Tutto per bene – Audio lettura

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Legge Lorenzo Pieri
«Aveva avuto sempre vie piane innanzi a sé; non si era mai addentrato negli oscuri e profondi meandri della vita, e forse perciò non sapeva diffidare né di se stesso né d’alcuno.»

Prime pubblicazioni: Rivista popolare di politica, lettere e scienze sociali, 15 e 30 giugno 1906, poi in La vita nuda, Treves 1910.

Tutto per bene audiolibro
Ginella Bertacchi, Giulio Bosetti, Tutto per bene, 1982

Tutto per bene

Legge Lorenzo Pieri

Da Spreaker.com

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             I. La signorina Silvia Ascensi, venuta a Roma per ottenere il trasferimento dalla Scuola normale di Perugia in altra sede – qualunque e dovunque fosse, magari in Sicilia, magari in Sardegna – si rivolse per ajuto al giovane deputato del collegio, onorevole Marco Verona, che era stato discepolo devotissimo del suo povero babbo, il professor Ascensi dell’Università di Perugia, illustre fisico, morto da un anno appena, per uno sciagurato accidente di gabinetto.

             Era sicura che il Verona, conoscendo bene i motivi per cui ella voleva andar via dalla città natale, avrebbe fatto valere in suo favore la grande autorità che in poco tempo era riuscito ad acquistarsi in Parlamento.

             Il Verona, difatti, la accolse non solo cortesemente, ma con vera benevolenza. Ebbe finanche la degnazione di ricordarle le visite che, da studente, egli aveva fatto al compianto professore, perché ad alcune di queste visite, se non s’ingannava, ella era stata presente, giovinetta allora, ma non tanto piccolina, se già – ma sicuro! – se già faceva da segretaria al babbo…

             La signorina Ascensi, a tal ricordo, s’invermigliò tutta. Piccolina? Altro che!

             Aveva nientemeno che quattordici anni lei, allora… E lui, l’onorevole Verona, quanti poteva averne? Venti, ventuno al più. Oh, ella avrebbe potuto ripetergli ancora, parola per parola, tutto ciò ch’egli era venuto a chiedere al babbo in quelle visite.

             Il Verona si mostrò dolentissimo di non aver seguitato gli studii, pei quali il professor Ascensi aveva saputo ispirargli in quel tempo tanto fervore; poi esortò la signorina a farsi animo, poiché ella, al ricordo della sciagura recente, non aveva saputo trattener le lagrime. Infine, per raccomandarla con maggiore efficacia, volle accompagnarla – (ma proprio scomodarsi fino a tal punto?) – sì sì, lui in persona volle accompagnarla al Ministero della Pubblica Istruzione.

             D’estate, però, erano tutti in vacanza, quell’anno, alla Minerva. Per il ministro e il sotto-segretario di Stato l’onorevole Verona lo sapeva; ma non credeva di non trovare in ufficio il capo-divisione, neppure il capo-sezione… Dovette contentarsi di parlare col cavalier Martino Lori, segretario di prima classe, che reggeva in quel momento lui solo l’intera divisione.

             Il Lori, scrupolosissimo impiegato, era molto ben visto dai superiori e dai subalterni per la squisita cordialità dei modi, per l’indole mite, che gli traspariva dallo sguardo, dal sorriso, dai gesti, e per la correttezza anche esteriore della persona linda, curata con diligenza amorosa.

             Egli accolse l’onorevole Verona con molti ossequii e rosso in volto per la gioja, non solo perché prevedeva che questo deputato, senza dubbio, un giorno o l’altro sarebbe stato suo capo supremo, ma perché veramente da anni era ammiratore fervido dei discorsi di lui alla Camera. Volgendosi poi a guardare la signorina e sapendo ch’era figlia del compianto e illustre professore dell’Ateneo perugino, il cavalier Lori provò un’altra gioja, non meno viva.

             Egli aveva poco più di trent’anni, e la signorina Silvia Ascensi aveva un curioso modo di parlare: pareva che con gli occhi – d’uno strano color verde, quasi fosforescenti – spingesse le parole a entrar bene nell’anima di chi l’ascoltava; e s’accendeva tutta. Rivelava, parlando, un ingegno lucido e preciso, un’anima imperiosa; ma quella lucidità man mano era turbata e quella imperiosità vinta e sopraffatta da una grazia irresistibile che le affiorava in volto, vampando. Ella notava con dispetto che, a poco a poco, le sue parole, il suo ragionamento, non avevano più efficacia, poiché chi stava ad ascoltarla era tratto piuttosto ad ammirare quella grazia e a bearsene. Allora, nel volto infocato, un po’ per la stizza, un po’ per l’ebbrezza, che istintivamente e suo malgrado le cagionava il trionfo della sua femminilità, ella si confondeva; il sorriso di chi la ammirava, si rifletteva, senza che lei lo volesse, anche su le sue labbra; scoteva con una rabbietta il capo, si stringeva nelle spalle e troncava il discorso, dichiarando di non saper parlare, di non sapersi esprimere.

             – Ma no! Perché? Mi pare anzi che si esprima benissimo! – s’affrettò a dirle il cavalier Martino Lori.

             E promise all’onorevole Verona che avrebbe fatto di tutto per contentar la signorina e procurarsi il piacere di rendere un servizio a lui.

             Due giorni dopo, Silvia Ascensi ritornò sola al Ministero. S’era accorta subito che per il cavalier Lori non aveva proprio bisogno di alcun’altra raccomandazione. E con la più ingenua semplicità del mondo andò a dirgli che non poteva più assolutamente lasciare Roma: aveva tanto girato in quei tre giorni, senza mai stancarsi, e tanto ammirato le ville solitarie vegliate dai cipressi, la soavità silenziosa degli orti dell’Aventino e del Celio, la solennità tragica delle rovine e di certe vie antiche, come l’Appia, e la chiara freschezza del Tevere… S’era innamorata di Roma, insomma, e voleva esservi trasferita, senz’altro. Impossibile? Perché impossibile? Sarebbe stato difficile, via! Impossibile, no. Dif-fi-ci-lis-si-mo, là! Ma volendo, via… Anche comandata in qualche classe aggiunta… Sì, sì. Doveva farle questo piacere! Sarebbe venuta tante, tante, tante volte a seccarlo, altrimenti. Non lo avrebbe lasciato più in pace! Un comando era facile, no? Dunque…

             Dunque, la conclusione fu un’altra.

             Dopo sei o sette di quelle visite, un dopopranzo, il cavalier Martino Lori si assentò dall’ufficio, s’abbigliò come per le grandi occasioni e andò a Montecitorio a domandare dell’onorevole Verona.

             Si guardava i guanti, si guardava le scarpine, si tirava fuori i polsini con le punte delle dita, molto irrequieto, aspettando l’usciere che doveva introdurlo.

             Appena introdotto, per nascondere l’imbarazzo, prese a dir calorosamente all’onorevole Verona che la sua protetta chiedeva proprio l’impossibile, ecco!

             – La mia protetta? – lo interruppe l’onorevole Verona. – Quale protetta?

             Il Lori, riconoscendo addoloratissimo d’aver usato, senz’ombra di malizia però, una parola che poteva prestarsi veramente a una… sì, a una malevola interpretazione, s’affrettò a dire che intendeva parlare della signorina Ascensi.

             – Ah, la signorina Ascensi? Ma allora sì, protetta! – gli rispose l’onorevole Verona, sorridendo e accrescendo l’imbarazzo del povero cavalier Martino Lori. – Non ricordavo più d’avergliela raccomandata e non ho indovinato in prima di chi intendesse parlarmi. Io venero la memoria dell’illustre professore, padre della signorina e mio maestro, e vorrei che anche lei, cavaliere, ne proteggesse la figliuola – proteggesse, proprio – e me la contentasse a ogni modo, perché lo merita.

             Ma se era venuto appunto per questo, il cavalier Martino Lori! Trasferirla a Roma, però, non poteva in nessun modo. Se era lecito, ecco, desiderava di conoscere la vera ragione per cui… per cui la signorina voleva andar via da Perugia.

             Mah! Non bella, pur troppo, questa ragione. Il professor Ascensi era stato tradito e abbandonato dalla moglie, tristissima donna, molto danarosa, la quale s’era messa a convivere con un altr’uomo degno di lei, da cui aveva avuto due o tre figli. L’Ascensi s’era tenuta con sé, naturalmente, l’unica figliuola, restituendo a colei tutto il suo avere. Grand’uomo, ma sprovvisto del tutto di senso pratico, il professor Ascensi aveva avuto un’esistenza tribolatissima, tra angustie e amarezze d’ogni genere. Comperava libri e libri e libri, strumenti per il suo gabinetto, e poi non sapeva spiegarsi come mai il suo stipendio non bastasse a sopperire ai bisogni d’una famiglia ormai così ristretta. Per non affliggere il babbo con privazioni, la signorina Ascensi s’era veduta costretta a darsi anche lei all’insegnamento. Oh, la vita di quella ragazza, fino alla morte del padre, era stata un continuo esercizio di pazienza e di virtù. Ma ella era orgogliosa, e giustamente, della fama del padre, che a fronte alta poteva contrapporre alla vergogna materna. Ora però, morto sciaguratamente il padre e rimasta senza presidio, quasi povera e sola, non sapeva più adattarsi a vivere a Perugia, dove stava anche la madre ricca e svergognata. Ecco tutto.

             Martino Lori, commosso a questo racconto (commosso veramente anche prima d’ascoltarlo dalla bocca autorevole d’un deputato di grande avvenire), nel licenziarsi gli lasciò intravedere il proposito di ricompensare del suo meglio quella fanciulla, tanto del sacrifizio e delle amarezze, quanto della meravigliosa devozione filiale.

             E così la signorina Silvia Ascensi, venuta a Roma per ottenere un trasferimento, vi trovò – invece – marito.

             II. Il matrimonio, però, almeno nei primi tre anni, fu disgraziatissimo. Tempestoso. Nel fuoco dei primi giorni Martino Lori buttò, per così dire, tutto se stesso; la moglie vi lasciò cadere, invece, pochino pochino di sé. Attutita la fiamma che fonde anime e corpi, la donna ch’egli credeva divenuta ormai tutta sua, come egli era divenuto tutto di lei, gli balzò innanzi molto diversa da quella che s’era immaginata.

             S’accorse, insomma, il Lori che ella non lo amava, che s’era lasciata sposare come in un sogno strano, da cui ora si destava aspra, cupa, irrequieta.

             Che aveva sognato?

             Di ben altro il Lori s’accorse col tempo: che ella, cioè, non solo non lo amava, ma non poteva neanche amarlo, perché le loro nature erano proprio opposte. Non era possibile tra loro nemmeno il compatimento reciproco. Che se egli, amandola, era disposto a rispettare il carattere vivacissimo, lo spirito indipendente di lei, ella, che non lo amava, non sapeva aver neppure sofferenza dell’indole e delle opinioni di lui.

             – Che opinioni! – gli gridava, scrollandosi sdegnosamente. – Tu non puoi avere opinioni, caro mio! Sei senza nervi…

             Che c’entravano i nervi con le opinioni? Il povero Lori restava a bocca aperta. Ella lo stimava duro e freddo perché taceva, è vero? Ma egli taceva per cansar liti! taceva perché s’era chiuso nel cordoglio, rassegnato già al crollo del suo bel sogno, d’avere cioè una compagna affettuosa e premurosa, una casetta linda, sorrisa dalla pace e dall’amore.

             Rimaneva stupito Martino Lori delconcetto che sua moglie s’andava man mano formando di lui, delle interpretazioni che dava dei suoi atti, delle sue parole. Certi giorni quasi quasi dubitava fra sé ch’egli non fosse quale si riteneva, quale si era sempre ritenuto, e che avesse, senz’accorgersene, tutti quei difetti, tutti quei vizii che ella gli rinfacciava.

             Aveva avuto sempre vie piane innanzi a sé; non si era mai addentrato negli oscuri e profondi meandri della vita, e forse perciò non sapeva diffidare né di se stesso né d’alcuno. La moglie, all’incontro, aveva assistito fin dall’infanzia a scene orribili e imparato, purtroppo, che tutto può esser tristo, che nulla vi è di sacro al mondo, se finanche la madre, la madre, Dio mio… – Ah, sì: povera Silvia, meritava scusa, compatimento, anche se vedeva il male dove non era e si dimostrava perciò ingiusta verso di lui. Ma più egli, con la mite bontà, cercava d’accostarsi a lei, per ispirarle una maggior fiducia nella vita, per persuaderla a più equi giudizii, e più ella s’inaspriva e si rivoltava.

             Ma se non amore, buon Dio, almeno un po’ di gratitudine per lui che, alla fin fine, le aveva ridato una casa, una famiglia, togliendola a una vita randagia e insidiosa! No; neppure gratitudine. Era superba, sicura di sé, di potere e di saper bastare a se stessa col proprio lavoro. E sei o sette volte, in quei primi tre anni, lo minacciò di riprendere l’insegnamento e di separarsi da lui. Un giorno, alla fine, pose anche ad effetto la minaccia.

             Ritornando quel giorno dall’ufficio, il Lori non trovò in casa la moglie. La mattina, aveva avuto con lei un nuovo e più aspro litigio per un lieve rimprovero che aveva osato di muoverle. Ma già da un mese circa si addensava la tempesta ch’era scoppiata quella mattina. Ella era stata stranissima tutto quel mese; di fosche maniere; e aveva finanche mostrato un’acerba ripugnanza per lui.

             Senza ragione, al solito!

             Ora, nella lettera lasciata in casa, ella gli annunziava il proposito irremovibile di romperla per sempre e che avrebbe fatto di tutto per riottenere il posto di maestra; e in fine, perché egli non desse in vane smanie e non facesse chiassose ricerche, gì’indicava l’albergo ove provvisoriamente aveva preso alloggio: ma che non andasse a trovarla, perché sarebbe stato inutile.

             Il Lori rimase a lungo a riflettere con quella lettera in mano, perplesso.

             Aveva troppo sofferto, e ingiustamente. Il liberarsi però di quella donna sarebbe stato, sì, forse, un sollievo; ma anche un indicibile dolore. Egli la amava. E dunque, un sollievo momentaneo, e poi una gran pena e un gran vuoto per tutta la vita. Sapeva, sentiva bene che non avrebbe potuto più amare alcun’altra donna, mai. E lo scandalo, inoltre, che non si meritava: egli, così corretto in tutto, separato ora dalla moglie, esposto alla malignità della gente, che avrebbe potuto sospettare chi sa quali torti in lui, quando Dio era testimonio di quanta longanimità, di quanta condiscendenza avesse dato prova in quei tre anni.

             Che fare?

             Deliberò di non muoversi per quella sera. La notte avrebbe portato a lui consiglio, a lei forse il pentimento.

             Il giorno dopo non andò all’ufficio e attese tutta la mattinata in casa. Nel pomeriggio si disponeva ad uscire, senza aver bene tuttavia fermato l’animo ad alcuna deliberazione, quando gli pervenne dalla Camera dei deputati un invito dell’ on. Marco Verona.

             Si era in crisi ministeriale: e, da alcuni giorni, alla Minerva si faceva con insistenza il nome del Verona come probabile Sottosegretario di Stato: qualcuno lo preconizzava anche Ministro.

             Al Lori, fra le tante idee, era venuta anche quella di recarsi dal Verona per consiglio. Se n’era astenuto, immaginando a quali brighe egli dovesse trovarsi in mezzo, di quei giorni. Silvia, evidentemente, non aveva avuto questo ritegno e, sapendo ch’egli sarebbe stato a capo della Pubblica Istruzione, era forse andata da lui per farsi riammettere nell’insegnamento.

             Martino Lori si rabbujò, pensando che forse il Verona, avvalendosi adesso dell’autorità di suo prossimo superiore, volesse ordinargli di non interporsi negli uffici contro il desiderio della moglie.

             Ma invece Marco Verona lo accolse alla Camera con molta benignità.

             Si mostrò seccatissimo d’essere stato preso, come lui diceva, al laccio. Ministro, no, no, per fortuna! Sottosegretario. Non avrebbe voluto assumersi neanche questa minore responsabilità, date le condizioni di quel momento politico. La disciplina del partito lo aveva forzato. Orbene, egli avrebbe voluto almeno nel gabinetto l’ausilio d’un uomo onesto a tutta prova ed espertissimo, e aveva perciò pensato subito a lui, al cavalier Lori. Accettava?

             Pallido per l’emozione e con le orecchie infocate, il Lori non seppe come ringraziarlo dell’onore che gli faceva, della fiducia che gli dimostrava; ma tuttavia, profondendo questi ringraziamenti, aveva negli occhi una domanda ansiosa, lasciava intender chiaramente con lo sguardo ch’egli, in verità, si aspettava un altro discorso. Non voleva proprio nient’altro da lui Fon. Verona, anzi Sua Eccellenza?

             Questi sorrise, alzandosi, e gli posò lievemente una mano su la spalla. Eh sì, qualcos’altro voleva; pazienza, voleva, e perdono per la signora Silvia. Via, ragazzate!

             –    È venuta a trovarmi e mi ha esposto i suoi «fieri» propositi, – disse, sempre sorridendo. – Le ho parlato a lungo e… ma sì! ma sì! non c’è proprio bisogno che lei si discolpi, cavaliere. So bene che il torto è della signora, e gliel’ho detto, sa? francamente. Anzi, l’ho fatta piangere… Sì, perché le ho parlato del padre, di quanto il padre sofferse per il tristo disordine della famiglia… e d’altro ancora le ho parlato. Vada via tranquillo, cavaliere. Ritroverà a casa la signora.

             –    Eccellenza, io non so come ringraziarla… – si provò a dire, commosso, il Lori inchinandosi.

             Ma il Verona lo interruppe subito:

             – Non mi ringrazi; e sopra tutto, non mi chiami Eccellenza.

             E, licenziandolo, lo assicurò che la signora Silvia, donna di carattere, avrebbe mantenuto senza dubbio le promesse che gli aveva fatte; e che, non solo le scene spiacevoli non si sarebbero più rinnovate, ma che ella gli avrebbe dimostrato in tutti i modi il pentimento delle ingiuste amarezze che gli aveva finora cagionate.

             III. Fu veramente così. La sera della riconciliazione segnò per Martino Lori una data indimenticabile: indimenticabile per tante ragioni ch’egli comprese, o meglio, intuì subito, dal modo com’ella fin dal primo vederlo gli s’abbandonò tra le braccia.

             Quanto, quanto pianse! Ma quanta e quale gioja egli bevve in quelle lagrime di pentimento e di amore!

             Le vere sue nozze le celebrò allora; da quel giorno ebbe la compagna sognata; e un altro suo segreto ardentissimo sogno si compì certo in quel primo ricongiungimento.

             Quando Martino Lori non poté più avere alcun dubbio su lo stato della moglie e quand’ella poi gli mise al mondo una bambina, nel vedere di quale gratitudine, di qual devozione per lui e di quali sacrifizii per la figliuola la maternità avesse reso capace quella donna, tant’altre cose comprese e si spiegò. Ella voleva esser madre. Forse non comprendeva e non sapeva spiegarselo neppur lei, questo segreto bisogno della sua natura; e perciò era prima così strana e la vita le sembrava così insulsa e vuota. Voleva esser madre.

             La felicità del sogno finalmente raggiunto, fu turbata soltanto dall’improvvisa caduta del Ministero di cui faceva parte l’onorevole Verona e un po’ anche – nell’ombra – Martino Lori, suo segretario particolare.

             Forse più indignato dello stesso on. Verona si mostrò il Lori per l’aggressione violenta delle opposizioni coalizzate per rovesciare, quasi senza ragione, il Ministero. L’on. Verona, per conto suo, dichiarò d’averne fino alla gola della vita politica, e che voleva ritirarsene per riprendere con miglior frutto e maggiore soddisfazione gli studii interrotti.

             Alle nuove elezioni, infatti, riuscì a vincere le pressioni insistenti degli elettori, e non si presentò. S’era infervorato d’una grande opera scientifica lasciata a mezzo dal professor Bernardo Ascensi. Se la figliuola, signora Lori, gli faceva l’onore d’affidargliela, egli si sarebbe provato a seguitare gli esperimenti del maestro e a portare a compimento quell’opera.

             Silvia – ne fu felicissima.

             In quell’anno di devota, fervida collaborazione, s’erano stretti fortemente i legami d’amicizia fra il marito e il Verona. Il Lori, però, per quanto il Verona non avesse mai fatto pesar su lui il proprio grado e la propria dignità e lo trattasse ora con la massima confidenza, con la massima cordialità, fino a dargli e a farsi dare del tu, si mostrava timido e un po’ impacciato, vedeva sempre nell’amico il superiore. Il Verona se n’aveva per male e spesso lo motteggiava. Rideva, sì, di quei motteggi il Lori, ma con una segreta afflizione, perché notava nell’animo dell’amico una certa amarezza che diveniva di giorno in giorno più acre. Ne attribuiva la causa al ritiro sdegnoso dalla vita politica, dalle lotte parlamentari; e ne parlava alla moglie e le consigliava di avvalersi di quell’ascendente, ch’ella pareva avesse su lui, per indurlo, per spingerlo a rituffarsi nella vita.

             – Sì! vorrà dare ascolto a me! – gli rispondeva Silvia. – Quando ha detto no, è no, lo sai. Del resto, a me non pare. Lavora con tanto impegno, con tanta passione…

             Martino Lori si stringeva nelle spalle.

             – Sarà così!

             Gli pareva però che il Verona ritrovasse la serenità di prima solamente quando scherzava con la loro piccola Ginetta, che cresceva a vista d’occhio, florida e vispa.

             Marco Verona aveva veramente per quella bimba certe tenerezze, che commovevano il Lori fino alle lagrime. Gli diceva che stesse bene attento perché qualche giorno gliel’avrebbe portata via. Sul serio, veh! non scherzava. E Ginetta non se lo sarebbe lasciato dire due volte: avrebbe abbandonato il babbo, la mamma, è vero? anche la mamma, per andar via con lui… Ginetta diceva di sì: cattivona! pei regali, eh? pei regali ch’egli le faceva a ogni minima occasione. E che regali! Ne soffrivano finanche, ogni volta, il Lori e la moglie. Questa, anzi, non sapeva tenersi dal dimostrare al Verona che se ne sentiva offesa. Avvilimento di superbia? No. Erano proprio troppi e di troppo costo, quei regali, e lei non voleva! Il Verona, però, beandosi della festa che Ginetta faceva a quei giocattoli, scrollava le spalle, urtato dal loro rammarico e dalle loro proteste, e finanche si rivoltava con poco garbo a imporre che si stessero zitti e lasciassero godere la bambina.

             Silvia cominciò a poco a poco a dirsi stufa di questi modi del Verona, e al marito che, per scusarlo, tornava a battere su quel chiodo, ch’era stato cioè un grave danno per l’amico il ritiro dalla vita politica, rispondeva che questa non era una buona ragione perché egli venisse a sfogare in casa loro il malumore.

             Il Lori avrebbe voluto far notare alla moglie che, in fin dei conti, quel malumore il Verona lo sfogava facendo felice la loro bambina; ma si stava zitto per non turbare l’accordo che, fin dal primo giorno della riconciliazione, s’era stabilito fra essi.

             Ciò che egli, nei primi anni, aveva trovato d’ostile in lei era divenuto pregio, ora, e virtù a gli occhi suoi. Dallo spirito, dalla fermezza, dall’energia di lei, non più volti adesso contro di lui, egli si sentiva riempire tutto e sostenere. E gli pareva così piena, ora, la vita e così solidamente fondata, con quella donna accanto, sua, tutta sua, tutta per la casa e per la figliuola.

             Stimava, sì, preziosa in cuor suo l’amicizia del Verona e avrebbe voluto perciò che nell’animo della moglie non si raffermasse l’impressione ch’egli fosse divenuto importuno e fastidioso per quella soverchia affezione per Ginetta; d’altra parte però, se questa affezione troppo invadente doveva turbargli la pace della casa, la buona armonia con la moglie… Ma come farlo intendere al Verona, che non voleva accorgersi neppure della freddezza con cui Silvia, ora, lo accoglieva?

             Col crescer degli anni, Ginetta cominciò a dimostrare una passione vivissima per la musica. Ed ecco il Verona, due, tre volte la settimana, pronto con la vettura per condurre la ragazza a questo e a quel concerto; e spesso, durante la stagione lirica, veniva a congiurar con lei, a metterla su, perché inducesse con le sue graziette la mamma e il babbo ad accompagnarla a teatro, nel palco già fissato per lei.

             Il Lori, angustiato, imbarazzato, sorrideva; non sapeva dir di no, per non scontentare l’amico e la figliuola; ma, santo Dio, il Verona avrebbe dovuto comprendere ch’egli non poteva, così spesso: la spesa non era soltanto per il palco e per la vettura: Silvia doveva pure vestirsi bene; non poteva far cattiva figura. Sì, egli era ormai capo-divisione, aveva già un discreto stipendio; ma non aveva certo denari da buttar via.

             Era tanta la passione per quella ragazza, che il Verona non avvertiva a queste cose e non s’avvedeva neppure del sacrifizio che doveva far Silvia, certe sere, rimanendo sola a casa, con la scusa che non si sentiva bene.

             E così fosse sempre rimasta a casa! Una di quelle sere, ella ritornò dal teatro in preda a continui brividi di freddo. La mattina dopo tossiva, con una febbre violenta. E in capo a cinque giorni moriva.

             IV. Per la violenza fulminea di quella morte, Martino Lori restò dapprima quasi più sbigottito che addolorato.

             Venuta la sera, il Verona, come urtato da quell’attonimento angoscioso, da quel cordoglio cupo, che minacciava di vanir nell’ebetismo, lo spinse fuori della camera mortuaria, lo forzò a recarsi dalla figlia, assicurandolo che sarebbe rimasto lui, là, a vegliare tutta la notte.

             Il Lori si lasciò mandar via; ma poi, a notte alta, silenzioso come un’ombra, ricomparve nella camera mortuaria e vi trovò il Verona con la faccia affondata nella sponda del letto, su cui giaceva rigido e allividito il cadavere.

             Dapprima gli parve che, vinto dal sonno, il Verona avesse reclinato lì la testa, inavvertitamente; poi, osservando meglio, s’accorse che il corpo di lui era scosso a tratti, come da singhiozzi soffocati. Allora il pianto, il pianto che finora non aveva potuto rompergli dal cuore, assalì anche lui furiosamente, vedendo piangere così l’amico. Ma questi, di scatto gli si levò contro, fremente, trasfigurato; e – come egli, convulso, gli tendeva le mani per abbracciarlo – lo respinse, proprio lo respinse con fosca durezza, con rabbia. Doveva sentirsi in gran parte responsabile di quella sciagura, perché proprio lui, cinque sere prima, aveva forzato Silvia ad andare a teatro, ed ora non gli reggeva l’animo a veder soffrire in quel modo l’amico. Così pensò il Lori, per spiegarsi quella violenza; pensò che il dolore può diversamente su gli animi: certi, li atterra; certi altri li arrabbia.

             E né le visite senza fine degli impiegati subalterni, che lo amavano come un padre, né le esortazioni del Verona, che gl’indicava la figliuola smarrita nella pena e costernata per lui, valsero a scuoterlo da quella specie d’annientamento in cui era caduto, quasi che il mistero cupo e crudo di quella morte improvvisa lo avesse circondato, diradandogli tutt’intorno la vita.

             Gli pareva, ora, di veder tutto diversamente, e che i rumori gli arrivassero come di lontano, e le voci, le voci stesse a lui più note, quella dell’amico, quella della propria figliuola, avessero un suono ch’egli non aveva mai prima avvertito.

             Cominciò così man mano a sorgere in lui da quell’attonimento come una curiosità nuova, ma spassionata, per il mondo che lo circondava, che prima non gli era mai apparso né aveva conosciuto così.

             Era mai possibile che Marco Verona fosse stato sempre quale egli lo vedeva ora? Finanche la persona, l’aria del volto gli sembravano diverse. E la sua stessa figliuola? Ma come! Era davvero già cresciuta di tanto? o dalla sciagura, tutt’a un tratto, era balzata su un’altra Ginetta, così alta, esile, un po’ fredda, segnatamente con lui? Sì, somigliava nelle fattezze alla madre, ma non aveva quella grazia che, in gioventù, accendeva, illuminava la bellezza della sua Silvia; e perciò tante volte Ginetta non pareva neanche bella. Aveva la stessa imperiosità della madre, ma senza quegl’impeti franchi, senza scatti.

             Ora il Verona veniva con più scioltezza, quasi ogni giorno a casa del Lori: spesso rimaneva a desinare o a cenare. Aveva finalmente compiuto la poderosa opera scientifica concepita e iniziata da Bernardo Ascensi, e già attendeva a mandarla a stampa in una magnifica edizione. Molti giornali ne recavano le prime notizie, e di alcune fra le più importanti conclusioni avevano anche preso a discutere animatamente le maggiori riviste non solo italiane ma anche straniere, lasciando così prevedere la fama altissima, a cui tra breve quell’opera sarebbe salita.

             Il merito del Verona per il proseguimento di essa e per le nuove ardite deduzioni tratte dalla prima idea fu, dopo la pubblicazione, riconosciuto universalmente non inferiore a quello dello stesso Ascensi. Ne ebbe gloria questi, ma assai più il Verona. Da ogni parte gli fioccarono plausi e onorificenze. Tra le altre, la nomina a senatore. Non aveva voluto averla subito dopo la sua uscita dal mondo parlamentare; la accolse ora di buon grado, perché non gli veniva per il tramite della politica.

             Martino Lori in quei giorni, pensando alla gioja, all’esultanza che avrebbe provato la sua Silvia nel veder così glorificato il nome del padre, s’indugiò più a lungo nelle visite che ogni sera, uscendo dal Ministero, soleva fare alla tomba della moglie. Aveva preso quest’abitudine; e andava anche d’inverno, con le cattive giornate, a curar le piante attorno alla gentilizia, a rinnovare i lumini nella lampada; e parlava pian piano con la morta. La vista quotidiana del camposanto e le riflessioni ch’essa gli suggeriva, gì’improntavano sempre più di squallore il volto.

             Tanto la figlia quanto il Verona avevano cercato di distoglierlo da questa abitudine; egli dapprima aveva negato come un bambino colto in fallo; poi, costretto a confessare, aveva alzato le spalle, sorridendo pallidamente.

             – Non mi fa nulla… Anzi è per me un conforto, – aveva detto. – Lasciatemi andare.

             Tanto, se fosse ritornato a casa subito, dopo l’ufficio, chi vi avrebbe trovato? Giornalmente il Verona veniva a prendersi Ginetta. Non se ne lagnava lui, no; anzi era gratissimo all’amico degli svaghi che procurava alla figliuola. Quella certa asprezza che aveva avvertito in talune occasioni nei modi di lui e qualche altro lieve difetto di carattere non avevano potuto fargli scemare l’ammirazione, né tanto meno ora la gratitudine, la devozione per quest’uomo, a cui né l’altezza dell’ingegno e della fama e degli uffici a cui era salito, né la fortuna toglievano d’accordare una così intima, più che fraterna amicizia a un pover uomo come lui che, tranne il buon cuore, non si riconosceva altra virtù, altro pregio per meritarsela.

             Egli vedeva adesso con soddisfazione che non s’era ingannato quando diceva alla moglie che l’affetto del Verona sarebbe stato una fortuna per la loro Ginetta. N’ebbe la prova maggiore allorché questa compì diciott’anni. Oh come avrebbe voluto che la sua Silvia fosse stata presente quella sera, dopo la festa per il compleanno!

             Il Verona, venuto apposta senza alcun regalo in mano per Ginetta, appena questa se ne andò a dormire, se lo trasse in disparte e, serio e commosso, gli annunziò che un suo giovane amico, il marchese Flavio Gualdi, chiedeva a lui per suo mezzo la mano della figliuola.

             Martino Lori, lì per lì, rimase stupito. Il marchese Gualdi? Un nobile… ricchissimo… la mano di Ginetta? Andando col Verona nei concerti, nelle conferenze, a passeggio, Ginetta, sì, era potuta entrare in un mondo, a cui né per nascita né per condizione sociale avrebbe potuto accostarsi, vi aveva destato qualche simpatia; ma lui…

             – Tu lo sai, – disse all’amico, quasi smarrito e afflitto nella gioja, – sai qual è il mio stato… Non vorrei che il marchese Gualdi…

             Il Verona lo interruppe:

             –    Gualdi sa… sa quel che deve sapere.

             –    Capisco. Ma, essendo tanta la disparità, non vorrei che egli… per quanto predisposto, non riuscisse neppure a figurarsi tante cose…

             Il Verona tornò a interromperlo, stizzito:

             –    Mi pareva ozioso dirtelo, ma giacché tu, scusa, mi tieni ora un discorso così sciocco, per tranquillarti ti dirò che, via, essendo io da tant’anni tuo amico…

             –    Eh, lo so!

             –    Ginetta è cresciuta più con me che con te, si può dire…

             –    Sì… sì…

             –    O che mi piangi, adesso? Non vorrò mica essere l’intermediario di questo matrimonio per nulla. Su, su, finiscila! Io me ne vado. Ne parlerai tu, domattina, a Ginetta. Vedrai che non ti riuscirà difficile.

             –    Se l’aspetta? – domandò, sorridendo tra le lagrime, il Lori.

             –    E non hai visto che non s’è punto meravigliata nel vedermi arrivare questa sera a mani vuote?

             Così dicendo, Marco Verona rise gajamente, come da tant’anni il Lori non lo aveva più sentito ridere.

             V. Un’impressione curiosa, di gelo, dapprincipio. Ma non ci avrebbe fatto caso Martino Lori, perché, come tant’altre cose in vita sua s’era spiegate, persuaso dall’ingenua bontà, anche questa si sarebbe spiegata qual effetto naturale della preveduta disparità di condizione, e un po’ anche del carattere, dell’educazione, della figura stessa del genero.

             Non era più giovanissimo il marchese Gualdi: era ancor biondo, d’un biondo acceso, ma già calvo: lucido e roseo come una figurina di finissima porcellana smaltata; e parlava piano con accento più francese che piemontese, piano, piano, affettando nella voce una tal quale benignità condiscendente, che contrastava però in modo strano con lo sguardo rigido degli occhi azzurri, vitrei.

             Da questi occhi il Lori s’era sentito se non propriamente respinto, quasi allontanato, e gli era parso finanche di scorgervi come una commiserazione lievemente derisoria per lui, per i suoi modi forse troppo semplici prima, ora troppo circospetti, forse.

             Ma anche il tratto del tutto diverso che il Gualdi usava tanto col Verona quanto con Ginetta, egli si sarebbe spiegato; quantunque, via, paresse che la moglie a colui fosse venuta da parte dell’amico e non da lui ch’era il padre… Veramente era stato così, ma il Verona…

             Ecco: il Verona non sapeva spiegarsi più, Martino Lori.

             Ora che egli era rimasto solo in casa e non aveva più neanche l’ufficio, essendosi messo a riposo per far piacere al genero, non avrebbe dovuto Marco Verona prodigargli con maggior premura il conforto dell’amicizia fraterna, di cui per tanti anni aveva voluto onorarlo?

             Egli, il Verona, andava ogni giorno a trovar Ginetta nel villino del Gualdi; e da lui, dall’amico, dopo il giorno delle nozze, non era più venuto, neanche una volta per isbaglio. S’era forse stancato di vederlo così chiuso ancora nel cordoglio antico, ed essendo ormai vecchio anche lui, preferiva andare dove si godeva, dove Ginetta, per opera di lui, pareva felice?

             Sì, anche questo poteva darsi. Ma perché poi, quand’egli andava a veder la figlia, e lo trovava lì, a tavola con lei e il genero, come se fosse di casa, era accolto da lui quasi con dispetto, gelidamente? Poteva darsi che quest’impressione di gelo gli fosse data dal luogo, da quella vasta sala da pranzo, lucida di specchi, splendidamente arredata? Ma che! no! no! Non si era soltanto allontanato il Verona; il tratto, il tratto di lui era proprio cangiato; gli stringeva appena la mano, appena lo guardava, e seguitava a conversar col Gualdi, come se non fosse entrato nessuno.

             Per poco lì non lo lasciavano in piedi, innanzi alla tavola. Solo Ginetta gli rivolgeva qualche parola, di tanto in tanto, ma così, fuor fuori, perché non si potesse dire che proprio nessuno si curava di lui.

             Col cuore strizzato da un’angoscia inesplicabile, confuso e avvilito, Martino Lori se n’andava.

             Non doveva proprio avere alcun rispetto per lui, alcun riguardo, il genero? Tutte le feste e gl’inviti per il Verona, perché ricco e illustre? Ma se doveva esser così, se volevano tutti e tre seguitare ad accoglierlo ogni sera a quel modo, come un importuno, come un intruso, egli non sarebbe andato più; no, no, perdio, non sarebbe andato più ! Voleva stare a vedere che cosa avrebbero fatto quei signori, tutt’e tre, allora.

             Ebbene, passarono due giorni; ne passarono quattro e cinque; passò un’intera settimana, e né il Verona, né il genero e neanche Ginetta, nessuno, neppure un servo, venne a chieder di lui, se per caso fosse malato…

             Con gli occhi senza sguardo, vagando per la camera, il Lori si grattava di continuo la fronte con le dita irrequiete, quasi per destar la mente dal torpore angoscioso in cui era caduta. Non sapendo più che pensare, riandava, riandava con l’anima smarrita il passato…

             Tutt’a un tratto, senza saper perché, il pensiero gli s’appuntò in un ricordo lontano, nel più triste ricordo della sua vita. Ardevano in quella notte funesta quattro ceri, e Marco Verona, con la faccia affondata nella sponda del letto, su cui giaceva Silvia morta, piangeva.

             Fu all’improvviso come se, nella sua anima scombujata, quei ceri funebri guizzassero e accendessero un lampo livido a rischiarargli orridamente tutta la vita, fin dal primo giorno che Silvia gli era venuta innanzi, accompagnata da Marco Verona.

             Sentì mancarsi le gambe, e gli parve che tutta la camera gli girasse attorno. Si nascose il volto con le mani, tutto ristretto in sé:

             – Possibile? Possibile?

             Alzò gli occhi al ritratto della moglie, dapprima quasi sgomento di ciò che gli avveniva dentro; poi aggredì quel ritratto con lo sguardo, serrando le pugna e contraendo tutta la faccia in una espressione d’odio, di ribrezzo, d’orrore:

             – Tu? tu?

             Più di tutti lei lo aveva ingannato. Forse perché il pentimento di lei, dopo, era stato sincero. Il Verona, no… il Verona, no… Costui gli veniva in casa, là, come un padrone e… ma sì! forse sospettava ch’egli sapesse e fingesse di non accorgersi di nulla per vile tornaconto…

             Come questo pensiero odioso gli balenò, Martino Lori senti artigliarsi le dita e le reni fenderglisi. Balzò in piedi; ma una nuova vertigine lo colse. L’ira, il dolore gli si sciolsero in un pianto convulso, impetuoso.

             Si riebbe, alla fine, stremato di forze e come tutto vuoto, dentro.

             Più di vent’anni c’eran voluti perché comprendesse. E non avrebbe compreso, se quelli con la loro freddezza, con la loro noncuranza sdegnosa non gliel’avessero dimostrato e quasi detto chiaramente.

             Che fare più, dopo tant’anni? ora che tutto era finito… così, da un pezzo, in silenzio… pulitamente, come usa fra gente per bene, fra gente che sa fare a modo le cose? Non glielo avevano lasciato intendere con garbo forse, che oramai non aveva più nessuna parte da rappresentare? Aveva rappresentato la parte del marito, poi quella del padre… e ora basta: ora non c’era più bisogno di lui, poiché essi, tutti e tre, si erano così bene intesi fra loro…

             La men trista fra tutti, la meno perfida, forse era stata colei che s’era pentita subito dopo il fallo ed era morta…

             E Martino Lori, quella sera, come tutte le sere, seguendo l’antica abitudine, si ritrovò per la via che conduce al cimitero. S’arrestò, fosco e perplesso, se andare avanti o tornare indietro. Pensò alle piante attorno alla gentilizia, che da tant’anni, ormai, curava con amore. Là, tra poco, anch’egli avrebbe riposato… Là sotto, accanto a lei? Ah, no, no: non più ormai… Eppure, come aveva pianto quella donna, allora, ritornando a lui, e di quanto affetto lo aveva circondato, dopo… Sì, sì: s’era pentita… A lei, sì, a lei soltanto egli forse poteva perdonare.

             E Martino Lori riprese la via per il cimitero. Aveva qualche cosa di nuovo da dire alla morta, quella sera.

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Tutto per bene – Audio lettura 2 – Legge Valter Zanardi
Tutto per bene – Audio lettura 3 – Legge Gaetano Marino
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