Trovarsi – Atto terzo

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Premessa
Personaggi, Atto Primo
Atto Secondo
Atto Terzo

Dedicata a Marta Abba

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Trovarsi - Atto III
Angelo Campo, Mascia Musy, Trovarsi, 2012. Immagine dal Web.

1932
Trovarsi
Atto Terzo

        Camera d’un ricco albergo in una grande città. Alcova infondo, con l’arco ornato da una tenda damascata che nasconde il letto. Vi s’accede salendo uno scalino. Davanti, è come un salotto, con un gran divano in mezzo, tavola di stile, poltrone… Sulla tavola, una grande lampada guarnita di un paralume violaceo. Nella parete sinistra è l’uscio comune. In quella destra, l’uscio che mette in comunicazione con la camera accanto, occupata da Elj. Questa scena deve essere in forte contrasto con le due precedenti: cupa, pesante, so­vraccarica di densi colori, quanto gaje, leggere e luminose erano le altre. Al levarsi della tela, la scena è al bujo, vuota. Poco dopo, si sente aprire da fuori l’uscio a sinistra. Entra Elj, che preme accanto all’uscio uno dei bottoni elettrici; sbaglia; s’accende soltanto il lume violaceo sulla tavola, che rischiara appena, lugubremente, la scena. Elj appare col cappello in capo; in smoking e ancora col soprabito nero addosso; attraversa la scena, pallido, al­terato, nervosissimo; va ad aprire l’uscio della sua camera, che è quasi di­rimpetto; entra, lasciandolo aperto: fa lume di là nella sua camera; e questo lume si riverbererà fortemente sulla scena attraverso l’uscio aperto. Breve pausa. Si sente picchiare ripetutamente all’uscio di sinistra. Elj, che non s’è tolto ancora il cappello e il soprabito, si fa all’uscio della sua camera e grida:

        ELJ: Avanti! (E alla cameriera d’albergo che si presenta:) Che volete?

        CAMERIERA: La signorina è tornata?

        ELJ: No! Lo vedete bene che non è tornata.

        CAMERIERA: Ah, scusi. Credevo che il teatro fosse finito.

        ELJ: Non è ancora finito.

        CAMERIERA: Bene bene. Apparecchierò più tardi. Scusi.

        Fa per uscire; s’imbatte nel conte Mola che sopravviene in abito da sera, anche lui agitato e in ansia. La cameriera si scansa; dà luce alla camera ed esce, richiudendo l’uscio.

        ELJ: Non dirmi nulla, per carità!

        IL CONTE MOLA: Ma si scappa così dal teatro?

        ELJ: Non resistevo più!

        IL CONTE MOLA: Potevi almeno aspettare la fine del second’atto, che si chiu­desse il sipario!

        ELJ: Non resistevo più, ti dico!

        IL CONTE MOLA: L’uscita d’uno spettatore, proprio in quel momento! col gelo che s’era diffuso in sala… Mi son sentito i brividi alla schiena!

        ELJ: Ah, tu, i brividi?

        IL CONTE MOLA: Dico per la tua uscita! Potevi almeno non fartene accorgere! Chi sa che sarà accaduto…

        ELJ: La mia uscita… chi se n’è accorto?

        IL CONTE MOLA: Ma tutti! E tu non sai com’è il teatro in certi momenti… basta un niente, il minimo rumore! E lei, ora? Il terz’atto sarà finito. Ti aspetterà…

        ELJ: Le ho mandato un biglietto.

        IL CONTE MOLA: Che biglietto?

        ELJ: Che non resistevo più e che l’aspettavo qua. Ma non la posso più nem­meno aspettare! Non posso più rivederla. Me ne vado. Le dirai tu che sono partito.

        IL CONTE MOLA: Che? Vorresti partire?

        ELJ: Ora stesso – torno al mare – in macchina.

        IL CONTE MOLA: Ah no! Intanto la macchina non te la lascio portar via.

        ELJ: Va bene, prenderò il treno.

        IL CONTE MOLA: Oh insomma, vuoi smetterla una buona volta con codesta furia?

        ELJ: Non posso sopportare nemmeno l’idea di rivederla, lo vuoi capire? E me ne vado perché non mi trovi qua! – Se c’è una corsa di notte, la prendo; se no, domattina.

        IL CONTE MOLA: Ma vorresti partire così, senza dirle nulla?

        ELJ: Le dirai tu che l’aspetto là – quando avrà riacquistato la sua faccia – quand’avrà finito di dare a vedere a tutti –

        IL CONTE MOLA: Ma che dici? Sei pazzo? Non hai visto che le è accaduto?

        ELJ: Perché avrà provato vergogna lei stessa…

        IL CONTE MOLA: Un disastro! Un disastro!

        ELJ: Dio! come si fa? com’ha potuto fare una cosa simile? – mostrarsi fin nella più stretta intimità – com’era stata con me! – Sotto gli occhi di tutti! – Ho ri­conosciuto ogni gesto, ogni mossa!

        IL CONTE MOLA: Ma no! Che hai riconosciuto? – Tutt’altro!

        ELJ: Come tutt’altro! Che vuoi saperne tu?

        IL CONTE MOLA: Io l’ho vista prima! com’era prima, in questa stessa scena d’a­more!

        ELJ: Vuoi far conoscere a me quel suo modo particolare di guardare nel dir certe cose? e di sorridere, nell’atto di…? che non è nemmeno un sorriso, ma la dolcezza di un’implorazione?

        IL CONTE MOLA: E non hai visto che non poteva più dir nulla? né guardare, né sorridere? Una pena!

        ELJ: Perché io ero là, sfido! Io che ormai sapevo – io solo!

        IL CONTE MOLA: Ma che tu solo! Tutti!

        ELJ: Ah sì? Quel finir di guardare, quasi per non veder le parole?

        IL CONTE MOLA: Ma sì! Ma sì!

        ELJ: E quel sorridere, come di bambina che s’imbeve davanti all’acqua e para le mani, come quando io la volevo prendere?

        IL CONTE MOLA: Ma questa commedia, caro, è stata il suo maggior successo du­rante tutta l’annata…

        ELJ: E allora tutti sanno che è così? che fa così? – Ma se io posso provare – assicurare, assicurare – che non sapeva nulla – hai capito? – nulla! – Prima, allora, era una finzione? – O fors’anche dopo, con me…? Ma no! Ora sapeva, ora sapeva, e perché sapeva, era così tutta, come trattenuta, a dire… a fare… La vergogna ch’io la stessi a vedere… lì, così… a mostrare a tutti ciò che io solo potevo dire che aveva veramente saputo con me… E che vorrebbe ora? farlo accettare anche a me? di mostrarsi così? come d’essere di tutti? Grazie! Io mi vergogno per lei, se lei non se ne vergogna! Io non posso ammetterla, questa finzione! E tanto peggio, se per lei è come vero! Io me ne vado! me ne vado! Mi parrebbe davvero allora di riprendermela, come dopo ch’è stata di tutti! Grazie! Grazie! – Dille quello che sento, quello che provo – e che per me non è possibile! – Resti qua di tutti! (Fa per andare.)

        IL CONTE MOLA (trattenendolo): Aspetta! Perdio, aspetta! Forse ne sarà convinta lei stessa ormai, che non è possibile nemmeno per lei. Ha voluto fare questa prova – l’ha detto!

        ELJ: Sì – consigliata da voi: per farmi vedere quel che valeva! – Ma che volete che valga quella che voi vedete lassù, a paragone di come l’ho vista io, mia, tutta per me – quando credevo che fosse così, soltanto per me – con la faccia che Dio le ha data – bella – limpida – con quegli occhi nudi, smarriti e ridenti – tutta impiastricciata ora là, come se l’è fatta – una maschera – con quelle ciglia – e tutto quel belletto – come una… (espressione di schifo) – ah! – E vi par brava? vi par tanto brava davvero? A me è parsa un tremulo fantasma che non trovava il verso di muovere un passo e di spiccicare una parola! E voi ad applaudire quelle che vi parevano tutte le sue bravure d’attrice! A me è parsa ridicola – tutta una smorfia – ecco quello che è parsa! per me non vale nulla! – Ah sì, brava? M’avete fatto assistere a una bella prova!

        IL CONTE MOLA: Ma se ti sto dicendo che è mancata – mancata per tutt’e due gli atti – davanti al suo pubblico! Nessuno l’ha più riconosciuta! È stato come uno sgomento in tutti a vederla sulla scena come se non fosse più nemmeno sicura della sua parte, sì, sì, appunto perché sapeva che c’eri tu!

        ELJ: Io che mi torcevo.

        IL CONTE MOLA: Ma un’attrice, caro mio, è del suo pubblico prima di tutti! Ha il dovere d’essere del suo pubblico! E non può essere soltanto tua!

        ELJ: E resti allora del suo pubblico!

        IL CONTE MOLA: Tranne che tu – ecco – non diventi per lei «tutti» – «tutti» – e sai allora che vuol dir questo per te?

        ELJ: Io, tutti? Io sono uno!

        IL CONTE MOLA: E vuoi che lei trovi in te, che sei uno, tutta la vita, le emozioni, le soddisfazioni che finora le ha date l’amore del suo pubblico? Ma che puoi essere tu per lei, pensa!

        ELJ: lo? Che posso essere io? E non l’hai detto tu stesso? Se per me, questa sera è mancata davanti a tutto il suo pubblico – ecco quello che sono per lei! – Bene: ora scelga: o l’amore di tutto il suo pubblico, per quello che finora le ha dato, o il mio, per quel che io le ho dato!

        IL CONTE MOLA: E non capisci che glielo può dare chiunque – ciò che tu le hai dato – se tu ora le manchi e te ne vai?

        ELJ: Ah certo – chiunque – se lei vuole! – Ma pare che lei non sia di questa opinione – se ha fatto la prova – ed ecco – come tu dici – è mancata!

        IL CONTE MOLA: E allora perché te ne vai – se hai vinto? – Aspetta che venga qua a dirti – che amandoti come ti ama – non potrà più recitare.

        ELJ: No. Voglio che sia lei – sola – qua – a prendere la decisione di staccarsi – e che mi venga a trovare – lei – da sé – dove l’aspetto. Non voglio che mi trovi qua umiliato di quanto m’ha fatto soffrire, di ciò che m’ha dato a vedere –   anche di lei stessa – umiliata lassù del suo stesso sentimento per me, di mostrarlo nel modo, Dio, nel modo stesso con cui l’ha vissuto con me, quella stessa voce, quei gesti… Io ne ho orrore, orrore. Ci sono di là le mie valigie. Fammele spedire. Ma del resto, non ne ho bisogno. Abiti cittadini. Se non vuol venire, dille che mi imbarco e che faccio voto di non ritornare a terra mai più.

        Via per l’uscio a sinistra. Il conte Mola gli corre dietro.

        IL CONTE MOLA: Ma no, Elj! (Chiama dalla soglia dell’uscio:) Elj! Si tira un po’ indietro, perché sopravviene la cameriera.

        CAMERIERA: Prego, signore: c’è qualcuno che riposa…

        IL CONTE MOLA: Domando scusa. Ma è che… Io non posso restare qua – questa è la camera di lei…

        CAMERIERA: Della signorina; ma se vuole, può passare di là. (Indica la camera accanto.)

        IL CONTE MOLA (come non si sapesse dar pace): Vi ha lasciato anche la luce ac­cesa… e le valigie…

        CAMERIERA: Il signore è partito?

        IL CONTE MOLA: Sì, cioè… non so… forse, momentaneamente…

        CAMERIERA: Devo ritirare le valigie?

        IL CONTE MOLA: No, per ora… Bisogna ch’io aspetti il ritorno della signorina…

        CAMERIERA: E allora s’accomodi.

        IL CONTE MOLA: Non qua, no… Non posso farmi trovare nella sua camera… L’a­spetterò giù nella hall…

        CAMERIERA: Ecco la signorina!

        Entra infatti, affannata, ansiosa, Donata. Per far presto a rientrare in al­bergo non s’è neanche struccata ed ha ancora, sotto la mantiglia, l’abito di scena.

        DONATA: Ah, lei conte? – Elj è di là? E fa per dirigersi alla camera di Elj. La cameriera si ritira.

        IL CONTE MOLA^ No, Donata… Non l’ha incontrato?

        DONATA: No. È sceso?

        IL CONTE MOLA: Un momento fa…

        DONATA: Giù? Dove? Io per far presto non mi son neppure struccata…

        IL CONTE MOLA: Mi permetta… Per dove sarà sceso? Può darsi che non abbia ancora lasciato l’albergo… Che sia alla cassa…

        DONATA: Alla cassa? Perché?

        IL CONTE MOLA: Ma suppongo… Posso provare… (Fa per andare.)

        DONATA: No! Aspetti! Lasciare l’albergo? Vuol partire?

        IL CONTE MOLA: Sì…

        DONATA: Ah, le ha proprio detto che partiva?

        IL CONTE MOLA: Che tornava alla spiaggia – e che la aspettava là…

        DONATA: Me?

        IL CONTE MOLA: Dice che non ha potuto resistere…

        DONATA: Questo lo so!

        IL CONTE MOLA: È scappato dal teatro… io l’ho raggiunto qua…

        DONATA: Ed è scappato anche di qua… Per non vedermi così, è vero?

        IL CONTE MOLA: Gli è intollerabile…

        DONATA: E io ora dovrei andarlo a raggiungere là? Sciocco! (Vedendo compa­rire Elisa, seguita da Giviero:) Ah, Elisa, brava, vieni! Venga, venga avanti, Giviero! Volevo appunto pregare il conte di scendere giù per invitarvi a sa­lire.

        ELISA (come a spiegare, turbata, la ragione per cui, senza invito, è sedita): Abbiamo incontrato giù…

        DONATA: Ah, era ancora giù davvero…

        ELISA: Sì – in uno stato…

        IL CONTE MOLA (a Donata, per avviarsi): Posso, se vuole…

        DONATA (con forza e con sdegno): No! (Poi, attenuando un po’:) Scusi, vuole che lo richiami io? (Quasi tra sé, convulsa, ma volendosi vincere per orgo­glio:) Sciocco… sciocco… (A Elisa:) È partito…

        GIVIERO: Già, ce l’ha detto, scansandoci, ed è uscito…

        DONATA: Perché ha sofferto troppo a sentirmi recitare – lui, sofferto, capisci? dopo che… – Ma basta! Basta! – Sciocco… – Dite, dite qua voi al conte, che cosa è successo al terz’atto! Vede? Sono corsa così, ancora con l’abito di scena; volevo essere io la prima ad annunziarglielo, felice –

        ELISA: Un delirio! Un vero delirio!

        GIVIERO: Ah! Mai stata così grande!

        IL CONTE MOLA: Ah sì? Si è dunque ripresa al terz’atto?

        ELISA: Una cosa grande! Se lei fosse rimasto… Tutto il pubblico in piedi, frene­tico!

        GIVIERO: La vera, la vera grande vittoria!

        DONATA: Ma no! Ma no! Io non dico questa della scena! Io dico la mia, la mia vittoria su me – quello che è stato per me alla fine –

        ELISA: – il trionfo! –

        DONATA (subito, irritata che Elisa non la comprenda): – no! la mia liberazione! – Rientrata nel mio camerino, vibravo dentro, tutta, come d’una pazza risata – sì, di trionfo; mi sono scorta per un attimo allo specchio, la testa alzata, le mani alzate, ma perché mi pareva di stringere in pugno la vita! E pensando a lui, che dovessi far felice anche lui, ecco, ero corsa qua a gridargli che m’ero ritrovata alla fine. – Lei, conte, m’aveva vista? Ero perduta, caduta, mi sen­tivo tirare giù, giù, dal pubblico che mi mancava – quel silenzio – quel vuoto – sudavo sangue – il martirio! Il martirio! – E d’improvviso, io non so, uno scatto qui dentro, e la liberazione! Ho dimenticato tutto – mi sono sentita prendere, prendere, sollevare – ho riavuto tutti i miei sensi, l’udito perduto, mi s’è fatto tutto chiaro, e sicuro, sicuro – ho riavuto la vita, ma così piena, così piena e così facile – in una soddisfazione di tanta ebbrezza, di tanta feli­cità, che ho sentito tutto accendersi, accendersi e vivere e sollevarsi con me!

        IL CONTE MOLA: Ah, ne sono felice con lei, Donata! veramente felice!

        ELISA: Lei non può figurarsi che cosa è stato!

        GIVIERO: La partecipazione del pubblico che s’è sentito rapire, rapire vera­mente, perché ha avvertito questa liberazione e ha riconosciuta in essa alla fine la sua attrice!

        DONATA: Ma no! Ancora dite dell’attrice? No! No! Io mi son sentita felice come donna! come donna! Felice di potere ancora amare! Questa era la mia vittoria! Felice che sarei corsa qua a gridarlo a lui che aveva sofferto, non certo quanto me – perché lassù ci sono stata io ad agonizzare per due atti, mentre a lui è bastato scrivermi in un biglietto «non resisto più» e scappar­sene dal teatro! Quello che ho patito per due atti, sapendo che lui era là, che mi vedeva per la prima volta e mi riconosceva in tutti i miei atti, isolandomi dal personaggio, trattenendomi e impedendomi d’entrare nella finzione! – Dovevo sciogliermi, staccarmi, staccarmi da quella cosa informe, increata, meschina, ch’era stata sua, e che non ero io, che non ero io… una afflizione, là esposta, scoperta nel suo sentimento, per cui non mi sarebbe stato possibile mai più vivere sulla scena come del resto neanche nella vita! – ecco – trovar la forza di liberazione – mi sono liberata! – ma ciò che ho sentito in quel momento di liberazione, nel più profondo di me stessa, è stato questo: che amavo, che mi s’apriva, in quella facilità, pieno ed intero anche l’amore; che conquistavo in quell’improvviso superamento d’ogni angustia, in quell’ac­censione di tutta l’anima, non solamente la mia interezza d’attrice, nell’arte, ma anche la mia interezza di donna, nella vita! – Lo volevo far comprendere anche a lui ora, qua; dirgli che a teatro – se non comprendeva questo – non doveva più venire; e che bastava questo; non arrischiarsi più, anche per non far correre a me il rischio di non trovarmi più nemmeno là – oh Dio, di smar­rirmi, di perdermi anche là, cosa che non m’era mai, mai avvenuta! Ho visto l’abisso! – Ho provato un tale avvilimento di me stessa – no, no peggio – immiserimento – che m’è apparso chiaro tutt’a un tratto che se la vita, l’a­more che sentivo per lui, dovevano ridurmi così, far provar questo, eh no! io stessa allora, io stessa non valevo più nulla, neanche per lui! Mentre ora – ecco – quest’orgoglio dell’amore di tutti venivo a darlo, qua, a uno solo – a lui! – Sì – dove? – Sciocco – è partito!

        IL CONTE MOLA: Sciocco, sciocco, sì – non ha compreso nulla – s’è sdegnato – s’è sentito rivoltare! – Egli non comprenderà mai in lei l’attrice, Donata – per lui non vale nulla – me l’ha detto!

        DONATA: Per lui vale la donna, là… quella che si vergognava… – eh lo so: quella lui vorrebbe – sì, sì, Giviero, che si vergognava – ma proprio, sa? – di carezzargli i capelli (sa, quel gesto notato da lei…). Ne provai orrore io stessa –   d’essere vera, com’ero stata sempre da attrice – d’essere io insomma – io, questa che sono! Quasi che non fossi più donna, perché ero attrice! vera così – come sono – io, io nella vita, come nell’arte… – Non sono qua vera?

        GIVIERO: Ma certo, Donata!

        DONATA: E allora? – Se non trovo più, nella vita, me stessa – d’essere come sono – questa! – vuol dire che nella vita non mi troverò mai, mai – perché non è possibile trovarsi fuori di quel sentimento che ci dà la certezza – sicura – almeno di noi stessi!

        GIVIERO: Ma sì, è proprio così! E perciò lei, guaj, guaj se deroga minimamente a se stessa!

        IL CONTE MOLA (fermo, reciso): Ah no – attrice, con lui – mai!

        ELISA: E allora peggio per lui!

        IL CONTE MOLA: Certo! Peggio per lui!

        DONATA: E peggio anche per me.

        GIVIERO: Ah no, per lei no, scusi! E la sua conquista di questa sera, allora? Se lei alla fine ha vinto in se stessa la prova!

        DONATA: Ah sì, vinto – ancora una volta, vinto – e sola – sola ancora una volta – ah ma questa volta, per sempre! per sempre! con questa doppia paura – per la mia arte e per me – di riaccostarmi alla vita. Basta! Basta! – (Con recisione di nauseata stanchezza:) Ma sì, basta, per carità! Lasciatemi sola, vi prego. Ho bisogno di trovarmi sola – di restare qua sola… Trovarsi… Ma sì, ecco: Non ci si trova alla fine che soli. – Fortuna che si resta coi nostri fantasmi, più vivi e più veri d’ogni cosa viva e vera, in una certezza che sta a noi soli raggiungere, e che non può mancarci! (Con scatto di fastidio insopportabile:) – Ah Dio quell’uscio con la luce di là rimasta accesa!

        IL CONTE MOLA: Vuole che vada a chiudere? Spegnerò…

        DONATA: Sì, mi faccia il favore… Il Conte eseguisce.

        ELISA: Tu sai che puoi chiamarmi sempre, quando vuoi… se t’occorresse…

        DONATA: Grazie, cara, lo so. Buona notte. Buona notte, Giviero. Grazie, conte, buona notte.

        IL CONTE MOLA (esitante, mortificato): Ha lasciato di là anche le sue valigie…

        DONATA: Aspetterà che noi adesso, con la sua macchina, giù, andiamo a por­targliele…

        IL CONTE MOLA (stordito): Come dice?

        DONATA: No, conte. Verrà lei a ritirarle domani. Scherzavo.

        IL CONTE MOLA: Ha detto che se lei non veniva, si sarebbe imbarcato e non sa­rebbe ritornato a terra mai più…

        DONATA: Il mare…

        / tre si ritirano, perplessi, afflitti. Donata resta in mezzo alla stanza col capo reclinato indietro e gli occhi chiusi; sta un pezzo così; poi risolleva il capo, contrae tutta la fronte, sempre con gli occhi chiusi, come per suggellare in sé, con la volontà, l’accettazione del suo destino. Si reca presso l’uscio a premere il bottone elettrico che accende sulla tavola la lampada dal para­lume violaceo, e spegne il lampadario del soffitto; poi va verso la grande specchiera alla sua sinistra e accende le due lampadine ai lati, e si siede per struccarsi; ma prima si guarda un po’ allo specchio. Nell’atto di sollevare una mano per staccarsi da un occhio il lungo ciglio finto si sovviene della battuta della commedia che segnò poc’anzi nel teatro l’inizio della sua libe­razione.

        «Coi deboli non si può essere pietosi. E allora, cacciala, cacciala via!» Tra sé, come non contenta del tono con cui ha detto la seconda frase: No.

        Si prova a ripeterla con tono più sdegnoso e d’impero:

        «Cacciala via! Cacciala via! È lei stessa, lo vedi? a volermi crudele! – Ma vi pare che lui possa esitare, tra me e voi? – So, signora, so la vostra grande no­biltà, la levigatura che ne…» (arresto di memoria.) No, com’è? (Come ripas­sandosi ora la parte, senz’alcun tono:) «che ne viene» sì «ai vostri atti e ai vostri modi così semplici e pur così soffusi e misurati…» no, non è misurati, «governati» ecco «governati» – ma sarebbe meglio misurati – «misurati da tanta superbia».

        Tutto questo ripassato a memoria e non recitato. Ora, riprendendo a recitare e pigliando inavvertitamente dalla specchiera un ritratto, perché ha bisogno per la parte di farsi vento con un ventaglio che non ha: «Non volete insomma andar via?».

        Ma d’un colpo arresta il movimento di sventagliarsi, perché s’accorge che è quello il ritratto di Elj; lo guarda un po’ turbata, e poi lo sbatte capovolto sul fianco della specchiera; si butta indietro sulla spalliera bassa della seg­giola e col capo così rovesciato, ridente d’un riso dì sfida, grida al suo fanta­sma d’arte:

        E allora, prendimi! prendimi!

        Perché durante tutta questa azione di Donata dacché s’è seduta davanti alla specchiera, e le battute che ha recitate o s’è ripassate, la scena, dietro di lei, si sarà a poco a poco come dilatata: l’arco dell’ alcova si sarà schiuso in mezzo e allargato da una parte e dall’altra, lasciando in mezzo un vano in penombra come d’una sala di teatro, di cui quell’arco così allargato venga a figurare come il boccascena d’un palcoscenico illusorio, che del resto è il palcoscenico stesso dove si sta recitando; ma illuminato ora da una luce in­naturale di visione: la visione che Donata ne ha, tanto che vi saranno già sorti quando ella rovescerà indietro il capo e tenderà le braccia gridando:

        «E allora, prendimi! prendimi!», gli altri personaggi della scena evocata; da dietro il divano, un uomo e una donna, tutt’e due giovani: lui bello, forte, bruno, in smoking; lei nobile, un po’ appassita, molto bionda, in abito dì so­cietà; resteranno un po’ discosti, immobili, come fantasmi; lui, al richiamo di Donata, accorrerà alla destra di lei; e lei col braccio destro gli cingerà la vita; ma poi, riflettendo, dirà tra sé: No: lei era di là…

        E allora, come se il movimento fosse pensato da Donata, la donna, rimasta dietro il divano, si sposterà da sinistra verso destra; e contemporaneamente Donata farà passare l’uomo dietro la sua sedia per cingerlo col suo braccio sinistro. Ecco: così! –

        Rivolgendosi alla donna: Non volete andar via? Si alza, gridando all’uomo: Abbracciami!

        Ma com’egli fa per abbracciarla, la donna si nasconde gli occhi con le mani, e Donata scoppia a ridere. Ah ah ah – guarda, guarda – si nasconde gli occhi! si nasconde gli occhi! E svincolandosi da lui:

        Lasciami, stupido! Non capisci che non ti provoco io? Provoca lei; e se non se ne va, non so fin dove son capace d’arrivare sotto i suoi occhi! Alla donna: Ecco, vedete? Non vi basta? Sono io a non volere; lui è pronto ad amarmi sotto i vostri stessi occhi! Vi assicuro, signora, che tutto quanto avviene è conseguenza delle vostre tante virtù. Non l’ho scelto io, vostro marito. M’ha scelta lui. Io posso essermene compiaciuta appena un momento. Sì, l’am­metto. Ma bisogna anche tener conto delle circostanze. Lui era il solo che de­stasse un certo interesse tra noi donne. Eravamo troppe, e annojate; e così pochi gli uomini; e lui il più gradevole. Ora che lui tra tutte scegliesse me, certo mi fece piacere. Ma poi basta! Poi mi saresti sembrato per lo meno im­portuno. Un uomo intelligente queste cose le capisce. V’assicuro che vera­mente il mio cuore non s’era mai per nulla interessato a lui. Foste voi, pro­prio voi così superiore, e la vostra apprensione, a dargli credito ai miei occhi. Eh, se voi n’eravate gelosa! Gelosa di me «non calcolata» nel vostro rango… E io mi sono allora impegnata con me stessa – per puntiglio – sì, e benché stimassi che per lui non ne valeva la pena – a dimostrarvi che avevate ra­gione d’aver paura di me. E diedi subito fuoco; subito; come una «capace di tutto». Non sarei stata così; ma a furia di dirmelo, di leggerlo a tutti negli occhi, specialmente nei vostri, che volete? l’avete fatto credere a me stessa alla fine, che sono veramente «capace di tutto». Murata, murata, senza via di scampo; in questo concetto che tutti si son fatto di me. «Capace di tutto.» Anche di rubare, perché no? Stupida, se non n’avessi profittato! Non dico ru­bare… benché, per il gusto di giocare… sapete che ho lasciato perfino che sotto gli occhi mi s’esaminassero prima le carte? «Eh con te non si sa mai!»… e io, sorridere… Sì, capace di barare… È spaventoso, perché allora – una cosa – capirete – farla o non farla… E poi anche di questo nasce un certo orgoglio – ma sì, quello del diavolo – che provoca sulle labbra, specialmente a noi donne, un certo sorriso di compiacenza, come tutto ciò che comincia a diventare spudorato. Ecco: spudorato: ci siamo: Guardatemi! – Non volete andare? Bene. Restate. Siamo qua due donne. Che potete voi dare a que­st’uomo? Parlate! Muovetevi! Mostrate! Badate che io vi strappo l’abito ad­dosso! Sono così sicura di lui, vedete, che posso disprezzarvi in sua presenza come voglio! Voi siete una povera, povera miserabile creatura; e io vi vinco! guardatemi! io posso avere tutto l’amore che voglio – e darlo! – io, tutto l’a­more! e a me l’amore di tutti! di tutti!

La visione d’un tratto sparisce, come colpita da quest’ultimo grido, che subito Donata avverte in contrasto col suo caso. La scena si restringe d’un colpo e si spegne tutta, tranne che nella lampada violacea e nelle due lam­padine ai lati della specchiera. Questo restringimento e spegnimento avverrà nel mentre che una lontana eco di insistentissimi applausi verrà di là agli orecchi di Donata, che sarà caduta a sedere su una poltrona presso la lam­pada violacea, con le braccia rilassate e le mani vuote, ma la testa alzata, come a cogliere con un vano sorriso sconsolato l’eco di quegli applausi. Si alza di scatto e dice, aprendo le braccia:

        E questo è vero… E non è vero niente… Vero è soltanto che bisogna crearsi, creare! E allora soltanto, ci si trova.

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1932 – Trovarsi – Commedia in tre atti
Premessa
Personaggi, Atto Primo
Atto Secondo
Atto Terzo

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