Di Gisella Padovani.
«Io tengo conto del sentimento comune che si ha della morte, ma ne do anche un’interpretazione nuova e originale. Già sviluppai questo mio concetto in una novella che s’intitolava Quando si comprende…»
I temi della maternità, della guerra, della morte
in alcuni testi narrativi e teatrali di Luigi Pirandello
Il 12 ottobre del 1923, al Teatro Quirino di Roma, va in scena per la prima volta La vita che ti diedi, «tragedia in tre atti» [1] di Luigi Pirandello.
[1] La definizione, fornita dallo stesso Pirandello che qualificò come «tragedia» anche il suo Enrico IV, è contenuta nel testo di un’intervista in cui lo scrittore dichiarò di avere imperniato La vita che ti diedi su un’inedita interpretazione del fenomeno della morte: «Io tengo conto del sentimento comune che si ha della morte, ma ne do anche un’interpretazione nuova e originale. Già sviluppai questo mio concetto in una novella che s’intitolava Quando si comprende. Ed affermavo che la morte di una persona cara non si comprende subito. […] E piangiamo un morto perché esso non può dare più a noi alcuna vita. Questo senso della morte è nuovo come concezione», in Cronache del teatro. Pirandello parla della sua ultima tragedia,”La vita che ti diedi”, in «Gazzetta del Popolo», Torino, 17 giugno 1926.
Alda Borelli interpreta il ruolo di Donn’Anna Luna, un tipo femminile complesso e inquietante, difficilmente riconducibile ai modelli suggeriti dalla casistica letteraria: la donna ossessivamente ed esclusivamente vincolata al ruolo di madre, isolata su un piano di assolutezza emblematica che le consente di trascendere il tempo e la realtà.
La pièce è ambientata in una villa solitaria della campagna toscana. Nel testo drammatico, la didascalia che annuncia la prima apparizione della protagonista ne pone subito in rilievo l’eccezionalità:
[…] bianca e come allucinata, avrà negli occhi una luce e sulle labbra una voce così «sue» che la faranno quasi religiosamente sola tra gli altri e le cose che la circondano. Sola e nuova. E questa sua “solitudine” e questa sua “novità” turberanno tanto più, in quanto si esprimeranno con una quasi divina semplicità, pur parlando ella come in un delirio lucido che sarà quasi l’alito tremulo del fuoco interiore che la divora e si consuma così [2].
[2] L. Pirandello, La vita che ti diedi, in Maschere nude, a cura di A. D’Amico, con la collaborazione di A. Tinterri, vol. III, Milano, «I Meridiani» Mondadori, 2004, vol. III, p. 259.
Tutto ruota intorno al ritratto di una madre che rifiuta la morte fisica del suo unico figlio. Piuttosto che procurarle un senso di privazione o di perdita, l’evento luttuoso consente a Donn’Anna di riappropriarsi pienamente del suo ruolo materno, pericolosamente intaccato nel momento in cui il giovane, sette anni prima, si era allontanato spiritualmente e materialmente dalla casa natale per andare alla conquista di un’indipendenza affettiva:
DONN’ANNA […] Mio figlio, voi credete che mi sia morto ora, è vero? Non mi è morto ora. Io piansi invece, di nascosto, tutte le mie lagrime quando me lo vidi arrivare: – (e per questo ora non ne ho più!) – quando mi vidi ritornare un altro che non aveva nulla, più nulla di mio figlio [3].
[3] Ivi, p. 263.
Al cospetto del cadavere di Fulvio, Donn’Anna riacquista la possibilità di una gestione totale dell’immagine di lui e, paradossalmente consapevole della propria condizione alienata, formula l’ambizioso progetto di sfidare il potere della morte, ostinandosi in una finzione che appare scandalosa e sacrilega a chi, come Don Giorgio e Donna Fiorina, si fa portavoce della morale comune.
Sul personaggio eslege che agendo «diversamente dagli altri» [4] entra in conflitto con la realtà esterna e con le norme comportamentali codificate, ricade inevitabilmente la condanna alla solitudine e all’emarginazione.
Se il parroco Don Giorgio manifesta il timore che «a sviarsi così dagli altri, dagli usi, ci si possa smarrire, e… e senza neanche trovar più compagni al dolore nostro» [5], Donna Fiorina rimane addirittura inorridita dai farneticamenti della sorella.
[4]Ivi, p.255. [5]Ibidem
L’isotopia semantica del testo si avvia a una svolta fondamentale a metà del secondo atto, con l’entrata in scena della compagna di Fulvio, Lucia Maubel, che attende un bambino da lui. Donn’Anna la coinvolgerà nella sua strategia di iperdeterminazione del ruolo materno e la utilizzerà come polo necessario per stabilire la tensione fantasmatica in forza della quale far rivivere il figlio.
Dal personaggio di Donn’Anna a questo punto si sprigiona una complessa trama di allusioni e rimandi decifrabili in relazione al codice assiologico in cui si riassume un superbo e disperato ateismo materialistico e a quello mitico-archetipico che conferisce al contesto situazionale un’aura di sacralità attribuendo, in chiave simbolica, valenze ctonie alla protagonista.
Complementare e integrativa rispetto al ruolo detenuto dalla Madre in lotta contro la Morte, appare la funzione assegnata a Lucia, donna fragile, educata all’accettazione della supremazia maschile, avvezza suo malgrado alla sottomissione e all’obbedienza. A lei, che da lunghi anni cova un «intimo e oscuro sentimento d’odio» [6] verso il marito «cinico» [7], «sprezzante» [8], «solo attento agli affari» [9], e che ha resistito all’inferno della prigione coniugale soltanto perché Fulvio le «dava aria da respirare fuori di quella bruttura» [10], la nuova maternità frutto dell’adulterio appare adesso come strumento privilegiato con cui approdare all’individuazione di una prospettiva liberatoria.
A differenza di Donn’Anna, Lucia si piega di fronte alla realtà della morte di Fulvio, ma proprio questa realtà le consente di infrangere le norme della moralità borghese: «Ma là, io non torno! non torno, sai! – Non è più possibile per me! – Non posso! Non posso e non voglio! Come vuoi che faccia più, ormai?» [11].
[6] [7] [8] [9] Ivi, p. 289. – [10] Ivi, p. 290. [11] Ivi, p. 302.
Sono parole da cui trapelano i segni di una consapevolezza acquisita. La decisione di evadere dal ghetto familiare traduce l’esigenza, sollecitata in Lucia dal colloquio con Donn’Anna, di recuperare la propria autenticità esistenziale, prima annullata nella silenziosa acquiescenza alle convenzioni, ora siglata nella sacralità di un ruolo materno totalmente sganciato dalle strutture socio-giuridiche, risolto in se stesso e alimentato da un sentimento panico, primordiale, cosmico della natura femminile. I personaggi di Donn’Anna e di Lucia perdono gradualmente il loro spessore di reale fisicità e assurgono a paradigmi, si spostano verso il piano dell’esemplarità simbolica. Il senso profondo dell’opera va colto pertanto nel vagheggiamento di una maternità affrancata dall’istituto della famiglia e dal sistema delle forme organizzative imposte dalla società di tipo patriarcale.
È significativo che la struttura topografica del testo privilegi lo spazio chiuso, limitato, di una villa isolata da cui spira – come leggiamo nella prima didascalia – «un senso di pace esiliata dal mondo» [12]: il milieu che fa da sfondo al dramma sembra propiziare una magica regressione all’alveo materno, a un’intimità calda e viscerale che protegga dalle aggressioni del mondo esterno e dal distruttivo fluire del tempo.
«Anche la luce che entra da un’ampia finestra», avverte l’autore, «pare provenga da una lontanissima vita» [13].
[12]Ivi, p. 251. [13]Ibidem.
L’opposizione iconografica e semica luce vs buio ha un evidente valore metafisico. Al regime notturno corrisponde in questo caso l’immersione nel profondo, la catabasi verso il luogo della primigenia armonia cosmica. A segnalare il processo psichico di ritorno alla «Grande Madre» concorre anche l’immagine della luna, contemplata con incantato stupore dal vecchio giardiniere Giovanni che, come già aveva fatto Fulvio prossimo alla morte, cerca di carpirle messaggi arcani.
La presenza della luna, non riducibile a semplice stereotipo letterario associato all’idea dell’abbandono ipnagogico all’abbraccio rassicurante della quiete serotina, transcodifica un apporto simbolico e rimanda a quella forma metastorica dell’immaginario antropologico che anticamente si era concretizzata nel culto misterico di Iside, dea della maternità e custode del regno dei trapassati: unica intermediaria, pertanto, tra la vita e la morte [14].
[14] Con l’avvento dell’età tolemaica il culto di Iside, divinità egiziana, si diffuse in tutto il bacino del Mar Mediterraneo. In Sicilia le pratiche cultuali riferite alla dea si assimilarono a quelle relative alla venerazione di Cibele, Demetra, Cerere resistendo fino al III secolo d.C. e configurandosi come ultimo baluardo pagano contro il cristianesimo. A Demetra furono dedicati nell’isola siti religiosi in cui si celebravano annualmente le feste antesforie, anacalutterie e tesmoforie, di origine eleusina.
A materializzarsi nella figura di Donn’Anna e per riflesso in quella di Lucia, è l’emblema della femminilità primordiale intesa come fonte dell’esistenza, come incarnazione umana dell’energia vitale della natura, anteriore a ogni principio della coscienza morale e sociale. Il dissidio tra la Madre Assoluta, sentimentalmente dominatrice, possessiva fino ad assumere una statura mitica, e l’ordine dei valori costituiti in cui tutti sogliono riconoscersi, può essere interpretato come opposizione di un mutterrecht a una «cultura del padre», nella prospettiva ormai vulgata di Johann Jacob Bachofen. L’opera del giurista svizzero (Das Mutterrecht, Stuttgart, 1861) e, negli anni immediatamente successivi, i contributi degli antropologi John Ferguson McLennan (Primitive Marriage, London, 1865) e Lewis Henry Morgan (Ancient Society, New York, 1877), ipotizzando l’esistenza di una primitiva organizzazione fondata sul diritto materno e sulla discendenza matrilineare, avevano impresso una svolta innovativa alle indagini scientifiche sul problema del matriarcato, accendendo una querelle destinata a protrarsi sino ai primi decenni del nuovo secolo. Le tesi di Bachofen penetrarono, seppure con notevole ritardo, anche in Italia, dove furono strumentalizzate in senso politico.
A rinfocolare le dispute su un supposto, antico primato della madre ctonia, contribuì soprattutto padre Agostino Gemelli, francescano di fede fascista, medico psicologo, rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore da lui fondata nel 1921. Proprio all’altezza di quella data Gemelli, contestando energicamente una proposta di introduzione del divorzio in Italia, insorse contro le giustificazioni scientifiche addotte da pensatori socialisti, sulla scia di Friedrich Engels e August Bebel, a sostegno delle loro teorie concernenti l’origine della famiglia e il potere femminile [15].
[15] A. Gemelli, L’origine della famiglia. Critica della dottrina evoluzionista del socialismo ed esposizione dei risultati delle ricerche compiute secondo il metodo psicologico-storico, Milano, Vita e Pensiero, 1921.
Il personaggio di Donn’Anna Luna impone quindi il riferimento a coordinate culturali, storiche, ideologiche all’interno delle quali il dibattito sul matriarcato, intenso e molto acceso negli anni Venti, si pone come dato emergente e immediatamente rilevabile. Ma per chiarire le istanze genetiche profonde della pièce pirandelliana sarà opportuno osservare anche che il prototipo della donna-madre, già operante nell’opera di Verga (dove però la figura materna, depositaria di valori salvifici e redentivi, si lega indissolubilmente alla religione del focolare domestico), è insistentemente evocato nella letteratura siciliana del Novecento: basti pensare, per esempio, a Conversazione in Sicilia (1937) di Elio Vittoríni, percorso – come è stato ben mostrato da Antonio Di Grado – da un’intensa nostalgia per il mondo delle Madri e per i suoi contenuti astrattamente pre-storici e pre-politici [16];
[16] A. Di Grado, Il silenzio delle Madri, Catania, Prisma, 1980.
al Ratto di Proserpina (1954) di Pier Maria Rosso di San Secondo; o, ancora, alle zone più innovative della produzione di Giuseppe Bonaviri (L’enorme tempo, 1976; L’incominciamento, 1983), dominate dalla mitica presenza di una «Madre Tempo» di illimitata potenza, incarnazione della memoria universale, emblema dell’«incominciamento» di tutte le cose.
A prescindere dalle suggestioni che Pirandello può aver tratto dal dibattito teorico sulla civiltà matriarcale, la tendenza a imprimere una forte connotazione simbolica alla figura materna e ad accentuarne le valenze archetipiche rappresenta nell’ambito della produzione letteraria isolana una costante, un Grund Thema che affonda le sue radici in credenze religiose ataviche e nel patrimonio etnico, folclorico, mitologico, oltre che nelle stesse strutture psicologiche, del popolo siciliano.
Con La vita che ti diedi la drammaturgia pirandelliana si apre già a quella prospettiva irrazionalistica ed esoterica che qualificherà il Teatro dei Miti, in cui confluiranno valori arcaico-rurali e superstizioni magico-religiose connesse ai simboli ancestrali della donna-madre, fascinosa entità ctonia che antepone alle leggi patriarcali del dovere il principio naturale della forza generatrice. L’archetipo della «Madre Assoluta», già affiorante nel personaggio di Donn’Anna Luna, acquisterà un altissimo potenziale semantico nei Miti pirandelliani, caricandosi di nuovi e più arditi investimenti magico-sacrali [17].
[17] Su questo argomento cfr. S. Micali, Miti e riti del moderno. Marinetti, Bontempelli, Pirandello, Firenze, Le Monnier, 2002.
Spera, nella Nuova colonia, sopravviverà solo perché riscattata dalla maternità. Quando l’amante, nell’intenzione di abbandonarla, le vorrà strappare il figlio dalle braccia, la natura si leverà in difesa della donna e con una potente suggestione scenografica il dramma si chiuderà sull’isola scossa dal terremoto e sull’effigie dell’unica superstite, la madre, freneticamente avvinghiata al suo bambino.
Come la protagonista del primo Mito, anche Sara nel Lazzaro e la Madre nella Favola del figlio cambiato, approdando alla totale identificazione con la germinalità procreatrice e con la vittoriosa integralità agreste, celebreranno il trionfo di quel «principio tellurico» che Bachofen aveva posto a fondamento della civiltà matriarcale di tipo demetrico [18].
[18] «Nel compiere la sua funzione la donna rappresenta dunque la terra. Essa è la materia terrena stessa. […] La materia della terra, intesa nella sua funzione materna, è il luogo della generazione […]. Il diritto materno è il diritto della vita materiale, il diritto della terra, dalla quale la vita deriva la sua origine. Viceversa il diritto paterno è il diritto della nostra natura immateriale, incorporea. […] Il diritto materno caratterizza l’umanità e la sua concezione religiosa in un periodo che concepiva la materia, ossia la terra, come la sede più certa della forza materiale. Il diritto paterno caratterizza invece un periodo in cui, secondo quanto Plutarco ascrive a merito di Anassagora, accanto alla materia si è posto un artefice» (cfr. Il potere femminile. Storia e teoria, a cura di E. Cantarella, trad. di A. Maffi, Milano, Il Saggiatore, 1977, p. 77-80. Il volume offre una parziale traduzione in italiano di Das Mutterrecht).
La scelta “mitica” scaturisce nel Pirandello maturo dall’intensificarsi dell’esigenza di esplorare «il mistero stesso ed il senso ultimo della vita e della morte» [19].
[19] A. Meda, Lazzaro e la riscrittura pirandelliana del mito biblico, in «Quaderni d’italianistica», XIV, 1, 1993, p. 54.
Un’esigenza che il cataclisma generato dalla conflagrazione bellica ha certamente rafforzata. È stato acutamente osservato da Gaspare Giudice che la guerra «tocca l’arte di Pirandello in profondità. Non è ardito affermare che gli esiti estremi del suo teatro avranno la loro segreta origine storica nel capovolgimento di valori prodotto dalla strage inutile e irragionevole.
Così è (se vi pare) nasce nel pieno della guerra e i Sei personaggi seguiranno di poco la sua fine» [20].
[20] G. Giudice, Luigi Pirandello, in Storia generale della letteratura italiana, a cura di N. Borsellino e W. Pedullà, vol. XI, prima parte, Milano, Motta, 2004, p. 314. A tal proposito Guido Nicastro ha recentemente ricordato che in un’intervista a Marcello Gallian apparsa il 18 novembre 1934 sul periodico romano «Quadrivio», alla quale Gaspare Giudice fa riferimento nel suo volume del 1963 (Luigi Pirandello, Torino, UTET), lo scrittore affermò: «Il mio è stato un teatro di guerra. La guerra ha rivelato a me stesso il teatro» in Introduzione, in L. Pirandello,Maschere nude. Opere teatrali, tomo I, a cura di G. Nicastro, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, p. 24.
Almeno in un caso, il primo conflitto mondiale è la fonte tematica alla quale l’invenzione drammaturgica dello scrittore attinge direttamente. La trama della commedia in tre atti Come tu mi vuoi, scritta nel 1929 in Germania, si colloca infatti «dieci anni dopo la grande guerra europea», come l’autore precisa nella didascalia posta in calce all’elenco dei personaggi.
Ne è protagonista «L’Ignota», ballerina dai facili costumi che si esibisce in equivoci locali notturni berlinesi. In questa donna misteriosa, di cui si ignora lo status sociale e anagrafico, l’ufficiale italiano Bruno Pieri crede di riconoscere la propria moglie Lucia, svanita nel nulla dopo essere stata violentata dai soldati che avevano occupato la sua villa in seguito all’invasione austriaca del Friuli durante la ritirata di Caporetto («Immaginò lo scempio che dovettero far di lei gli ufficiali che s’insediarono nella villa […] supponendo che la fiumana dell’esercito nemico, ritirandosi in fuga, l’avesse trascinata con sé» [21].)
[21] L. Pirandello, Come tu mi vuoi, in id., Maschere nude. Opere teatrali, tomo III, a cura di G. Nicastro, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 2011, p. 327.
Si ripropone in quest’opera teatrale
[…] il dramma della ricerca di identità ampiamente presente nella prima drammaturgia pirandelliana: l’Ignota, che ognuno afferma o nega essere la moglie di Pieri secondo la propria momentanea opinione, fa pensare alla signora Ponza diCosì è, (se vi pare), a Fulvia Gelli di Come prima, meglio di prima. Però qui c’è qualcosa che in quelle commedie non c’era. Anzitutto l’ambiente del primo atto, senza dubbio il più nuovo e coinvolgente dei tre: siamo nella Germania pre-nazista degli anni Trenta che vive uno sconvolgimento sociale e morale senza precedenti [22].
[22] Citiamo osservazioni che Guido Nicastro formula presentando Come tu mi vuoi nel terzo tomo della citata edizione delle opere teatrali pirandelliane da lui recentemente curata per la U.T.E.T. Il passo da noi riprodotto si legge a p. 310.
Accettando di calarsi nella parte assegnatale dal destino, la sconosciuta danzatrice si sforza di annullare se stessa nella personalità dell’«altra», in ciò aiutata dal diario di colei che Pieri per oltre un decennio non ha mai smesso di credere in vita e di cercare. Ma, incapace di perseverare nell’«impostura» protratta per quattro mesi, ad epilogo della commedia «L’Ignota» sceglie di allontanarsi, di smarrirsi nuovamente in una dimensione di grigio anonimato e di desolante incertezza ontologica. Si profila per lei all’orizzonte quella «soglia del nulla» a cui allude il titolo di una pregevole ricognizione critica pubblicata nel 2003 da Raffaele Cavalluzzi, a giudizio del quale «[…] l’attitudine di Pirandello a penetrare nel fondo dell’animo dei suoi personaggi con lunga e sottile indagine lo porta a verificare che vivere significa costringersi in forme […] e, in tal guisa, dare realtà illusoria alla stessa realtà interna» [23].
[23] R. Cavalluzzi, Pirandello: la soglia del nulla, Bari, Dedalo, 2003, p. 95.
Sul crinale della narrativa pirandelliana, il tema della guerra si correla ai motivi della morte e della maternità in una serie di testi novellistici ai quali lo scrittore siciliano affidò le sue riflessioni sul primo conflitto mondiale a partire dal 1914. Il 25 settembre di quell’anno egli pubblicò sulla «Rassegna contemporanea» Un’altra vita, ispirata al frangente eccezionale dell’evento bellico [24].
[24] Il testo narrativo del ’14 confluì poi in Erba del nostro orto, Milano, Studio Editoriale Lombardo, 1915 e in Berecche e la guerra, Milano, Mondadori, 1934.
Seguirono, incardinate sullo stesso tema, Jeri e oggi (compresa nella raccolta Il carnevale dei morti, del 1919 [25], ma redatta già nel ‘15);
[25] Firenze, Battistelli.
i due Colloquii coi personaggi apparsi sul quotidiano «Il Giornale di Sicilia» tra l’agosto e il settembre del 1915 [26];
[26] Pubblicati sul quotidiano di Palermo in due puntate, nei numeri del 17-18 agosto e dell’11-12 settembre 1915, i Colloquii coi personaggi furono successivamente ospitati nell’edizione Facchi di Berecche e la guerra (Milano, 1919).
il Frammento di cronaca di Marco Leccio e della sua guerra sulla carta nel tempo della grande guerra europea, composto probabilmente nel 1916 [27];
[27] Lo si legge nella sezione Note ai testi e varianti in L. Pirandello, Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, con una Premessa di G. Macchia, vol. III, tomo II, Milano,«I Meridiani» Mondadori, 1990, p. 1408.
Quando si comprende (in Un cavallo nella luna, Milano, Treves, 1918) [28].
[28] Successivamente, in Donna Mimma, Firenze, Bemporad, 1925 (nono volume delle Novelle per un anno).
Alla meditazione sull’insensatezza della guerra si aggiungono penetranti considerazioni sul ruolo materno in Jeri e oggi e nei Colloquii coi personaggi, del 1915. Nel primo testo, l’autore pone l’accento sullo «scompiglio tumultuoso dei pensieri e dei sentimenti», sul «curioso stordimento» dei giovani ai quali un colonnello «con voce dura e urtante» ha impartito l’ordine di raggiungere immediatamente «una tra le più aspre e difficili posizioni, sul Podgora» [29].
[29] L. Pirandello, Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, introd. di G. Macchia, vol. II, tomo I, Milano, «I Meridiani» Mondadori, 1987, p. 556.
Allo sbigottimento dei soldati in procinto di affrontare quello che per molti di loro sarà l’ultimo viaggio fa riscontro lo «strazio» dei genitori ai quali è concesso di rivedere per «pochi momenti appena» i figli in partenza («Più che un distacco, fu uno strappo, una furia, un precipizio» [30]). Nel gran «tumulto di gridi, di pianti, d’augurii, tra uno svolazzio di fazzoletti e cenni di mani e di cappelli», le lacrime versate dalla mamma del giovane ufficiale Marino Lerna, protagonista del breve racconto, si confondono con quelle di «una giovine bionda […] molto scollata e vestita alla bizzarra; occhi e labbra dipinti; ma che piangeva anche lei perdutamente» [31].
Al rituale degli addii partecipa anche la prostituta Ninì, che a mezzogiorno era stata a tavola con i militari in partenza e «[…] li aveva lasciati fare, perché si stordissero come tanti matti, […] perché se lo portassero, sì, vivo lassù, quell’ultimo ricordo della sua carne d’amore; lassù dove forse a uno a uno tutti que’ bei giovani di vent’anni sarebbero morti domani» [32].
Il giorno successivo, viaggiando in treno con il marito per tornare a casa, la signora Lerna, ancora sotto l’effetto del terribile «schianto» provato alla partenza del figlio, scorge la bionda Ninì ridere allegramente in compagnia di un giovanotto. Alla mamma di Marino che la osserva straziata dal dolore, la ragazza lancia uno sguardo «senz’ira, senza sdegno» mentre formula la lapidaria considerazione a cui il titolo della novella allude: «E non capisci che la vita è così? Jeri ho pianto per uno. Bisogna che oggi rida per quest’altro» [33].
[30] Ivi, p 561. [31] Ivi, p. 561-562 [32] Ivi, p. 563-564. [33] Ivi, p. 565.
Sul filo di un dolente ripiegamento intimistico si muove il Pirandello dei Colloquii coi personaggi. Incalzato dal «profondo oscuro se stesso», egli rivela il suo modo più autentico e segreto di fronteggiare l’«orrendo e miserando scompiglio» in cui si trova l’Europa nei «giorni di torbida agonia» precedenti «la dichiarazione della nostra guerra all’Austria» [34].
[34] id., Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, con una Premessa di G. Macchia, vol. III, tomo II, cit., p. 1139.
Al «travaglio violento» che consuma il narratore nell’attesa che «tutto questo scompiglio sia finito, compiuta la strage» e che si faccia «la storia, domani, dei guadagni e delle perdite, delle vittorie e delle sconfitte» [35], un anonimo, evanescente personaggio di fantasia contrappone la sua singolare capacità di dislocare i fatti in un’atemporalità distanziata dal flusso e dalla consistenza della storia, di fissare gli eventi in un eterno presente, senza possibilità di distinzione fra l’ieri, l’oggi e il domani:
Noi non sappiamo di guerre, caro signore. E se lei volesse darmi ascolto e dare un calcio a tutti codesti giornali, creda che poi se ne loderebbe. Perché son tutte cose che passano, e se pur lasciano traccia, è come se non la lasciassero, perché su le stesse tracce, sempre, la primavera, guardi: tre rose più, due rose meno, è sempre la stessa; e gli uomini hanno bisogno di dormire e di mangiare, di piangere e di ridere, d’uccidere e d’amare: piangere su le risa di jeri, amare sopra i morti d’oggi. Retorica, è vero? Ma per forza, poiché lei è così, e crede per ora ingenuamente che tutto, per il fatto della guerra, debba cambiare. Che vuole che cambi? Che contano i fatti? Per enormi che siano, sempre fatti sono. Passano. Passano, con gli individui che non sono riusciti a superarli. La vita resta, con gli stessi bisogni, con le stesse passioni, per gli stessi istinti, uguale sempre, come se non fosse mai nulla: ostinazione bruta e quasi cieca, che fa pena [36].
Nel secondo dei Colloquii coi personaggi l’autore entra ancora una volta in contatto con una figura irreale. Appare qui il fantasma della madre da poco morta, tenue ombra che guida «i viaggi dell’anima tra le memorie lontane» [37] private e collettive.
[35] Ivi, p. 1142. [36] Ivi, p. 1141. [37]I vi, p. 1145.
Tale situazione comunicativa consente a Pirandello di recuperare le «radici antropiche e parentali, oltre che culturali e intellettive della propria vita», di compiere un viaggio a ritroso prospettato «in forma personale e familiare, bensì, ma dentro il più generale momento di prova e di “olocausto”, di elaborazione del lutto e del cordoglio, e della pulsione collettiva di morte che è la guerra» [38].
[38] M. Tropea, Colloqui con i morti, colloqui con la madre: iconografia della morte ed elaborazione del lutto e del cordoglio dagli antichi a Pirandello, in «Siculorum Gymnasium», rassegna semestrale della Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Catania, n.s., a. XLVIII, n. 1-2, gennaio-dicembre 1995, p. 639. Sui confronti inscenati da Pirandello con le ombre dei morti, è utilmente consultabile anche il recentissimo A. Cedola, «Pensionati della memoria». I volti della morte e le maschere del riso nelle novelle di Pirandello, Ravenna, Pozzi, 2011.
Pur traendo spunto dall’immediatezza scottante della cronaca («[…] tu l’hai voluta questa guerra, contro tanti che non la volevano e lo sapevi che se poco ti sarebbe costato sacrificare in essa la tua vita, tanto, troppo invece ti sarebbe costato il solo rischio di quella del tuo figliuolo» [39]), lo scrittore preferisce in questo caso proiettarsi verso il passato sul filo di ricordi familiari nei quali rivive l’epopea eroica del Risorgimento:
Eh sì, troppo veramente mi doleva d’essere donna allora e di non poter seguire i miei fratelli! Io la cucii quasi al bujo, in un sottoscala, la bandiera tricolore con cui il mio più piccolo fratello insieme con gli altri congiurati, il 4 aprile 1860, uscì armato incontro al presidio borbonico, nella stess’ora che a Palermo un altro dei miei fratelli doveva irrompere dal convento della Gancia; e qua da noi, in provincia, di tanti che avevano giurato di scendere in piazza armati si trovarono in cinque soltanto contro duemila borbonici [40]!
[39] Luigi Pirandello, Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, con una Premessa di Giovanni Macchia, vol. III, tomo II, cit., p. 1151. – [40] Ivi, p. 1150.
In Quando si comprende, del 1918, prende corpo la figura di una madre in viaggio, ansiosa di abbracciare forse per l’ultima volta il figlio che sta per recarsi al fronte. La carica di affettività istintiva, fortissima, irrefrenabile della donna che nessun ragionamento potrebbe indurre a rassegnarsi «non già alla morte, ma a un probabile rischio di vita» della sua creatura è specularmene contrapposta al labile schermo di giustificazioni, di motivazioni, di valori e principi dietro il quale un occasionale compagno di scompartimento cela la disperazione per la morte in combattimento del proprio figlio. Una domanda tanto banale quanto atroce candidamente formulata dalla madre in pena («Ma, dunque… dunque il suo figliuolo è morto?» [41]) riduce all’improvviso in frantumi la maschera indossata dal suo interlocutore, che fino a quel momento si è imposto il ruolo “sociale” di patriota fiero di aver messo al mondo un eroe.
[41] Ivi, p. 680-681.
La parola «morto», pronunciata con semplicità dalla madre incapace di accettare anche la sola ipotesi del lutto da lei più temuto,
[…] è l’atto trasgressivo che restituisce sostanza vera, sostanza di perdita, di dolore, di scialo, al destino di chi a vent’anni ha perduto la vita, e che fa crollare tutte le finzioni difensive dell’uomo, costringendolo a riconoscere la sciagura e a fare esperienza del «lutto [42]».
[42] L. Martinelli, Lo specchio magico. Immagini del femminile in Luigi Pirandello, Bari, Dedalo, 1992, p. 28.
La forza stupefacente di un amore teso, al di là di ogni logica, a contrastare e a neutralizzare la realtà della morte è il filo invisibile che lega la protagonista di Quando si comprende a Donn’Anna Luna e alla «povera mamma inferma» di una novella del 1916, La camera in attesa, a cui si ispira La vita che ti diedi. Nella Camera in attesa ci troviamo ancora una volta in presenza della madre di un giovane caduto sui campi di battaglia (libici, in questo caso) ma vivo e dotato di «consistenza di realtà […] nel cuore e nella mente» di chi sa bene che
[…] la realtà non dipende dall’esserci o dal non esserci d’un corpo. Può esserci il corpo, ed esser morto per la realtà che voi gli davate. Quel che fa la vita, dunque, è la realtà che voi le date. E dunque realmente può bastare alla mamma e alle tre sorelle di Cesarino Mochi la vita ch’egli seguita ad avere per esse, qua nella realtà degli atti che compiono per lui, in questa camera che lo attende in ordine, pronta ad accoglierlo tal quale egli era prima che partisse [43].
[43] L. Pirandello, La camera in attesa, in Id., Candelora, a cura di S. Costa, Milano, Mondadori, 1993, p. 27-28.
Nella Camera in attesa, è la vita che si arresta: «E la mamma, dal letto, dice di sì, che muore di questa pena; […] S’è arrestata d’un giorno, e pare per sempre, nella camera, quell’illusione di vita» [44].
[44] Ivi, p. 32-33.
Nell’opera drammatica della quale la novella del ‘16 costituisce l’antecedente diretto, è la recita che giunge al termine con l’abbassarsi del sipario a conclusione del terzo atto.
Questa specularità obliqua ci introduce nel cuore della poetica pirandelliana: vita reale e finzione si sovrappongono e confondono, sino alla definitiva interruzione dell’una o dell’altra.
Gisella Padovani
Università di Catania
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