E allora? Hanno ragione i signori autori drammatici, che non vedono altro che il teatro, e che dicono e sostengono che il teatro è teatro e non letteratura? Se per teatro deve intendersi quel luogo dove si fanno rappresentazioni serali e diurne, con degli attori, a cui essi danno argomento e materia da formare quasi lì per lì in scene d’effetto, drammatiche o comiche, sì.
Teatro e letteratura
Da «Il Messaggero della Domenica», 30 luglio 1918.
Leggi e ascolta. Voce di Giuseppe Tizza.
I signori autori drammatici, professionisti del teatro, sdegnano d’esser tenuti in conto di letterati, perché dicono e sostengono che il teatro è teatro e non è letteratura.
Non vogliamo malignare fino al punto di credere che la ragione di questo loro sdegno abbia in gran parte radice nella serietà dei loro guadagni di fronte all’irrisorio scherzo dei meschini compensi di quei poveri illusi che sono i letterati puri. Certo essi hanno regolata da parte loro l’azienda del teatro come un qualunque istituto commerciale, che si difende da altri istituti ugualmente commerciali, interessati da un’altra parte nella stessa azienda: quello dei capocomici e quello dei proprietari e gerenti dei teatri: norme per la cessione a questa o a quella compagnia della loro produzione; assegnazione di “piazze”; percentuale su gl’incassi fissata avanti, tanto per la prima rappresentazione, tanto per la seconda, tanto per le altre seguenti, della cui riscossione è incaricata la Società degli Autori di Milano, la quale alla fine d’ogni trimestre manda ai soci un rendiconto dei proventi, che per dir la verità – per quanto male vada un dramma o una commedia – superano sempre di molto quelli che ogni altro scrittore o di novelle o di romanzi (non parliamo per carità dei poeti!) ricava dalla vendita dei suoi libri.
Non c’è dubbio che tutto questo non ha niente da vedere con la letteratura. Possiamo anche concedere che veramente il loro teatro, com’essi vogliono, cioè quella loro produzione più o meno abbondante di drammi e di commedie lanciata sul mercato teatrale, non è letteratura. Resta però da vedere – non essendo letteratura – come e sotto qual nuova specie debbano essere considerati quei loro drammi e quelle loro commedie, quando da copioni diventano libri, quando dalla buca del suggeritore passano nella vetrina d’un libraio, non più scritti a macchina ma stampati da un editore, quando dai lauti proventi che la voce e il gesto degli attori han procacciato loro dalle tavole d’un palcoscenico, scendono a pietosamente mendicare le tre lirette, prezzo di copertina, tra quegli altri mendicanti esposti alla carità pubblica, che sono i volumi di novelle e i romanzi dei poveri letterati puri.
Ma lasciamo una buona volta tutta questa contabilità, e veniamo a noi. Qua c’è un grosso malinteso da chiarire. E il malinteso consiste appunto nella parola letteratura.
I signori autori drammatici, professionisti del teatro, scrivono male, non solo perché non sanno o non si sono mai curati di scriver bene, ma perché credono in coscienza che lo scriver bene a teatro sia da letterati, e che bisogni invece scrivere in quel certo modo parlato come scrivon loro, che non sappia di letteratura, perché i personaggi dei loro drammi e delle loro commedie – dicono – non essendo letterati, non possono parlare sulla scena come tali, cioè bene; debbono parlar come si parla, senza letteratura.
Così dicendo, non sospettano neppur lontanamente ch’essi confondono lo scriver bene con lo scriver bello, o piuttosto, non vedono di cadere in questo errore: che scriver bene significhi scriver bello; e non pensano che lo scriver bello di certi falsi letterati è, di fronte all’estimativa estetica, per un eccesso contrario, lo stesso vizio del loro scriver male: letteratura che non è arte, vale a dire cattiva letteratura tanto quella di chi scrive bello, quanto quella di chi scrivemale, e condannabile perciò come tale, anche se essi non vogliono passar per letterati.
Scriver bene un dramma o una commedia non significa far parlare i personaggi in una forma letteraria, cioè in un linguaggio non parlato e per se stesso letterario. Questo è scriverbello. Bisogna far parlare i personaggi come, dato il loro carattere, date le loro qualità e condizioni, nei vari momenti dell’azione, debbono parlare. E questo non vuol mica dire che ne risulterà un linguaggio comune e non letterario. Che significa “non letterario” se s’intende far opera d’arte? Il linguaggio non sarà mai comune; perché sarà proprio a quel dato personaggio in quella data scena, proprio del suo carattere, della sua passione o del suo giuoco. E se i personaggi parleranno ciascuno in questo lor proprio modo, e non secondo la sciatteria volgare d’un linguaggio impreciso, approssimativo, che denoterà soltanto la incapacità dell’autore a trovar la giusta espressione perché non sa scrivere, la commedia sarà scritta bene, e una commedia scritta bene, se anche ben concepita e ben condotta, è opera d’arte letteraria come un bel romanzo o una bella novella o una bella lirica.
La verità è che i signori autori drammatici, professionisti del teatro, son tutti rimasti fermi a quella beata poetica del naturalismo, che confuse il fatto fisico, il fatto psichico e il fatto estetico in tale graziosa maniera, che al fatto estetico venne a dare (almeno teoreticamente, poiché in pratica non era possibile) quel carattere di necessità meccanica e quella fissità che sono proprie del fatto fisico.
Ora bisogna porsi bene in mente che l’arte, in qualunque sua forma (dico l’arte letteraria, di cui la drammatica è una delle tante forme) non è imitazione o riproduzione, ma creazione. La questione del linguaggio, dunque se e come debba esser parlato; la pretesa difficoltà di trovare in Italia una lingua veramente parlata in tutta la nazione, e l’altra questione d’una vita nazionale veramente italiana che manca per dar materia e carattere a un teatro che si possa dire italiano, come se appunto natura e ufficio dell’arte fosse la riproduzione necessaria di questa vita, che ciascuno possa riconoscere per dati e fatti esteriori; e tutte quelle altre angustiose quisquilie e vane superstizioni della così detta tecnica, che dovrebbe rispecchiare (sempre in teoria, poiché in pratica non è possibile) l’azione come ce la vediamo svolgere sotto gli occhi nella realtà quotidiana; tutto questo è tormento accattato di martiri volontari d’un sistema assurdo, d’una aberrata poetica, per fortuna da un gran pezzo ormai superata, ma a cui, ripeto, dimostrano d’esser rimasti fermi i signori professionisti del teatro.
Non si tratta d’imitare o di riprodurre la vita; e questo, per la semplicissima ragione che non c’è una vita che stia come una realtà per sé, da riprodurre con caratteri suoi propri: la vita è flusso continuo e indistinto e non ha altra forma all’infuori di quella che a volta a volta le diamo noi, infinitamente varia e continuamente mutevole. Ciascuno in realtà crea a se stesso la propria vita: ma questa creazione, purtroppo, non è mai libera, non solo perché soggetta a tutte le necessità naturali e sociali che limitano le cose, gli uomini e le loro azioni e li deformano e li contrariano fino a farli fallire e cader miseramente; non è mai libera anche perché, nella creazione della nostra vita, la nostra volontà tende quasi sempre, per non dir proprio sempre, a fini di pratica utilità, il raggiungimento di una condizione sociale, ecc., che inducono ad azioni interessate e costringono a rinunzie o a doveri, che sono naturalmente limitazioni di libertà.
Soltanto l’arte, quando è vera arte, crea liberamente: crea, cioè, una realtà che ha solamente in se stessa le sue necessità, le sue leggi, il suo fine, poiché la volontà non agisce più fuori, a vincere tutti gli ostacoli che si oppongono a quei fini di pratica utilità a cui tendiamo nell’altra creazione interessata, voglio dire in quella che tutti ci sforziamo di fare, quotidianamente, della nostra vita, così come possiamo; ma agisce interiormente, nella vita a cui intendiamo dar forma, e di questa forma appunto, ancora dentro di noi, ma già viva per se stessa e dunque quasi del tutto ormai indipendente da noi, diviene il movimento. E questa è la vera e l’unica tecnica: la volontà intesa come libero, spontaneo e immediato movimento della forma, quando cioè non siamo più noi a voler questa forma così o così, per un nostro fine; ma è lei, assolutamente libera, poiché non ha altro fine che in se stessa, lei che si vuole, lei che provoca in sé e in noi gli atti capaci di effettuarla fuori in un corpo: statua, quadro, libro; e allora soltanto il fatto estetico è compiuto.
Fuori, ordinariamente, le azioni che mettono in rilievo un carattere si stagliano su un fondo di contingenze senza valore, di particolari comuni a tutti. Volgari ostacoli impreveduti, improvvisi, deviano le azioni, deturpano i caratteri; piccole miserie accidentali spesso li sminuiscono. L’arte libera le cose, gli uomini e le loro azioni da queste contingenze senza valore, da questi particolari comuni, da questi volgari ostacoli, da queste accidentali miserie: in un certo senso, li astrae: cioè, rigetta, senza neppur badarvi, tutto ciò che contraria la concezione dell’artista e aggruppa invece tutto ciò che, in accordo con essa, le dà più forza e più ricchezza. Crea così un’opera che non è, come la natura, senz’ordine (almeno apparente) e irta di contraddizioni, ma quasi un piccolo mondo in cui tutti gli elementi si tendono a vicenda e a vicenda cooperano. In questo senso appunto l’artista idealizza. Non già che egli rappresenti tipi o dipinga idee: semplifica e concentra. L’idea che egli ha dei suoi personaggi, il sentimento che spira da essi evocano le immagini espressive, le aggruppano e le combinano. I particolari inutili spariscono; tutto ciò che è imposto dalla logica vivente del carattere è riunito, concentrato nell’unità d’un essere, diciamo così, meno reale e tuttavia più vero.
Ma ecco ora in che consiste la soggezione inovviabile del teatro, rispetto all’opera d’arte che ha già avuto la sua espressione definitiva, unica, nelle pagine dello scrittore. Questa che è già espressione, questa che è già forma, bisogna che diventi materia; una materia a cui gli attori, secondo i loro mezzi e le loro capacità, debbono a lor volta dare forma. Perché l’attore, se non vuole (né può volerlo) che le parole scritte del dramma gli escano dalla bocca come da un portavoce o da un fonografo, bisogna che riconcepisca, come sa, il personaggio, lo concepisca cioè a sua volta per conto suo; bisogna che l’immagine già espressa torni ad organarsi in lui e tenda a divenire il movimento che la effettui e la renda reale sulla scena. Anche per lui, insomma, l’esecuzione bisogna che balzi viva dalla concezione, e soltanto per virtù di essa, per movimenti cioè promossi dall’immagine stessa, viva e attiva, non solo dentro di lui, ma divenuta con lui e in lui anima e corpo.
Ora, benché non nata nell’attore spontaneamente, ma suscitata nello spirito di lui dall’espressione dello scrittore, questa immagine può esser mai la stessa? può non alterarsi, non modificarsi passando da uno spirito a un altro? Non sarà più la stessa. Sarà magari una immagine approssimativa, più o meno somigliante; ma la stessa, no. Quel dato personaggio sulla scena dirà le stesse parole del dramma scritto, ma non sarà mai quello del poeta, perché l’attore l’ha ricreato in sé, e sua è l’espressione quantunque non siano sue le parole, sua la voce, suo il corpo, suo il gesto.
L’opera letteraria è il dramma e la commedia concepita e scritta dal poeta: quella che si vedrà in teatro non è e non potrà essere altro che una traduzione scenica. Tanti attori e tante traduzioni, più o meno fedeli, più o meno felici; ma, come ogni traduzione, sempre e per forza inferiori all’originale.
Perché, se ci pensiamo bene, l’attore deve fare e fa per forza il contrario di ciò che ha fatto il poeta. Rende, cioè, più reale e tuttavia men vero il personaggio creato dal poeta, gli toglie tanto, cioè, di quella verità ideale, superiore, quanto più gli dà di quella realtà materiale, comune; e lo fa men vero anche perché lo traduce nella materialità fittizia e convenzionale d’un palcoscenico. L’attore insomma necessariamente dà una consistenza artefatta, in un ambiente posticcio, illusorio, a persone e ad azioni che hanno già avuto un’espressione di vita ideale, qual è quella dell’arte e che vivono e respirano in una realtà superiore.
E allora? Hanno ragione i signori autori drammatici, che non vedono altro che il teatro, e che dicono e sostengono che il teatro è teatro e non letteratura?
Se per teatro deve intendersi quel luogo dove si fanno rappresentazioni serali e diurne, con degli attori, a cui essi danno argomento e materia da formare quasi lì per lì in scene d’effetto, drammatiche o comiche, sì. Ma in questo caso, come posizione di fronte all’arte, bisogna che si rassegnino a stare nella stessa linea di quei facili fucinatori di versi che si prestano a fare le poesiole sotto le vignette di certe riviste illustrate. Scrivono, non per il testo, ma per la traduzione. E veramente, allora, non ha bisogno affatto di letteratura il loro teatro. Materia per gli attori; a cui gli attori daranno vita e consistenza sulla scena. Qualche cosa, insomma, come gli scenari della commedia dell’arte.
Ma per noi il teatro vuol essere un’altra cosa.
Luigi Pirandello
Se vuoi contribuire, invia il tuo materiale, specificando se e come vuoi essere citato a
collabora@pirandelloweb.com