marcia di guerra, estenuato, abbandonato senza soccorso in terra nemica, e guarda gli altri che vanno avanti e sempre più s’allontanano portandosi con loro ogni romor di vita, così che presto nel silenzio che gli si farà vicino, intorno, sentirà certa e imminente la morte.

             Nessun uomo di quarantasei o quarantasette anni di sicuro, avrebbe mai aperto l’uscio di quel salottino per dire, indicando nella parete il ritratto:

             «Eccomi, quand’io avevo sedici anni».

             Era senza dubbio il ritratto d’un giovinetto morto, e lo dimostrava chiaramente anche il posto che occupava nel salottino, come in segno di ricordo, ma non molto caro, se era lasciato lì, tra quei mobiletti nuovi, fuori d’ogni intimità della casa: posto più di considerazione, che d’affetto.

             Sapevo che Stefano Conti non aveva né aveva avuto mai fratelli; né del resto quell’immagine aveva alcun tratto caratteristico della famiglia del mio amico; neppure un’ombra di somiglianza con Stefano o con le due sorelle di lui, già da un pezzo maritate. La data del ritratto, poi, e quel che si scorgeva del vestiario non potevano far pensare che fosse qualche antico parente della madre o del padre, morto nell’adolescenza lontana.

             Quando, di lì a poco Stefano sopravvenne e, dopo le prime esclamazioni nel ritrovarci tanto mutati l’uno e l’altro, ci mettemmo a rievocare i nostri ricordi, provai, alzando gli occhi di nuovo a quel ritratto e domandandone al mio amico qualche notizia, lo strano sentimento di commettere una violenza, di cui mi dovessi vergognare, o piuttosto, un tradimento, che tanto più doveva rimordermi in quanto approfittavo che nessuno potesse rinfacciarmelo, se non lo stesso mio sentimento. Mi parve che il giovinetto lì effigiato, con la disperata tristezza degli occhi mi dicesse: «Perché chiedi di me? Io t’ho confidato che sento la stessa pena che tu, entrando qui, hai sentito. Perché esci ora da questa pena e vuoi da altri intorno a me notizie che io, qui muta immagine, non posso correggere o smentire?».

             Stefano Conti, alla mia domanda, storse la testa e levò un braccio, come per ripararsi dalla vista di quel ritratto.

             –    Per carità, non me ne parlare! Non posso neanche guardarlo!

             –    Scusami, non credevo… – balbettai.

             –    No! Non immaginare niente di male, – s’affrettò a soggiungere Stefano. – Il male che mi fa la vista di questo ritratto è così difficile a dire, se sapessi!

             –    È un tuo parente? – m’arrischiai a domandare.

             –    Parente? – ripetè Stefano Conti, stringendosi ne le spalle, più forse per ritrarsi da un contatto ideale che gli faceva ribrezzo, che per non saper come dire. – Era… era un figliuolo della mamma.

             Tal maraviglia afflitta e tanto imbarazzo mi si dipinsero in volto, che Stefano Conti, arrossendo improvvisamente, esclamò:

             –    Non illegittimo, ti prego di credere! Mia madre fu una santa!

             –    Ma dici tuo fratellastro, allora! – gli gridai quasi con ira.

             –    Me lo avvicini troppo, con questa parola, e mi fai male, – rispose Stefano, contraendo il volto dolorosamente. – Ecco, ti dirò, mi forzerò a spiegarti una difficilissima complicazione di sentimenti, che ha poi, come vedi, questo effetto, di farmi tener lì, come per un’ammenda, questo ritratto. La sua vista mi sconvolge ancora; e sono passati tanti anni! Sappi che io ebbi attossicata l’infanzia nel modo più crudele da questo ragazzo, morto di sedici anni. Attossicata, nell’amore più santo: quello della madre.

             Sta’ a sentire.

             Vivevamo allora nella campagna dove son nato e dove dimorai fino ai dieci anni, cioè fino a quando mio padre, disgraziatissimo, non abbandonò l’impresa della Mandrana, che poi ad altri fruttò onori e ricchezza.

             Vivevamo lì, soli, come esiliati dal mondo.

             Ma quest’esilio lo penso adesso: allora non lo sentivo, perché non immaginavo neppure che lontano da quella terra, da quella casa solitaria, ov’ero nato e crescevo, di là dai colli che scorgevo grigi e tristi all’orizzonte, ci fosse altro mondo. Tutto il mio mondo era lì, né c’era altra vita per me fuori di quella de la mia casa, cioè di mio padre e di mia madre, delle mie due sorelle e delle persone di servizio.

             Io sono per esperienza con coloro che stimano cattivo consiglio lasciare i fanciulli nell’ignoranza di tante cose che, scoperte alla fine improvvisamente per caso, sconvolgono l’animo e lo guastano talvolta irreparabilmente. Sono convinto che non c’è altra realtà fuori delle illusioni che il sentimento ci crea. Se un sentimento cangia all’improvviso, crolla l’illusione e con essa quella realtà in cui vivevamo, e allora ci vediamo subito sperduti nel vuoto.

             Questo avvenne a me a sette anni, per il cangiare improvviso d’un sentimento che, a quell’età, è tutto: quello, ripeto, dell’amor materno.

             Nessuna madre, io credo, fu così tutta de’ suoi figli come la mia. Né io, né certo le mie sorelle, nel vederla dalla mattina alla sera attorno a noi, proprio dentro la vita nostra, nelle lunghe assenze di mio padre dalla villa, c’immaginavamo che potesse avere una vita per sé fuori della nostra. Andava, è vero, di tanto in tanto, una volta ogni due o tre mesi, in città col babbo per tutto un giorno; ma credevamo che non s’allontanasse affatto da noi con quelle gite, fatte come ci sembravano per rinnovar le provviste della casa di campagna. Anzi, tante volte avevamo l’illusione d’averla spinta noi ad andare in città, per i regalucci, i giocattoli che ci recava al ritorno. Ritornava qualche volta pallida come una morta e con gli occhi gonfi e rossi; ma quel pallore, seppure ce n’accorgevamo, era spiegato con la stanchezza del lungo tragitto in vettura; e quanto agli occhi, possibile che avesse pianto? Erano così rossi e gonfi per la polvere dello stradone.

             Se non che, una sera, vedemmo ritornare in villa, solo e fosco, nostro padre.

             – La mamma?

             Ci guardò con occhi quasi feroci. La mamma? Era rimasta in città, perché… perché s’era sentita male.

             Ci disse così, dapprima.

             S’era sentita male; doveva trattenersi per qualche giorno in città; niente di grave; aveva bisogno di cure, che in campagna non poteva avere.

             Restammo in tale sbigottimento, che mio padre pur di scuotercene, ci maltrattò aspramente, con un’ira che non solo accrebbe il nostro sbigottimento, ma ci offese e ci ferì come una crudelissima ingiustizia.

             Non avrebbe dovuto sembrargli naturale che restassimo così, a quella notizia inattesa?

             Ma l’ira ingiusta e l’asprezza non erano per noi. Lo comprendemmo una decina di giorni appresso, allorché mia madre ritornò in villa: non sola.

             Vivessi cent’anni, non potrei dimenticare l’arrivo di lei, in carrozza, davanti al portone della villa.

             Udendo dal fondo del viale l’allegro scampanellio dei sonaglioli, ci precipitammo giù, io e le mie sorelle, per accoglierla in festa: ma su la soglia del portone fummo bruscamente fermati da nostro padre, smontato allora allora da cavallo, tutto ansante e polveroso, per prevenir di qualche passo l’arrivo della vettura che conduceva la mamma.

             Non sola! Capisci? Accanto a lei, sorretto da guanciali, tutto avvolto in scialli di lana, pallido come di cera; con questi occhi smarriti che tu gli vedi nel ritratto, c’era questo ragazzo: suo figlio! Ed ella era così intenta a lui, così tutta di lui in quel momento, costernata tanto della difficoltà di calarlo giù in braccio dalla vettura senza fargli male, che neppure ci salutava – noi, suoi figli soli, fino a jeri – neppure ci vedeva!

             Un altro figlio, quello? La mamma nostra, la mamma tutta di noi fino a jeri, aveva avuto fuori della nostra un’altra vita? fuori di noi un altro figlio? quello? e lo amava come noi, più di noi?

             Non so se le mie sorelle provarono quel che provai io, nella stessa misura. Io ero il più piccolo, avevo appena sette anni. Mi sentii strappare le viscere, il cuore, soffocare d’angoscia, occupar l’animo da un sentimento oscuro, violentissimo, d’odio, di gelosia, di ribrezzo, di non so che altro, perché tutto l’essere mi s’era rivoltato, stravolto allo spettacolo di quella cosa inconcepibile: che fuori di me mia madre potesse avere un altro figlio, che non era mio fratello, e che potesse amarlo come me, più di me!

             Mi sentii rubare la madre… No, che dico? Nessuno me la rubava. Lei, lei commetteva davanti a me e in me una violenza disumana, come se mi rubasse lei la vita che mi aveva data, staccandosi da me, escludendosi dalla vita mia, per dare l’amore, che doveva esser tutto mio, quello stesso amore che dava a me a un altro, che come me ci aveva diritto, lo stesso diritto che ci avevo io.

             Grido ancora, vedi? Risento, a pensarci, la stessa esasperazione d’allora, l’odio che non potè mai più placarsi, per quanto poi mi narrassero la storia pietosa di quel ragazzo, da cui mia madre aveva dovuto staccarsi quando passò a seconde nozze con mio padre. Non lo aveva preteso mio padre quel distacco. Lo avevano preteso i parenti del primo marito. Sembra che costui per gravi dissapori con mia madre, allora giovinetta, dopo quattro o cinque anni di tempestosa vita coniugale, si fosse ucciso.

             Tu intendi ora: le rare volte che mia madre si recava dalla campagna in città, andava lì a vedere quel suo figliuolo, di cui noi non sapevamo nulla; che gli cresceva lontano, affidato a un fratello e a una sorella del primo marito. Ora questo fratello era morto; poco dopo il ragazzo s’era mortalmente ammalato e mia madre era accorsa al suo capezzale, lo aveva conteso alla morte, e appena convalescente se l’era portato con sé in campagna, sperando di fargli riacquistare la salute col suo amore, con le sue cure. Fu tutto invano; morì tre o quattro mesi dopo. Ma né le sofferenze valsero mai a suscitare in me un moto di pietà, né la sua morte a placare il mio odio. Io avrei voluto ch’egli guarisse, anzi; ch’egli rimanesse lì, tra noi, per riempire con l’odio che la sua presenza m’ispirava il vuoto orrendo rimasto dopo la sua morte tra me e mia madre. Il vederla riattaccarsi a noi, dopo la morte di lui, come se ormai ella potesse ridivenir tutta nostra come prima, fu per me uno strazio anche maggiore, perché mi fece intendere ch’ella non aveva affatto sentito quel che avevo sentito io; e non poteva difatti sentirlo, perché quello per lei era un figliuolo, com’ero io.

             Ella forse pensava: «Ma io non ti amo solo! Non amo anche le tue sorelle?». Senza intendere che nell’amore ch’ella aveva per le mie sorelle c’ero anch’io, mi sentivo anch’io, sentivo ch’era lo stesso amore ch’ella aveva per me: mentre lì, no, nell’amore che aveva per quel suo ragazzo, no! lì non c’ero, io, lì non potevo entrarci, perché quel ragazzo era suo, e quand’ella era di lui e con lui, non poteva esser mia, con me.

             Tu capisci: non mi offendeva tanto per me questa sottrazione d’amore; quanto m’offendeva il fatto che quel ragazzo era suo. Questo non sapevo tollerare! Perché la mamma ora non mi pareva più mia. Non mi pareva più la mamma ch’era stata per me prima.

             Da allora – credi – ti dico una cosa orrenda… da allora io non mi sentii più la mamma nel cuore.

             L’ho perduta due volte, io, la madre. Ma ne ho anche avute quasi due. Questa che m’è morta di recente non era più la mamma, la mamma vera, la mamma di cui si dice che ce n’è una sola. La mia vera mamma, la mia sola mamma, mi morì allora, quand’avevo sett’anni. E allora la piansi davvero; lagrime di sangue, come non ne verserò mai più in vita mia, lagrime che scavano e lasciano un solco eterno, incolmabile.

             Me le sento ancora dentro, queste lagrime che m’avvelenarono l’infanzia; e le devo a lui. Perciò t’ho detto che non posso neanche guardarlo. Riconosco che fu un disgraziato anche lui. Ma ebbe almeno la fortuna di non vivere la sua disgrazia; mentr’io, non per colpa, ma certo per causa sua, vissi tant’anni accanto a mia madre senza più sentirmela nel cuore come prima.

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