150. Un’altra allodola – Novella

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Prime pubblicazioni: Quand’ero matto, Renzo Streglio e C. Editori, Torino, 1902, poi in La giara, Bempora, Firenze 1928.
«Tu sei ricco, amico Pelletta e il tempo non ti deteriora. Andiamo, andiamo! Ma ti pongo questo patto: non una parola sul paesaccio in cui io e tu abbiamo avuto la sciagura di nascere. Chi è vivo è vivo, chi è morto è morto: non voglio saperne nulla.»

Novella dalla Raccolta “La giara” (1928)

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Un altra allodola
Duilio Barnabé (1914-1961), Due uomini con bombetta, 1958

Un’altra allodola – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
Un’altra allodola – Audio lettura 2 – Legge 
Valter Zanardi
Un’altra allodola – Audio lettura 3 – Legge 
Lorenzo Pieri
Un’altra allodola – Audio lettura 4 – Legge 
Giuseppe Tizza

7. Un’altra allodola – 1902

             Luca Pelletta non avrebbe riconosciuto alla stazione di Roma Santi Currao, se questi non gli si fosse fatto avanti chiamandolo ripetutamente:

             – Amico Pelletta! Amico Pelletta!

             Intontito dal viaggio, tra la ressa e il rimescolio dei passeggeri che gli davano la vertigine, restò a mirarlo, sbalordito:

             –    Oh, tu Santi? E come mai? Così…

             –    Che cosa?

             –   Quantum mutatus ab illo!

             – Ma che abillo? Gli anni, amico Pelletta!

             Gli anni, sì, ma anche… – Luca lo squadrò alla luce delle lampade elettriche. Gli anni? E quel vestito? Un gran maestro di musica, con quella camicia, con quella giacca, con quei calzoni e quelle scarpe? Dunque, nella miseria? E quella barba incolta, già quasi grigia, cresciuta più sulle gote che sul mento? e quella faccia pallida e grassa? e quelle occhiaje gonfie intorno agli occhi acquosi? Come mai? Era divenuto anche più corto di statura?

             Sotto gli occhi di Luca Pelletta pieni di tanto stupore, le labbra del Currao si allargarono a un ghigno muto:

             –    Tu sei ricco, amico Pelletta e il tempo non ti deteriora. Andiamo, andiamo! Ma ti pongo questo patto: non una parola sul paesaccio in cui io e tu abbiamo avuto la sciagura di nascere. Chi è vivo è vivo, chi è morto è morto: non voglio saperne nulla. Non c’è bisogno di prendere la vettura: sto qua in fondo al viale. Da’ a me la valigia o la cassetta.

             –    No, grazie: me le porto da me; non pesano molto.

             –    Il bagaglio lo lasci in deposito alla stazione?

             –    Quale bagaglio? – fece Luca Pelletta. – Ho questi due colli soltanto: libri e biancheria.

             –    Ti tratterrai dunque poco?

             –    No, perché? Sono venuto forse per sempre.

             –    Così a mani vuote? Andarono per un tratto in silenzio.

             –    La tua signora? – s’arrischiò a domandare Luca alla fine. Il Currao abbassò la testa e borbottò:

             –    Sono solo.

             –    È fuori di Roma?

             –    È a Roma, amico Pelletta. Ti dirò a casa. Parliamo ora di te. Ma il pretto necessario e basta. Perché sei venuto a Roma? Sono una bestia. Dimenticavo che tu hai quattrini da buttar via.

             –    T’inganni… – corresse con un sorrisetto bonario il Pelletta. – Ho sì quanto mi basta: poco; ma io ho bisogno di poco. Nulla da buttar via. E vero che, in compenso, ora sono divenuto padrone del mio. Abbiamo fatto quasi un capitombolo, sai? Per miracolo la miseria non ha battuto alla nostra porta. Ma, in compenso, ti ripeto, ora sono libero e padrone…

             – … del tuo. Sta bene. Ma se non sei più ricco, perché sei venuto a Roma?

             –    Vedrai! – sospirò Luca, socchiudendo di nuovo gli occhi misteriosamente. – E la mia città. L’ho sempre sognata.

             –    Amico Pelletta, ho un vago sospetto, – riprese Santi Currao. – Ti fiuto: tu puzzi. Di’ la verità, sei più miserabile di me?

             –    No, perché? – fece Luca, istintivamente; subito si riprese: – Forse no…

             –    Questo tuo, di’ un po’, a quanto ammonta?

             –    Rendituccia modesta, ma sicura: cinque lire al giorno. Mi bastano. Santi Currao sghignò forte, squassando la testa.

             –    Centocinquanta lire al mese?! E che te ne fai?

             Arrivati in fondo al viale, il Currao si cacciò nel portoncino di casa e, prima di mettersi a salire, disse a Luca:

             –   Ti prego di parlare sottovoce.

             Un camerotto squallido, sudicio, in disordine, con un letto in un angolo, non rifatto chi sa da quanti giorni; un tavolino rustico, senza tappeto, presso l’unica finestra; un attaccapanni appeso alla parete; seggiole impagliate; un lavamano.

             Santi Currao accese il lume sul tavolino, e invitò l’amico a sedere.

             –    Se vuoi lavarti, lì c’è l’occorrente.

             –    E… non hai uno specchio? – domandò afflitto e reso timido da tanta miseria, Luca, guardando in giro le pareti polverose.

             –    Pago dodici lire al mese, amico Pelletta, e non sono rispettato. Do qualche lezione di musica, e non mi pagano; viene la fine del mese, e io non pago; e più non pago, e meno sono rispettato. Avevo lì, presso l’asciugamani, uno specchio, se non m’inganno. Se lo sono portato via.

             –    E come fai per guardarti? – domandò Luca, costernato.

             –    Non ci penso neppure!

             –    Fai male, Santi! Perché, il fisico…

             –    Il vero fisico è il pane, amico Pelletta! – sentenziò bruscamente il Currao.

             –    Ah, nego, nego… – fece Luca. – Non solo pane vivit homo…

             –    E intanto, – concluse Santi, – prima base, ci vuole il pane. Non dire sciocchezze e, per giunta, in latino.

             Rimasero un buon pezzo in penoso silenzio. Santi Currao sedette presso il tavolino, con la testa bassa e gli occhi fissi sul pavimento. Luca Pelletta dritto sulla vita, accigliato, lo esaminava.

             –   E dunque… la tua signora?

             Il Currao alzò il testone e guardò un pezzo negli occhi l’amico. – E dalli con la mia signora! – Si scoprì il capo solennemente; si batté più volte l’ampia fronte rischiarata dal lume:

             –   Vedi? Cervo! – esclamò; e le grosse pallide labbra, allargandosi a un orribile ghigno, scoprirono i denti serrati, gialli dai lunghi digiuni.

             Luca Pelletta lo guardò perplesso, quasi consigliandosi con l’espressione del volto del Currao, se dovesse riderne o no.

             –   Cervo! cervo! – ripetè Santi, confermando col capo più volte di seguito. – E non l’ho cacciata io, sai! Se n’è andata via lei, da sé. Io sono così; – aggiunse, afferrandosi con ambo le mani la barbacela incolta su le gote, – ma mia moglie era una bella e rispettabilissima signora! La povertà, amico Pelletta. Senza la povertà, forse non l’avrebbe fatto. Non era poi tanto cattiva, in fondo. È vero che io per lei fui marito esemplare: le portavo tutto quel po’ che guadagnavo… tranne qualche soldo per mantenermi l’occhio vivo. Ma è pur vero che l’uomo, per quanto porco sia, vale sempre mille volte più di qualunque donna. Dici di no, amico Pelletta? Ebbene, chi sa? forse no. Non si può dire. La povertà, capisci? Che fa il ferro al fuoco? Si torce. Ebbene, e tu, marito, arrivi fino al punto di dire a tua moglie: M’hai fatto le corna? T’hanno procacciato pane? Sì? E allora hai fatto benone! Danne un pezzetto anche a me!

             Si alzò, e si mise a passeggiare per la camera, col testone sul petto e le mani dietro la schiena.

             –   E ora… che fa? – domandò timidamente Luca.

             Il Currao seguitò a passeggiare, come se non avesse udito la domanda.

             –   Non sai dov’è?

             Il Currao si fermò davanti al lume:

             –    Fa la puttana! – disse. – Non consumiamo petrolio inutilmente! Lavati, se lo credi proprio necessario. E usciamo. Non vuoi cenare?

             –    No… – rispose Luca. – Ho desinato a Napoli piuttosto bene.

             –    Non ci credo.

             –    Parola d’onore. Di’ un po’, come ti sembro?

             –    Compassionevole, amico Pelletta!

             –    No, dico! ti pare che stia male in faccia?

             –    No: ancora non pare, – fece Santi.

             –    Eh sì, – affermò Luca – è un fatto che, a me, il mangiar poco mi conferisce. Ma forse sono un po’ troppo pallido questa sera, no?

             –    Sei pallido, perché sei povero! – raffibbiò il Currao. – Via, usciamo! Tu vuoi certo vedere il Colosseo al lume di luna.

             Luca accettò con entusiasmo la proposta, e s’avviarono in silenzio. Davanti alla soglia di casa, il Pelletta trattenne per un braccio l’amico, poi gli batté la spalla con una mano e gli disse, socchiudendo gli occhi:

             – Santi, risorgeremo! lascia fare a me!

             – Statti quieto… – brontolò il Currao. E tutti e due si perdettero nell’ombra.

Raccolta La giara
01 – La giara – 1909
02 – La cattura – 1918
03 – Guardando una stampa – 1905
04 – La paura del sonno – 1900
05 – La lega disciolta – 1910
06 – La morta e la viva – 1910
07 – Un’altra allodola – 1902
08 – Richiamo all’obbligo – 1906
09 – Pensaci, Giacomino! – 1910
10 – Non è una cosa seria – 1910
11 – Tirocinio – 1905
12 – L’illustre estinto – 1900
13 – Il guardaroba dell’eloquenza – 1908
14 – Pallottoline! – 1902
15 – Due letti a due – 1909

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««« Elenco delle raccolte

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