Legge Giuseppe Tizza.
«Il marito è un bell’uomo. Aitante nella persona, con una magnifica barba bionda, compitissimo e pieno di dignità, anzi di gravità quasi diplomatica. Credo che si sia fatta apposta un po’ di radura sul cranio, perché una leggera calvizie, in certi casi e per certe professioni, è veramente indispensabile.»
Prime pubblicazioni: Il Marzocco, 22 ottobre 1905, poi in La giara, Bemporad, Firenze 1928.
Tirocinio
Voce di Giuseppe Tizza
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Da una settimana vedevamo Carlino Sgro per il Corso, per Via Nazionale, per Via Ludovisi, passare in botte, di galoppo, accanto a un enorme mammifero in gonnella. Le lunghe piume nere del cappellaccio, che pareva un nido di corvi, le svolazzavano al vento.
Tutta la gente si fermava a mirare con occhi spalancati, a bocca aperta.
Noi amici, quasi sgomenti, nel vedercelo passar davanti, gli lanciavamo ogni volta un grido affettuoso o lo chiamavamo per nome, tendendogli le braccia; e lui, lui subito si voltava a salutarci con larghi e ripetuti gesti, che ci pareva invocassero disperatamente ajuto.
Carlino Sgro da due anni aveva lasciato Roma per Milano, e non s’era più fatto vivo con nessuno di noi. Ora, d’improvviso, rieccolo a Roma, in quella turbinosa apparizione che aveva del tragico e del carnevalesco.
Qualcuno di noi finse di mostrarsene seriamente impensierito. Senza dubbio Carlino era in pericolo; dovevamo salvarlo a ogni costo da quel mostro che lo aveva rapito e se lo trascinava chi sa a qual bufera infernale. Come salvarlo? Ma volando a San Marcello, perdio, a denunziare il ratto alla questura, o piuttosto, assaltando, là, senz’altro, la carrozza e strappando, a viva forza, la vittima dalle braccia di quell’orribile mostro.
Discutevamo ancora, al Circolo, sul partito da prendere, quand’ecco – fresco e sorridente – Carlino Sgro davanti a noi.
Gli saltammo al collo tutti quanti insieme, baciandolo dove ci veniva fatto, alle spalle, sul petto, sulle braccia, sulla nuca, fino a lasciarlo per un pezzo boccheggiante come un pesce. Per farlo rinvenire, gli rovesciammo subito addosso una tempesta di domande insieme con gli epiteti più graziosi, con cui eravamo soliti d’accoglierlo ogni sera, al Circolo, quand’egli stava a Roma: – Vecchia canaglia! Mummia inglese! Orangutan! Figlio di Nouma Hawa! – ecc. ecc.
(Veramente Carlino Sgro pare una scimmia e pare un inglese: una scimmia, perché – non ci ha colpa – ha la bocca per lo meno quattro dita sotto al naso; un inglese, perché biondo, con gli occhi ceruli, e perché nessun inglese al mondo ha mai vestito e camminato più inglesemente di lui.)
Chi lo crederebbe? Si mostrò stupito della profonda costernazione in cui noi tutti eravamo stati per lui un’intera settimana.
– Come! – esclamò. – Ma quella è la Montroni, signori miei! Non conoscete la Montroni?
Ci guardammo tutti negli occhi. Nessuno di noi conosceva la Montroni. Solo Carinèi domandò:
– Pompea Montroni, la cantante?
Sgro indignato e stizzito, diede una spallata:
– Ma celebre, perdio! Soprano di cartello! Dite sul serio o siete della Papuasia? Non la ricordate più nella Gioconda! Era il nostro cavallo di battaglia! L’amo come il fulgor del creato… Faceva tremare la Scala e il San Carlo.
– Faceva? Dunque ora è sfiatata?
Carlino Sgro atteggiò la faccia di fierissimo disprezzo e rispose:
– Vi prego di credere che la nostra voce è ancora divinamente bella, più divinamente bella di quando facevamo andare in visibilio le platee del mondo intero, e ci staccavano i cavalli dalla vettura. Ma abbiamo una piccola palpitazione di cuore, un disturbetto cardiaco che non è nulla, rassicuratevi, ma che potrebbe diventare grave, Dio liberi e anche… sì, anche fatale, ci hanno detto i medici, se seguitiamo a rimanere nell’arte e a cantare. Così, per prudenza, ci siamo ritirati.
– E tu, vecchio scimmione, – gli gridammo, – hai il coraggio di scarrozzarti per il Corso quella carcassa sfiatata? E non ti vergogni?
– Vedo, – disse Carlino Sgro addoloratissimo, – che voi malignate, amici miei. Vi compatisco. Ah che vuol dire non vivere a Milano!
Casa Castiglione Montroni, signori, è a Milano tra le più rispettabili e rispettate. Pompea Montroni è donna esemplare. Forse non c’è bisogno di dirlo, perché… – non ridete, via! – io lo ammetto, non è più tanto bella… non è stata mai bella, va bene così? Ma non l’avete veduta sul palcoscenico, dove faceva una magnifica figura. Lo afferma il marchese Colli, e mi pare che possa bastare !
Chi è il marchese Colli? Datemi tempo, santo Dio, e vi dirò tutto. Lasciatemi intanto premetter questo: che, se io ammiro Pompea Montroni, la ammiro, diciamo così, in blocco; e che mi sono sempre guardato bene dal turbare la pace, l’armonia che regnano sovrane tra lei e il suo legittimo consorte. L’ho accompagnata qua a Roma per affari, o meglio, per preparare una certa sorpresa, che non vi posso dire, alla nostra piccola Medea.
Piano! Vi dirò anche chi è Medea. Ma vi faccio notare che voi, senza saperlo, mi avete aggredito con volgari e sanguinosi insulti. E inutile, povera gente: bisogna vivere a Milanòoo!
Omero, come sapete, non descrive la bellezza di Elena: la lascia argomentare da quel che dicono i vecchi di Troja, quando la vedono apparire sulle mura, se non sbaglio. Non sono Omero, voi non siete vecchi di Troja, ma vi giuro che Medea è centomila volte più bella di Elena e vi prego d’argomentare similmente quella sua divina, indescrivibile bellezza dal vedermi ora andare attorno per le vie di Roma con questa filuca di mammina sua. Vi basta, sì o no? Se non vi basta
Vi dirò tutta la miseria mia.
Sappiate che da circa otto mesi io sono per lei in tirocinio di vecchio amico di casa.
Amici miei, se io non divento al più presto vecchio amico di casa Castiglione Montroni, vecchio amico di mammà Pompea, sono perduto. Per me, non c’è più speranza, né salute. Medea ha già compiuto quattordici anni.
A questo annunzio ci levammo tutti in piedi, indignati, e coprimmo Carlino Sgro di vituperii. Egli protese le mani, si cacciò la testa tra le spalle come una tartaruga, e gridò:
– Adagio! adagio! aspettate. Dico quattordici, perché la mamma deve averne ancora per forza trent’otto… Non capite niente, perdio? Ma ne ha già, per lo meno diciannove, la quattordicenne Medea!
Non capirete certo neppure che cosa possa voler dire vecchio amico di casa. Veramente, per capirlo, bisognerebbe che conosceste bene quella casa. Ma lo so io e gli altri quattro disgraziati che sono in tirocinio, con me, a Milano.
Siamo in cinque, cari miei: un’infunata da mandare per grazia alla forca!
Già Pompea, la madre, l’avete intraveduta. Non è niente! Bisognerebbe che conosceste il padre, cioè il marito di Pompea, e un po’ anche il marchese Colli che abita con loro.
Il marito è un bell’uomo. Aitante nella persona, con una magnifica barba bionda, compitissimo e pieno di dignità, anzi di gravità quasi diplomatica. Credo che si sia fatta apposta un po’ di radura sul cranio, perché una leggera calvizie, in certi casi e per certe professioni, è veramente indispensabile. Non vi potete figurare con che aria d’importanza e che cipiglio vi dica, inserendo due dita tra i bottoni del panciotto:
– Caldo, quest’oggi.
Si chiama Michelangelo. Di casato Castiglione, nientemeno. Secondo me, è l’uomo più straordinario che viva di questi tempi in Europa. Straordinario per la serietà con cui si vendica di ciò che gli hanno fatto fare.
Dovete sapere che, or saranno circa vent’anni, Pompea Montroni andò a cantare a Parma nella Gioconda. Vi fece furore, si sa! E il marchese Colli – Mino Colli – la vide dalla barcaccia, e se ne innamorò; poi la vide in camerino, e non si spaventò. Non si spaventò perché la vanità di ricco nobiluccio di provincia gliela fece vedere, anche lì da vicino, come la vedevano gli amici della barcaccia, gli amici che allora lo invidiavano e lo stimavano l’uomo più fortunato del mondo.
La grande Pompea, naturalmente, non se lo lasciò scappare. Considerando però la propria corporatura e prevedendo che, a lungo andare, egli per troppa abbondanza avrebbe forse perduto l’appetito, trovò subito in sé da mettergli a disposizione una figliuola piccolina. Niente di male!
Piccolino, difatti, lui; ma panciutello, tutto panciutello, anche nella faccia… – tanto carino, se vedeste! Corto di braccia, corto di gambe, s’adopera con queste e con quelle a camminare; porta adesso le lenti su la punta del nasetto a becco, e spesso, quando parla tutto affannato, si spunta come può la barbetta ispida, sale e pepe, più sale che pepe, divenuta a furia di tagliare come una bella virgola sul primo mento. Ne ha tre o quattro, di menti, quell’ometto lì. E tante altre virtù che non vi dico.
Basta. Prima che la figliolina venisse al mondo, l’una e l’altro, dopo molte lagrime da parte di lei e molte promesse da parte di lui, si misero d’accordo per trovarle un onesto genitore.
Non avevano che due mesi di tempo; perché, di sette mesi, come sapete, si può nascere benissimo – onestamente.
Michelangelo Castiglione era un genitore a spasso, bell’uomo, – v’ho detto – di buoni natali, di bella reputazione e presero lui; a patto però che facesse il galantuomo, il padre di famiglia intemerato e irreprensibile, il custode geloso della illibatezza della propria casa.
Ebbene, signori, Michelangelo Castiglione è d’una onestà, d’una illibatezza da fare spavento. Si vendica, stando ai patti, scrupolosissimamente.
Molto impensierito della diffusione del mal costume per opera della stampa quotidiana, proibisce alla moglie e alla figliuola la lettura dei giornali. La piccola Medea è stata educata secondo le rigide massime di condotta, che a lui, fin dalla più tenera infanzia, furono inculcate nella nobile casa paterna.
Non c’è mica bisogno d’entrare con lui in qualche dimestichezza per sapere ch’egli non avrebbe mai e poi mai sposato una cantante, se non gli fosse capitata la disgrazia d’averne una figliuola. Insomma, via, egli sposò la Montroni per scrupolo di coscienza. Non che avesse minimamente da ridire su la condotta di lei, badiamo! Nel mondo dell’arte, la Montroni, vera e rara eccezione! Ma che volete? l’educazione ricevuta in casa, i rigidi costumi della sua famiglia non gli avrebbero consentito di farla sua moglie, per la sola ragione ch’ella era una cantante, ecco. E se la Montroni vi susurra in un orecchio ch’ella smise di cantare per il disturbo cardiaco, il marito dichiara apertamente, invece, che egli lo pose per patto, prima di sposare. Ah, inflessibile, su questo punto, Michelangelo! Non avrebbe potuto assolutamente tollerare che sua moglie seguitasse a offrirsi in pascolo all’ammirazione del pubblico, a girovagare di città in città, e che la figliuola crescesse in quel mondo teatrale, di cui egli sente tuttora un istintivo orrore.
Il povero marchese Colli, ponendo i patti, tutto poteva aspettarsi tranne quest’ira di Dio. Ha cercato e credo che cerchi tuttora di smontare in qualche modo quel mostro d’onestà; ma non ci riesce.
Michelangelo non transige!
Capirete bene che a lui non par vero di poter fare l’onest’uomo sul serio: ci ha preso un gusto matto; il suo amor proprio ne gongola, c’ingrassa; e tanto il marchese quanto la moglie e la figliuola sono divenute tre vittime di lui.
Impossibile ribellarglisi.
Se il marchese talvolta arrischia qualche discorsetto un po’ vivace, è subito richiamato all’ordine e, non c’è cristi, deve smettere, accucciarsi e abbozzare. Ma c’è ben altro! Sapete fino a qual punto è arrivato Michelangelo?
Per lui, il marchese Colli, non è che un vecchio amico di casa Montroni, presso a poco come siamo noi, ma con l’aggravante d’un fidanzamento fantastico con Carlotta, che sarebbe una non meno fantastica sorella di Pompea, crudelmente rapita dalla morte a soli diciott’anni. Orbene, Michelangelo esige che ogni 12 aprile – presunto anniversario di questa morte – il marchese Colli pianga. Sicuro! Se non gli riesce di spremere qualche lagrima, si mostri almeno addogliatissimo.
Credo che, dopo tant’anni, povero marchese, paja anche a lui che gli sia morta sul serio la fidanzata, in quel giorno. Ma, certe volte, si sente girar l’anima e non sa tenersi di sbuffare, mentre Michelangelo, con gli occhi socchiusi, tentennando il capo, sospira, geme:
– La nostra buona Carlotta! La nostra impareggiabile Carlottina!
Non sapendo più oltre resistere a una siffatta oppressione, Colli ha comperato ultimamente, a nome di Michelangelo, non so più quante azioni d’una nuova società industriale per la produzione del carburo di calcio; e, tanto ha fatto, tanto ha detto, che è riuscito a ficcarlo nel consiglio d’amministrazione.
Signori miei, Michelangelo Castiglione esercita ora la sua esosa, feroce onestà anche in quel consiglio d’amministrazione. I suoi colleghi consiglieri lo vedono e basiscono: non respirano più! Egli si è già imposto. E vedrete che la fama di questa sua onestà diventerà presto popolare; lo faranno consigliere comunale, lo eleggeranno deputato, e io non dispero di vederlo col tempo anche ministro del regno d’Italia. Sarà una fortuna per la patria.
Intanto, egli salva per lo meno una volta al giorno quella Società del carburo di calcio.
Potete immaginarvi se il marchese e tutti noi ne siamo convinti e se lo incoraggiamo a più non posso in questa sua provvidenziale opera di salvataggio. Da circa un mese, difatti, oppresso dal lavoro, egli ha preso l’abitudine di uscir di casa anche di sera, a fare una giratina per sollievo. Ne ha tanto bisogno, pover’uomo!
Avete veduto i ragazzi di scuola, quando il maestro esce per un momento dalla classe, dopo due o tre ore di lezione? Così siamo noi, appena egli volta le spalle. Per poco non ci buttiamo le braccia al collo. Ballare, balliamo davvero. Il marchese Colli salta al pianoforte e attacca un galoppo. Pompea voleva prima ballare anche lei; ma quelli del piano di sotto si sono ribellati, per fortuna. Così abbiamo una sola dama, Medea, instancabile. Facciamo a turno.
Più di questo – ahimè – non possiamo fare, o intoppiamo negli occhiacci dell’altro papà, meno legittimo, se vogliamo, ma forse più naturale.
Bisogna essere ragionevoli. Il marchese Colli si è sacrificato per quella ragazza, e vuole che ella almeno, prima, sposi onestamente, per davvero.
Ora, riflettete. Data questa condizione di cose, chi sarà il marito? Uno come Castiglione evidentemente; a cui però il marchese, si spera, dopo aver sofferto un così lungo supplizio, non porrà per patto d’essere tanto onesto.
Comincerà allora la vera lotta, lotta accanita, fra noi cinque che facciamo il tirocinio di vecchi amici di casa.
Ah cari miei, mi vengono i brividi a pensarci. Perché, parliamo sul serio, adesso. Io sono innamorato, innamorato, innamorato di quella ragazza. Medea non è soltanto bella, è anche buona, squisitamente buona, piena d’ingegno e d’una leggiadria incomparabile.
Perché non la sposo? Quanto siete ingenui! Non ve l’ho detto? Siamo in cinque! Come io non vorrei che suo marito, domani, chiudesse la porta in faccia a me, vecchio amico di casa; così Medea non potrebbe permettere che la chiudessi io in faccia a quegli altri quattro, vecchi amici di casa anche loro, vecchi amici di mammà Pompea. Non si scherza: noi abbiamo acquistato un titolo serio, data l’onestà di Michelangelo. Una vecchia amicizia, come questa nostra, che dura già da otto mesi, costa sudori di sangue.
Ne volete una prova? Che ora è? Perbacco, le dieci e mezzo… Lasciatemi scappare! Alle undici devo andare a prendere Pompea: abbiamo chiesto un’udienza al Santo Padre. Ce l’ha imposta Michelangelo prima di partire.
E Carlino Sgro scappò via a gambe levate.
Tirocinio – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
Tirocinio – Audio lettura 2 – Legge Giuseppe Tizza
Tirocinio – Audio lettura 3 – Legge Valter Zanardi
Tirocinio – Audio lettura 4 – Legge Lorenzo Pieri
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