Tesi – Ritratti grotteschi nelle novelle pirandelliane – Capitolo III – Il personaggio di Pirandello nelle Novelle per un anno

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Di Marta Toti

A partire dal 1922, Luigi Pirandello cominciò a riunire per pubblicare, nella raccolta Novelle per un anno, un vasto corpus narrativo che copre tutto l’arco della sua vita letteraria e corrisponde ad un progetto ambizioso che prevedeva  ventiquattro volumi contenenti quindici novelle ognuno

Indice Tematiche

Tesi - Ritratti grotteschi nelle novelle pirandelliane - Cap. III

Tesi – Ritratti grotteschi nelle novelle pirandelliane

Dall’illusione di conoscere se stessi al riso: galleria dei ritratti grotteschi nelle novelle pirandelliane

Tesi magistrale in Scienze Pedagogiche
presentata presso l’Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale.

Pubblicato per gentile concessione dell’Autrice cui sono riservati tutti diritti.
È proibita la diffusione in qualsiasi modalità salvo consenso dell’Autrice stessa.

Indice
Premessa
Capitolo I – Luigi Pirandello e l’analisi del personaggio uomo
Capitolo II – Il riso e la poetica umoristica
Capitolo III – Il personaggio di Pirandello nelle Novelle per un anno

Capitolo III – Il personaggio di Pirandello nelle Novelle per un anno

3.1 La novella tra Ottocento e Novecento
3.2 La novella di Luigi Pirandello
3.3 Il riscatto amaro: Ciàula scopre la Luna 
3.4 Tra tragico e comico: La giara
3.5 Il sogno come mezzo di fuga: Tu ridi
3.6 Il personaggio disilluso: Quando si comprende
3.7 Il matrimonio come dovere sociale: Prima notte
3.8 Solitudine e incomunicabilità: L’uomo solo
3.9 La vita come eterno e mutevole divenire: Una giornata

Conclusione

Bibliografia

3.1  La novella tra Ottocento e Novecento 

La novella o il genere breve, ha occupato spesso una posizione secondaria nell’universo dei modelli letterari. Che si chiami fabula milesia, exemplum, novella o racconto i tentativi di descriverne le caratteristiche e darle una definizione chiara sono stati tanti.

Si parta dal suo significato etimologico; il nome proviene dalla parola latina novitas, ovvero annuncio di una cosa nuova. Per Dante Alighieri, una novella, è una “notizia” e «in quanto novità, richiede sempre di essere ricordata attraverso il racconto (orale e scritto), che archivia fatti nuovi e memorabili.» [1]

[1] Elisabetta Menetti, La realtà come Forme e storia della novella italiana, Franco Angeli, Milano, 2015. p.19

Nel suo essere aperta ed irregolare nelle forme e nei contenuti, ha sottoposto il lettore alla possibilità dei suoi continui mutamenti. Negli ultimi due secoli, infatti, emergono riflessioni sulla terminologia e sul carattere del genere breve e in molti si sono cimentati nel descrivere la sua esatta natura.

Per Benedetto Croce la novella non è altro che «uno svago dell’immaginazione». [2]

[2] Benedetto Croce, Poesia popolare e poesia d’arte. Studi sulla poesia italiana dal Tre a Cinquecento, Bari, Laterza, 1957, 94-95.

Italo Calvino analizza la novella partendo dalla rapidità. Infatti, ha l’obbligo della precisione e della concretezza. Il suo tratto peculiare risiede nel concetto di “economia”, sia in termini di contenuti sia in termini di stile.

In Lezioni americane, scrive: «La novella è come un cavallo: un mezzo di trasporto, con una sua andatura, trotto o galoppo, secondo il percorso che deve compiere.» [3]

[3]  Italo Calvino, Lezioni Sei proposte per il nuovo millennio, Milano, Garzanti, 1988, p.40

La novella, quindi, ha la capacità di catturare, in poche pagine, storie e avvenimenti che prescindono dall’essere dipendenti da un tempo definito e dall’essere collocate in un preciso spazio; la novella si rende una creazione di un momento e «il suo nucleo vitale risiede nell’irridescienza del tempo narrativo». [4]

[4] E. Menetti, la realtà come invenzione, op. cit., p.17

Come constata Romano Luperini, [5] fino agli anni Trenta del Novecento, in Italia il termine “novella” prevale sul termine “racconto”, nonostante scrittori come Tarchetti e Fogazzaro, facciano ricorso spesso a quest’ultimo.

[5]  R. Luperini, Il trauma e il caso. Sulla tipologia della novella moderna, in L’autocoscienza del moderno, Napoli, Liguori, 2006, pp. 163-176

Nei primi del Novecento si è portata avanti una riflessione teorica sui tratti distintivi della novella. Fra i primi, Lukacs, ma anche, in Italia, Pirandello e Tozzi. Lukacs, nella sua Teoria del romanzo (1920), avvia una riflessione sulla novella che si concluderà nel 1964 con il saggio Solženitsyn: «Una giornata di Ivan Denisovič». Afferma che il romanzo tende a rappresentare «una totalità degli oggetti, una totalità delle relazioni umane e dei comportamenti nel seno della società borghese», mentre la novella «muove dal caso singolo e, nell’estensione immanente della raffigurazione, resta fermo ad esso». [6] Individua il tema della parzialità come tratto peculiare e distintivo della novella che si contrappone al tema della totalità espresso, invece, dal romanzo.

[6] György Lukács, Solženitsyn: «Una giornata di Ivan Denisovič», in Marxismo e politica culturale, Torino, Einaudi, 1968, 187-188

In Italia, è Pirandello ad intervenire sulla differenza tra romanzo, racconto e novella dapprima in un articolo uscito sulla rivista catanese «Le Grazie» nel 1897, poi nel saggio Soggettivismo e oggettivismo nell’arte moderna, compreso in Arte e scienza del 1908.

Egli nota una assoluta mancanza di ‘tecnicità’ della parola; questa elasticità genera confusione e autorizza l’utilizzo spregiudicato dell’uno o degli altri termini. Vuole, perciò, fissare il senso preciso dei termini novella, romanzo e racconto. In entrambi afferma che il racconto è un genere intermedio tra la novella e il romanzo. Ma Pirandello si oppone a una distinzione puramente esteriore:

“Si suol distinguere, ad esempio, tra novella, racconto e romanzo. Comunemente, una novella troppo lunga, ma non ancor tanto da poterla chiamar romanzo, si suol chiamare racconto; e cosí pure un romanzo breve e tenue, che non si vorrebbe definir novella. Racconto, cosí, verrebbe a essere un che d’intermedio tra novella e romanzo. Che valore possa avere una simile distinzione fondata su la minore o maggior lunghezza d’una narrazione, mi sembra proprio ozioso indugiarsi a rilevare. […] Ogni scrittore, nel trarre comunque dalla vita presente o passata una favola qualsiasi da narrare, sia breve, sia lunga – novella o romanzo – potrà sempre farne un racconto o lungo o breve: questo poco importa; sarà racconto per il modo particolare che adotterà nell’esporlo. Giacché racconto, piú che uno speciale componimento d’arte narrativa, è una maniera d’arte, senz’alcuna determinazione di lunghezza o brevità, indipendente insomma dall’estensione o dalla complessità maggiore o minore della favola.” [7]

[7] L. Pirandello, Soggettivismo e oggettivismo nell’arte moderna, in Arte e scienza, prima pubblicazione: Roma, W. Modes Libraio–Editore, 1908.

Lo scrittore siciliano preferisce rigettare, così, una distinzione basata sulla struttura e ne preferisce una basata su un diverso carattere dell’arte narrativa in cui predomina la parte descrittiva e la rappresentazione è riferita o dall’autore stesso o da un personaggio che parli in prima persona.

Importante, per Pirandello, è la distinzione tra novella e romanzo, sintetizzata come segue: 1) «Ogni letterato nel trarre della vita presente o passata o della propria fantasia una favola qualsiasi, o la considera nel suo complesso, sinteticamente, nei suoi momenti culminanti e più determinanti, e ne farà allora una novella, o la considera in tutti i suoi particolari, analiticamente, per gradi evolutivi, e ne farà allora un romanzo». 2) Mentre il romanzo racconta il progressivo svolgersi del tempo di una storia e «perseguita la realtà fino ne’ suoi più verecondi latiboli», la novella «è osservatrice delle unità». [8]

[8] R. Luperini, L’autocoscienza del moderno, op. cit., p. 167

Una svolta importante per quanto riguarda la narrazione si ha con Verga; siamo già sulla soglia della novella moderna. Il modello con cui il Verismo italiano dovette soprattutto fare i conti fu quello di Zola. L’immagine di Zola che si diffuse fu quella del “romanziere scienziato” in lotta contro le piaghe della società. Ma sarà evidente la profonda differenza che separa il verismo verghiano e il naturalismo di Zola.  La distanza si misura sul piano delle tecniche narrative. In Zola, la “voce” che racconta riproduce il modo di vedere dell’autore, intervenendo spesso con giudizi sulla materia trattata.

In Verga, a partire da Rosso Malpelo e La lupa o in Cavalleria rusticana, la rotta della strategia narrativa è cambiata: l’impersonalità annulla la mediazione di un narratore e la narrazione si fa diretta e oggettiva, mettendo a fuoco singoli episodi.
Al centro della novella verista vi è il trauma, ma, a differenza delle novelle scapigliate che lo affiancano a momenti eccezionali, essa è calata nella quotidianità. Il trauma, appunto, e il perturbante si “normalizzano”.

Proprio dalle posizioni narrative verghiane si arriva a quelle di Pirandello e Tozzi. In Pirandello, infatti, prevale la normalità assurda. Nelle sue opere interviene, spesso, un fattore esterno che sovverte la vita del personaggio: il perturbante, appunto. Ed è proprio questo, l’incidente più comune. Sia in Pirandello sia in Tozzi, il trauma s’interiorizza diventando condizione permanente dell’Io.
Tra il 1880 e il 1920 la novella definisce la sua struttura appropriandosi di un taglio breve, concentrato ed efficace, proprio in virtù delle necessità comunicative del tempo: essa inizierà ad essere pubblicata a puntate sui periodici letterari. Inoltre, peculiare sarà l’attenzione ad importanti e specifici momenti narrativi, anticipando anche quelle che saranno le tecniche cinematografiche.

Dalla metà del Novecento, i modelli di riferimento iniziano a cambiare: da Verga si passa a scrittori con stili e linee di pensiero diversi, come Italo Svevo.
La produzione novellistica di Svevo, che si alternò a quella dei romanzi, inaugura un taglio nuovo, quello analitico. Avremo, con questi scrittori

Una   serie   di   osservazioni   psicologiche   volte   a   ricostruire razionalmente un pulviscolo di movimenti del profondo […]

Si va perdendo, quindi, la drammaticità e la memorabilità verista del primo Novecento. Per Svevo, infatti, la letteratura è una narrazione spietata ed ironica della coscienza moderna.

Narrare non significa più rappresentare il mondo, ma portare alla luce la sprezzante assurdità delle sue leggi.
Il Novecento è il secolo della crisi di ogni certezza positivistica, quindi del trionfo del relativismo; è il palcoscenico di un uomo nuovo, caratterizzato dalla perdita della sua identità e dall’emergere del caos interiore.
È la crisi del debenedettiano “personaggio uomo”, minacciato ed invaso “dall’oltre” che è in lui e che lo sovrasta angosciosamente.
Questi sono anche gli anni in cui il termine novella inizia ad essere sostituito con il termine racconto, che trova un importante manifesto in opere del calibro di Feria d’agosto di Cesare Pavese e Gente di Dublino di James Joyce, costruite puntando sull’esilità della trama, su tematiche legate all’illusione, alla frustrazione dell’uomo e alla fragilità esistenziale.

3.2  La novella di Luigi Pirandello 

A partire dal 1922, Luigi Pirandello cominciò a riunire per pubblicare, nella raccolta Novelle per un anno, un vasto corpus narrativo che copre tutto l’arco della sua vita letteraria e corrisponde ad un progetto ambizioso che prevedeva  ventiquattro volumi contenenti quindici novelle ognuno, con un numero totale di testi che corrispondesse allo stesso numero dei giorni dell’anno. Dei ventiquattro volumi, ne furono pubblicati solo quindici, per un totale di duecentoquarantuno novelle.
Il titolo della raccolta svela un progetto ambizioso. Queste novelle, infatti, sono specchi che riflettono per intero la sua visione amara della vita: ogni giorno ha la sua pena e dunque una novella.

Nelle premessa della raccolta

Raccolgo in un sol corpo tutte le novelle pubblicate finora in parecchi volumi e tant’altre ancora inedite, sotto il titolo Novelle per un anno che può sembrar modesto e, al contrario, è forse troppo ambizioso, se si pensa che per antica tradizione dalle notti e dalle giornate s’intitolarono spesso altre raccolte del genere alcune delle quali famosissime. [… ]
M’affretto ad avvertire che le novelle di questi ventiquattro volumi non vogliono essere singolarmente né delle stagioni, né dei mesi né di ciascun giorno dell’anno. Una novella al giorno, per tutt’un anno, senza che dai giorni, dai mesi o dalle stagioni nessuna abbia tratto la sua qualità. Ogni volume ne conterrà non poche nuove, e di quelle già edite alcune sono state rifatte da cima a fondo, altre rifuse e ritoccate qua e là, e tutte insomma rielaborate con lunga e amorosa cura. In grazia almeno di questa cura, l’autore delle Novelle per un anno spera che i lettori vorranno usargli venia, se dalla concezione ch’egli ebbe del mondo e della vita troppa amarezza e scarsa gioja avranno e vedranno in questi tanti piccoli specchi che la riflettono intera. [9]

[9] L. Pirandello, Novelle per un anno, Scrivere Edizioni, edita da guidaebook.com, formato Ebook

La realtà è scomposta in “tanti piccoli specchi” come frammenti  di una unità perduta. E i temi su cui si concentrano le novelle sono quelli ricorrenti in tutta l’opera pirandelliana: il difficile rapporto fra individuo e società, la percezione della forma come impedimento alla vita, l’impossibilità di stabilire un rapporto con gli altri, l’incapacità di amare e di vivere, la solitudine.

L’infinita molteplicità di situazioni, casi e personaggi impedisce al lettore di individuare un ordine determinato. Il corpus sembra, quindi, riflettere la visione globale del mondo che è propria di Pirandello: non un mondo armonico, ma disgregato in infiniti aspetti precari, il cui senso unitario sembra impossibile da raggiungere.

Pirandello non esamina i fatti straordinari della vita; il suo sguardo si concentra sulla grigia quotidianità. I suoi protagonisti sono gente comune, la cui normalità apparente cela, però, un velo d’inquietudine. Nel tratteggiare il suo variegato campionario di umanità, Pirandello mette in moto la sua poetica umoristica e deforma espressionisticamente i tratti fisici, caricando fino al paradosso i movimenti e i gesti, trasformando i protagonisti in marionette e spingendoli verso la inverosomiglianza e verso l’assurdo. Da questo meccanismo nasce un riso forzato, un riso accompagnato dal “sentimento del contrario”, da una pietà dolente verso una umanità in sofferenza. Ma Pirandello non ride dei suoi personaggi, perché non dimentica la tragedia che si nasconde dietro la loro stranezza crudele e rivelatrice che condiziona i loro comportamenti.

Queste figure dolenti non sono altro che la metafora di una condizione esistenziale assoluta: la “trappola” in cui sono prigionieri i protagonisti è costituita, spesso, da una famiglia oppressiva o da un lavoro meccanico e monotono. Tuttavia, Pirandello si concentra con lucidità sulle convenzioni sociali che vengono imposte all’uomo e che lo costringono ad indossare maschere fittizie. E, all’improvviso, l’insofferenza a lungo covata, esplode in gesti inconsueti e folli o nella fuga mentale o, ancora, in un’estraniazione dalla vita. Ma il meccanismo sociale non può essere messo in questione e l’antieroe pirandelliano finisce con il soffocare la sua ricerca di evasione.
Ai protagonisti, dunque, non sarà concessa nessuna via d’uscita, nessuna possibilità di redenzione.

Pirandello ha spinto il suo sguardo e quello del lettore al di là delle apparenze; l’attenzione che viene traghettata oltre la superficie delle cose consente di cogliere quella verità nascosta, spesso dolorosa e inaccettabile, ma che Pirandello – attraverso i suoi protagonisti – non rinuncia mai a denunciare.

3.3 Il riscatto amaro: Ciàula scopre la Luna 

La novella fu pubblicata sul Corriere della Sera il 29 dicembre 1912 e poi nel volume Le due maschere nel 1924.
L’ambiente in cui si svolge la novella richiama il clima verista: la durezza del lavoro, lo sfruttamento degli operai in una assolata ed incolore Sicilia e

Lo squallore di quelle terre senza un filo d’erba, sforacchiate dalle zolfare, come di tanti enormi formicaj. [10]

[10] L. Pirandello, Ciàula scopre la luna, in Novelle per un anno, op. cit., formato Ebook

Nella narrazione pirandelliana, sembra soprattutto venir fuori una denuncia sociale dalla protesta dei zolfatari contro l’imposizione del soprastante Cacciagallina che, con la pistola in pugno, ordina di continuare a lavorare tutta la notte. Mentre tutti i minatori, però, si rifiutano e tornano in paese, solo il vecchio Zi’ Scarda rimane, insieme al “caruso” Ciàula.
Questa novella offre uno spaccato impietoso e realistico della vita degli operai delle zolfare. Tra questi, Ciàula è un semplice manovale e minorato psichico, oggetto di scherno da parte dei suoi stessi compagni.

Il richiamo verista è, quindi, evidente. Il lavoro nelle miniere e la figura del reietto collocato all’ultimo gradino della scala sociale rimandano a Rosso Malpelo di Verga. Ma anche l’impianto narrativo, attraverso l’immediatezza di un linguaggio parlato, ricorda la regressione del narratore nella realtà popolare rappresentata. Si può dedurre, nonostante la sostanziale differenza di carattere e condizione esistenziale, una somiglianza tra Ciàula e Malpelo. Simili nella loro condizione di “diversi” e fatti oggetto di soprusi e violenze.
Il reietto è Ciàula, un povero ‘scemo’ senza famiglia e senza una casa. Non possiede nulla, solo i suoi vestiti, laceri e sporchi:

Rivestirsi per Ciàula significava togliersi prima di tutto la camicia, o quella che un tempo era stata forse una camicia: l’unico indumento che, per modo di dire, lo coprisse durante il lavoro. Toltasi la camicia, indossava sul torace nudo, in cui si potevano contare a una a una tutte le costole, un panciotto bello largo e lungo,  avuto  in  elemosina;  che  doveva essere stato un  tempo elegantissimo e sopraffino (ora il luridume via aveva fatto una tal roccia, che a posarlo per terra stava ritto. [11]

Ciàula, che si trova a suo agio nell’oscurità protettiva della zolfara, ha paura del buio della notte, e trema al solo pensiero di trovarsi lassù:

Aveva paura, invece, del bujo vano della notte. Conosceva quello del giorno, laggiù, intramezzato da sospiri di luce, di là dall’imbuto della scala, per cui saliva tante volte al giorno, con quel suo specioso arrangolìo di cornacchia strozzata. Ma il buio della notte non lo conosceva. [12]

Ma la sua paura è motivata: uno scoppio nelle gallerie delle miniere aveva ferito ad un occhio Zì Scarda e ucciso il figlio di quest’ultimo. Ciàula era scappato nascondendosi in una cavità lontano da tutti. Quando, a tentoni, riuscì ad uscire dalle gallerie, quella notte buia gli aveva instillato una terribile paura di trovarsi da solo senza vedere nulla:

S’era messo a tremare, sperduto, con un brivido per ogni vago alito indistinto nel silenzio arcano che riempiva la sterminata vacuità, ove un brulichìo infinito di stelle fitte, piccolissime, non riusciva a diffondere alcuna luce. Il bujo, ove doveva essere lume, la solitudine delle cose che restavan lì con un loro aspetto cangiato e quasi irriconoscibile, quando più nessuno le vedeva, gli avevano messo un tale subbuglio l’anima smarrita, che Ciàula s’era all’improvviso lanciato in una corsa pazza, come se qualcuno lo avesse inseguito. [13]

 [11] [12] [13] Ivi, formato Ebook

Si capisce allora che il dover rimanere a scavare nella miniera con Zi’ Scarda diventi un motivo di angoscia per il povero Ciàula, soprattutto quando, schiacciato dal carico pesantissimo che sta trasportando sulle spalle, si avvicina all’ingresso della miniera dove sa che lo coglierà il buio terrificante della notte:

Attraversando le gallerie, quella sera, non gli era venuto il solito verso della cornacchia, ma un gemito raschiato, protratto. Ora, su per la scala, anche questo gemito gli venne meno, arrestato dallo sgomento del silenzio nero che avrebbe trovato nella impalpabile vacuità di fuori. [14]

Ma fuori, nel cielo, è spuntata la luna che illumina, con la sua luce, l’oscurità. Di fronte a quello spettacolo imprevisto, Ciàula cade in ginocchio, sorpreso dalla dolcezza e dalla consolazione che all’improvviso sono sorte in lui:

Restò – appena sbucato all’aperto – sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d’argento. Grande, placida, come in un fresco, luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna. Sì, egli sapeva, sapeva che cos’era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna?
Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra egli la scopriva.. Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la Luna… C’era la Luna! La Luna! [15]

Pirandello, nel descrivere la salita di Ciàula dalla profondità della miniera, simbolicamente vuole rappresentare una nascita; anzi, forse una rinascita a nuova vita. Importanti, infatti, sono le immagini usate dallo scrittore: «Egli veniva su su, dal ventre della montagna». [16] Inoltre le gallerie buie della miniera possono ricordare gli Inferi (non a caso, la miniera stessa, è chiamata «antro infernale»). [17]

[14] [15] [16] [17] Ivi, formato Ebook

Ciàula è “accecato” dalla luce e dalla bellezza della luna. La Luna, non a caso è scritta con iniziale maiuscola: la sua scoperta è il punto culminante della novella e viene percepita dal protagonista come se fosse una presenza divina. L’apparizione lo consola, lo conforta e lo libera dalle angosce anche solo temporaneamente.

L’immagine potentemente evocativa dell’uomo estatico, nella penombra che ora modifica i contorni delle cose, è l’immagine di chi ha scoperto un nuovo valore delle cose.

Il contrasto tra la bellezza stupefacente della Natura notturna e la violenza e le paure della miniera è evidente. Ciàula scopre una nuova realtà, prima mascherata ai suoi occhi.
Ciò che interessa maggiormente Pirandello non è descrivere il funzionamento dei meccanismi sociali, ma descrivere un’esperienza irrazionale: per questo sceglie un’anima sprovvista di consapevolezza e che vive una vita puramente istintiva.
Ma la scoperta della luna ha anche un altro valore simbolico: vuole dimostrare che ogni uomo può riscattarsi, anche solo per un momento, dalla sua condizione infelice quando abbandona il peso dei doveri e si immerge nel “flusso della vita”, più forte dei dolori e delle miserie esistenziali.

3.4 Tra tragico e comico: La giara 

La giara è una novella composta nel 1906 e pubblicata nella raccolta Novelle per un anno nel 1917. In una Sicilia dai rimandi verghiani, i protagonisti sono don Lollò Zirafa, proprietario terriero ricco e avaro, che vede ovunque nemici pronti a rubargli la sua “roba” e Zì Dima, un abile aggiustatore di brocche.

Don Lollò Zirafa ama litigare e trascorre il suo tempo denunciando i malcapitati e dissipando il suo denaro in processi persi in partenza. Anche il legale di don Lollò, che pur arricchendosi grazie ai capricci del suo cliente, arriva al punto di non sopportarlo più:

Per ogni nonnulla, anche per una pietruzza caduta dal murello di cinta, anche per una festuca di paglia, gridava che gli sellassero la mula per correre in città a fare gli atti. Così, a furia di carta bollata e d’onorarii agli avvocati, citando questo, citando quello e pagando sempre le spese per tutti, s’era mezzo rovinato. Dicevano che il suo consulente legale, stanco di vederselo comparire davanti due o tre volte la settimana, per levarselo di torno, gli aveva regalato un libricino come quelli da messa: il codice, perché ci si scappasse a cercare da sé il fondamento giuridico alle liti che voleva intentare. [18]

[18] L. Pirandello, la giara, in Novelle per un anno, op. cit., formato Ebook

Un giorno don Lollò acquista una giara molto grande per contenere l’olio della nuova raccolta, ma si rompe inspiegabilmente a metà. Il ricco don Lollò si vede costretto a rivolgersi quindi all’artigiano Zi’Dima, di cui ovviamente però non si fida. Il metodo che propone, infatti, l’artigiano per riparare la giara è l’utilizzo di un portentoso collante di sua invenzione. Zi’ Dima era

Un vecchio sbilenco, dalle giunture storpie e nodose, come un ceppo antico di olivo saraceno. Per cavargli una parola di bocca ci voleva l’uncino. Mutria o tristezza radicate in quel suo corpo deforme; o anche sconfidenza che nessuno potesse capire e apprezzare giustamente il suo merito d’inventore non ancora patentato. [19]

[19] Ivi, formato Ebook

Don Lollò però vuole di più e chiede che la saldatura sia rinforzata con punti di filo di ferro. L’artigiano, non contento, esegue gli ordini, ma rimane bloccato all’interno della giara.

Ma quanto larga di pancia, tanto quella giara era stretta di collo. Zi’ Dima, nella rabbia, non ci aveva fatto caso. Ora, prova e riprova, non trovava più il modo di uscirne. E il contadino, invece di dargli ajuto, eccolo là, si torceva dalle risa. [20]

[20] Ivi, formato Ebook

Intorno alla giara, oggetto destinato a contenere una grande quantità di olio, simbolo di abbondanza, ruotano due mondi: quello dei contadini che, pur consapevoli della loro condizione di sudditanza, è ridente e festante e quello dei protagonisti dalla condizione sociale così diversa, ma con una personalità simile, portavoce di un profondo disagio esistenziale: don Lollò in perenne ricerca di giustizia e Zi’ Dima stanco della percezione che gli altri hanno di lui. Due personaggi a confronto, ciascuno calato in una condizione di solitudine nella quale cercano di difendere la roba, la proprietà per l’uno, il mastice inventato per l’altro. E con questi due personaggi che Pirandello esprime il tema delle tante verità, una verità che non è mai oggettiva.

L’intento di Zi’ Dima è quello di rompere la giara, per poter uscire. La sua volontà si scontra con quella di don Lollò che non ha nessuna intenzione di rinunciare alla sua giara. Anche questa assurda vicenda concede a don Lollò la possibilità di rivolgersi al suo avvocato, il quale consiglia di liberare il “prigioniero” per non incorrere in guai giudiziari:

— Ma lo sapete come si chiama questo? – gli disse infine l’avvocato.
— Si chiama sequestro di persona!
— Sequestro? E chi l’ha sequestrato? – Esclamò lo – Si è sequestrato lui da sé! Che colpa ne ho io? [21]

[21] Ivi, formato Ebook

Don Lollò, dunque, forte della sua convinzione di essere nel giusto, pretende dall’artigiano di essere risarcito del danno che andrà a causare alla sua giara per poterlo far uscire. Ma Zi’ Dima si rifiuta., anzi

Tratta di tasca con qualche stento la pipetta intartarita, l’accese e si mise a fumare, cacciando il fumo per il collo della giara. Don Lollò ci restò di brutto. Quest’altro caso, che Zi’ Dima ora non volesse più uscire dalla giara, né lui né l’avvocato l’avevano previsto. […]

Ah, sì – – Tu vuoi domiciliare nella mia giara? Testimonii tutti qua! Non vuole uscirne lui, per non pagarla; io sono pronto a romperla! Intanto, poiché vuole stare lì, domani  io lo cito per alloggio abusivo e perché mi impedisce l’uso della giara.

Zi’ Dima caccio prima fuori un’altra boccata di fumo, poi rispose placido:

Nossignore, non voglio impedirle niente, Sto forse qua per piacere? Mi faccia uscire, e me ne vado volentieri. Pagare… neanche per ischerzo, vossignoria! [22]

[22] Ivi, formato Ebook

La situazione giunge ad uno stallo: l’artigiano si ostina a non pagare e, addirittura, preferisce rimanere intrappolato nella giara arrivando anche a divertirsi e ad organizzare una festa con i contadini che erano rimasti lì ad assistere.

Non riuscendo più a sopportare quella situazione, Don Lollò

Si precipitò come un toro infuriato e, prima che quelli avessero tempo di pararlo, con uno spintone mandò a rotolare la giara giù per la costa. Rotolando, accompagnata dalle risa degli ubriachi, la giara andò a spaccarsi contro un olivo.

E la vinse Zi’ Dima. [23]

[23] Ivi, formato Ebook

L’atteggiamento dei due personaggi è un’ottima scusa per intrecciare il serio e i comico. E non è un caso che a spuntarla sia proprio Zi’ Dima, il quale ha saputo ribaltare, umoristicamente, a suo vantaggio una situazione che lo voleva svantaggiato.

A prevalere, ancora una volta, sono i temi più cari a Pirandello: il tema dell’assurdo raccontato dalla vicenda dei due protagonisti, così come l’assenza di un vero e proprio finale, non andando a ribadire chi avesse ragione o torto. O, ancora, il tema della relatività e del caso. Uomini che sono in perenne ricerca della logica degli eventi che, invece, sfugge a qualsiasi analisi. Ma anche, appunto, il comico e il tragico: la comicità data dalla vicenda surreale, dietro la quale si staglia la tragicità della condizione umana.
Pirandello, nell’individuare nelle classi sociali più basse i meccanismi più feroci della società, come si proponeva Verga, anche nella Sicilia contadina riesce a cogliere il grottesco della vita,la casualità che fa saltare ogni idea di mondo ordinato, il gesto folle che scardina ogni logica del reale.

3.5  Il sogno come mezzo di fuga: Tu ridi 

La novella Tu ridi venne pubblicata per la prima volta nel 1912 sul Corriere della Sera per poi essere inserita nella raccolta Tutt’è tre del 1924.

Come molti personaggi pirandelliani, il protagonista della novella è un umile impiegato. Il signor Anselmo conduce una vita triste, piena di obblighi e doveri. Non solo, ma ha anche una moglie isterica, afflitta da mali immaginari e cinque nipotine alle quali deve badare e provvedere, abbandonate dalla madre dopo la morte del marito, il figlio del signor Anselmo.

La vita del protagonista è attanagliata dalla morsa della famiglia dove, come se non bastasse, la stessa moglie lo perseguita con la sua assurda gelosia.

La prima scena della novella si svolge nel cuore della notte. La moglie, innervosita da una risata, sveglia il signor Anselmo:

— Scosso dalla moglie, con una strappata nervosa al braccio, springò dal sonno anche quella notte, il povero signor Anselmo.
— Tu ridi!-
— Stordito, e col naso ancora ingombro di sonno, e un po’ fischiante per l’ansito del soprassalto, inghiottì; si grattò il petto irsuto; poi disse aggrottato:
— .. perdio… anche questa notte?
— Ogni notte! Ogni notte!- muggì la moglie, livida di dispetto [24]

[24] L. Pirandello, Tu ridi, in Novelle per un anno, op. cit., formato Ebook

La donna non riesce a sopportare l’idea che ogni notte suo marito rida di una risata felice e quasi liberatoria. Teme che Anselmo, angosciato da una vita che non gli riserva, ormai, nulla di positivo da molto tempo, possa trovare nei sogni uno svago insieme ad altre donne e trovare una gioia che lei non gli riserva più. Ma è soltanto un’idea, una pura congettura di sua moglie. Infatti, il signor Anselmo non ricorda i sogni che fa ed è convinto, addirittura, che i sogni non trovino spazio nella sua mente e quella risata che la moglie sente ogni notte, sempre alla stessa ora, sia dovuta solamente ad una nuova malattia non ancora classificata.

Le innumerevoli sventure hanno portato il signor Anselmo ad avere una tendenza alla riflessione filosofica, indebolendolo sotto l’aspetto religioso; egli infatti non crede più ai possibili benefici che Dio riserva agli uomini:

Ajutato con tanto impegno dalla sorte, il signor Anselmo era riuscito (sempre per sua maggior consolazione) a sollevar lo spirito a considerazioni filosofiche, le quali, pur senza intaccargli affatto la fede nei sentimenti onesti profondamente radicati nel suo cuore, gli avevano tolto il conforto di sapere in quel Dio, che premia e compensa di là. E non potendo in Dio, non poteva per conseguenza neanche più credere, come gli sarebbe piaciuto, in qualche diavolaccio buffone che gli si fosse appiattato in corpo e si divertisse a ridere ogni notte, per far nascere i più tristi sospetti nell’animo della moglie gelosa. [25]

[25] Ivi, formato Ebook

Potremmo dire che il signor Anselmo appartiene alla schiera dei protagonisti di Pirandello che sono “afflitti” dall’eccessiva lucidità e da una razionalità che li induce a perdere ogni speranza. Tale ragionamento giunge, in maniera naturale, a considerazioni pessimistiche e all’impossibilità di trovare una soluzione al male.
Il rifiuto di Dio da parte del signor Anselmo lo porta, per contrasto, a rifiutare anche il suo opposto, il diavolo appunto, ed allontanare da sé l’idea che quest’ultimo possa impossessarsi di lui ogni notte per rovinare la tranquillità familiare.

Pirandello, abilmente, attraverso l’utilizzo dell’ironia fa emergere la triste condizione da cui è afflitto il protagonista. L’autore non ride di lui e tanto meno vuole suscitare un senso di leggerezza nel lettore ma, sapientemente, descrive la struttura dell’assurdità del destino al quale Anselmo non può sfuggire: una struttura ben definita, nella quale al vertice si inserisce, superficialmente, l’aspetto comico e sul gradino più in basso poggia la riflessione che induce il lettore a porsi delle domande e a comprendere la pena che vive il protagonista. Emerge una figura non comica, non goffa, non tragica, ma l’uno e l’altro insieme:

Era sicuro, sicurissimo il signor Anselmo di non aver mai fatto alcun sogno, che potesse provocare quelle risate. Non sognava affatto! Non sognava mai! Cadeva ogni sera, alla solita ora, in un sonno di piombo, nero, duro e profondissimo, da cui gli costava tanto stento e tanta pena destarsi! Le pàlpebre gli pesavano sugli occhi come due pietre di sepoltura.
E dunque, escluso il diavolo, esclusi i sogni, non restava altra spiegazione di quelle risate che qualche malattia di nuova specie; forse una convulsione viscerale, che si manifestava in quel sonoro sussulto di risa. [26]

[26] Ivi, formato Ebook

Il giorno dopo il signor Anselmo decide di consultare il medico che, a giorni alterni, va a visitare la moglie:

– Dica dottore, può stare che uno rida nel sonno, senza sognare? Forte, sa? Certe risatooòne…
Il giovane medico prese ad esporre al signor Anselmo le teorie più recenti e accontate sul sonno e sui sogni […] e alla fine concluse che – no- non poteva stare. Senza sognare, non si poteva ridere a quel modo nel sonno. [27]

[27] Ivi, formato Ebook

Pirandello cerca di porre il medico saccente in una posizione scomoda, ironizzando sulla sua sapienza che, come in tutti gli uomini di scienza, cerca di convincere di possedere le chiavi che conducono a risposte razionali e di indurre il paziente a credere che sia la medicina l’unica soluzione possibile.
Il mondo delle certezze non rientra nella concezione pirandelliana della vita, dove ogni cosa è soggettiva e di conseguenza incomunicabile.

Ma il signor Anselmo è quasi sollevato nell’essere, almeno in sogno, felice e lontano dalle preoccupazioni della vita, in un luogo in cui i cattivi pensieri non trovano spazio. Egli, infatti, non riesce a spiegare il perché delle risate notturne, in quanto non ricorda quel che sogna, ma spera esistano esperienze che la sua mente crea per allontanarlo, anche per poco, dallo squallore della sua esistenza:

Appena egli chiudeva gli occhi allo spettacolo delle sue miserie, la natura, ecco, gli spogliava lo spirito di tutte le gramaglie, e via se lo conduceva, leggero leggero, come una piuma, pei freschi viali dei sogni più giocondi. Gli negava, è vero, crudelmente, il ricordo di chi sa quali delizie esilaranti; ma certo, a ogni modo, lo compensava, gli ristorava inconsapevolmente  l’animo, perché  il giorno dopo fosse in grado di sopportare gli affanni e le avversità della sorte. [28]

[28] Ivi, formato Ebook

Il protagonista ha nei confronti della natura, pur crudele con lui, perché non gli consente di ricordare i sogni che lo rallegrano di notte, un atteggiamento di gratitudine perché gli da’ la forza, inconsapevolmente, di affrontare le incombenze della vita.

Poi, un giorno, Anselmo ricorda il suo sogno e si accorge, con delusione, che ciò che lo aveva fatto ridere era una stupidaggine:

Gli avvenne una volta, per combinazione, di ricordarsi d’un dei sogni, che lo facevano tanto ridere ogni notte.
Ecco: vedeva un’ampia scalinata, per la quale saliva con molto stento, appoggiato al bastone, un certo Torella, suo vecchio compagno d’ufficio, dalle gambe a roncolo. Dietro al Torella, saliva svelto il suo capo-ufficio, cavalier Ridotti, il quale si divertiva crudelmente a dar col bastone sul bastone di Torella che, per via di quelle sue gambe a roncolo, aveva bisogno, salendo, d’appoggiarsi solidamente al bastone. Alla fine, quel pover’uomo di Torella, non potendone più, si chinava, s’afferrava con ambo le mani a un gradino della scalinata e si metteva a sparar calci, come un mulo, contro il cavalier Ridotti. Questi sghignazzava e, scansando abilmente quei calci, cercava di cacciare la punta del suo crudele bastone nel deretano esposto del povero Torella, là, proprio nel mezzo, e alla fine ci riusciva.
A tal vista, il signor Anselmo, svegliandosi, col riso rassegnato d’improvviso sulle labbra, sentì cascarsi l’anima e il fiato. Oh Dio, per questo dunque rideva? Per siffatte stupidaggini?
Contrasse la bocca, in una smorfia di profondo disgusto, e rimase a guardare innanzi a sé. [29]

[29] Ivi, formato Ebook

Il sogno da cui Anselmo si aspettava dei piaceri, non gli riserva quelle gioie e si rivela una grande delusione. Neanche il sogno gli regala un momento di sfogo:
il sogno, come la realtà in cui vive, è un’illusione.

La vita del signor Anselmo è solo questo: condannato ad essere vittima di un’esistenza che pesa sulle sue spalle e lo induce, umoristicamente, a sperare in una fuga consolatrice che, però, anche alla fine si scopre essere fittizia, futile.
Eppure, quella risata che risuona nel cuore della notte, rappresenta per il protagonista l’unico mezzo di fuga per evadere dalla vita; la narrazione, infatti, fin dall’inizio è impregnata dal pensiero che sta alla base della poetica pirandelliana: il sentimento del contrario.

Il tema del riso non rappresenta un tentativo di suscitare comicità, ma attraverso esso fa emergere il lato penoso della vita del protagonista, fino al crollo dell’ultima grande illusione.
Il sentimento del contrario induce il lettore alla presa di coscienza della vera esistenza del personaggio, provocando non più un senso di comicità, ma un senso di compassione.
Ma il signor Anselmo non si lascia abbattere dalla notizia e, per l’ennesima volta, accorre in suo aiuto quella riflessione filosofica che riesce a fargli superare quest’ultimo disinganno, convincendolo che il sogno, seppur banale, rappresenta l’unica possibilità di fuga che si può concedere.

Se non che, lo spirito filosofico, che già da parecchi anni gli discorreva dentro, anche questa volta gli venne in soccorso, e gli dimostrò che, via, era ben naturale che ridesse di stupidaggini. Di che voleva ridere? Nelle sue condizioni, bisognava pure che diventasse stupido, per ridere.
Come avrebbe potuto ridere altrimenti? [30]

[30] Ivi, formato Ebook

3.6 Il personaggio disilluso: Quando si comprende 

Quando si comprende è pubblicata per la prima volta nel 1918 nella raccolta Un cavallo nella luna, poi in Donna Mimma e, infine, inserita ancora nel 1925, nel secondo volume della raccolta Novelle per un anno.
Il momento più drammatico dei personaggi pirandelliani è quello in cui si lacera la maglia delle convinzioni, delle proprie opinioni ufficiali. È il caso di questa novella, in cui già lo stesso titolo suggerisce una disillusione netta ed immediata.
Una madre prossima a salutare il suo unico figlio che deve partire per il fronte, entra con il marito in un compartimento di un treno, dove si riflettono il dolore e le angosce di tutto un paese allo scoppio della prima guerra mondiale:

I passeggeri arrivati da Roma col treno notturno alla stazione di Fabriano dovettero aspettar l’alba per proseguire in un lento trenino sgangherato il loro viaggio su per le Marche.
All’alba, in una lercia vettura di seconda classe, nella quale avevano già preso posto cinque viaggiatori, fu portata quasi di peso una signora così abbandonata nel cordoglio che non si reggeva più in piedi.
Lo squallor crudo della prima luce, nell’angustia opprimente di quella sudicia vettura intanfata di fumo, fece apparire come un incubo ai cinque viaggiatori che avevano passato insonne la notte, tutto quel viluppo di panni, goffo e pietoso, issato con sbuffi e gemiti su dalla banchina e poi su dal montatojo. [31]

[31] L. Pirandello, Quando si comprende, in Novelle per un anno, op. cit., formato Ebook

La signora è prostrata dal dolore mentre il marito cerca di spiegare agli altri passeggeri della carrozza le ragioni del suo stato d’animo, chiedendo la loro comprensione :
E volle spiegare ai compagni di viaggio che la moglie era da compatire  perché  si  trovava  in  quello stato  per  l’improvvisa  e imminente partenza dell’unico figliuolo per la guerra. Disse che da vent’anni non vivevano più che per quell’unico figliuolo. Per non lasciarlo solo, l’anno avanti, dovendo egli intraprendere gli studii universitari, s’erano trasferiti da Sulmona a Roma.
Scoppiata la guerra, il figliuolo, chiamato sotto le armi, s’era iscritto al corso accelerato degli allievi ufficiali; dopo tre mesi, nominato sottotenente di fanteria e assegnato al 12° reggimento, brigata Casale, era andato a raggiungere il deposito a Macerata, assicurando loro che sarebbe rimasto colà almeno un mese e mezzo per l’istruzione delle reclute; ma ecco che, invece, dopo tre soli giorni lo mandavano al fronte. Avevano ricevuto a Roma il giorno avanti un telegramma che annunziava questa partenza a tradimento. E si recavano a salutarlo, a vederlo partire. [32]

[32] Ivi, formato Ebook

Ma durante il viaggio, i passeggeri non compatiscono la sorte del marito, anzi, si mostrano freddi e stizziti dal tentativo dello stesso di dimostrare di possedere un dolore differente, quasi unico. Il tentativo di persuasione non funziona. Gli stessi passeggeri, a turno, prendono la parola illustrando il proprio punto di vista, o meglio, la propria storia:

Ma ringrazii Dio, caro signore, che parta soltanto adesso il suo figliuolo! Il mio è già su dal primo giorno della Ed è stato ferito, sa? già due volte. Per fortuna, una volta al braccio, una volta alla gamba, leggermente. Un mese di licenza, e via di nuovo al fronte.
Un altro disse:
Ce n’ho due, E tre nipoti. [33]

[33] Ivi, formato Ebook

Ad interrompere la discussione è il vero protagonista della novella. L’uomo ha già perso il proprio figlio in guerra, ma lungi dal mostrarsi afflitto, si mostra al contrario quasi esaltato per il sacrificio supremo offerto alla patria:

I figliuoli vengono, non perché lei li voglia, ma perché debbono venire; e si pigliano la vita; non solo la loro, ma anche la nostra si pigliano. Questa è la verità. E siamo noi per loro; mica loro per noi. E quand’hanno vent’anni… ma pensi un po’,  sono tali e quali eravamo io e lei quand’avevamo vent’anni. C’era nostra madre; c’era nostro padre; ma c’erano anche tant’altre cose, i vizii, la ragazza, le cravatte nuove, le illusioni, le sigarette, e anche la patria, già, a vent’anni, quando non avevamo figliuoli; la patria che, se ci avesse chiamati, dica un po’, non sarebbe stata per noi sopra a nostro padre, sopra a nostra madre? Ne abbiamo cinquanta, sessanta, ora, caro lei: e c’è pure la patria, sì; ma dentro di noi, per forza, c’è anche più forte l’affetto per i nostri figliuoli. […]
Se la patria c’è, se è una necessità naturale la patria, come il pane che ciascuno per forza deve mangiare se non vuol morir di fame, bisogna che qualcuno vada a difenderla, venuto il momento. E vanno essi, a vent’anni, vanno perché debbono andare e non vogliono lagrime. Non ne vogliono perché, anche se muojono, muojono infiammati e contenti. (Parlo sempre, s’intende, dei buoni figliuoli!) Ora, quando si muore contenti, senz’aver veduto tutte le brutture, le noje, le miserie di questa vitaccia che avanza, le amarezze delle disillusioni, o che vogliamo di più? Bisogna non piangere, ridere… o come piango io, sissignori, contento, perché mio figlio m’ha mandato a dire che la sua vita – la sua, capite? quella che noi dobbiamo vedere in loro, e non la nostra – la sua vita lui se l’era spesa come meglio non avrebbe potuto, e che è morto contento, e che io non stessi a vestirmi di nero, come difatti lor signori vedono che non mi sono vestito. [34]

[34] Ivi, formato Ebook

Di fronte alla moglie, quest’uomo indossa volontariamente una maschera; ha sacrificato suo figlio alla patria e si è costruito una mitologia ideale di questa morte attraverso l’esaltazione dell’amor patrio. Non solo, costruisce una pseudo denuncia dell’orrore di chi trasferisce i figli in se stesso, facendo fatica a comprendere il dolore di quella madre. Il vecchio padre ritiene perciò che, venuto il momento, sia necessario mandare qualcuno a difendere il Paese, anche con il rischio che muoia, eventualità che a suo dire non deve essere fonte di dolore, ma di contentezza, in quanto sarà stata comunque una vita ben spesa, senza disillusioni.

L’uomo, dunque, sta cercando di convincersi ancora e di convincere gli altri che la sua verità è universale e condivisibile. Che sono loro a sbagliare nel soffrire. Ma questa verità è solo la sua. Ed è significativo il modo in cui Pirandello descrive questo personaggio: «Ansimava, e pareva gli dovessero schizzar fuori, quegli occhi, dalla interna violenza affannosa d’una vitalità esuberante, che il corpaccio disfatto non riusciva più a contenere.» [35] Quindi, come un uomo che cerca con tutte le sue forze di trattenere dentro di sé la vera presa di coscienza della sua situazione, comprendendo, cioè, di aver perso un figlio indipendentemente dalle sue vuote giustificazioni.

[35] Ivi, formato Ebook

Così la donna che da tempo cercava

In tutto ciò che il marito e gli altri le dicevano per confortarla e indurla a rassegnarsi, una parola, una parola sola che, nella sordità del suo cupo dolore, le destasse un’eco, le facesse intendere come possibile per una madre la rassegnazione a mandare il figlio, non già alla morte, ma solo a un probabile rischio di vita. […]
Le parole di questo viaggiatore, adesso, la stordirono, la sbalordirono. Tutt’a un tratto comprese che non già gli altri non sentivano ciò che ella sentiva; ma lei, al contrario, non riusciva a sentire qualcosa che tutti gli altri sentivano e per cui potevano rassegnarsi, non solo alla partenza, ma ecco, anche alla morte del proprio figliuolo.[…]
Se non che, all’improvviso, vide dipingersi sul volto di quei cinque viaggiatori lo stesso sbalordimento che doveva esser sul suo, allorquando, proprio senza che ella lo volesse, come se veramente non avesse ancora inteso né compreso nulla, saltò su a domandare a quel vecchio:
– Ma dunque… dunque il suo figliuolo è morto?
Il vecchio si voltò a guardarla con quegli occhi atroci, smisuratamente sbarrati. La guardò, la guardò e tutt’a un tratto, a sua volta, come se soltanto adesso, a quella domanda incongruente, a quella meraviglia fuor di posto, comprendesse che alla fine, in quel punto, il suo figliuolo era veramente morto per lui, s’arruffò, si contraffece, trasse a precipizio il fazzoletto dalla tasca e, tra lo stupore e la commozione di tutti, scoppiò in acuti, strazianti, irrefrenabili singhiozzi. [36]

[36] Ivi, formato Ebook

Dunque, il protagonista recita una parte dietro la quale si cela un’unica certezza da lui rimossa: il figlio è morto.

Il confronto con gli altri, il ruolo che si è faticosamente costruito, è accettabile fin quando segue un copione ben scritto. Nel momento in cui la farsa viene tradita e l’incomunicabile viene detto, è sufficiente una banale ma sincera affermazione, come quella che pronuncia la madre, a destabilizzare le certezze e a riportare in superficie tutto il rimosso. È «lo strappo nel cielo di carta» [37] del signor Anselmo Paleari, attraverso il quale il protagonista della novella comprende coscientemente di aver perso il figlio. Si giunge, così, alla certezza che il figlio è veramente morto con il conseguente il trauma della perdita dell’identità.

[37] Id., Il fu Mattia Pascal, op. cit., pp. 123-124

Non avere più il figlio significa non avere più la persona in grado di dargli una realtà, quella «reciprocità dell’illusione». [38]

[38] Id., I pensionati della memoria, op. cit., formato Ebook

Questa novella è, forse, anche autobiografica: l’autore siciliano ebbe sotto le armi nella Prima Guerra Mondiale due figli: il primogenito Stefano, volontario nel luglio del ’15, fatto prigioniero, internato prima a Mauthausen e poi a Plan in Boemia e il terzo, Fausto.
Alla fine sarà l’uomo a capire tutto l’orrore della guerra. Quel viaggio, quel treno ha una valenza fortemente simbolica: il viaggio come mezzo rivelatore attraverso il quale il personaggio, finalmente, “comprende”.

3.7 Il matrimonio come dovere sociale: Prima notte 

Prima notte viene pubblicata per la prima volta nel 1900. Nel 1922 fu inclusa come seconda novella nella prima raccolta Scialle nero di Novelle per un anno.
La visione amara che Pirandello ha della vita coinvolge, ancora una volta, la famiglia e, di conseguenza, i rapporti matrimoniali. Il matrimonio, anzi, rappresenta la trappola per eccellenza.
Alla base dell’unione matrimoniale, infatti, non c’è quasi mai l’amore o, se c’è,  è destinato inevitabilmente a finire, soffocato dal peso dei doveri e dalle responsabilità che la società impone.
In questa novella, Pirandello pone l’attenzione proprio su questi aspetti: la società come opprimente forza motrice dei rapporti umani, se pur costruiti ad arte per diventare una rotella di un ingranaggio alienante.

Le protagoniste sono Mamm’Antò e sua figlia Marastella. È il giorno del matrimonio della figlia, ma fin dalle prime righe si evince che non si tratta di un matrimonio voluto dalla stessa sposa. Per volontà della madre, già molto anziana, Marastella deve sposarsi per potersi garantire un futuro dignitoso:

Quasi quasi non pareva più lei, quel giorno, così tutta vestita di nuovo, e faceva una curiosa impressione a sentirla parlare come sempre. Le vicine la lodavano, la commiseravano a gara. Ma la figlia Marastella, già parata da sposa con l’abito grigio di raso (una galanteria!) e il fazzoletto di seta celeste al collo, in un angolo della stanzuccia addobbata alla meglio per l’avvenimento della giornata, vedendo pianger la madre, scoppiò in singhiozzi anche lei.
– Maraste’, Maraste’, che fai?
Le vicine le furono tutte intorno, premurose, ciascuna a dir la sua:
– Allegra! Oh! Che fai? Oggi non si .. Sai come si dice? Cento lire di malinconia non pagano il debito d’un soldo.
– Penso a mio padre! – disse allora Marastella, con la faccia nascosta tra le mani. [39]

[39] Id., Prima notte, in Novelle per un anno, op., cit., formato Ebook

Ma Marastella non piange per l’assenza del padre e con un flashback ricorda cosa è successo sette anni prima:

Era ancora viva, in tutta la gente di mare, la memoria di questo naufragio. E ricordavano che Marastella, accorse con la madre, tutt’e due urlanti, con le braccia levate, tra il vento e la spruzzaglia dei cavalloni, in capo alla scogliera del nuovo porto, su cui i cadaveri dei tre annegati erano stati tratti dopo due giorni di ricerche disperate, invece di buttarsi ginocchioni presso il cadavere del padre, era rimasta come impietrita davanti a un altro cadavere, mormorando, con le mani incrociate sul petto:
– Ah! Amore mio! amore mio! Ah, come ti sei ..
Mamm’Anto’, i parenti del giovane annegato, la gente accorsa, erano restati, a quell’inattesa rivelazione. E la madre dell’annegato che si  chiamava  Tino  Sparti  (vero  giovane  d’oro,  poveretto!) sentendola gridar così, le aveva subito buttato le braccia al collo e se l’era stretta al cuore, forte forte, in presenza di tutti, come per farla sua, sua e di lui, del figlio morto, chiamandola con alte grida:
– Figlia! Figlia!
Per questo ora le vicine, sentendo dire a Marastella: «Penso a mio padre», si scambiarono uno sguardo d’intelligenza, commiserandola in silenzio. No, non piangeva per il padre, povera ragazza. [40]

[40] Ivi, formato Ebook

Il segreto irrompe tra la piccola folla accorsa alla tragedia. L’uomo che amava, Tino Sparti, è morto ed ora deve sposare un uomo più grande di lei contro la sua volontà. Piange, dunque, in apparenza la perdita del padre, ma le sue lacrime sono rivolte al suo amato defunto. L’uomo che sta per sposare, d’altro canto, ha anche lui una sua storia tragica. Anche Lisi Chirico ha perso sua moglie e si risposa «più per forza che per amore, dopo un anno appena di vedovanza, perché aveva bisogno d’una donna lassù, che badasse alla casa e gli cucinasse la sera». [41]

[41] Ivi, formato Ebook

I personaggi sono entrambi afflitti, avviliti, ancora innamorati di persone ormai defunte, ma decidono di sposarsi, per comodità, per avere la sicurezza economica lei, e per avere qualcuno che badi alle faccende domestiche lui. Hanno l’uno bisogno dell’altra, ma non vorrebbero averne.

Marastella e Don Lisi si sposano con una cerimonia che sembra più un corteo funebre:

Si misero in via. Pareva un mortorio, anziché un corteo nuziale. E nel vederlo passare, la gente, affacciata alle porte, alle finestre, o fermandosi per via, sospirava: – Povera sposa! [42]

[42] Ivi, formato Ebook

Nel rievocare il suo passato, Mariastella ricorda anche i momenti fondamentali del suo passato recente: la resistenza all’imminente matrimonio e il suo arrivo nella nuova casa. Ma non è una casa come le altre. Don Lisi, infatti, è il custode del cimitero; di quel cimitero dove sono sepolti suo padre e il suo amato. Ma anche la moglie dello stesso don Lisi. La nuova casa viene quindi vissuta come luogo angoscioso. È la vista del cimitero a spaventare Marastella. Ma ha paura anche di rimanere dentro la sua nuova casa:

Marastella restò presso la  porta, che la  madre, uscendo, aveva raccostata, e con le mani sul volto si sforzava di soffocare i singhiozzi irrompenti, quando un alito d’aria schiuse un poco, silenziosamente, quella porta. Ancora con le mani sul volto, ella non se n’accorse: le parve invece che tutt’a un tratto – chi sa perché – le si aprisse dentro come un vuoto delizioso, di sogno; sentì un lontano, tremulo scampanellio di grilli, una fresca inebriante fragranza di Si tolse le mani dagli occhi: intravide nel cimitero un chiarore, più che d’alba, che pareva incantasse ogni cosa, là immobile e precisa. [43]

[43] Ivi, formato Ebook

Dall’essersi rinchiusa nel  suo spazio, all’improvviso Marastella sente  il bisogno di “apertura”. Il tentativo di don Lisi di chiudere provoca in lei una reazione: il gesto di don Lisi è inaspettato e Marastella lo confonde con un impacciato tentativo di arrivare ad un contatto fisico. Marastella, rivela così che non ha paura né del cimitero né del silenzio e della solitudine. Ha paura di don Lisi, O meglio, ha paura che lui voglia sostituirsi al suo amato defunto. Sente, quindi, il desiderio di uscire e di raggiungere la tomba di suo padre (ma è solo una velata richiesta di raggiungere la tomba del suo amato):

Lisi Chìrico si recò lentamente a richiudere il cancello; stava per rientrare, quando se la vide venire incontro, come impazzita tutt’a un tratto.
– Dov’è, dov’è mio padre? Ditemelo! Voglio andare da mio padre
– Eccomi, perché no? è giusto; ti ci conduco, – le rispose egli – Ogni sera, io faccio il giro prima d’andare a letto. Obbligo mio. Questa sera non lo facevo per te. Andiamo. Non c’è bisogno di lanternino. C’è la lanterna del cielo. […]
– Qua, – disse il Chìrico, indicando una bassa, rustica tomba, su cui era murata una lapide che ricordava il naufragio e le tre vittime del – C’è anche lo Sparti, – aggiunse, vedendo cader Marastella in ginocchio innanzi alla tomba, singhiozzante. – – Tu piangi qua… Io andrò più là; non è lontano…
La luna guardava dal cielo il piccolo camposanto su l’altipiano. Lei sola vide quelle due ombre nere su la ghiaja gialla d’un vialetto presso due tombe, in quella dolce notte d’aprile.
Don Lisi, chino su la fossa della prima moglie, singhiozzava:
– Nunzia’, Nunzia’, mi senti? [44]

[44] Ivi, formato Ebook

Ecco che, proprio quando la distanza tra loro è massima e l’essere estranei è palese, finalmente si trovano insieme, «uniti da ciò che li separa, la nostalgia». [45]

[45] Franco D’Intino, L’antro della bestia, Le novelle per un anno di Luigi Pirandello, Salvatore Sciascia editore, 1992, 74

L’amore può essere nutrito solo fuori dalla famiglia che rappresenta sempre il luogo dell’incomunicabilità. E il matrimonio è un vincolo sociale più che sentimentale. Pirandello ha un senso acutissimo della crudeltà che domina i rapporti sociali e, anche per esperienza personale, la società – incluso il primo nucleo sociale, quello della famiglia – gli appare come una costruzione artificiosa e falsa che isola irreparabilmente l’uomo.

Insieme, Marastella e don Lisi piangono e soffrono, per motivi diversi, ma sotto la stessa luna, a pochi passi l’uno dall’altra. E in quel cimitero, luogo in cui il tempo umano svanisce, trovano un punto di congiunzione. Qui si conserva il passato e, anche, la felicità di entrambi.

3.8 Solitudine e incomunicabilità: L’uomo solo 

L’uomo solo è una novella pubblicata nel 1911 e dà il titolo alla quarta raccolta inserita nel 1922 nelle Novelle per un anno. 

La solitudine è la costante caratteristica dei personaggi di tutte le quindici novelle della raccolta. Una solitudine disperata, che già dalla novella iniziale, L’uomo solo appunto, aleggia sugli uomini. Vedovi o abbandonati dalle mogli, non riescono ad accettare la loro condizione e si ritrovano al tavolino di un caffè:

Là attorno al tavolino, dopo i saluti, raramente scambiavano tra loro qualche parola. Sorseggiavano una piccola Pilsen, succhiavano qualche sciroppo con un cannuccio di paglia, e stavano a guardare, a guardar tutte le donne che passavano per via, sole, a coppie, o accompagnate dai mariti: spose, giovinette, giovani madri coi loro bambini; e quelle che scendevano dalla tranvia, dirette a Villa Borghese, e quelle che ne tornavano in carrozza, e le forestiere che entravano al grande albergo dirimpetto o ne uscivano, a piedi, in automobile. [46]

[46] L. Pirandello., L’uomo solo, in Novelle per un anno, op. cit., formato Ebook

I protagonisti sono quattro uomini: padre e figlio, i Groa, Mariano e Torellino e due amici del padre, Filippo Romelli e Carlo Spina.
Si ritrovano tutti i giorni intorno ad un tavolino non per discutere, ma per rimanere in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri e nelle proprie pene, ad osservare le donne che passano davanti a loro.
L’incomunicabilità e, di conseguenza, la solitudine, si percepisce già dalle prime righe. Ognuno osserva quelle donne per un motivo, che è proprio e di nessun altro, quindi impossibile da condividere.

Filippo Romelli è

Il vedovo, piccolino di statura, pulito, in quel suo abito nero da lutto ancora senza una grinza, preciso in tutti i lineamenti fini, d’omettino bello vezzeggiato dalla moglie, si recava tutte le domeniche al camposanto a portar fiori alla sua morta, e più degli altri due sentiva l’orrore della propria casa attufata dai ricordi, dove ogni oggetto, nell’ombra e nel silenzio, pareva stesse ancora ad aspettare  colei  che  non  vi  poteva  più  far  ritorno,  colei  che  lo accoglieva ogni volta con tanta festa e lo curava e lo lisciava e gli ripeteva con gli occhi ridenti come e quanto fosse contenta d’esser sua. [47]

Carlo Spina, invece, «vecchio scapolo, cominciava a soffrire del vuoto della sua vita, in una camera d’affitto, tra mobili volgari, neppur suoi». [48]

[47] [48] Ivi, formato Ebook

Mariano Groa

Guardava  le  donne  con  occhiacci  feroci,  quasi  se  le  volesse mangiare. […]
Sapeva da tant’anni che la moglie – vezzosa donnettina dal nasino ritto, due fossette impertinenti alle guance e occhietti vivi vivi, da furetto – lo tradiva. Alla fine, un brutto giorno, era stato costretto ad accorgersene, e s’era diviso  da lei legalmente. Se n’era pentito subito dopo; ma lei non aveva più voluto saperne, contenta delle duecento lire al mese ch’egli le passava per mezzo del figliuolo, il quale andava a visitarla ogni due giorni. [49]

[49] Ivi, formato Ebook

Tre uomini con storie diverse, ma con un unico filo conduttore: l’assenza dell’amore di una donna. Il dolore diviene, ogni giorno, sempre più pressante e soffocante tanto da renderli irrequieti. Soprattutto lo Spina, che manifesta apertamente la sua insofferenza mentre osserva passeggiare ogni tipo di donna. Lui che vuole “riavere” sua moglie e usa suo figlio, Torellino, come messaggero durante le visite che fa a sua madre. Lo vizia e non gli fa mancare nulla, sperando in una redenzione della madre, ovvero di convincerla (e di convincersi) che lui è un uomo buono, in grado di prendersi cura del figlio e che, quindi, da non merita di essere messo all’angolo e di subire i suoi tradimenti.

Torellino soffre di questa condizione, di essere usato come “oggetto” dal padre per riconquistare sua moglie:

Era  un  tormento  per  Torellino![…]  Tanto  più  che  poi  quelle ambasciate non servivano a nulla, perché già più volte la madre, irremovibile, gli aveva fatto rispondere che non ne voleva nemmeno sentir parlare. E che altro tormento ogni qual volta ritornava da quelle visite! Il padre lo aspettava a piè della scala, ansante, la faccia infiammata e gli occhi acuti e spasimosi, lustri di lagrime. Subito, appena lo vedeva, lo assaliva di domande:
– Com’è? com’è? che t’ha detto? come l’hai trovata?
E a ogni risposta, arricciava il naso, chiudeva gli occhi, divaricava le labbra, come se ricevesse pugnalate.
– Ah, sì, tranquilla? Non dice niente? Ah, dice che sta bene così? E tu, tu che le hai detto?
– Niente, io, papà…
– Ah, niente, è vero? E si mordeva le mani dalla rabbia; poi prorompeva:
– Eh sì! eh sì! Seguitate! Seguitate! È .. Seguita così, tu pure, caro! Sfido… Che vi manca? C’è il bue qua, che lavora per voi… Seguitate, seguitate senza nessuna considerazione per me! Ma non lo capisci, perdio, che io non posso più vivere così? Che ho bisogno d’ajuto? Che io così muojo, non lo capisci? Non lo capisci?
– Ma che ci posso fare io, papà? – si scrollava Torellino, alla fine,
– Niente! Niente! Seguita! – riprendeva lui, ingozzando le lagrime. [50]

[50] Ivi, formato Ebook

Un giorno, dopo che il figlio si rifiuta di fare d’ambasciatore per il padre, Groa si ritrova a passeggiar con Romelli e Spina sul Lungotevere. I tre hanno una discussione animata che ha come tema, come ogni volta, le donne:
Il Romelli aveva sugli occhi un fazzoletto listato di nero e singhiozzava. Tutti e tre andavano ad appoggiarsi alla spalletta del Lungotevere. – Ma stupido! Perché? – gridava lo Spina, scotendo per un braccio il Romelli. – Tanto carina! Tanto graziosa!
E il Romelli, tra i singhiozzi:
– Impossibile! Impossibile! Tu non puoi .. Il pudore! La santità della casa! Lo Spina allora si volgeva al padre.[…]
Il padre stava a guardar lo Spina con occhi sbarrati, feroci; all’improvviso lo afferrava per il bavero della giacca, gli dava un poderoso scrollone e lo mandava a schizzare lontano; poi, balzando sul parapetto dell’argine gridava con le braccia levate, enorme:
– Ecco, si fa così!
E giù, nel fiume. Un tonfo. Due gridi, e un terzo grido, da lontano, più acuto, del figlio che non poteva accorrere, con le gambe quasi stroncate dal terrore.

Alla base di tutto c’è la consapevolezza di una mancanza di condivisione con gli altri. Impossibile è uscire dalla propria condizione e Pirandello, abile ritrattista della condizione umana, nelle sue novelle ci pone sempre le possibili vie d’uscita che l’uomo ha a disposizione: la follia, l’accettazione passiva di indossare una maschera, la morte come forza liberatrice.
Il signor Groa sceglie quest’ultima opzione. La morte. Non riesce più a sopportare il peso della sua condizione, il peso dell’ennesimo rifiuto della moglie. È il male moderno, la malattia terrificante che avvolge gli uomini in un vuoto senza fondo, dove finiscono col perdere anche se stessi, persino la vita.

Dunque, questa è una novella dominata dal motivo della solitudine, ma anche dell vuoto esplicitamente espresso nel rapporto tra padre e figlio, così fisicamente vicini seduti al tavolino del caffè, ma in realtà lontanissimi e chiusi nella loro incomunicabile solitudine. Ognuno ha la sua verità che nasce dal modo soggettivo di vedere le cose, da ciò deriva l’inevitabile incomunicabilità tra gli uomini.
L’incomunicabilità e la solitudine sono due facce di una stessa medaglia attaccata al collo degli uomini, drammaticamente incapaci di comunicare pensieri, sentimenti e desideri.

3.9 La vita come eterno e mutevole divenire: Una giornata

È una novella del 1935, pubblicata sul Corriere della Sera e dà il titolo alla quindicesima raccolta pubblicata postuma nel 1937, l’ultima delle Novelle per un anno. 
Una giornata è l’odissea di un anonimo nessuno che, pur continuando ad esistere, non si riconosce più nella sua stessa vita. La novella è costruita su un monologo nel quale confluiscono sequenze, allo stesso tempo, narrative e riflessive.

Infatti, si apre con il protagonista che, strappato dal sonno, si trova buttato fuori dal treno, di notte e in una città sconosciuta:

Strappato dal sonno, forse per sbaglio, e buttato fuori dal treno in una stazione di passaggio. Di notte; senza nulla con me.
Non riesco a riavermi dallo sbalordimento. Ma ciò che più mi impressiona è che non mi trovo addosso alcun segno della violenza patita; non solo, ma che non ne ho neppure un’immagine, neppur l’ombra confusa d’un ricordo. [51]

[51] Id., Una giornata, in Novelle per un anno, op. cit., formato Ebook

Non ricorda nulla di sé, della propria vita. La confusione ottenebra non solo quanto è appena accaduto, ma avvolge ogni cosa; egli non sa chi sia, da dove sia partito, dove sia diretto. Mentre cammina allucinato per la città ignota, ai primi barlumi dell’alba, si accresce ancor più la sua incertezza riguardo alla propria esistenza, alla propria materialità:

Nel bujo, non riesco a discernerne il nome. La città mi è però certamente ignota. Sotto i primi squallidi barlumi dell’alba, sembra deserta.  Nella  vasta  piazza  davanti  alla  stazione  c’è  un  fanale ancora acceso. Mi ci appresso; mi fermo e, non osando alzar gli occhi, atterrito come sono, dall’eco che hanno fatto i miei passi nel silenzio, mi guardo le mani, me le osservo per un verso e per l’altro, le chiudo, le riapro, mi tasto con esse, mi cerco addosso, anche per sentire come sono fatto, perché non posso più essere certo nemmeno di questo: ch’io realmente esista e che tutto questo sia vero. [52]

[52] Ivi, formato Ebook

La gente, però, mostra di riconoscerlo. L’incontro con la folla non lo scuote dal suo stato di incoscienza. Si domanda se stanno salutando lui o se stanno salutando il vestito che sta indossando:

Non sono sicuro dell’abito che ho addosso; mi sembra strano che sia mio; e ora mi nasce il dubbio che salutino quest’abito e non me. E io intanto con me, oltre a questo, non ho più altro! [53]

[53] Ivi, formato Ebook

L’idea che la gente passi e dirigendosi consapevolmente verso una meta conosciuta, lo turba; ancor di più il loro saluto. E il suo interrogativo su chi stanno realmente salutando, la sua persona o “l’abito” che quella persona indossa, è il punto focale della novella: la crisi d’identità dell’uomo moderno che non è “uno”, ma “centomila” e, quindi, “nessuno”. L’identità non è più riducibile all’unità, ma poggia sul criterio di relatività. L’abito è visto dal protagonista-narratore come la maschera pirandelliana.

Il momento che apre uno spiraglio per ricordare la sua identità è il ritrovamento nella tasca della giacca di «una bustina di cuojo», [54] al cui interno vi è una foto stropicciata di una bella ragazza in costume:

Ammirandola, pur con una certa pena, non so, quasi lontana, sento che mi viene da essa l’impressione, se non proprio la certezza, che il saluto di queste braccia, così vivacemente levate nel vento, sia rivolto a me. Ma per quanto mi sforzi, non arrivo a riconoscerla. [55]

[54] [55] Ivi, formato Ebook

Nessuna certezza. Solo la semplice deduzione del narratore che la foto trovata nelle sue tasche ritrae la sua fidanzata. Ad essere protagonista è, ancora, il vuoto.
Ricontrolla le tasche e questa volta trova un biglietto di una banca che un ristoratore, presso cui si era recato per mangiare, non può accettare perché fuori corso da lungo tempo, invitandolo a farselo cambiare in una banca lì vicina:

Ci vado, e tutti anche in quella banca si mostrano lieti di farmi questo  favore.  Quel  mio  biglietto  –  mi  dicono  –  è uno dei pochissimi non rientrati ancora in banca, la quale da qualche tempo a questa parte non dà più consenso a biglietti di piccolissimo taglio. Me ne danno tanti e poi tanti, che ne resto imbarazzato e quasi oppresso. [56]

[56] Ivi, formato Ebook

Da come viene trattato in banca e dalle persone del ristorante – con rispetto e cortesia – comprende di essere, in realtà, una persona ben inserita nella società. Ma il personaggio- narratore è come se si vedesse dall’esterno; uno spettatore non pagante che assiste alle sue stesse vicende, descrivendole.

Appare successivamente un autista che accompagna il protagonista a casa. Anche la casa borghese sottolinea l’eccellente inserimento nella società. Ma ancora non ricorda:

Mi ci sento estraneo, come un intruso. Come questa mattina all’alba la città, ora anche questa casa mi sembra deserta; ho di nuovo paura dell’eco che i miei passi faranno, muovendomi in tanto silenzio. [57]

[57] Ivi, formato Ebook

Una casa antica, immersa in un’atmosfera rarefatta e onirica. Una casa in cui egli si sente un estraneo.
Cammina nella casa e apre degli usci senza seguire una schema logico, ma prosegue a tentoni sempre con la vana speranza di trovare delle risposte. E

Resto stupito di trovar la camera illuminata, la camera da letto, e, sul letto, lei, quella giovine del ritratto, viva, ancora con le due braccia nude vivacemente levate, ma questa volta per invitarmi ad accorrere da lei e per accogliermi tra esse, festante. È un sogno?
Certo, come in un sogno, lei sul quel letto, dopo la notte, la mattina all’alba, non c’è più. Nessuna traccia di lei. E il letto. Che fu così caldo nella notte, è ora, a toccarlo, gelato, come una tomba. [58]

[58] Ivi, formato Ebook

La casa il giorno prima era stata vista e vissuta come l’allegoria della vita, ora il protagonista si trova immerso in una fredda solitudine.
Si specchia e si vede invecchiato; la vita è trascorsa nello spazio di una notte.
Gli vengono annunciati i figli, ma nel momento in cui li osserva vede diventare vecchi anch’essi, mentre i nipoti si trasformano in uomini:

E guardate, guardate quelli che or ora sono entrati da quell’uscio bambini: ecco, è bastato che si siano aprressati alla mia poltrona: si son fatti grandi. […]
Mi vien l’impeto di balzare in piedi: ma debbo riconoscere che veramente non posso più farlo. E con gli stessi occhi che avevano poc’anzi quei bambini, ora già così cresciuti, rimango a guardare finché posso, con tanta tanta compassione, ormai dietro a questi nuovi, i miei vecchi figliuoli. [59]

[59] Ivi, formato Ebook

 

 

Alla fine della novella vi è un ulteriore distorsione temporale, un’accelerazione che in poche righe racchiude un’intera vita che sta giungendo al termine.
Il tempo, dunque, assume una dimensione del tutto soggettiva. La vicenda si svolge nell’arco di una giornata: nella prima parte della novella il tempo è scandito in modo cronologicamente preciso; nella seconda parte, invece, il tempo accelera e perde ogni connotato realistico, mentre la vita si consuma sotto gli occhi dello stesso protagonista.  È un tempo interiore, un tempo di chi vede la vita nel suo fluire e non riesce a fissarla in una forma fissa.

Inoltre, il senso di estraneità verso una vita non sua si trasforma in inquietudine esistenziale: una stazione deserta, una città sconosciuta popolata da uomini che sembrano automi, una casa fredda, un letto gelato come una tomba.
Con l’aiuto del monologo interiore, Pirandello riesce magistralmente a tratteggiare il senso di smarrimento.

Una delle più intense novelle di Pirandello, rientra in quella produzione novellistica surreale che risale al suo ultimo periodo, dove a prevalere sono le tendenze irrazionalistiche, puntando a stabilire un contatto con l’Essere, a rivelare una verità attraverso forma vaghe e indefinite.

Questa novella è, certo, una metafora della vita e del rapido fuggire del tempo.
Disorientato, senza memoria e guidato  solo da indizi frammentati, neanche quella bellissima donna – che gli dà sì un senso di appartenenza – riesce a condurlo verso qualcosa di conoscibile. Tutto rimane sospeso.
L’uomo, dunque, è inconoscibile, incompreso ed escluso. Ma, soprattutto, impossibilitato a conoscere sé stesso.
L’assenza di quell’evento che risveglia il protagonista come da un lungo sonno, presente spesso nelle sue novelle (come, ad esempio, il fischio di un treno che risveglia il signor Belluca), è determinante. Vi è solo un processo investigativo di un’anima travolta da ciò che accade. Il protagonista è immerso in una situazione sospesa tra esistenza reale e la sua rappresentazione: tra veglia cosciente e sogno.

Conclusioni

 Il miglior modo di concludere questo mio tentativo di tratteggiare una panoramica sui mille volti del grottesco dei protagonisti pirandelliani è dare, ancora una volta, la parola allo stesso Pirandello che, attraverso Vitangelo Moscarda, in poche righe riesce a racchiudere tutto il suo pensiero riguardo la condizione umana:

Voi credete di conoscervi se non vi costruite in qualche modo? E ch’io possa conoscervi, se non vi costruisco a modo mio? E voi me, se non mi costruite a modo vostro? Possiamo conoscere soltanto quello a cui riusciamo a dar forma. Ma che conoscenza può essere? E forse questa forma la cosa stessa? Sí, tanto per me, quanto per voi; ma non così per me come per voi: tanto vero che io non mi riconosco nella forma che mi date voi, né voi in quella che vi do io; e la stessa cosa non è uguale per tutti e anche per ciascuno di noi può di continuo cangiare, e difatti cangia  di continuo.Eppure, non c’è altra realtà fuori di questa, se non cioè nella forma momentanea che riusciamo a dare a noi stessi, agli altri, alle cose. La realtà che ho io per voi è nella forma che voi mi date; ma è realtà per voi e non per me; la realtà che voi avete per me è nella forma che io vi do; ma è realtà per me e non per voi; e per me stesso io non ho altra realtà se non nella forma che riesco a darmi. E come? Ma costruendomi, appunto.Ah, voi credete che si costruiscano soltanto le case? Io mi costruisco di continuo e vi costruisco, e voi fate altrettanto. E la costruzione dura finché non si sgretoli il materiale dei nostri sentimenti e finché duri il cemento della nostra volontà. E perché credete che vi si raccomandi tanto la fermezza della volontà e la costanza dei sentimenti? Basta che quella vacilli un poco, e che questi si alterino d’un punto o cangino minimamente, e addio realtà nostra! Ci accorgiamo subito che non era altro che una nostra illusione.

Uno, nessuno e centomila, op. cit., pp. 36-37

L’uomo pirandelliano vive dunque, nel relativismo, è soggetto al caso che lo rende una marionetta e, teatralmente, si immerge in una solitudine incomunicabile. È vittima tra le vittime di una esistenza crudele. Si sente costretto dalle convenzioni e dalle immagini che gli vengono imposte dall’esterno e che ha giocoforza interiorizzato; forme bloccate rispetto al fluire della vita, che lo conducono ad una crisi d’identità. Da vero protagonista del Nocecento letterario, l’uomo pirandelliano non troverà mai una via d’uscita definitiva alla sua tragica condizione esistenziale.

Bibliografia 

Primaria 

  • Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, introduzione di Silvio Parrella, cura di Antonio Gagliardi, Feltrinelli Editore, Milano,
  • Id., L’Umorismo, Garzanti Editore, Milano, 2011.
  • Id., Uno, nessuno e centomila, a cura di Marziano Guglielminetti, Mondadori Editore, Milano
  • Id., Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Francesco Libri Editore, 2012, formato
  • Id., Novelle per un anno, Scrivere Edizioni, 2012, formato
  • Id., Enrico IV, prima edizione digitale 2013, edizione Pillole Bur, Gennaio 2007, formato Ebook.
  • Id., Il turno, Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 2012.
  • Id., Sei personaggi in cerca di autore, A pubblic domain book, fotmato Ebook.
  • Id., La tragedia di un personaggio, formato Ebook.
  • Id., oggettivismo e oggettivismo nell’arte moderna, in Arte e scienza, prima pubblicazione: Roma, W. Modes Libraio–Editore, 1908.

Secondaria 

  • Henri Bergson, Il Saggio sul significato del comico, Laterza, Roma-Bari, 2017.
  • Italo Calvino, Lezioni Sei proposte per il nuovo millennio, Milano, 1988.
  • György Lukács, Solženitsyn: «Una giornata di Ivan Denisovič», in Marxismo e politica culturale, Torino, Einaudi,
  • Sigmund Freud, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, Newton Compton Editori, Roma,

Di consultazione 

  • Benedetto Croce, Poesia popolare e poesia d’arte. Studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento, Laterza, Bari,
  • Giacomo Debenedetti, Il personaggio uomo, Il Saggiatore r.l., Milano, 2016, formato Ebook.
  • Id., Il romanzo del Novecento, Garzanti, Milano, 2010.
  • Elio Gioanola, La narrativa tra ‘800 e ‘900, Svevo e Pirandello, Faenza,
  • Id., Pirandello, la follia, Jaca Book, Milano, 1997.
  • Franco D’Intino,  L’antro  della  bestia,  Le  novelle  per  un  anno  di  Luigi Pirandello, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta,
  • Silvana Cirillo (a cura di), Il comico nella letteratura Teorie e poetiche, Donzelli Editore, Roma, 2005.
  • Romano Luperini, L’autocoscienza del moderno, Liguori Editore, Napoli,
  • Elisabetta Menetti, La realtà come Forme e storia della novella italiana, FrancoAngeli, Milano, 2015.
  • Giovanni Macchia, Pirandello o la stanza della tortura, Arnoldo Mondadori Editore, Milano,
  • Walter Pedullà, Le armi del Narratori italiani del Novecento, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2001.
  • Andrea Battistini (a cura di), Profili di storia letteraria, di Marina Polacco, Il Mulino, Bologna, 2011.
  • Tommaso Scappaticci, Tra Novecento e Duemila: indagini e letture, Editrice Garigliano, Cassino,
  • Carlo Di Lieto, Pirandello, Binet e “Les altérations de la personnalité”, Gruppo Editoriale Esselibri,
  • Da L’enigma di Pirandello, atti del Congresso Iternazionale, Ottawa, 24-26 ottobre
  • Graziella Corsinovi,  Il  corpo  e  la  sua    Studi  pirandelliani,  Bastogi Editrice Italiana, Foggia, 1997.
  • Id., Pirandello e l’espressionismo, Tilgher-Genova, 1979.

 

Sitografia

unità.tv
pirandelloweb.com
www.classicitaliani.it

Marta Toti

Dall’illusione di conoscere se stessi al riso: galleria dei ritratti grotteschi nelle novelle pirandelliane

Premessa
Capitolo I – Luigi Pirandello e l’analisi del personaggio uomo
Capitolo II – Il riso e la poetica umoristica
Capitolo III – Il personaggio di Pirandello nelle Novelle per un anno

Indice Tematiche

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