Di Marta Toti.
La condizione umana, la mancanza di certezze, il vuoto, la perdita traumatica dell’identità e l’emergere del caos interiore sono determinanti nella poetica di Luigi Pirandello. E il Novecento è il palcoscenico di un uomo nuovo, divenuto consapevole della realtà fittizia in cui è irretito.
Tesi – Ritratti grotteschi nelle novelle pirandellianeDall’illusione di conoscere se stessi al riso: galleria dei ritratti grotteschi nelle novelle pirandelliane Tesi magistrale in Scienze Pedagogiche Pubblicato per gentile concessione dell’Autrice cui sono riservati tutti diritti. Indice |
Capitolo I – Luigi Pirandello e l’analisi del personaggio uomo
1.1 Giacomo Debenedetti: riflessioni sul personaggio uomo
1.2 Il doppio e la crisi d’identità
1.3 Alienazione e incomunicabilità
1.4 Dalla disillusione alla realtà come «enorme pupazzata»
1.5 Luigi Pirandello e il grottesco
1.6 L’invasione dei brutti
1.1 Giacomo Debenedetti: riflessioni sul personaggio uomo
Protagonista indiscusso del romanzo del Novecento è il personaggio uomo, termine coniato dal critico Giacomo Debenedetti. Il suo è un lungo interrogatorio al quale sono convocati – senza possibilità di appello – scrittori, musicisti e registi della prima metà del Novecento, autori di un nuovo protagonista che si contrappone al tradizionale protagonista ottocentesco, dotato di una coscienza e di un destino.
In una intervista, Debenedetti aveva concentrato la sua attenzione sulla esigenza che aveva spinto il narratore novecentesco a “rincorrere” il personaggio, a conoscerne le motivazioni segrete e palesi:
Oggi si vede chiaro che dai romanzi iniziali del nostro secolo usciva un’immagine stravolta, sofferente dell’uomo, che quest’immagine doveva “aprirsi come una scorza” (adopero parole di Proust), “epifanizzarsi” (adopero quella di James Joyce), rivelare la persona dietro le spiritate e proteiformi contorsioni del personaggio (mi riferisco a Pirandello) per venire a capo di un nucleo umano protestatario e imbavagliato, tenuto in mora, impedito di esprimersi da un mondo, da una società non più in accordo con sé medesima. [1]
[1] Intervista rilasciata al quotidiano L’Unità, 27 marzo 1963, www.unita.tv
Nel suo saggio, pubblicato postumo nel 1970, attraverso autori come Kafka, Proust, Svevo, Pirandello, Tozzi e Joyce, Debenedetti pone l’attenzione sulla rottura che il romanzo dei primi decenni del ‘900 segna con il romanzo ottocentesco naturalista. Quest’ultimo si preoccupava di analizzare il visibile; il romanzo novecentesco fa esattamente il contrario: si interroga sulla realtà, epifanizza appunto, soprattutto il personaggio uomo o l’anti-personaggio.
Debenedetti chiama
Personaggio-uomo quell’alter ego, nemico o vicario, che in decine di migliaia di esemplari tutti diversi tra loro, ci viene incontro, dai romanzi e adesso anche dai film. Si dice che la sua professione sia quella di risponderci, ma molto più spesso siamo noi i citati a rispondergli. [2]
[2] Giacomo Debenedetti, Il personaggio uomo, op. cit., formato Ebook
Il personaggio di Debenedetti ha superato l’immagine di figura grigia e unica, fissata in un tempo e in uno spazio preciso e che ha fatto proprio il palcoscenico letterario del naturalismo e del verismo; i personaggi dell’arte novecentesca ci presentano una nuova ed infinita tavolozza di colori. Sono indomabili, testimonianza di una nuova concezione del vivere e, per questo, incompresi e temuti.
L’anti-protagonista è isolato e vive una esistenza atona; ha perso la capacità di presa sulle cose, spingendolo alla inevitabile noia moraviana che è figlia di una inadeguatezza alla realtà. L’incomunicabilità e la paralisi si fanno tratti imprescindibili. Ma anche
L’insignificanza che deriva dall’ignorare il senso e il fine della propria vita, tra la sproporzione tra la brevità, lo scialo di quella vita e ogni vagheggiamento di dare un qualunque contributo alla storia. [3]
Ha una identità deformata, priva di tratti definiti e succube dell’angoscia e dell’inettitudine; vittima di una identità ormai perduta. Condannati a vivere nel mezzo, passando – come afferma lo stesso critico – dal mondo visibile a quello dell’infra. Vivono in un indicativo presente:
Sposano il continuum del nostro tempo empirico, dove il presente è un punto senza dimensioni come quello della geometria, un astratto e teorico intervallo tra ricordo e aspettazione, memoria e presagio. [4]
[3] [4] Ivi, formato Ebook
Il personaggio-uomo di Debenedetti si aggira nell’arte di questo tempo incompleto ed irrisolto. È Vitangelo Moscarda che si scopre non essere più uno ma centomila; è Zeno Cosini che ha conosciuto il dolore che può procurare la vita, come se fosse una ferita aperta; è Remigio nel Podere di Tozzi, incapace di difendere la «roba»; è Joyce e il naufragio dei suoi personaggi nelle strade di Dublino; è il kafkiano signor Josef K. e la sua angoscia e la sua impotenza di fronte al mistero della vita.
I grandi innovatori del romanzo del Novecento gli vengono incontro: Proust e Joyce, Il primo giunge a ritrovare i brandelli “del tempo perduto”; il secondo, con le sue “epifanie” gli rivelano scorci – solo in apparenza banali – della sua Dublino.
Utilizzano strumenti conoscitivi diversi che permettono di penetrare, ciascuno a suo modo, la superficie dell’immagine e raggiungere l’anima delle cose.
I nuovi romanzieri, dunque, sono attratti dal «nuovo dover essere della narrativa» [5] e ben oltre i tratti realistici del verismo.
Anche Pirandello ha ansiosamente avvertito l’esigenza di un metodo analogo:
Il fu Mattia Pascal racconta proprio il fallimento di un personaggio che non riesce a epifanizzarsi, pure avendone avuto due volte l’occasione. Ci riuscirà invece, quasi completamente, il protagonista di Uno, nessuno e centomila, l’ultimo romanzo di Pirandello, pubblicato nel 1925. Intorno a questi protagonisti, che rispecchiano in modo urgente e ignaro il «dover essere» del romanzo svincolatosi dai canoni del verismo, tutto il resto del mondo è rappresentato ancora veristicamente, e veristicamente ancora è dedotto l’ingranaggio della vicenda. [6]
[5] [6] Ivi, formato Ebook
Lo stesso Pirandello parla di commedia del fare. Nel 1915 scrive Si gira, divenuto poi nel 1925 Quaderni di Serafino Gubbio operatore. L’andamento del romanzo oscilla tra i personaggi continuamente insediati dall’oltre e il protagonista Serafino, ridotto ad essere una «mano che gira una manovella», condannato cioè all’impersonalità. Nel nuovo romanzo, quindi, si pone fine al determinismo ottocentesco.
E la formula della transizione è quanto mai semplice: si passa da avere ben chiara, definita e presentata in maniera impeccabile la certezza delle caratteristiche dei personaggi, solida, con radici quantomai profonde nella consapevolezza dell’esistenza di infinite possibilità:
Credo che ormai risulti chiaro il punto, a cui si accennava, di relativa somiglianza tra lo Živago e la Noia. Si è detto: nel primo assistiamo a una conflagrazione di atomi, dei quali non ci viene data la traiettoria. Nel secondo, il romanziere ha l’aria di puntare il dito su una delle innumerevoli conflagrazioni di atomi che possono prodursi, tutte con medesimo effetto, in una data fase di attività di un certo grumo di materia fissile. [7]
[7] Ivi, formato Ebook
In campo medico, la psicoanalisi è riuscita ad individuare la scissione dell’unità della persona. Parla, infatti, di Io e Es. Quest’ultimo è l’‘oltre di cui parla Debenedetti.
Ne seguirebbe la necessità, per il personaggio, di mettere d’accordo la sua personalità visibile con quella interna, la sua presenza immediata col suo oltre: di fabbricarsi insomma un destino che permetta al se stesso attivo, partecipe della vita quotidiana, di esprimere il di là da se stesso, e non di doverne subire le pressioni incessanti e oscure come forze avverse, estranee, insoddisfatte, che contraddicono la modalità del suo manifestarsi e del suo comportamento. Una tale possibilità è stata accordata per un attimo a Mattia, quando cessa di essere personaggio che una vita difficile, che situazioni sfortunate e ostili costringono a smentire, a tradire il suo oltre, ciò che il fondo della sua natura vorrebbe da lui e sembra libero di decidere quale personaggio sarà: di rifabbricarsi, dunque, mediante questo nuovo personaggio, una biografia che soddisfi le esigente del suo oltre. [8]
[8] Id., Il romanzo del Novecento, Garzanti, Milano, 2010, p. 338
L’Io rappresenta la nostra maschera l’Es, «l’ Altro da sé che è nel sé». Ma Freud guarda la malattia da un altro punto di vista che implica uno stoico ottimismo: potenzialmente tutti gli uomini sono malati, ma il fine di questa malattia è la trasformazione interna, anche morale, dell’individuo.
Questo non significa che bisogna rinunciare a curare il paziente, ma è necessario che quel disagio sia vissuto liberamente in tutte le sue manifestazioni per poter sprigionare i suoi effetti rinnovatori. Anche Jung condivide l’idea della malattia come “bene doloroso” ma, a differenza di Freud, lo psichiatra svizzero, come dice Debenedetti, «ci appare come un mistico della malattia». Jung infatti incoraggia l’arte; per spiegare il conflitto interiore dell’uomo si serve della mitologia, sottolineando che il “mito” ha voluto Omero cieco.
Nel Il romanzo del Novecento, Debenedetti ci propone un’analisi dettagliata della narrativa di Pirandello, attraverso la quale cerca di introdurci nella ricerca di una realtà umana che si trova dietro la «realtà visibile dell’uomo». Pirandello separa il “senso” dei personaggi dal loro “significato”:
In altri termini, noi dobbiamo separare e persino contrapporre il senso che si sprigiona da quei personaggi […] al significato al quale egli annette una importanza centrale e motrice, sì da credere quasi sempre, e volerci far credere, che sia quel significato a comandare, provocare, promuovere la nascita di quei personaggi, l’intrecciarsi spesso arzigogolato ciononostante logico e impeccabile di quelle vicende: a dare insomma forza di necessità, valore di esempio e persino di prova alle escogitazioni, trovate febbrili e vulcaniche parabole di quella che fu chiamata la sua “abilità fiabesca”. [9]
[9] Ivi, p. 306
I due termini secondo Debenedetti, superata la loro iniziale e apparente sinonimia, che la critica moderna ha ampiamente discusso, nascondono un’antitesi:
Senso qui per noi è ciò che emana dagli oggetti, siano persone o cose o eventi: il quid che essi manifestano col loro apparire, col loro aspetto fisico[…] quello che essi ci comunicano con la loro apparizione, e quindi ce ne rendono partecipi, ma non possono esprimere altro che coi loro connotati, il loro modo di essere, il loro comportamento. […] Significato è invece tutto quanto si può far dire agli oggetti estraendo o piuttosto astraendo dall’unicità del loro manifestarsi gli aspetti e i rapporti che riusciamo a pronunciare a formulare attraverso i termini e le categorie del nostro linguaggio ordinario. [10]
[10] Ivi, p. 308
La metafora intellettuale di Pirandello «teorizza l’uomo come animale inadatto e inadattabile» alle sue condizioni esistenziali, perché il senso dell’uomo pirandelliano si sposta al di là della visione positivistica.
Pirandello, inoltre, con il personaggio di Mattia Pascal introduce la figura dell’«uomo nuovo» in grado di costruirsi la propria personalità e il proprio destino:
Pirandello aveva toccato a fondo il problema del personaggio nuovo. L’aveva strappato a tutte le determinazioni inflitte dall’ambiente, liberato da tutte le maschere imposte dal di fuori e dal di dentro: quel di dentro costretto a mentire a se stesso, perché condizionato dal mondo e dalle strutture di una società che non corrisponde più al vero essere dell’uomo. Mattia è arrivato alla disponibilità perfetta. Finora aveva esercitato una disponibilità capricciosa. [11]
[11] Ivi, p. 333
Con Mattia Pascal, Pirandello ha liberato l’uomo dalla storia. Ma il vero uomo non è fatto per andare d’accordo con il mondo, «si riduce alla certezza del proprio nome». E a confermarcelo è proprio la frase iniziale del libro.
Pirandello è ben consapevole che ci sia un “oltre”, una identità indirettamente visibile e, quindi, sofferente per l’impossibilità di esternarlo. Nel romanzo Quaderni di Serafino Gubbio operatore, il protagonista dice «c’è un oltre in tutte le cose». [12] Ed è opportuno soffermarsi sull’episodio dell’attrice Varia Nestoroff. Attrice di cinema, non riesce a riconoscersi nelle proiezioni delle scene girate il giorno precedente.
[12] Luigi Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, quaderno II, Francesco Libri Editore, formato Ebook
Serafino Gubbio dice:
Resta essa stessa sbalordita e quasi atterrita delle apparizioni della propria immagine su lo schermo, così alterata e scomposta. Vede lì una, che è lei, ma che ella non conosce. Vorrebbe non riconoscersi in quella; ma almeno conoscerla. Forse da anni e anni e anni,a traverso tutte le avventure misteriose della sua vita, ella va inseguendo questa ossessa che è in lei e che le sfugge, per trattenerla, per domandarle che cosa voglia, perché soffra, che cosa ella dovrebbe fare per ammansarla, per placarla, per darle pace. [13]
[13] Ivi, formato Ebook
Per Debenedetti, l’oltre è
È l’Altro che vive dentro l’Io e fa sentire molto pesantemente la propria presenza. Quest’altro che è in noi, è dunque sempre ancora noi, è sempre ancora Io, ma si comporta come un non-Io, con una serie di manifestazioni del tutto analoghe, anzi identiche a quelle che osserviamo negli individui umiliati e offesi. [14]
[14] Debenedetti, Il romanzo del Novecento, op. cit., p. 452
L’Altro opera in tutte le metamorfosi; diviene invadente, come in Kafka, in cui punta ad una natura totalitaristica. Vi è, dunque, in tutto il Novecento una sorta di rinascita – o meglio – rivincita dell’Altro.
Con sapienza, l’opera di Debenedetti analizza quei personaggi sempre più “estremi”, “assurdi” o “subumani” e si pone di fatto come punto di arrivo alle molte indagini sul romanzo nelle sue lezioni universitarie (pubblicate postume nel 1971 con il titolo Il romanzo del Novecento e l’introduzione di Eugenio Montale).
In conclusione, in questa nuova idea di romanzo e in questa nuova immagine che assume il protagonista novecentesco, l’assurdo fa una frivola riverenza alla ragione.
1.2 Il doppio e la crisi d’identità
La condizione umana, la mancanza di certezze, il vuoto, la perdita traumatica dell’identità e l’emergere del caos interiore sono determinanti nella poetica di Luigi Pirandello. E il Novecento è il palcoscenico di un uomo nuovo, divenuto consapevole della realtà fittizia in cui è irretito.
Il “secolo della crisi”, per antonomasia, propone innumerevoli spunti riguardo al tema del doppio. L’epoca del dubbio, della dissoluzione delle certezze, dell’indagine psicologica, non può non interrogarsi sulla molteplice natura umana, in maniera meno ingenua e più raffinata rispetto al secolo precedente.
Nell’ultimo decennio dell’Ottocento, l’attenzione di Pirandello è attirata dagli studi di Alfred Binet riguardo ai processi psichici, in particolare dall’opera Les alterations de la personnalité, all’interno della quale sono riportati studi significativi sulla pluralità dell’Io, affermando l’esistenza simultanea di differenti personalità nell’individuo.
Anche Pirandello, in Arte e Scienza, considera l’Io «un aggregato temporaneo scindibile e modificabile di vari stati di coscienza più o meno chiari»: da queste sue posizioni, si evince che condivide le stesse teorie di Binet.
Questi, infatti, afferma che è possibile individuare, nell’uomo, frammenti di vita che hanno la capacità di possedere una memoria. Tali frammenti non sono riconoscibili ad occhio nudo, ma alla comparsa improvvisa di uno stesso stato, è possibile che l’individuo si possa ritrovare nella stessa posizione anteriore che lo induce a ricordare fatti, sensazioni e particolari fino a quel momento dimenticati. Questo, spiega Binet, testimonia la presenza di una coscienza divisa, di diverse coscienze che coabitano separatamente senza confondersi e che danno vita a diverse personalità.
Questa teoria determina la fine della convinzione che esista un’unica coscienza, facendo fiorire conflitti inconsci.
Il doppio, il vedersi vivere, in Pirandello, possono indirettamente avere origine dalle posizioni teoriche di Binet.
Pirandello vede un uomo destituito dal mondo, che non conosce più le norme della propria condotta, che non possiede nessuna conoscenza, ma solo un sentimento che, come tale, è mutabile e vario. Il suo interesse allora verte tutto verso l’uomo problematico, all’uomo-dramma e all’uomo-maschera; è un uomo che soffre e farnetica.
La logica del doppio e la conseguente crisi d’identità, caratterizza l’intera vicenda narrata nel Il fu Mattia Pascal (1904). È la storia di un piccolo borghese imprigionato nella trappola della famiglia. Divenuto economicamente sufficiente grazie ad una vincita, apprende dai giornali di essere morto. Si costruisce una nuova identità passando da essere Mattia Pascal ad Adriano Meis. Fin dall’incipit del romanzo, viene posto il problema dell’identità: «Una delle poche cose, anzi la sola ch’io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal.» [15]
[15] Pirandello, Il fu Mattia Pascal, introduzione di Silvio Parrella, a cura di Antonio Gagliardi, Feltrinelli Editore, Milano, 2010, p. 3
Costruendo l’identità di Adriano Meis, il protagonista ha rifiutato la sua forma iniziale. Assume, adattandosela come una nuova maschera, una nuova identità, un nuovo passato e un nuovo volto, credendo finalmente di poter iniziare una nuova vita. Ma il susseguirsi delle difficoltà che incontrerà lungo la nuova strada e il significativo episodio del cagnolino, lo porteranno alla consapevolezza dell’impossibilità di agire socialmente
– in questo senso, di vivere – per chi è, come lui, privo di connotati anagrafici.
Il tentativo fallito di trasformazione, attraverso il passaggio da una forma all’altra, rendono il protagonista cosciente di non poter tornare ormai ad essere Mattia Pascal. Elio Gioanola, nel suo Pirandello, la follia, a riguardo conclude:
Perdere il proprio nome significa propriamente perdersi, non esserci più. Tutto il grande viaggio di Mattia è stato un viaggio verso la possibilità di essere indipendentemente dal nome, ma la conclusione è stata che, oltre a non aver trovato il proprio nome (il proprio io), ha perduto anche il proprio nome. Mattia era la propria carta d’identità, ora che questa è stata stracciata, pensa con nostalgia quanto fosse preziosa: nessuno meglio di lui ha sperimentato che esse est percipi. [16]
[16] Elio Gioanola, Pirandello, la follia, nuova edizione integrata con saggi su Liolà e i Seo personaggi, Editoriale Jaka Book Spa, Milano, 1997, p 87.
Nella vita di Vitangelo Moscarda, in Uno, nessuno e centomila, romanzo iniziato nel 1909 e pubblicato solo nel 1926, prima come romanzo a puntate e successivamente in volume, accade proprio questo.
Avevo ventotto anni e sempre fin allora ritenuto il mio naso, se non proprio bello, almeno molto decente, come insieme tutte le altre parti della mia persona. Per cui m’era stato facile ammettere e sostenere quel che di solito ammettono e sostengono tutti coloro che non hanno avuto la sciagura di sortire un corpo deforme: che cioè sia da sciocchi invanire per le proprie fattezze. La scoperta improvvisa e inattesa di quel difetto perciò mi stizzì come un immeritato castigo. [17]
[17] Pirandello, Uno, nessuno e centomila, Mondadori Editore, Milano, 2011, p. 3
Da essere considerato unico per tutti a nessuno, comincerà ad essere consapevole di avere centomila volti agli occhi degli altri. Rifiuta la propria persona, frantuma il proprio Io, rinnega il proprio nome che porta con sé la propria immagine fissa e arriverà a rinchiudersi, anzi, ad abbandonarsi allo scorrere della vita senza nessuna costrizione. Chi non è consapevole delle maschere che indossa, continuerà ad illudersi senza subire il trauma del crollo di tutte le certezze; chi, invece, diviene cosciente di questa condizione non avrà più la capacità di illudersi e non potrà più fare a meno di distruggere ogni illusione che lo circonda.
Tutto ciò lo condurrà a scoprirsi diverso da ciò che fino a quel momento pensava di essere; a scoprirsi in mille volti.
La vicenda di Vitangelo Moscarda prosegue sviluppandosi nei capitoli sul «vedersi» e sulla «costruzione» e «distruzione» dell’Io del protagonista.
Purtroppo non avevo mai saputo dare una qualche forma alla mia vita; non mi ero mai voluto fermamente in un modo mio proprio e particolare, sia per non avere mai incontrato ostacoli che suscitassero in me la volontà di resistere e di affermarmi comunque davanti agli altri e a me stesso, sia per questo mio animo disposto a pensare e a sentire anche il contrario di ciò che poc’anzi pensava e sentiva, cioè a scomporre e a disgregare in me con assidue e spesso opposte riflessioni ogni formazione mentale e sentimentale; sia infine per la mia natura inchinevole a cedere, ad abbandonarsi alla discrezione altrui, non tanto per debolezza, quanto per noncuranza e anticipata rassegnazione ai dispiaceri che me ne potessero venire. Ed ecco, intanto, che m’era venuto! Non mi conoscevo affatto, non avevo per me alcuna realtà mia propria, ero in uno stato come di fusione continua, quasi fluido, malleabile; mi conoscevano gli altri, ciascuno a suo modo, secondo la realtà che m’avevano data; cioè vedevano in me ciascuno un Moscarda che non ero io, non essendo io propriamente nessuno per me; tutti i Moscarda quanti essi erano, e tutti più reali di me che non avevo per me stesso, ripeto, nessuna realtà. [18]
[18] Ivi, p. 38-39
Vitangelo Moscarda realizza l’esistenza di una realtà fino a quel momento sconosciuta. Si potrebbe parlare di scomposizione nella vita.
Ed è stata questa l’espressione dei tanti personaggi di Pirandello: la necessità di togliersi la maschera. Ogni personaggio si sente vittima delle convenzioni e delle immagini che gli vengono imposte dall’esterno e che ha indirettamente interiorizzato; forme bloccate rispetto al fluire della vita.
La consapevolezza dell’inconsistenza dell’Io e la scoperta delle maschere, conducono l’individuo ad una crisi d’identità. Ognuna di quelle maschere costringe il personaggio ad essere sempre qualcuno di diverso a seconda delle circostanze e a seconda di chi si trova di fronte. Scoprire che dietro l’ultima maschera, quella più intima, si nasconde uno sconosciuto suscita l’inizio di un sentimento di smarrimento. Emergerà, subito dopo, un senso di solitudine quando si accorgerà di non essere nessuno e di essere fissato in forme nelle quali non si riconosce più.
Il personaggio pirandelliano si scontra con una realtà che non è più determinata dalla sua percezione illusoria di essere “uno”. La presa di coscienza porta Vitangelo Moscarda da una fase iniziale di smarrimento all’ossessione; attraverso atti premeditati distrugge ognuna delle immagini che gli altri si sono costruiti di lui. Arriverà alla conclusione che l’unico modo per vivere è farlo attimo per attimo, rinascendo continuamente in forme diverse.
Ebbene, ma per gli altri io non ero quel mondo che portavo dentro di me senza nome, tutto intero, indiviso e pur vario. Ero invece, fuori, nel loro mondo, uno – staccato – che si chiamava Moscarda, un piccolo e determinato aspetto di realtà non mia, incluso fuori di me nella realtà degli altri e chiamato Moscarda. [19]
[19] Ivi, p. 44
La realtà è un dato relativo, non esiste una realtà oggettiva perché ognuno ha la sua realtà.
Mettendo a confronto i due protagonisti, è facile affermare che la figura di Vitangelo Moscarda rappresenta un tentativo di evoluzione di Mattia Pascal. Mentre in Vitangelo Moscarda la crisi d’identità lo spinge ad abbandonare tutto, a farsi ricoverare in uno ospizio da lui stesso fondato per liberarsi da ogni identità, Mattia Pascal, rimane in una condizione sospesa, in bilico tra quello che è stato e quello che non sarà più.
Preferirà rinchiudersi in una biblioteca a scrivere quando ormai è diventato «fu», decidendo di raccontare la propria condizione non per lasciare una testimonianza di sé, ma per convincersi, in qualche modo, di esistere ancora.
La questione centrale, quindi, in Pirandello è il contrasto tra vivere e vedersi vivere. Quando uno si vede vivere, la vita non la vive più, ma la subisce, la trascina come un peso.
Molto spesso, lo strumento fondamentale di questa presa di coscienza è lo specchio, che si lega inevitabilmente al concetto di doppio.
L’individuo non riuscirà più – d’improvviso – a riconoscersi nella propria immagine. Lo specchio deforma e indirizza l’individuo alla scomposizione dell’Io impedendo ogni possibilità di ritorno ad un unico e riconoscibile volto. Il personaggio sarà condannato a restare estraneo a se stesso:
Oh, perché proprio dobbiamo essere così, noi? – ci domandiamo talvolta allo specchio, – con questa faccia, con questo corpo? – Alziamo la mano, nell’incoscienza; e il gesto ci resta sospeso. Ci pare strano che l’abbiamo fatto noi. Ci vediamo vivere. Con questo gesto sospeso possiamo assomigliarci a una statua d’antico oratore, per esempio, che si vede in una nicchia, salendo per la scala del Quirinale. [20]
[20] Id., L’umorismo, Garzanti Editore, Milano, 1995, p. 211
Elio Gioanola arriverà ad affermare che, nell’individuo, il doppio è causato dal tentativo di giustificare «il disordine profondo della divisione, il risucchio caotico della frantumazione dell’Io». [21]
[21] E. Gioanola, Pirandello la follia, op. cit., p. 52
Al concetto di scissione della personalità, lo scrittore siciliano affianca un elemento a cui attribuisce un ruolo rilevante nella presa di coscienza dell’individuo: l’ombra.
L’ombra è il mezzo con il quale il personaggio si rende conto di non essere ciò che credeva, di rappresentare una parte che non appartiene più a lui. È il lato nascosto delle cose e solo l’umorista ne può essere consapevole.
Mattia Pascal si rende conto di non poter più indossare gli abiti di Adriano Meis, dopo aver notato la propria ombra. Nel XV capitolo del romanzo intitolato Io e l’ombra mia, egli rende concreta la dissoluzione:
L’ombra di un morto: ecco la mia vita…
Passò un carro: rimasi lì fermo, apposta: prima il cavallo, con le quattro zampe, poi le ruote del carro. “Là, così! Forte, sul collo! Oh, oh, anche tu, cagnolino? Su, da bravo, sì: alza un’anca, alza un’anca!”
Scoppiai a ridere d’un maligno riso; il cagnolino scappò via, spaventato; il carrettiere si voltò a guardarmi. Allora mi mossi; e l’ombra, meco, dinanzi. Affrettai il passo per cacciarla sotto gli altri carri, sotto i piedi de’ viandanti, voluttuosamente. […]
Ma aveva un cuore quell’ombra, e non poteva amare; aveva denari, quell’ombra, e ciascuno poteva rubarglieli; aveva una testa, ma per pensare e comprendere ch’era una testa d’un ombra, e non l’ombra di una testa. Proprio così! [22]
[22] L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, op. cit., pp. 168, 169
Mattia accortosi di non poter vivere sotto falso nome, di non poter sposare Adriana e non poter rivendicare il diritto di denunciare un furto subito, cerca di uccidere la propria ombra; di allontanare da sé l’unica cosa che, in qualche modo, lo lega ancora al suo passato. Ma non ci riesce perché quell’ombra fa parte di lui. Decide, quindi, di ritornare ad essere Mattia Pascal ma con la consapevolezza, ormai, dell’impossibilità di riassorbire lo sdoppiamento. Mattia ha venduto la propria vita per scoprire l’inutilità della lotta per costruirsi una nuova identità, accontentandosi di essere solo un io narrante.
I personaggi pirandelliani sono comici e tragici insieme. L’idea ottocentesca dell’individuo artefice del proprio destino, tramonta. La consapevolezza del non riconoscersi più in un unico volto, conduce i personaggi allo smarrimento; un senso di solitudine e sofferenza che nasce dalla scoperta di non essere più “uno” agli occhi degli altri. Il personaggio pirandelliano è disilluso e, osservando la realtà con occhi diversi, è riuscito a cogliere il meccanismo che sta alla base: il contrasto tra Vita e Forma. Queste forme sono viste come una trappola, in cui l’individuo si dibatte per potersi liberare.
Che cosa è, dunque, la trappola? È la forma in cui la vita è condannata a rimanere. Per Pirandello, le convenzioni della famiglia, della società, l’obbligo del lavoro rappresentano una trappola per l’individuo. La sua teoria trova ampio respiro in una novella, La trappola appunto. Fu pubblicata sul Corriere della Sera nel 1912 e, successivamente, raccolta nel volume di novelle L’uomo solo nel 1922.
La novella di Pirandello è un monologo di un individuo anonimo di nome Fabrizio, che confessa ad un imprecisato interlocutore le proprie ossessioni. È certo che l’esistenza sia una trappola, perché porta sempre alla morte. L’essere umano è diviso tra la vita e l’apparenza, cioè la forma.
Nella novella emergono chiari i tratti della sua poetica: l’inconsistenza della persona, che è una costruzione artificiale, una realtà che noi stessi ci diamo e che maschera una realtà più profonda. Ma darsi una realtà vuol dire rappresentarsi, irrigidirsi; fissarsi in una forma vuol dire iniziare a morire.
Noi tutti siamo esseri presi in trappola, staccati dal flusso che non s’arresta mai, e fissati per la morte.
Dura ancora per un breve spazio di tempo il movimento di quel flusso in noi, nella nostra forma separata, staccata e fissata; ma ecco, a poco a poco si rallenta; il fuoco si raffredda; la forma si dissecca; finché il movimento non cessa del tutto nella forma irrigidita.
Abbiamo finito di morire. E questo abbiamo chiamato vita!
Io mi sento preso in questa trappola della morte, che mi ha staccato dal flusso della vita in cui scorrevo senza forma, e mi ha fissato nel tempo, in questo tempo! [23]
[23] Id.,La trappola, Novelle per un anno, Scrivere edizioni, formato Ebook
Continua affermando che anche le donne sono una trappola, seducono gli uomini e mettono alla luce tanti “piccoli morti” che sono a loro volta in trappola perché appena nati iniziano a morire. Il narratore racconta di essere caduto lui stesso nella trappola di una donna che aiutava suo padre malato.
Il brano si conclude con Fabrizio che medita, perché vorrebbe che suo padre molto malato venisse liberato dalla “trappola” e lui stesso vorrebbe ciò anche per sé:
Piange, vedi? Piange sempre così… e fa piangere anche me! Forse vuol essere liberato. Lo libererò, qualche sera, insieme con me. [24]
[24] Ivi, formato Ebook
L’unica via di salvezza che Pirandello dà ai suoi personaggi è la fuga nell’irrazionale. Potremmo parlare di filosofia del lontano. Il personaggio si guarda vivere, si estrania dalla realtà, come Serafino Gubbio; diventa uno straniero nel mondo come Mattia Pascal; scopre l’impossibilità di essere autentico in un’unica forma ed evade verso un oltre fantastico come il signor Belluca nella novella Il treno ha fischiato.
Tutti i personaggi di Pirandello cominciano a vivere così nel sistema dell’Io diviso. Questo tema è illustrato nella novella I pensionati della memoria (1914, compresa nella raccolta Donna Mimma del 1925).
Nel testo, l’autore introduce l’inconsistenza della realtà. L’Io narrante considera i morti più vivi di prima; ha delle realtà soggettive per ognuno dei defunti e finché lui vivrà, loro vivranno.
Sostiene, infatti, che non riesce a liberarsi dai morti, al contrario degli altri che provano un sollievo dopo averli accompagnati al cimitero:
Dapprima, cioè appena terminata l’ultima rappresentazione (dico dopo l’accompagnamento funebre) quando rivengono fuori dal feretro per ritornarsene con me a piedi dal camposanto, hanno una certa balda vivacità sprezzante, come di chi si sia scrollato con poco onore, è vero, e a costo di perder tutto, un gran peso d’addosso. Pure, rimasti come peggio non si potrebbe, vogliono rifiatare. Eh sì! Almeno, via, un bel respiro di sollievo. Tante ore, lì, rigidi, immobili, impalati su un letto, a fare i morti. Vogliono sgranchirsi: girano e rigirano il collo; alzano ora questa ora quella spalla; stirano, storcono, dimenano le braccia; vogliono muovere le gambe speditamente e anche mi lasciano di qualche passo indietro. Ma non possono mica allontanarsi troppo. Sanno bene d’essere legati a me, d’aver ormai in me soltanto la loro realtà, o illusione di vita, che fa proprio lo stesso. [25]
[25] Id., I pensionati della memoria, in Novelle per un anno, op. cit. formato Ebook
L’Io diventa vero in opposizione alla corporeità, che rappresenta il falso Io. Essendo però, l’Io vero, un luogo che nessuno conosce, è esso stesso un’illusione, perché cerca una salvezza in una interiorità che è incomprensibile.
L’Io inteso come entità unica non esiste; Pirandello conduce il suo personaggio ad una persistente introspezione psicologica e ad una analisi scrupolosa e eccessiva delle proprie diverse possibili condizioni esistenziali.
Nella sua opera emerge una disgregazione dell’Io in una serie di personalità diverse. Il corpo è il luogo delle apparenze, dell’inganno e si cerca un’interiorità che possa garantire una pace apparente lontano da ogni riconoscimento esterno.
Ancora Gioanola
La debolezza ontologica dell’Io, incapace di sostenere il peso dei rapporti, e di quel rapporto per eccellenza che è l’amore per un’altra persona, determina la scissione tra forme create dai rapporti e l’Io, all’interno dell’Io, tra angelo e bestia. [26]
[26] E. Gioanola, Pirandello la follia, op. cit., pp. 112-113
Quindi il personaggio vive questa condizione di debolezza perché, accortosi di essere stato una forma, non inizierà finalmente a vivere, ma giungerà ad una disarmante presa di coscienza di sé, a indagare se stesso e a smascherare gli altri, svelando l’inganno della condizione esistenziale.
1.3 Alienazione e incomunicabilità
La vita dei personaggi pirandelliani è solo apparentemente tranquilla e abitudinaria. Sono gli avvenimenti spesso banali a turbare la loro quiete, la piccola crepa che incontrano lungo il loro cammino che li porta a cambiare radicalmente la loro visione della realtà. Come Vitangelo Moscarda, protagonista del già citato romanzo Uno, nessuno e centomila, il quale è stizzito dalle parole di sua moglie dopo avergli fatto notare che il suo naso pende da una lato:
Avevo ventotto anni e sempre fin allora ritenuto il mio naso, se non proprio bello, almeno molto decente, come insieme tutte le altre parti della mia persona. Per cui m’era stato facile ammettere e sostenere quel che di solito ammettono e sostengono tutti coloro che non hanno avuto la sciagura di sortire un corpo deforme: che cioè sia da sciocchi inveire per le proprie fattezze. La scoperta improvvisa e inattesa di quel difetto perciò mi stizzì come un immeritato castigo. [27]
[27] L. Pirandello, Uno, nessuno e centomila, op. cit., p.3
L’individuo pirandelliano vive, dunque, uno sdoppiamento di personalità drammatico, destinato a sfociare nell’estraniamento dalla società. Questo senso di alienazione deriva dall’impossibilità di comunicare con gli altri perché ognuno ha una immagine cristallizzata dell’altro e di se stesso, non essendosi liberato ancora dalle catene che lo costringono ad essere piuttosto che a vivere.
Il personaggio pirandelliano è colui che ha capito il gioco della vita. È questa la ragione per la quale Mattia Pascal decide, una volta ritornato nel suo paese, di trascorre il resto della sua vita come un fantasma nella biblioteca in cui lavora. O come Vitangelo Moscarda che andrà a vivere nel suo ospizio, unico luogo dove può essere se stesso, a contatto con la natura e lontano dalle infinite immagini che lo costringevo ad essere bloccato in una forma fissa:
Mojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori. [28]
[28] Ivi, p. 143
Si abbandona, cioè, al flusso continuo della vita.
L’impossibilità di comunicare è la conseguenza di un tentativo fallito dell’uomo stesso di entrare in contatto con gli altri, in una vena ora onirica e amara, ora grottesca e tragica. Tale impossibilità conduce al dramma di una disperata ricerca di vivere una realtà mai unica:
Ma se è tutto qui il male! Nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo d’intenderci; non c’intendiamo mai! [29]
[29] Id, Sei personaggi in cerca di autore, A pubblic domain book, fotmato Ebook.
Le condizioni soggettive dell’uomo rendono impossibile l’entrare in contatto e, quindi, relazionarsi con gli altri. Le parole, spesso, possono essere percepite come ingannevoli. Secondo Pirandello, l’umanità è condannata ad un mero scambio di parole a cui quasi mai corrispondono gli stessi significati per l’altro parlante. La comunicazione giunge così ad essere inutile, causando solitudine e smarrimento. L’incomunicabilità non è altro che solitudine esistenziale.
Questo senso di alienazione da cui deriva l’impossibilità di comunicare, si ripercuote sull’immagine e, soprattutto, sul comportamento del personaggio. Questi, infatti, si è reso conto che non può più continuare a vivere allo stesso modo; è divenuto cosciente di essere “altro” da quell’immagine fissa e il suo atteggiamento, il suo uscire fuori dagli schemi e dai preconcetti radicati ormai nella società ,sono percepiti come atteggiamenti folli. Per gli altri, il personaggio che è riuscito a capire “il gioco della vita”, non può essere altro che un matto.
Il folle è considerato tale perché rappresenta una rottura dalla routine, l’allontanamento da una esistenza fino a quel momento comprensibile, perciò accettabile. Il folle pirandelliano è quel personaggio che viene a conoscenza di un nuovo altro da sé. Ma lui non si considera folle, sono gli altri a considerarlo tale, in quanto non rientra in quella immagine fissa che gli altri si sono fatti di lui e che ora egli stesso ha smontato:
Preferii restare pazzo e vivere con la più lucida coscienza la mia pazzia […] questo che è per me la mia caricatura, evidente e volontaria, di quest’altra mascherata, continua, d’ogni minuto, di cui siamo i pagliacci involontarii quando senza saperlo ci mascheriamo di ciò che ci par d’essere. […] Sono guarito, signori: perché so perfettamente di fare il pazzo, qua; e lo faccio, quieto! – Il guajo è per voi che la vivete agitatamente, senza saperla e senza vederla la vostra pazzia. […] La mia vita è questa! Non è la vostra! – la vostra, in cui siete invecchiati, io non l’ho vissuta! [30]
[30] Id, Enrico IV, atto III, prima edizione digitale 2013, edizione Pillole Bur, Gennaio 2007
Il folle, dunque, è colui che – con lucidità – diviene consapevole della situazione che lo ha portato inevitabilmente a capire quanto siano false le vite che lo circondano.
Il tratto particolare dei personaggi pirandelliani, ha però un nome. Ad un certo punto, infatti, interviene un fattore esterno che sovverte la vita del personaggio: il perturbante, il freudiano Unheimliche a indicare qualcosa di non abituale che sconvolge improvvisamente l’individuo; appartiene alla sfera dello spaventoso, di ciò che genera angoscia e orrore. È qualcosa che un tempo è stato familiare, ma che è divenuto inconscio attraverso un processo di rimozione o superamento; quando esso riaffiora, cambia di segno e quello che un tempo era stato un simbolo rassicurante, ora provoca turbamento. Si può parlare, in termini freudiani, di un ritorno del rimosso.
Il perturbante è:
[…] una crepa che incrina la compattezza di un mondo apparentemente intatto, ma questa crepa è sufficiente a creare una separazione irrecuperabile tra il luogo dell’Io e il luogo della realtà e degli altri. [31]
[31] E. Gioanola, Pirandello, la follia, op. cit., p.62
Nei personaggi di Pirandello, è perturbante quella particolare sensazione che conduce a percepire cose, azioni e persone familiari come improvvisamente “altre”, diventando così ragione di angoscia e paura. È, appunto, quello che succede a Vitangelo Moscarda che non si riconosce più davanti allo specchio.
Dal punto di vista tematico, un altro elemento fondamentale della narrazione pirandelliana è l’invenzione del personaggio-tipo. Indipendentemente dalle circostanze, tutti i personaggi appaiono straordinariamente simili, perché sono tutti dei perdenti: mariti traditi, amanti disillusi, impiegati che sono stati licenziati. Tutti hanno un destino già compiuto alle spalle e non possono fare nulla per cambiarlo. Hanno visto la loro tragedia trasformarsi in commedia e sono costretti a convivere con un fallimento che non ha nullo di eroico, cui si aggiunge l’assoluta solitudine, la mancanza di affetto e di comprensione. Come il signor Belluca, protagonista della novella Il treno ha fischiato, che tenta di sfuggire con la fantasia da una condizione di vita insostenibile; o come Tommasino Unzio, nella novella Canta l’epistola, che si lascia sbeffeggiare da tutto il paese per aver perso la sua vocazione.
Il carattere individuale, i desideri, le speranze, tutto è azzerato dalla certezza della sconfitta. Per questo essi sono personaggi umoristici per eccellenza: ad un primo sguardo appaiono ridicoli, ma ad un’indagine attenta rivelano tutto il fondo doloroso del loro essere.
Così per lo scrittore, nell’arte moderna non è più possibile un personaggio a tutto tondo, unitario e armonico. La consapevolezza del carattere soggettivo e fittizio della realtà, del relativismo di ogni verità, trasforma il tipico personaggio classico – proprio dell’epica e della tragedia – nel personaggio moderno diviso, perplesso, che si guarda vivere anziché vivere con immediatezza.
1.4 Dalla disillusione alla realtà come «enorme pupazzata»
Il personaggio di Pirandello diviene, dunque, consapevole della “trappola” del non essere dopo una riflessione critico-umoristica sulla natura umana. Dopo aver svelato il tragico nulla, si sofferma sulle incoerenze e sulle dolorose disarmonie della realtà, che proiettano l’uomo in una pressante inquietudine. La dinamica che viene a designarsi è caratterizzata dal passaggio dalle illusioni alle disillusioni; dall’inconsapevolezza al crollo dei sogni e delle speranze. Nell’opera tutta dello scrittore agrigentino, uno dei protagonisti è il personaggio disilluso.
Il personaggio è ormai disilluso e smonta allo stesso modo le illusioni di chi lo circonda. Nella novella I pensionati della memoria, Pirandello confronta l’illusione dei vivi e la disillusione dei morti. La novella, infatti, ci presenta un quadro della morte che viene mostrata non come cessazione della vita, ma come mancato rapporto tra i familiari e il defunto; rapporto che viene sempre concepito in relazione con il corpo e mai come l’essenza.
La logica di fondo si basa sul concetto che ognuno dà a se stesso una realtà che non coincide mai con quella che gli attribuiscono gli altri; realtà che cambia con il trascorrere del tempo e che si rivela essere sempre solo un’illusione.
I morti, i disillusi, non potranno dare a se stessi l’illusione della loro realtà perché si sono liberati della vita, ma questo non toglie che non potranno continuare a “vivere” grazie all’illusione della realtà dell’autore:
Sono trascorsi più di vent’anni. Ne aveva, a dir poco, cinquantotto il signor Herbst, allora. Ebbene, forse a quest’ora sarà morto. Ma sarà morto per sé, non per me, vi prego di credere. Ed è inutile, proprio inutile che mi diciate che siete stati di recente a Bonn sul Reno e che nell’angolo della Marktplatz accanto alla Beethoven- Halle non avete trovato traccia né del signor Herbst né della sua bottega di cappellajo. Che ci avete trovato invece? Un’altra realtà, è vero?E credete che sia più vera di quella che ci lasciai io vent’anni fa? Ripassate, caro signore, di qui ad altri vent’anni, e vedrete che ne sarà di questa che ci avete lasciato voi adesso.
Quale realtà? Ma credete forse che la mia di vent’anni fa, col signor Herbst su la soglia della sua bottega, le gambe aperte e le mani in tasca, sia quella stessa che si faceva di sé e della sua bottega e della Piazza del Mercato, lui, il signor Herbst? M chi sa il signor Herbst come vedeva se stesso e la sua bottega e quella piazza! No, no, cari signori: quella era una realtà mia, unicamente mia, che non può cangiare né perire, finché io vivrò, e che potrà anche vivere eterna, se io avrò la forza d’eternarla in qualche pagina, o almeno, via, per altri cento milioni di anni, secondo i calcoli fatti or ora in America circa la durata della vita umana sulla Terra. Ora, com’è per me del signor Herbst tanto lontano, se a quest’ora è morto; così è dei tanti morti che vado ad accompagnare al camposanto e che se ne vanno anch’essi per conto loro assai più lontano e chi sa dove. La realtà loro è svanita; ma quale? Quella ch’essi davano a se medesimi. E che potevo saperne io, di quella loro realtà? Che ne sapete voi? Io so quella che davo ad essi per conto mio. Illusione la mia e la loro. [32]
[32] Pirandello, I pensionati della memoria, Novelle per un anno, op. cit., formato Ebook
Il signor Herbst, ammesso che sia ancora vivo, sarà sicuramente cambiato. Ma il narratore lo vede ancora com’era venti anni fa, seduto nello stesso luogo, che ripete gli stessi gesti. La vita non esiste in sé e per sé ma nella misura in cui noi la inventiamo quotidianamente.
La vita è un’illusione; i morti hanno perso questa illusione, sottraendo a chi è ancora vivo quella realtà fittizia che avevano di loro. Le persone care possono anche non essere presenti. Siamo noi a tenerle in vita perché le carichiamo con i nostri ricordi. La morte, quindi, non appare molto diversa da una partenza: la differenza si ha quando viene a mancare la reciprocità dell’illusione. I vivi si appoggiano sull’idea che finché gli altri li considerano vivi, loro esistono. La conclusione, come spesso capita in Pirandello, è crudele. «Voi piangete perché il morto, lui, non può più dare a voi una realtà.». Piangiamo per noi e non già per i morti, per la perdita di realtà che quella persona ci dava e che ora non può più darci. I vivi si “attaccano” alla presenza o assenza del corpo. I morti, dunque, si sono disillusi, in quanto liberi dalla vita. Sono più vivi dei vivi, come scrive Pirandello.
Tutti i personaggi pirandelliani sono irretiti in una realtà illusoria; con la presa di coscienza di tale illusione si allontanano dalla realtà che prima era vita e cominciano a percepire un senso di smarrimento. Hanno finalmente aperto gli occhi e cominciato ad essere non più semplici comparse tra le comparse ma protagonisti consapevoli dello «strappo nel cielo di carta». Questo condurrà l’individuo a realizzare l’assurdità dell’esistenza. L’analisi è semplice: il personaggio è ormai cosciente della sua realtà, che dietro la sua maschera non si cela nulla, tende quindi a smascherare gli altri, a distruggere ogni certezza e considera tutti gli altri attori passivi, protagonisti della cosiddetta enorme pupazzata. Scrive Pirandello a sua sorella Lina in una lettera del 1886:
Quando tu riesci a non avere più un ideale, perché osservando la vita sembra un’enorme pupazzata, senza nesso, senza spiegazione mai; quando tu non hai più un sentimento, perché sei riuscito a non stimare, a non curare più gli uomini e le cose, e ti manca perciò l’abitudine, che non trovi, e l’occupazione, che sdegni – quando tu, in una parola, vivrai senza la vita, penserai senza un pensiero, sentirai senza cuore – allora tu non saprai più che fare: sarai un viandante senza casa, un uccello senza nido. Io sono così.
Nella lettera, Pirandello cerca di spiegare l’inspiegabile; l’assenza di certezze e la precarietà del tempo contemporaneo.
Giovanni Macchia, nel suo libro Pirandello o la stanza della tortura, si è soffermato anche sull’analisi della condizione dei personaggi pirandelliani che si sentono intrappolati nella morsa della vita sociale, considerata appunto, una stanza della tortura. La crudeltà dei rapporti sociali, sotto gli inutili formalismi e le finte buone maniere, domina; la superficie cela, in realtà, una proliferazione di verità mai uniche. La società appare all’uomo come una “enorme pupazzata”, una costruzione artificiosa che lo traghetta verso una morte interiore, seppur continuando lo stesso a vivere.
Macchia sottolinea come nessun altro scrittore dell’epoca abbia denunciato un così diretto rapporto con il «caso umano»; a differenza dei grandi artisti dell’Ottocento, che tendevano ad una costruzione armonica, Pirandello costruisce pezzi disarmonici.
Il concetto di «vita nuda», cui rimase fedele, implicava la visione, come egli disse, di una materia senz’ordine apparente, irta di contraddizioni, quale appunto si conviene ad un umorista, lontanissima dal congegno ideale delle «comuni concezioni artiscitche, in cui tutti gli elementi, visibilmente, si tengono a vicenda, e a vicenda cooperano». [33]
[33] Giovanni Macchia, Pirandello o la stanza della tortura, Arnoldo Mondadori Editore, 1982, p. 64
Il gusto delle forme, l’uso della «lingua dei morti che dorme nei grandi testi della tradizione letteraria», [34] stonerebbe con il tentativo dello scrittore di rappresentare l’arida concezione del mondo con le sue dolorose e vacue risonanze. La realtà ci viene, così, mostrata teatralmente, con accenti grotteschi e aprendo infinite suggestioni anarchiche e distruttive.
[34] Ivi, p. 65
Come ha scritto Macchia a proposito della centralità simbolica di Roma e della Sicilia in Pirandello:
La Roma di Pirandello è l’esatto rovescio della Roma del Piacere di D’Annunzio. Letteralmente, Roma era per D’Annunzio l’orto d’Academo: per Pirandello un portacenere, di materia vuota. D’Annunzio trasformava le chiese barocche, oscurate dal tempo, in pezzi d’oreficeria, i palazzi patrizi in grandi clavicembali d’argento; Pirandello mette un certo impegno a voltar loro le spalle. […] La società siciliana fu per Pirandello un condensato , entro specchi deformati, della società umana: un luogo di prove, di esperimenti e di visioni. In quello specchio curvo, ove le immagini apparivano lancinate in un’espressione non di rado grottesca, e in cui s’operava implicitamente la critica e il superamento del verismo, si rifletteva l’arretratezza di una società, vincolata ai pregiudizi e alle superstizioni, al parere più che all’essere, dilaniata dall’amore della «roba», chiusa nell’ordine sacro della famiglia. [35]
[35] Ivi, p. 67
In una società come quella siciliana dei primi anni del Novecento, trovano vita i più diversi personaggi della letteratura e del teatro di Pirandello; personaggi disprezzati e “patentati” che rispecchiano una terra arida, satura di zolfo e di polvere, di sangue e di miseria. Diviene, come Roma, palcoscenico di una condizione umana, luogo che dà vita al personaggio e al suo dramma.
Pirandello mette in ridicolo la condizione della società piccolo-borghese e la sua angustia opprimente. La sua atmosfera soffocante con le sue recondite tensioni, gli odi, i rancori, le ipocrisie e le menzogne, sono mescolati ad affetti sotterranei e viscerali.
La vita dunque, è una “enorme pupazzata”, senza nesso, né spiegazione. E gli uomini sono dei burattini mossi da fili invisibili dal caso crudele. La vita è solo un involontario soggiorno sulla terra.
1.5 Luigi Pirandello e il grottesco
Il dramma è il protagonista indiscusso del teatro pirandelliano del periodo “grottesco”. A questo proposito, una definizione del termine “grottesco” ci viene fornita dallo stesso Pirandello in un saggio del 1922, intitolato Ironia:
Anche una tragedia, quando si sia superato col riso il tragico attraverso il tragico stesso, scoprendo tutto il ridicolo del serio, e perciò anche il serio del ridicolo, può diventare una farsa. Una farsa che includa nella medesima rappresentazione della tragedia la parodia e la caricatura di essa, ma non come elementi soprammessi, bensì come proiezione d’ombra del suo stesso corpo, goffe ombre d’ogni gesto tragico.
Potremmo affermare che, per Pirandello, il grottesco è l’ultima fusione di serio e ridicolo, tragico e comico; è lo scoprire il comico nel tragico e viceversa. Accompagnare il riso alla pietà e alla riflessione.
Il grottesco, dunque, può essere accostato senza nessun timore alla definizione che lo stesso scrittore dà al «sentimento del contrario».
Il grottesco teatrale, come l’umorismo, è una forma d’arte lontana dell’essere unitaria e armonica, ed è invece scissa, disgregata, autoriflessiva; è un’arte critica che mette costantemente in discussione se stessa e corrode le abitudini.
Il contesto in cui il teatro di Pirandello si inserisce è quello del dramma borghese di impianto naturalistico. Dunque, un dramma “serio” che punta alla riproduzione fedele della vita quotidiana, i cui protagonisti ricoprono il ruolo dell’uomo d’affari, dell’insegnante, del professionista e ad emergere sono i valori della famiglia, l’onestà, il lavoro. Pirandello, solo apparentemente, riprende quei temi e quegli stessi ambienti per estremizzarne la forma e i contenuti fino a farli esplodere dall’interno. I personaggi ricoprono con estrema fedeltà i ruoli che la società gli impone sino, però, a raggiungere il paradosso e l’assurdo; una riproduzione grottesca di ciò che fino a quel momento era stato rappresentato ‘seriamente’, mentre per Pirandello unico scopo è quello di smascherarne l’evidente inconsistenza.
In tal senso, in Pensaci tu, Giacomino! (1916) il professor Toti, che non è riuscito a farsi una famiglia a causa del suo misero stipendio statale, decide di vendicarsi sposando una giovane ragazza, costringendo lo stato a pagarle per molti anni la pensione. Considera anche la possibilità che sua moglie possa tradirlo, ma non se ne preoccupa; anzi favorisce il legame tra la ragazza e il giovane Giacomo, suo allievo, affermando che le “corna” non andranno sulla sua testa, bensì alla parte che recita, alla professione di marito che lo riguarda solo nell’apparenza.
In Così è (se vi pare) (1917), il signor Ponza tiene relegata sua moglie perché la suocera, la signora Frola, non possa vederla, se non da lontano. L’uomo afferma che si tratta in realtà della seconda moglie, essendo la prima (figlia della signora Frola), morta; l’anziana donna è pazza, sostiene sempre il genero. Il caso suscita curiosità e gli abitanti del paese si affannano per far venire alla luce la verità. Nella scena finale, compare la signora Ponza, velata. « Io sono colei che mi si crede», dice. Pirandello porta in scena il relativismo assoluto, contestando la pretesa di definire sempre una verità assoluta.
Nel Giuoco delle parti (1918) Leone Gala, che è separato dalla moglie, guarda con filosofica indifferenza la relazione di lei con un altro uomo e accetta il suo ruolo di marito sfidando a duello un gentiluomo che l’ha offesa, ma poi rifiuta di battersi, lasciando il compito all’amante.
La definizione pirandelliana riguardo il grottesco è, dunque, rintracciabile tra le righe di queste rappresentazioni teatrali. Quindi, il grottesco non è altro che la forma dell’umorismo che assume sul palcoscenico. I protagonisti, nella loro vita ridotta ad una maschera, assumono tratti burattineschi che li rendono ridicoli ma che, allo stesso tempo, ci rivelano il loro profondo strazio, la loro umana miseria. Sono marionette che soffrono e, per questo, guardate da Pirandello con irrisione e insieme pietà.
Avvicinatosi al teatro relativamente tardi, Pirandello adattò le storie già proposte nei romanzi, e soprattutto nelle novelle, alla scrittura teatrale. Dunque, quasi tutte le sue storie teatrali si basano su un precedente novellistico diventando un importante serbatoio di trame e invenzioni.
Il nucleo essenziale viene pronunciato già nelle sue prime rappresentazioni: la realtà viene dissolta segnando il crollo del “credo” di un’epoca.
Terribile e ridicolo, minaccioso, maligno e liberatorio come una risata, di questo teatro degli equivoci è Massimo Bontempelli ad affermare che
Il teatro di Pirandello è il tragico e altissimo documento e monumento della fatalità che parve, all’aprirsi del tempo nuovo, ruinare l’umana civiltà e tutte le sue conquiste di venticinque secoli, facendo dell’uomo uno scoiattolo che passa la vita a far girare vorticosamente la sua piccola prigione. La vita delle persone pirandelliane è grottesca e terribile: sono esse le vittime, non più come in Sofocle, della crudeltà d’Olimpo che le saetta dalle nubi; non più, come in Shakespeare, della indomabilità delle loro stesse passioni; non più come in Ibsen, d’una legge morale ch’essi sanno considerare se non come convenzione sociale: sono le vittime della torbida e lucida persuasione d’un immane nulla tutt’intorno all’uomo, centro e insieme circolo estremo d’un universo di raggio infinito, vittime della sostituzione di un “così è se vi pare” all’apprendimento e all’accettazione vitale d’una d’una costruzione di leggi.
E lo stesso Pirandello in una intervista:
Teatro serio il mio. Vuole tutta la partecipazione dell’entità morale- uomo. Non è teatro comodo. Teatro difficile, diciamo teatro pericoloso. Nietzsche diceva che i greci alzavano bianche statue contro il nero abisso, per nasconderlo. Sono finiti quei tempi. Io le scrollo, invece per rivelarlo. È la tragedia dell’anima moderna. [36]
[36] Intervista di Giovanni Cavicchioli a Luigi Pirandello, «Termini», 1936, pirandelloweb.com
Il comico comincia ad essere percepito dal pubblico in modo anormale e, contrapponendosi alla normalità, essa viene messa in discussione. Il paradosso e la difficile comprensione dei personaggi pirandelliani offende la sensibilità e la morale borghese. E l’attore inizia ad essere il protagonista e allo stesso tempo vittima di se stesso. Porta avanti, quindi, una straordinaria opera di svecchiamento della pratica teatrale; le trame convenzionali del teatro borghese vengono complicate fino all’inverosimile per denunciare l’ipocrisia e il formalismo ed esplora la crisi della coscienza individuale, lascia che vengano a dispiegarsi molteplici punti di vista.
Tutto questo, alternando la provocazione e lo scandalo con il tentativo di smuovere quanto mai lo spettatore e di destabilizzare le aspettative del pubblico.
Il Giuoco delle parti, Sei personaggi in cerca d’autore, Enrico IV, vertono sul problema del rapporto tra apparenza e realtà; diventano lo strumento di denuncia della menzogna e della beffa della vita con la sua vanità e presunta realtà.
La «poetica del personaggio» è esplicita soprattutto in una novella del 1911 intitolata La tragedia di un personaggio, che sarà poi il trampolino di lancio per la rappresentazione teatrale Sei personaggi in cerca d’autore.
Pirandello immagina di dover dare udienza ai personaggi delle sue future novelle:
È mia vecchia abitudine dare udienza, ogni domenica mattina, ai personaggi delle mie future novelle. Cinque ore, dalle otto alle tredici. [37]
[37] Pirandello, La tragedia di un personaggio, formato Ebook
Entriamo così nel laboratorio creativo di Pirandello. Egli ascolta i personaggi, li interroga, prende nota delle loro condizioni e dei loro nomi. Poi, passa in rassegna alcuni di questi personaggi come
Icilio Saporini, spatriato in America nel 1849, alla caduta della Repubblica Romana, per aver musicato non so che inno patriottico, e ritornato in Italia dopo quarantacinque anni, quasi ottantenne, per morirvi. [38]
[38] Ibid.
I personaggi reagiscono alle domande invadenti dell’autore, che cerca di smontare l’immagine che essi vogliono presentare di se stessi, svelando la fragilità della loro condizione.
Un giorno, mentre si preparava a ricevere i suoi personaggi, ecco che la sua attenzione viene attirata dal dottor Fileno. Si confida con l’autore pregandolo di non scacciarlo, di “usarlo” perché caduto in quelle mani, esser condannato a perire iniquamente, a soffocare in quel mondo d’artifizio, dove non posso né respirare né dare un passo, perché è tutto finto, falso, combinato, arzigogolato! [39]
[39] Ibid.
In quanto personaggio, egli sa di essere più vivo delle creature viventi, magari meno reale ma più vero.
Nessuno può sapere meglio di lei, che noi siamo esseri vivi, più vivi di quelli che respirano e vestono panni; forse meno reali, ma più veri! Si nasce alla vita in tanti modi, caro signore; e lei sa bene che la natura si serve dello strumento della fantasia umana per proseguire la sua opera di creazione. E chi nasce mercé quest’attività creatrice che ha sede nello spirito dell’uomo, è ordinato da natura a una vita di gran lunga superiore a quella di chi nasce dal grembo mortale d’una donna. Chi nasce personaggio, chi ha l’avventura di nascere personaggio vivo, può infischiarsi anche della morte. Non muore più! Morrà l’uomo, lo scrittore, strumento naturale della creazione; la creatura non muore più! [40]
[40] Ibid.
Nelle parole del dottor Fileno si possono intravedere chiaramente le tematiche figlie dell’opera tutta di Pirandello. Il personaggio è visto come una entità trascendente, capace di far coesistere tra loro diverse personalità. È possibile, quindi, che un personaggio chieda di essere “riusato”; quello che chiede, appunto, il dottor Fileno a Pirandello:
Ma guardi… Fileno… mi ha messo nome Fileno… Le pare sul serio che io mi possa chiamar Fileno? Imbecille, imbecille! Neppure il nome ha saputo darmi! […] Mi riscatti lei, subito subito! mi faccia viver lei che ha compreso bene tutta la vita che è in me! [41]
[41] Ibid.
Nel suo libro Pirandello, la follia Elio Gioanola, sottolinea che
La matrice feconda dei personaggi è proprio la debolezza ontologica dell’io, con quelle difese della divisione che proiettano fuori di sé, in mille immagini di identità-differenza, l’impossibile individuo. [42]
[42] E. Gioanola, Pirandello, la follia, op.cit. p. 245
Questi personaggi sono, in realtà, frutto del suo spirito, sono soltanto una proiezione di un mondo del tutto autonomo. Da questa precisa condizione del personaggio Pirandello costruisce la sua idea di rappresentazione fondata sulla contrapposizione tra reale e vero, per cui «l’opera d’arte riuscita è più vera della realtà e destinata a non morire mai» [43]
[43] Ibid.
Un personaggio non nasce senza un motivo, ha su di sé l’incombenza di esprimere il suo “scopo”. Egli, infatti, non ha il compito di portare alla ribalta una storia; il suo scopo è
«testimoniare una crisi di una situazione giunta al limite di rottura». [44] Essendo, ormai, portatore di un caso – come sottolinea lo stesso Gioanola – non percorre più il sentiero della narrativa e della rappresentazione teatrale classica; a stravolgersi, dunque, non è più solo l’immagine stessa del personaggio, il suo modo di presentarsi, ma anche uno degli elementi cardine della letteratura passata: il tempo.
[44] Ivi, p. 245-246.
I personaggi pirandelliani vivono in un indicativo presente – ricordando il personaggio- uomo di Debenedetti -.
Lo stesso dottor Fileno, con il suo “rimedio”, pensa di aver trovato un antidoto per ogni mal d’animo, e che consiste
Nel leggere da mane a sera libri di storia e nel veder nella storia anche il presente, cioè come già lontanissimo nel tempo e impostato negli archivii del passato. [45]
[45] L. Pirandello, La tragedia di un personaggio, op. cit
Sovvertire lo scorrere naturale del tempo. Rifugiarsi nella storia. Come anche farà, in maniera radicale ed estrema, Enrico IV. Gioanola, a riguardo, scrive che
Senza temporalità non è più possibile romanzo in senso proprio, essendo questo essenzialmente sviluppo di una storia. Il tempo è tanto più essenziale quanto più questo vuole essere realistico e il romanzo ottocentesco aveva portato il realismo al culmine, proprio con le poetiche naturalistiche, con cui Pirandello è stato, si direbbe, in contatto fisico. [46]
[46] E. Gioanola, Pirandello, la follia, op. cit., p. 246
Il tempo del romanzo con una progressione temporale ben scandita, con una struttura solida e chiusa, è finito. Ora, il protagonista è un tempo che non scorre più in un’unica direzione.
Si assiste a dei continui salti temporali tra passato e presente, da un ricordo all’altro. Quindi, ci si allontana dal gusto di narrare e di descrivere in senso ottocentesco, ovvero dal realismo narrativo nel suo significato più tradizionale.
Come opportunamente osserva Gioanola, Pirandello
In quanto autore di personaggi, e di personaggi che vengono alla vita fuori e anche contro le intenzioni del loro autore, supera i confini del realismo, pura facendo continuamente i conti con esso. [47]
[47] Ibid.
Il gioco delle apparenze e la relatività del reale pian piano diventano l’asse portante del teatro pirandelliano. Questi traccia, dunque, un solco profondo; da lì in poi il modo di portare sul palcoscenico gli attori e il modo di presentare al pubblico le storie non sarà più lo stesso. Lo scrittore definiva il suo lavoro “teatro allo specchio”, perché in esso lo spettatore, l’attore e il lettore vi si osservano con ansia e con curiosità e spesso non si riconoscono, scrutandosi come se fosse la prima volta.
L’attenzione alla psicologia dei personaggi, accompagnata spesso da un linguaggio convulso, pieno di esclamazioni e agitato, impediscono l’immedesimazione emotiva dello spettatore, volutamente sollevando solo scomode riflessioni. Il grottesco è questo: è portare alle estreme conseguenze l’analisi dei meccanismi della realtà e dissacrare il momento artistico.
Per lungo tempo non si comprese la carica innovatrice contenuta nel teatro pirandelliano, ma nelle sue opere vi si può trovare una lucida e disperata consapevolezza della solitudine dell’uomo contemporaneo.
1.6 L’invasione dei brutti
I personaggi di Pirandello nascono con un tratto distintivo, sono brutti. Tutti presentano, esplicitamente, un’immagine deformata.
Corre in nostro aiuto, nell’analizzare questo aspetto, ancora una volta, Giacomo Debendetti.
Fin qui, si è arrivati a comprendere la metamorfosi che il personaggio protagonista dell’Ottocento letterario ha vissuto, rinascendo a nuova vita in quel personaggio-uomo che ha disimparato a vivere rimanendo intrappolato in uno stato cronico di perplessità.
Debenedetti, nel suo Il romanzo del Novecento, cerca di spiegare il motivo che ha spinto l’autore novecentesco ad infliggere la bruttezza fisica ai suoi personaggi.
Il punto di inizio di questo nuovo modo di disegnare i personaggi, si ha con la fine del naturalismo. E il primo grande crollo avviene con Dostoevskij che «presenta la prima obiezione alla narrativa naturalistica». [48]
[48] G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, op. cit. p. 441
È nella sua opera che, per la prima volta, viene stravolta l’armonia fisica. Ma il romanzo naturalista sopravvive ancora dopo Dostoevskij. L’estinzione definitiva del naturalismo avviene con due autori già precedentemente citati: James Joyce, con la sua poetica delle epifanie, e Marcel Proust, con la sua poetica delle intermittenze del cuore.
Di «epifanie» Joyce parla per la prima volta nel suo primo tentativo di romanzo, da lui condannato e (a quanto pare) in parte distrutto: lo Stefano Eroe […]. La parola epifania viene fuori in una dottrina dell’arte derivata dall’estetica di San Tommaso, che Joyce fa elaborare da Stefano, il protagonista di quel romanzo. Nella Summa, San Tommaso pone tre requisiti della bellezza: l’integrità o perfezione, la simmetria o debita proporzione, e infine, grado supremo, la claritas, che Joyce traduce con la parola radiance, potere irradiante. Le cose si epifanizzano quando rivelano questo potere irradiante. […] È come una nuova, ulteriore comunicativa che gli oggetti improvvisamente acquistano; grazie alla quale, senza che essi mutino il loro sembiante, i loro connotati, ma come per un misterioso, invisibile e tuttavia sensibile animarsi di quei connotati, ci confidano il loro segreto essenziale, il loro senso. [49]
[49] Ivi, pp. 426-427
Anche in Proust succede qualcosa di analogo. E proprio attraverso la descrizione del personaggio visibile che «il romanzo moderno è tormentato dal bisogno di epifanizzare quell’uomo, di scoprire l’invisibile che si annuncia attraverso il visibile». [50]
[50] Ivi, p. 439
È l’alterazione dei tratti fisiognomici dei personaggi a dare inizio alla scoperta dell’invisibile, del debenedettiano oltre.
Dunque, quando si passa dai romanzi ottocenteschi ai romanzi contemporanei, si è colpiti da questo aspetto:
In generale, si vede che dal ritratto dei personaggi scompare ogni traccia di bellezza fisica. Sopratutto dalle loro facce, cioè dalla parte più visibile, scoperta ed espressiva della persona. [51]
[51] Ivi, p. 440
È l’invasione vittoriosa dei brutti, come afferma Debenedetti. La loro avanzata sarà inesorabile e totalizzante, fino ad occupare l’intero territorio letterario.
Così, quando si inizia a leggere un romanzo contemporaneo, si è colpiti dall’assenza di bellezza dei personaggi – o meglio – dall’insistente, quasi maniacale tentativo dell’autore di attirare l’attenzione del lettore su un aspetto fisico sgradevole, di indirizzare lo sguardo verso una piccola deformazione che destabilizzi i canoni della bellezza classica.
Il lettore, dunque, non si troverà più di fronte ad un protagonista-eroe la cui immagine è quasi “divinizzata” e la sua bellezza è spesso sinonimo di “bontà” (nell’immaginario comune, l’eroe è sempre avvolto da un’aurea di bellezza); il nuovo protagonista non è necessariamente bello, anzi, non lo è quasi mai e questa sua nuova immagine è l’espressione visibile di quella crisi dell’Io tanto discussa, di quella incompletezza che attanaglia l’uomo del Novecento.
Sempre Debenedetti, nel suo Il personaggio uomo, scrive:
Dal ritratto dei personaggi scompare, quasi senza eccezione, ogni vestigio di bellezza fisica, specialmente nella faccia, cioè nella parte più espressiva della persona. Se vogliamo essere più cauti, e non generalizzare in modo troppo dogmatico queste prime impressioni, riconosciamo che in certi casi qualche lineamento si salva ancora: gli occhi, la bocca, o il naso, o i capelli, o magari la fronte, ma sempre li accompagna qualche altro lineamento che costituisce una seria obiezione a ogni superstite traccia di avvenenza e all’armonia dell’insieme. [52]
[52] G, Debenedetti, Il personaggio uomo, op. cit. formato Ebook
L’assenza di un’armonia di insieme e la necessità di deturpare la figura umana come testimonianza diretta della presenza, appunto, di un oltre, vero Io dell’uomo, mette in allarme gli spettatori\lettori:
Contrariati e scandalizzati di non trovare più nei personaggi rappresentati dai narratori e dai pittori le figure capaci di far sognare e quasi promettere più dilettuose convivenze e più meravigliosi amori, di lusingare il nostro orgoglio di far parte del genere umano. [53]
[53] Id, Il romanzo del Novecento, op. cit. p. 444
Stava nascendo, dunque, una rivolta contro l’arte borghese percepita in un’accezione negativa la presenza della deformazione fisica: il bello come sinonimo di speranza; il brutto in veste di assassino delle belle arti.
A trasformare in parole questo pensiero comune, fu il critico Ugo Ojetti che nel suo articolo intitolato Il brutto è bello diede voce a ciò che tutti avrebbero voluto dire e che Debenedetti così sintetizza:
Constatava insomma l’increscioso scomparire del piacente, del lusinghiero da quelle che si erano sempre chiamate le arti belle, e il nome ora minacciava di diventare un’ironia, soprattutto particolarmente offensivi in cui quelle arti si mettevano a ritrarre caluniosamente la figura umana. [54]
[54] Ivi, p. 440
Il brutto con la sua manifestazione rivela, quindi, le “storture” della nostra percezione quotidiana del reale.
Questo è il segno inequivocabile di un cambiamento radicale, di un nuovo modo di percepire l’arte e guardare l’essere umano; l’unico modo di portare alla luce quel disagio interiore è affidarsi all’espressione; manifestare in maniera esplicita, drammatica e violenta «il carattere e magari la tipicità delle cose rappresentate.» [55]
[55] Ivi, p. 447
In Italia, è in Federigo Tozzi e Luigi Pirandello che il fenomeno della bruttezza fisica salta aggressivamente agli occhi:
Di Pirandello, mi era capitato quello che fu l’ultimo suo libro di racconti, Una giornata, già uscito postumo. Uno dei punti di partenza mi fu offerto proprio dalla bruttezza dei personaggi , inflitta dall’autore come condanna per un peccato, una trasgressione. […]
Anche Federigo Tozzi, l’altro iniziatore del nuovo romanzo in Italia, infligge ai suoi personaggi, come dicevamo, una bruttezza inesorabile. […]Non occorreva darsi troppa pena per cercarli : essi si trovano ad apertura di pagina. [56]
[56] Ivi, p. 443
Dall’avvocato Neretti del romanzo Il podere, con la sua magrezza alle protagoniste del racconto Pigionali descritte in maniera sgradevole, per arrivare, poi, a Pirandello con Vitangelo Moscarda e il suo naso storto e con Serafino Gubbio che all’inizio dei suoi Quaderni afferma che «c’è un oltre in tutte le cose». E sempre nei Quaderni, nuovamente con Vera Nestoroff, che non riesce riconoscersi sullo schermo cinematografico, Pirandello intuisce la presenza di quella malattia deformante e di quella forza estranea che destabilizza tutte le certezze ben consolidate.
La bruttezza è una maschera che cela un dolore intimo, l’angoscia e la disillusione nella vita. Il brutto è la traccia visibile dell’oltre che abita nel personaggio in una pericolosa simbiosi perturbante.
E il non riconoscersi provoca un senso di orrore. È «l’antro della bestia» [57] di cui parla Pirandello in Non è una cosa seria; l’animale che si nasconde in fondo all’animo dell’uomo, addormentato nelle forme e nelle consuetudini che la società impone, fin quando non viene ‘risvegliato’, ma con i lineamenti e i comportamenti ormai alterati.
[57] L. Pirandello, Non è una cosa seria, Novelle per un anno, op. cit.
Dunque, il corpo e la sua torsione espressionistica stanno a rappresentare una gabbia dove l’oltre è rinchiuso:
Il corpo, solitamente opaco, come il nome tenebra e pietra, maschera, trappola, imprigiona una verità altra che si proietta sull’esistenza, misteriosa, inconoscibile e inafferrabile, come l’ombra. [58]
[58] Graziella Corsinovi, Il corpo e la sua ombra. Studi pirandelliani, Bastogi Editrice italiana, Foggia, 1997, p. 11
Nel suo libro, Graziella Corsinovi indirizza la nostra attenzione su una ossessione pirandelliana: inseguire e catturare l’ombra, in quanto manifestazione visibile di una verità più profonda, metafora dell’oltre capace di far vacillare le fittizie illusioni della realtà.
Come affermato in precedenza, l’ombra è il mezzo che conduce alla consapevolezza di essere diverso da ciò che si è creduto fino a quel momento e che spinge, ad esempio, Mattia Pascal a non poter essere più Adriano Meis; quella consapevolezza che gli viene svelata proprio dalla sua stessa ombra.
L’ombra che, per Corsinovi, rappresenta quello spazio dove risiede tutto il vissuto dei personaggi pirandelliani sotto forma di sogni, incubi, stati di alienazione. Si percepisce, quindi, in Pirandello, l’esigenza di
rappresentare, congiunti nella loro disperante e necessaria antinomia, il corpo e l’ombra, la realtà del fatto e la verità dell’anima. [59]
[59] Ibid.
L’ombra è il lato nascosto delle cose e Pirandello indossa il soprabito da investigatore con l’intento di svelare questo mistero, gettando in campo quella «lanterninosofia» professata ne Il fu Mattia Pascal e ripresa poi nell’Umorismo; quel sentimento che come un lanternino proietta una luce limitata sulla conoscenza, lasciando nel buio una realtà inesplorata. La stessa filosofia si ritrova nel capitolo III del quaderno IV di Serafino Gubbio, dove il signor Cesarino, avendo vissuto «quattro generazioni di lumi», afferma che la luce è una grande invenzione, ma non aiuta a vederci dentro.
Pirandello ha, dunque, intuito che è l’Altro l’agente patogeno responsabile dell’insorgere della bruttezza fisica; l’Altro che viene condannato al silenzio e a rimanere nell’ombra.
Ma è una parte assolutamente viva, questo Altro, «corpo estraneo ineliminabile» [60] e che si agita in noi «come demonio nascosto». [61]
[60] G. Debenedetti, Il personaggio uomo, op. cit., formato Ebook.
[61] Id , Il romanzo del Novecento, op.cit. p. 453
La memoria delle paure, come ha sottolineato Debenedetti, si rapprende in figure che, con il loro solo mostrarsi, fin dai connotati, hanno qualcosa di sinistro, di inquietante, di offensivo, come se la natura e la vita avessero espresso nei tratti di quelle persone un loro desiderio di ferirci, di metterci a disagio, di farci sentire malcapitati in un mondo popolato da gente simile.
La presenza visibile del brutto sarà inevitabile, ripercuotendosi sul personaggio, su quell’esercito di brutti come testimonianza di un altro da sé, di quella presenza incessante di una sofferenza che stravolge la fisionomia.
E quel corpo che rappresenta la realtà visibile, verrà definitivamente deformato dall’oltre, da quell’ombra che è manifesto di una invisibile verità.
Marta Toti
Dall’illusione di conoscere se stessi al riso: galleria dei ritratti grotteschi nelle novelle pirandelliane
Premessa
Capitolo I – Luigi Pirandello e l’analisi del personaggio uomo
Capitolo II – Il riso e la poetica umoristica
Capitolo III – Il personaggio di Pirandello nelle Novelle per un anno
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