Un invito a tavola – Audio lettura 2

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Legge Giuseppe Tizza
«Il pranzo non finiva mai. Don Diego avrebbe voluto piangere, rotolarsi per terra, dalla disperazione, graffiarsi la faccia, sgangherarsi la bocca, dalla rabbia. Che crudeltà era quella?»

Prime pubblicazioni: Quand’ero matto, Streglio, Torino 1902/1903, poi in Il vecchio Dio, Bemporad, Firenze 1926.

Un invito a tavola
Immagine dal Web

Un invito a tavola

Voce di Giuseppe Tizza

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             – Basterà? non basterà? – si domandavano, guardandosi negli occhi, in cucina, le tre sorelle Santa, Lisa e Angelica Borgianni, impegnate da due giorni ad ammannire un pranzo da gran signori.

             Santa, la minore, era più alta di Angelica; Angelica, di Lisa, la maggiore. Tutt’e tre, del resto, poppute e fiancute, gareggiavano coi fratelli per la statura colossale e per la forza erculea.

             – Famiglia Borgianni: otto colonne! – soleva dir Mauro, il minore dei fratelli e dell’intera famiglia.

             Tre sorelle, dunque, e cinque fratelli: Rosario, Nicola, Titta, Luca e Mauro, in ordine di età.

             Rosario e Nicola attendevano alla campagna; Titta badava alla zolfara presso il borgo Aragona; Luca faceva l’appaltatore dei lavori pubblici di quasi tutto il circondario; Mauro aveva la passione della caccia, e faceva il cacciatore.

             Rosario Borgianni era famoso pe’ suoi giovanili furori di bestia feroce. Si raccontavano di lui le più temerarie avventure ai tempi nefandi del brigantaggio, naturalmente accresciute e abbellite dalla fantasia popolare. Si voleva finanche ch’egli avesse un giorno tenuto testa a una dozzina di briganti, fra i più sanguinarii, e che li avesse uccisi tutti. Esagerazione! Quattro soltanto: due, nella sua stessa campagna, e gli altri due lungo la via che da Comitini discende ad Aragona.

             Anche di Mauro se ne raccontavano di belle. Un giorno, per esempio, a caccia, cadde dalla vetta del Monte delle Forche: rimbalzò tre volte, giù per tre ciglioni selvatici, e ogni volta, rimbalzando con lo schioppo alto in una mano, esclamava:

             – Fortuna, che sono ballerino!

             Ne riportò tuttavia una frattura alla gamba destra e una leggera commozione cerebrale: lui, che il cervello veramente non aveva avuto mai bene a segno.

             Un’altra volta, a caccia, scorse tre o quattro storni su la schiena d’alcuni buoj pascolanti su una costa. Cheto e chinato, s’avvicina e, appena a tiro, bum! una schioppettata. Balza dalla fratta, in potere di tutti i diavoli, il boaro.

             –    Fermo lì! – gli grida Mauro, in guardia. – Se fai un altro passo, ti mando a gambe all’aria!

             –    Ma come, signor Mauro! Le mie bestie…

             –    E non sai, minchione, che dove vedo caccia, sparo?

             –    Ma anche su la schiena delle bestie?

             –    Anche sul capo di Gesù Bambino, se scambio lo Spirito Santo per un piccione!

             Il pranzo pareva apparecchiato per trenta invitati, a dir poco; l’invitato invece era uno solo, e neppure si sapeva chi fosse. Si sapeva soltanto che sarebbe arrivato il giorno appresso da Comitini, e che gli si doveva questo pranzo a titolo di ringraziamento per il ricetto prestato al fratello Luca, l’appaltatore, latitante da quindici giorni.

            Omicidio? Sì… cioè, no; ma quasi. Ecco: Luca Borgianni aveva preso in appalto la costruzione dello stradone tra Favara e Naro. Una sera, sospesi i lavori, nel tornarsene a cavallo, a un certo punto della via aveva veduto un’ombra allungarsi minacciosa su la ghiaja rischiarata dalla luna. Qualcuno, senza dubbio, stava lì alla posta, incappucciato. Luca lo aveva scorto, per fortuna; o meglio, aveva scorto il cappuccio. Gli era parso che il furfante se ne stesse accoccolato per ripararsi dalla luna che veniva lentamente su dal colle a manca.

             – Chi è là? Nessuna risposta.

             Tra-tà; tra-tà: su, per precauzione, i cani del fucile. E un grillo s’era messo a cantare. Allora Luca, di nuovo, fermando il cavallo:

             – Chi è là?

             Silenzio. Solo il grillo a cantare.

             – Conto fino a tre! – aveva gridato in fine Luca, impallidendo. – Se non rispondi, fatti la croce. Uno!

             L’ombra non s’era scomposta.

             – Due!

             L’ombra, lì, ferma, impassibile. E silenzio. Soltanto il grillo a cantare.

             – Tre!

             E una schioppettata. Qualcosa era saltata per aria: e Luca, dalli al cavallo! Era arrivato a casa, che non tirava più fiato. Fratelli e sorelle gli erano accorsi intorno.

             –    Nascondetemi! nascondetemi!

             –    Perché? Ferito?

             –    No… ammazzato…

             –    Tu? Chi?

             –    Uno… non so… Col fucile… Nascondetemi!

             I fratelli lo avevano tolto di peso e portato per il momento giù in cantina. Intanto Mauro era uscito di casa per appurare se già in paese si buccinasse qualcosa intorno all’omicidio. Rosario e Titta avevano atteso impazienti che Luca, lì in cantina, si fosse rimesso un po’ in forze per condurlo fuori, in luogo più sicuro: avevano già pensato al rifugio, presso un loro compare di Comitini, dove Luca si sarebbe recato la notte stessa, cavalcando alla porta del paese. Nicola, armato fino ai denti, era partito per aggirarsi attorno al luogo designato dal fratello e cercar così di sapere di che, di chi si fosse trattato. Luca finalmente s’era potuto mettere in cammino. Il giorno dopo, all’alba, ecco Nicola.

             –    Ebbene?

             –    Nulla! Ho trovato soltanto un ferrajuolo col cappuccio per terra. Certo il ferito s’è trascinato in paese, lasciando il ferrajuolo lì, bucherellato in più parti… Luca spara come un Dio! Deve averlo ferito mortalmente, a giudicare dal ferrajuolo… Io non capisco: due buchi grossi così nel cappuccio, dunque in testa… Bell’e andato!

             Eran passati tre giorni in attesa angosciosa. Non si sapeva nulla in paese; né dai paesi vicini si aveva notizia d’alcun ferimento o caso di morte violenta. Dopo sedici giorni, alla fine, s’era venuto a sapere che un contadino, lavorando in quei dintorni, si era servito per attaccapanni d’una pietra miliare lungo lo stradone; aveva incappucciato la colonnina col ferrajuolo, e la sera se n’era tornato in paese, dimenticandosene. Luca aveva tirato contro quella colonnina, scambiandola per un appostato.

             Ora il pranzo, ecco, era lì, pronto fin dalla vigilia, su la lunga tavola in mezzo alla stanza: una pallida porchetta illaurata, ripiena di maccheroni, in una teglia da mandare al forno; sette lepri scojati con contorno di tordi, uccisi da Mauro; due tacchini pettoruti; abbacchio; trippa e cute affettate; piedi di bue in gelatina; un gran pesce salsito; un enorme pasticcio; poi un reggimento di fiaschi e frutta in quantità.

             – Basterà? Non basterà?

             Titta diceva di sì; Mauro di no; e faceva il conto:

             –    Noi, otto e, con l’invitato, nove; il servo e la serva, undici. Per grazia di Dio, ognuno di noi mangia per quattro, e… e…

             –    Non dubitare; l’invitato non patirà, – assicurava Titta.

             Questa conversazione avveniva su la mezzanotte, intorno alla tavola: fratelli e sorelle, tutt’e sette, avevan lasciato il letto pian piano, spinti dal medesimo desiderio di vedere che effetto facesse il pranzo apparecchiato; e così eran convenuti a uno a uno in camicia, con una candela in mano, com’ombre nottambule. Tra Titta e Mauro poco dopo s’accese il diverbio. Mauro brandì una lepre e minacciò il fratello. Vennero alle mani.

             –    Mazurka! Mazurka! – esclamò in quella Angelica, udendo per fortuna i mandolini e la chitarra d’una serenata giù per la via.

             –    La Notturna!  – esclamò Santa contemporaneamente, battendo le mani e trascinando la sorella a danzare, tutte e due in camicia.

             Gli altri allora seguirono l’esempio: Lisa si buttò tra le braccia di Titta, Rosario s’appajò con Nicola, e Mauro, rimasto solo, si mise anche lui a ballare con la lepre dalle orecchie svolazzanti, ridendo allegramente.

             Nessuno, a prima giunta, fra le strette di mano, gli abbracci e i baci e le domande al fratello Luca (la più alta colonna della famiglia) badò a un omicello d’età incerta, oppresso da un enorme copricapo che gli sprofondava fin su la nuca, sorretto ai lati dagli orecchi ripiegati sotto il carico. Il poverino pareva commosso dalle espansioni d’affetto di quegli otto colossi, i quali non avevano un solo sguardo per lui già tutto smarrito, così piccino che non arrivava neppure (compreso il cappello) a le spalle di Lisa, la più bassa tra le sorelle.

             –    Oh, aspettate: vi presento don Diego Filìnia, inteso Schiribiìlo,  – disse alla fine Luca, sovvenendosi. E gli posò una mano su la spalla, con aria di protezione, sorridendo.

             –    Dio, com’è piccolo! – esclamarono allora, a coro, scorgendolo, le tre sorelle. –Schiribiìlo?

             –    Complessione, signore mie… nomignolo… – fece don Diego, togliendosi dal capo il gran cappello e sorridendo con umiltà impacciata.

             Tutti lo guardarono con occhi pieni di profonda commiserazione, così scoperto, senza un capello sul cranio lucido, ovale, protuberante; e non trovarono una parola da dirgli. Oh delusione! Quello lì, l’invitato? E allora… A saperlo avanti!

             –    Perché piange? – domandò Angelica, dopo averlo osservato a lungo, col volto atteggiato di nausea e di pietà.

             –    Piange? – fece Luca, voltandosi, abbassandosi, e guardando in faccia da vicino il minuscolo invitato.

             –    Non piango, no, – rispose don Diego, che stava per recarsi all’occhio destro un gran fazzoletto di cotone a fiorami. – Nel venire, mi s’è cacciato un bruscolo in quest’occhio qua… Non piango.

             –    Ah… – esclamarono, rassicurati, i colossi.

             Don Diego dagli occhi si recò il fazzoletto al naso lievemente come per ricevervi di furto una gocciolina. Si tolga da le spalle codesto mantello… – gli suggerì Santa.

             – No no… per carità, me lo lascino! – si schermì don Diego. – Se, Dio liberi, mi metto a sternutire, son capace di farne cento di fila… Tengo il mantello sempre con me.

             E sospirò: – Sì! – poi: – Sì… sì… – ancora due volte, imbarazzato dal silenzio sopravvenuto, stropicciandosi continuamente una manina con l’altra e tenendo gli occhi bassi.

             Nessuno sapeva risolversi a parlare, e quella perplessità diveniva di minuto in minuto più penosa.

             –    Abbiamo davvero l’obbligo, – cominciò a dire finalmente Luca, – di restar grati a don Schiribiìlo del gran favore e delle cortesie usatemi durante il soggiorno in Comitini.

             –    No.i lo ringraziamo con tutto il cuore! – disse allora Rosario, tendendo una mano all’ospite. – Come si chiama? Schiribiìlo?

             –    Prego… no: Filìnia; mi chiamo Filìnia, – fece don Diego, sorridendo umilmente.

             –    Fate conto che la nostra casa sia vostra, – aggiunse Nicola, stringendo a sua volta la mano all’invitato e guardando gli altri fratelli come per dire: «Adesso a voi; io ho.detto la mia».

             Titta e Mauro, uno dopo l’altro, seguirono l’esempio e dissero la loro, avanzandosi d’un passo, militarmente, e stringendo dopo il complimento la mano a don Diego, il quale non seppe allontanarsi da quel suo: – Prego, prego – in risposta.

             Non fu possibile cavare una parola di bocca alle tre sorelle deluse.

             Si parlò dell’avvenimento per cui Luca si era reso latitante.

             –    Ma che colonnina! – esclamò questi indignato. – Uomo in carne e ossa era, là, appostato! Se alla schioppettata ho sentito un grido, io, con questi orecchi… Vorrei saper piuttosto chi sia il buffone che ha messo in giro la storiella. Gli farei vedere se è lecito ridere alle spalle di Luca Borgianni!

             –    Basta, basta… – disse Rosario. – Chi sia, l’ha detto. Adesso non se ne parli più. Pensiamo per oggi a divertirci.

             Don Diego approvò col capo, non perché si promettesse un divertimento, poverino, tra quegli otto giganti; ma per tór di mezzo ogni lite. Non si sa mai!

             Attendendo la chiamata a tavola, Rosario e Nicola cominciarono a discorrere con l’invitato delle cose della campagna, delle cattive annate e delle buone. Don Diego, con l’umiltà sua, si rimetteva costantemente nelle mani di Dio; ma questa remissione a un certo punto fece uscir dai gangheri Nicola.

             – Ma che mani di Dio! Ci vogliono, braccia d’uomini per la terra! Queste qua, guardate, Schiribillo!

             E mostrò a Don Diego, protese e con le pugna serrate, le erculee braccia, come se lui fosse solito di pigliare a cazzotti la terra per costringerla a rendere ogni anno più del dovere.

             – E queste qua, benché vecchie e faticate! – esclamò Rosario, mostrando le sue.

             Allora anche Titta e Mauro vollero mostrar le loro, tirando su le maniche della giacca e della camicia. Il povero don Diego si vide puntate sotto il naso otto braccia nerborute, buone da accoppare otto buoi.

             –    Vedo… vedo… – diceva a ognuno, guardando le braccia e sorridendo con una meraviglia mista di costernazione. – Vedo… vedo…

             –    Toccate! Toccate! – gì’intimarono i fratelli Borgianni.

             E don Diego toccò pian piano con un dito tremante quelle braccia, mentre con l’altra mano si recava sotto il naso il fazzoletto per paura qualche gocciolina non vi cadesse sopra, Dio liberi!

             –    A tavola, – venne ad annunziare Santa, mollemente.

             –    Schiribillo, a tavola! – gridò Mauro. – Lasciate fare a noi. Crescerete… Mangerete tanto, che non vi sarà più possibile uscire dalla porta. Vi caleremo imbracato e satollo da una finestra.

             –    Son di pochissimo appetito, – premise don Diego, per ogni buon fine.

             –    Dove prenderà posto l’invitato? – domandò sottovoce Titta alle sorelle.

             –    Tra Rosario e Lisa, – propose Mauro. Lisa si ribellò:

             –    Noi tre donne ce ne staremo in disparte.

             Don Diego prese posto tra Rosario e Nicola. Gli otto Borgianni, appena seduti a tavola, si riempirono di vino i grossi bicchieri da acqua.

             –    Per farci la croce! – disse Rosario solennemente. E giù!

             –    Voi, don Diego, non bevete? – domandò Titta.

             –    Grazie, prima del pasto, mai, – si scusò l’ospite timidamente.

             – Eh via, per aprir l’appetito, – gli suggerì Nicola, dandogli in mano il bicchiere.

             Allora don Diego lo accostò alle labbra, per cortesia, e lo scoronò appena appena con un sorsellino cauto.

             –    Giù! giù fino in fondo! – lo incitarono gli otto Borgianni.

             –    Non posso… grazie, non posso…

             Mauro si levò da sedere:

             – Lo riduco io a ragione, aspettate!

             Prese con una mano il bicchiere, con l’altra il capo di don Diego e, dicendo: – Lasciatevi servire! – lo vuotò in bocca al poveretto invano riluttante.

             – Oh Dio! – singhiozzò, balzando in piedi, don Diego, mezzo affogato, con gli occhi pieni di lagrime. – Oh Dio!

             E s’asciugò il sudore della fronte, tra le risa della tavolata.

             – Guardate, oh! Gli è uscito dagli occhi! – osservò Angelica, beffardamente. Venne in tavola la porchetta imbottita. Rosario si levò in piedi; trinciò le parti: la più grossa a don Diego.

             –    Troppa roba… troppa, troppa… – disse questi col piatto in mano.

             –    Che troppa! – esclamò Nicola. – Non cominciate!

             –    La metà, prego… – insistette don Diego. – Non mi è possibile… Io sono parco…

             –    Parco? E codesta è carne di porco! Mangiate! – gridò Mauro, levandosi un’altra volta da sedere.

             Don Diego, spaventato, chinò la testa sul piatto e si mise a mangiare zitto zitto.

             Mangiarono quel primo servito in silenzio, tutti. Solo, di tanto in tanto, appena l’invitato accennava di posar furtivamente la forchetta:

             –    Mangiate! – gli ripetevano i colossi. – Fino all’ultimo boccone!

             –    E adesso proprio non mi è più possibile mandar giù dell’altro! – protestò don Diego, con qualche energia, dopo aver finito la porzione, traendo un gran sospiro di sollievo. – Ho fatto, come suol dirsi, quanto Carlo in Francia.

             –    Che dite? – rimbeccò Mauro. – Se abbiamo cominciato appena adesso…

             –    Eh, loro, va bene… – osservò, sorridendo, don Diego. – Hanno la capacità, Dio li benedica… Io dico per me…

             –    E per chi ci prendete? – si rinzelò Titta, accigliato. – Credete che noi invitiamo a tavola per un sol piatto e lì? Attendete a mangiare e fate l’obbligo vostro. Noi dobbiamo disobbligarci.

             –    Ma non faccio offesa, – s’affrettò a scusarsi don Diego. – Dico che io…

             –    Voi mangerete! – tagliò corto Rosario. – Ecco la caccia di Mauro.

             –    Una lepre e cinque tordi? – esclamò atterrito don Diego. – Lei sbaglia, signor mio! Abbia pazienza: come può immaginarsi che io…

             –    Senza storie! senza storie! – disse Nicola, con fare sbrigativo.

             –    Ma mi guardino un po’, – rispose don Diego. – E possibile? Dove la metto? Non vorranno mica che ci lasci la pelle…

             –    Quale pelle? – domandò Rosario. – Non dovete lasciarci nulla. La lepre è scojata.

             –    Dico la mia, dico la mia! Dove la metto una lepre?

             –    Vi ho dato pure cinque tordi…

             –    Per giunta! Ci avessi la lupa… Mangerò questi soltanto.

             –    Orsù! – proruppe Mauro, brandendo un’anca di lepre a cui dava a leva coi denti. – Codesta caccia l’ho fatta io. Mi sono rotte le gambe per voi, tre giorni di seguito. Se non mangiate tutto, sarà un’offesa diretta a me personalmente.

             –    Non si alteri… non si alteri, per carità! Mi proverò…

             E, tra sé e sé, il povero don Diego raccomandò l’anima a Dio misericordioso.

             Mangiando, i sudori cominciavano a colargli dalla fronte. Alzava un po’ gli occhi: vedeva quegli otto demonii scappati dall’inferno non finir mai d’imbottar vino, vino, vino. E:

             – Cristo, ajutami! – si lagnava piano, tra sé.

             Il pranzo non finiva mai. Don Diego avrebbe voluto piangere, rotolarsi per terra, dalla disperazione, graffiarsi la faccia, sgangherarsi la bocca, dalla rabbia. Che crudeltà era quella? Neroni! Neroni! Ma non aveva più forza neppure di scostare il piatto: posate, bicchieri, bottiglie gli turbinavano davanti a gli occhi su la tavola, e gli orecchi gli rombavano, le palpebre gli si chiudevano sole; mentre gli otto Borgianni, già ebbri, urlavano, gestivano come energumeni, or levandosi, or sedendosi e ingiuriandosi a vicenda.

             Adesso, se don Diego scostava un po’ il piatto, dicendo come a se stesso: – Non ne voglio più… non ne voglio più… – gli otto giganti sorgevano in piedi, coi coltelli da tavola in pugno, e i due più vicini, minacciandolo alla gola, urlavano:

             – Mangiate, don Minchione! Per voi è stata fatta la spesa!

             Don Diego non era più di questa terra, quando tra le palpebre semichiuse gli parve di scorgere su la tavola come una gran mola d’arrotino. Fece allora un vano tentativo di levarsi, di fuggire.

             – Oh Dio, m’hanno legato alla seggiola! – gemette, e si mise a piangere. Non era vero: gli pareva così, povero don Diego! Rosario si alzò quant’era

             lungo col trinciante in mano. Parve a don Diego che toccasse col capo il soffitto e che avesse in pugno una mannaja per giustiziarlo.

             –    Metà a don Diego! – gridò Rosario, tagliando a mezzo l’enorme pasticcio, che al poveretto era sembrato una mola d’arrotino.

             –    L’altra metà al vicinato! – propose Angelica.

             –    E noi? – domandò Mauro. – Noi niente? Io voglio la mia parte! Luca sorse in favore della proposta di Angelica.

             –    Al vicinato! al vicinato!

             Don Diego pendeva da quella lite, esterrefatto.

             – E allora io, per prepotenza, mi prendo la mia! – proruppe Mauro, levandosi e stendendo la mano sul pasticcio.

             Ma Luca fu più svelto: prese il pasticcio e, inseguito dalla famiglia, tra le grida, gli strappi, gli spintoni, andò a buttarlo da una finestra. Seguì una rissa furibonda: fratelli e sorelle s’accapigliarono: strilli, pugni, schiaffi, sgraffi, seggiole rovesciate, bottiglie, bicchieri, piatti in frantumi, il vino sparso su la tovaglia; un pandemonio! Rosario salì in piedi su una seggiola; gridò con poderosa voce:

             – Vergogna! Che spettacolo! Abbiamo un invitato a tavola!

             Al fiero richiamo quei furibondi ristettero a un tratto, come per incanto. Cercarono l’invitato: dov’era? dove s’era cacciato?

             Su la seggiola il mantello, sotto la tavola un pajo di scarpe. Il disgraziato se l’era svignata a piedi scalzi per correre più spedito.

             – In fin dei conti, è andato tutto bene… – dicevano tra loro poco dopo gli otto Borgianni, rassettati. – Tutto bene, tranne il servito della frutta.

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Un invito a tavola – Audio lettura 2 – Legge Giuseppe Tizza
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