««« Introduzione ai romanzi di Luigi Pirandello
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VI. Vola via
1.
Maurizio Gueli era in uno dei più crudeli momenti della sua vita tristissima. Per la nona o decima volta, ridotto agli estremi della pazienza, aveva trovato nella disperazione la forza di strappare il capo dal capestro. Era suo questo paragone bestiale, e se lo ripeteva con voluttà. Livia Frezzi era da quindici giorni ne la villa di Monteporzio, sola; e lui, in Roma, solo.
Solo diceva, e non libero, sapendo per trista esperienza che, quanto più forte affermava il proposito di non ricongiungersi mai più con quella donna, tanto più prossimo ne era il giorno. Che se era vero ch’egli con lei non poteva più vivere, era vero altresì che non poteva senza di lei.
Venuto da Genova a Roma circa venti anni fa, nel suo miglior momento, quando già in Italia e fuori con la pubblicazione del Socrate demente si stabiliva indiscussa la sua fama di scrittor bizzarro e profondo, a cui la vivida e possente genialità permetteva di giocare coi più gravi pensieri e la poderosa dottrina con quella stessa agilità graziosa con cui un equilibrista giuoca co’ suoi globetti di vetro colorati, era stato accolto in casa del suo vecchio amico Angelo Frezzi, mediocre storiografo, che da poco aveva sposato, in seconde nozze, Livia Maduri.
Egli aveva allora trentacinque anni, e Livia poco più di venti.
Non il prestigio della fama però aveva innamorato Livia Frezzi del Gueli, come tanti allora facilmente credettero. Di quella fama, anzi, e di quella certa ebrezza ch’egli in quel momento ne aveva, ella si era mostrata fin da principio così gelidamente sdegnosa, ch’egli subito, per picca, s’era intestato di vincerla, quasi costretto a chiuder gli occhi sui suoi doveri verso l’amico e verso l’ospite dall’acerbità stessa con cui ella, apertamente, senza tener conto dell’amicizia antica del marito per lui, senza alcun riguardo per l’ospitalità, gli s’era posta di fronte, nemica.
Maurizio Gueli ricordava in sua scusa d’aver tentato, veramente, in principio, di fuggire per non tradir l’amicizia e l’ospitalità. Ma ormai il dispetto di sé e di tutti, il disgusto della sua viltà verso quella donna, l’obbrobrio della sua schiavitù gli avevano riempito l’animo di tale e tanta amarezza, lo avevano reso così crudamente spietato contro sé stesso, ch’egli non riusciva più a concedersi alcuna finzione. Se pur dunque ricordava quel tentativo di fuga, in fondo sapeva bene di non poter dare ad esso alcun peso in suo favore, che se davvero egli avesse voluto salvar sé e non tradire l’amico, senz’altro avrebbe dovuto voltar le spalle e allontanarsi dalla casa ospitale.
Invece… Ma sì! S’era ripetuta in lui per la millesima volta quella solita farsa delle quattro o cinque o dieci o venti anime in contrasto, che ciascun uomo, secondo la propria capacità, alberga in sé, distinte e mobili, com’egli credeva, e di cui con perspicuità meravigliosa aveva sempre saputo scoprire e rappresentare il vario giuoco simultaneo in sé medesimo e negli altri.
Per una finzione spesso incosciente, suggerita dal tornaconto o imposta da quel bisogno spontaneo di volerci in un modo anziché in un altro, d’apparire a noi stessi diversi da quel che siamo, si assume una di quelle tante anime e secondo essa si accetta la più favorevole interpretazione fittizia di tutti gli atti che, di nascosto alla nostra coscienza, furbescamente operano le altre. Tende ognuno ad ammogliarsi per tutta la vita con un’anima sola, con la più comoda, con quella che ci porta in dote la facoltà più adatta a conseguire lo stato a cui aspiriamo; ma fuori dell’onesto tetto coniugale della nostra coscienza è assai difficile che non si abbian poi tresche e trascorsi con le altre anime rejette, da cui nascono atti e pensieri bastardi, che subito ci affrettiamo a legittimare.
Non si era forse accorto il suo vecchio amico Angelo Frezzi che non aveva da stentar molto per costringerlo a rimanere in casa sua, quand’egli aveva manifestato il desiderio d’andarsene, desiderio finto doppiamente e sapientemente, poiché il desiderio suo era invece di rimanere e lo vestiva del dolore di non riuscir gradito alla signora? E se Angelo Frezzi se n’era accorto bene, perché aveva tanto protestato e tempestato per trattenerlo? Ma aveva certo rappresentato una farsa anche lui! Due anime, la sociale e la morale, cioè quella che lo faceva andar sempre vestito in redingote e gli poneva su le grosse labbra pallide con qualche filamento di biascia il più amabile dei sorrisi, e quell’altra che gli faceva spesso abbassare con tanta languida dignità le pàlpebre acquose e macerate su gli occhi azzurrognoli ovati venati impudenti, avevano fatto sfoggio in lui della loro virtù, sostenendo con accigliata fermezza che l’amico meritamente venuto in tanta fama non si sarebbe mai e poi mai macchiato d’un tradimento all’amico e all’ospite; mentre una terza animula astuta e beffarda gli suggeriva sotto sotto, così a bassa voce ch’egli poteva benissimo fingere di non udirla:
«Bravo, caro, così, trattienilo! Tu sai bene che sarebbe per te gran ventura s’egli riuscisse a portarti via questa seconda moglie così male assortita, con un capino così levato e aspra e dura e pertinace anche contro te, poverino, troppo vecchio, eh, troppo vecchio per lei! Insisti, e quanto più fingi di crederlo incapace di tradirti, quanto più fiducioso ti mostri, tanto più ti riuscirà facile far d’un nonnulla un capo di scandalo».
E difatti Angelo Frezzi, ancor senz’ombra di ragione, almeno da parte della moglie, così in prima aveva gridato al tradimento, che era dovuto passare ancora un anno, avanti che Livia, andata a viver sola, si concedesse a lui.
In quell’anno egli si era legato in tal modo da non potersi più sciogliere, derogando a sé stesso in tutto, impegnandosi ad accogliere e a seguire senz’alcun sacrifizio tutti i pensieri e i sentimenti di lei.
Fingeva ora di credere che questo suo legame consistesse nel dovere imprescindibile assunto verso quella donna che aveva perduto per lui stato e reputazione, scacciata ancora innocente dal marito. Certo egli lo sentiva questo dovere; ma pur sapeva, in fondo, che esso non era la sola e vera ragione della sua schiavitù. E quale, allora, la vera ragione? Forse la pietà che egli, sano di mente, e con la tranquilla coscienza di non aver mai dato alcun pretesto, alcun incentivo alla gelosia di lei, doveva usare verso quella donna, senza dubbio di mente inferma? Oh sì, vera anche questa pietà, come vero quel dovere; ma più che ragione della sua schiavitù, non era forse questa pietà una scusa, una nobile scusa, con cui egli vestiva il cocente bisogno che lo ritrascinava a quella donna, dopo un mese o più di lontananza, durante il quale aveva anche finto di credere che, alla sua età, dopo aver dato per tanti anni a colei il meglio di sé, non avrebbe potuto riprendere più la vita con nessun’altra? E vere, vere, sì, fondatissime, quest’altre considerazioni; ma, a pesarle nella bilancia nascosta nell’intimità più segreta della coscienza, egli sapeva bene che l’età, la dignità erano scuse anch’esse e non ragioni. Se un’altra donna, difatti, non cercata, avesse avuto potere d’attrarlo a sé, strappandolo dalla suggezione, liberandolo dall’invasamento di colei che gli aveva ispirato una abominazione profonda e invincibile d’ogni altro abbraccio e lo teneva in tale stato di schiva timidità ombrosa, da non poter più non che aver contatto, ma neppur pensare al contatto d’altra donna: oh, egli non avrebbe certamente badato più a età, a dignità, a dovere, a pietà, a nulla. Eccola, eccola dunque, la vera ragione della sua schiavitù; era questa schiva timidità ombrosa, che proveniva dal potere fascinoso di Livia Frezzi.
Nessuno era in grado di comprendere come e perché quella donna avesse potuto esplicare sul Gueli un fascino così potente e persistente, anzi una così nefasta malìa. Era sì, senza dubbio, una bella donna, Livia Frezzi, ma la rigida durezza del portamento, la severità dello sguardo, ostile senza curiosità, lo sprezzo quasi ostentato d’ogni garbo, toglievano ogni grazia e ogni attrattiva a quella bellezza. Pareva, era anzi manifesto ch’ella faceva di tutto per non piacere.
Ebbene: consisteva appunto in questo il suo fascino; e solo poteva comprenderlo colui al quale unicamente ella voleva piacere.
Ciò che le altre donne belle dànno all’uomo, cui nell’intimità si concedono, è così poco a confronto di quanto han profuso tutto il giorno agli altri, e questo poco è concesso con modi e grazie e sorrisi così simili in tutto a quelli che esse prodigano a tanti e che tanti perciò, pur non entrati in quell’intimità, conoscono o facilmente immaginano, che – a pensarci – si smaga subito la gioja del possederle.
Livia Frezzi aveva dato a Maurizio Gueli la gioja del possesso unico e intero. Nessuno poteva conoscerla o immaginarla, com’egli la conosceva e la vedeva nei momenti dell’abbandono. Ella era tutta per uno; chiusa a tutti, fuor che a uno.
Allo stesso modo però voleva che quest’uno fosse tutto per lei: chiuso in lei tutto e per sempre, tutto esclusivamente suo, non solo coi sensi, col cuore, con la mente, ma finanche con lo sguardo. Guardare, anche senza la minima intenzione, un’altra donna, era già per lei quasi un delitto. Ella non guardava nessuno, mai. Delitto era piacere altrui oltre i limiti della più fredda cortesia. Displiceas aliis, sic ego tutus ero.
Gelosia? Ma che gelosia! Comportarsi così era come dimandava la serietà, come dimandava l’onestà. Ella era seria e onesta; non gelosa. E così voleva che si comportassero tutti.
Per contentarla, bisognava restringersi e costringersi a vivere per lei unicamente, escludersi affatto dalla vita altrui. E non bastava nemmeno: che se gli altri, pur non curati, pur non guardati, e fors’anche per questo, mostravano comunque il minimo interesse o qualche curiosità per un’esistenza così appartata, per un contegno così schivo e sdegnoso, ella n’avrebbe fatto colpa ugualmente a colui che stava con lei, come se fosse egli cagione se gli altri lo guardavano o se ne curavano in qualche modo.
Ora, impedire questo non era affatto possibile a Maurizio Gueli. Per quanto facesse, la sua fama era tanta, che non poteva passare inosservato. Egli poteva tutt’al più non guardare; ma come impedire che tanti lo guardassero? Riceveva da tutte le parti inviti, lettere, omaggi; poteva non accettar mai alcuno di quegli inviti, non rispondere mai ad alcuna lettera, ad alcun omaggio; ma, nossignori, doveva anche dar conto a lei degli inviti che riceveva, delle lettere e degli omaggi che gli arrivavano.
Ella comprendeva che tutto quell’interesse, tutta quella curiosità dipendevano dalla fama di lui, dalla letteratura ch’egli professava; e contro questa fama perciò e contro la letteratura appuntava più fieramente il suo livore, armato d’ispido dileggio; covava per esse il più acre e cupo rancore.
Livia Frezzi era fermamente convinta che la professione del letterato non potesse comportare alcuna serietà, alcuna onestà; che fosse anzi la più ridicola e la più disonesta delle professioni, come quella che consisteva in una continua offerta di sé, in un continuo commercio di vanità, in un accatto di fatue soddisfazioni, in un perpetuo struggimento di piacere altrui e d’averne lodi. Soltanto una sciocca, a suo modo di vedere, poteva gloriarsi della fama dell’uomo con cui conviveva, provar piacere pensando che quest’uomo, da tante donne ammirato e desiderato, apparteneva o diceva d’appartenere a lei solamente. Come e in che poteva appartenere a una sola quest’uomo, se voleva piacere a tutti e a tutte, se giorno e notte s’affannava per esser lodato e ammirato, per darsi in pascolo alla gente e procurar diletto a quanti più poteva, per attirar continuamente l’attenzione su di sé e correr su la bocca di tutti ed esser mostrato a dito? se da sé si esponeva di continuo a tutte le tentazioni? Data quella voglia irresistibile di piacere altrui, era mai da credere ch’egli potesse resistere a tutte quelle tentazioni?
Invano tante volte il Gueli s’era provato a dimostrarle che un vero artista, come egli era o credeva almeno di essere, non andava così a caccia di fatue soddisfazioni, né si struggeva così di piacere altrui; che non era già un buffone tutto inteso a dare spasso alla gente e a farsi ammirar dalle donne; e che la lode di cui egli poteva compiacersi era solo quella dei pochi a cui riconosceva capacità d’intenderlo. Trascinato dalla foga della difesa però, spesso per un punto solo perdeva ogni effetto; se, per esempio, gli avveniva di soggiungere, a modo di considerazione generale, ch’era pure umano, del resto, e senz’ombra di male, che non solamente un letterato ma chiunque provasse una certa soddisfazione nel veder bene accolta e pregiata dagli altri la propria opera, qualunque fosse. Ah, ecco, gli altri! gli altri! sempre il pensiero degli altri! Ella non lo aveva mai avuto, codesto pensiero! Per lui non c’era alcun male, in questo? E come in questo, chi sa in quant’altre cose! Dov’era il male per lui? in che consisteva? Chi poteva mai veder chiaro nella coscienza d’un letterato, la cui professione era un continuo giuoco di finzioni? Fingere, fingere sempre, dare apparenza di realtà a tutte le cose non vere! Ed era senz’altro apparenza tutta quella austerità, tutta quella dignitosa onestà ch’egli ostentava. Chi sa quanti sbalzi di cuore e sussulti interni e fremiti e solletichii per un’occhiatina misteriosa, per un risolino di donna appena appena accennato, passando per via! L’età? Ma che età! Può forse invecchiare il cuore d’un letterato? Quanto più vecchio, tanto più ridicolo.
Al dileggio incessante, alla denigrazione feroce, Maurizio Gueli si sentiva dentro tòrcere le viscere e rivoltare il cuore. Perché egli avvertiva in pari tempo la ridicolaggine atroce della sua tragedia: essere lo zimbello d’una vera e propria follìa, soffrire il martirio per colpe immaginarie, per colpe che non erano colpe e che, del resto, egli si era sempre guardato bene dal commettere, anche a costo di parere sgarbato, superbo e scontroso, per non dare a lei il minimo incentivo. Ma pareva tuttavia che le commettesse, a sua insaputa, chi sa come e chi sa quando.
Manifestamente, egli era due: uno per sé; un altro per lei.
E quest’altro ch’ella vedeva in lui, carpendo a volo, fantasma tristo, ogni sguardo, ogni sorriso, ogni gesto, il suono stesso della voce, non che il senso delle parole, tutto insomma di lui, e travisandolo e falsandolo agli occhi di lei, assumeva vita, e per lei viveva esso solo ed egli non esisteva più: non esisteva più, se non per l’indegno, disumano supplizio di vedersi vivere in quel fantasma, e solo in quello; e invano s’arrovellava a distruggerlo: ella non credeva più in lui; ella vedeva in lui quello solamente, e, com’era giusto, lo faceva segno d’odio e di scherno.
Viveva talmente quest’altro, ch’ella s’era foggiato di lui, assumeva nella morbosa immaginazione di lei una così solida, evidente consistenza, ch’egli stesso quasi lo vedeva vivere della sua vita, ma indegnamente falsata; de’ suoi pensieri, ma stravolti; d’ogni suo sguardo, d’ogni sua parola, d’ogni suo gesto; lo vedeva vivere così, ch’egli stesso talvolta arrivava fino al punto di dubitare di sé medesimo, di rimanere in forse, se lui non fosse quello davvero. Ed era così cosciente ormai dell’alterazione che ogni suo minimo atto avrebbe subito nell’immediata appropriazione di quell’altro, che gli pareva quasi di vivere con due anime, di pensare a un tempo con due teste, in un senso per sé, in un altro senso per quello.
«Ecco», avvertiva subito, «se io ora dico così, le mie parole assumeranno per lei quest’altró significato.»
E non sbagliava mai, perché egli conosceva perfettamente quell’altro lui che viveva in lei e per lei, così vivo com’egli stesso era vivo, anzi forse di più, perché egli viveva soltanto per soffrire, mentre quello viveva nella mente di lei per godere, per ingannare, per fingere, per tant’altre cose una più indegna dell’altra; egli reprimeva in sé ogni moto, soffogava anche i più innocenti desiderii, si vietava tutto, fin anche di sorridere a una visione d’arte che gli passasse per la mente, e di parlare e di guardare; mentre quell’altro, chi sa come, chi sa quando, trovava modo di sfuggire a quella galera, con la sua inconsistenza di fantasma svaporante da una vera e propria follìa, e correva per il mondo a farne d’ogni colore.
Più di quanto aveva fatto per stare in pace con lei Maurizio Gueli non poteva fare: s’era escluso dalla vita, aveva finanche rinunziato all’arte: non scriveva più un rigo da oltre dieci anni. Ma questo suo sacrificio non era valso a nulla. Ella non poteva calcolarlo. L’arte per lei era un giuoco disonesto: dovere, dunque, e nessun merito, per un uomo serio, il rinunziarvi. Ella non aveva mai letto nemmeno una pagina dei libri di lui, e se ne vantava. Della vita ideale, delle doti migliori di lui, ignorava dunque tutto. In lui non vedeva altro che l’uomo, un uomo che, per forza, così violentato, così escluso da ogn’altra vita, così privato d’ogn’altra soddisfazione, per forza a tutte le sue rinunzie, a tutte le sue privazioni, a tutti i suoi sacrifizii doveva cercare in lei quell’unico compenso ch’ella poteva dargli, quell’unico sfogo che con lei poteva concedersi. E di qui appunto il tristo concetto ch’ella se n’era formato, quel fantasma che s’era foggiato di lui e che ella unicamente vedeva vivere, senza punto comprendere che egli era così soltanto per lei, perché non trovava da poter essere con lei in altro modo. Né questo il Gueli glielo poteva dimostrare, per timore d’offenderla nella sua rigidissima onestà. Spesso ella, assediata da continui sospetti e sdegnata, gli negava anche quel compenso; e allora egli si irritava più vilmente entro di sé per la sua schiavitù; quando poi ella era più inchinevole a cedere, ed egli ne profittava; subito, con la stanchezza, una più generosa irritazione lo assaliva, un fremito d’indignazione lo scoteva dalla gravezza tetra della voluttà sazia e stracca; vedeva a qual prezzo otteneva quelle soddisfazioni del senso da una donna pur schiva d’ogni sensualità e che tuttavia lo abbrutiva, non concedendogli di vivere la vita dello spirito e condannandolo alla perversità di quell’unione per forza lussuriosa. E se in quei momenti ella era così mal’accorta da riprendere il dileggio, scoppiava pronta e fiera la ribellione.
In questi momenti di stanchezza appunto erano avvenute le temporanee separazioni: o egli era partito per Monteporzio ed ella era rimasta a Roma, o viceversa, risolutissimi entrambi a non riunirsi mai più. Ma a Roma o fuori, egli aveva pur sempre seguitato a provvedere al mantenimento di lei, priva affatto di mezzi. Maurizio Gueli, se non più ricco, come lo aveva lasciato il padre, socio tra i maggiori d’una delle prime agenzie di navigazione transoceanica, era ancor molto agiato.
Se non che, appena solo, egli si sentiva sperduto nella vita, da cui per tanto tempo si era escluso; avvertiva subito di non avervi più radici è di non potervisi più in alcun modo ripiantare, non solamente per l’età; il concetto che gli altri s’eran formato di lui, dopo tanti anni di clausura austera, gli pesava addosso come una cappa, gli misurava i passi, gl’imponeva con arcigna vigilanza il contegno, il riserbo ormai consueto, lo condannava a essere quale gli altri lo credevano e lo volevano; lo stupore che leggeva in tanti visi appena si mostrava in qualche luogo a lui insolito, la vista degli altri abituati a vivere liberamente, e il segreto avvertimento del suo impaccio e del suo disagio di fronte all’insolenza di quei fortunati che non avevan mai reso conto a nessuno del loro tempo e dei loro atti, lo turbavano, lo avvilivano, lo irritavano. E con ribrezzo un’altra cosa avvertiva, un fenomeno addirittura mostruoso: appena solo, gli pareva di scoprire in sé, vivo veramente, a ogni passo, a ogni sguardo, a ogni sorriso, a ogni gesto, quell’altro lui che viveva nella morbosa immaginazione della Frezzi, quel tristo fantasma odiato, che lo scherniva dentro, dicendogli:
«Ecco, tu ora vai dove ti piace, tu ora guardi di qua e di là, anche le donne; tu ora sorridi, tu ora ti muovi, e credi di fare innocentemente? non sai che tutto questo è male, è male, è male? Se ella lo sapesse! se ella ti vedesse! Tu che hai sempre negato, tu che le hai detto sempre di non aver piacere d’andare in alcun luogo, ad alcun ritrovo, di non guardar le donne, di non sorridere… Ma, tanto, sai? anche a non farlo, ella crederà sempre che tu l’abbia fatto; e dunque fallo, fallo pure, che è lo stesso!».
Ebbene, no: egli non poteva più farlo; non sapeva più farlo; si sentiva dentro tenuto, esasperatamente, dall’iniquità del giudizio di quella donna; vedeva il male, non già per sé, in quello che faceva, ma per colei che da tanti anni lo aveva abituato a stimarlo male e come tale lo aveva attribuito a quell’altro lui che – secondo lei – usava farlo continuamente, anche quand’egli non lo faceva, anche quand’egli, per stare in pace, si vietava di farlo, come se veramente fosse male.
Tutta questa complicazione di segreti avvertimenti gl’ingenerava un tal disgusto, una tale uggia, un avvilimento così dispettoso, una così sorda e agra e negra tristezza, che subito tornava a ritrarsi dal contatto e dalla vista degli altri e, di nuovo appartato, nel vuoto, nella solitudine orribile, si sprofondava a considerare la sua miseria a un tempo tragica e ridicola, ormai senza più rimedio. Non riusciva a far lo sforzo d’astrarsene per rimettersi al lavoro, che solo avrebbe potuto salvarlo. E allora cominciavano a risorgere tutte quelle scuse ch’egli fingeva di creder ragioni della sua schiavitù; risorgevano istigate principalmente dal bisogno istintivo, man mano più urgente, della sua ancor forte maschilità, dal ricordo malioso degli amplessi di lei.
E ritornava alla sua catena.
2.
Era proprio sul punto di ritornare, quando Giustino Boggiolo venne a invitarlo al villino, dove Silvia – a suo dire – lo aspettava con impazienza.
Maurizio Gueli abitava in una vecchia casa di via Ripetta, alla vista del fiume, che egli ricordava fluente tra le sponde naturali, scoscese, popolate di querci; ricordava anche il vecchio ponte di legno rintronante a ogni vettura e, presso la casa, l’ampia scalinata del porto e le tartane di Sicilia che venivano a ormeggiarvisi cariche di vino, e i canti che si levavano la sera da quelle taverne galleggianti con le vele attendate, mentre serpeggiavan nell’acqua nera, rossi e lunghi, i riflessi dei lumi. Ora la scalinata e il ponte di legno, le sponde naturali e quelle maestose querci erano sparite: un nuovo grande quartiere sorgeva di là dal fiume incassato tra grige dighe. E come il fiume tra quelle dighe, come i Prati di Castello con quelle vie diritte e lunghe, ancor senza colore di tempo, la sua vita in venti anni s’era disciplinata, scolorita, ammiserita, irrigidita.
Per le due grandi finestre dello studio austero, che pareva piuttosto una sala di biblioteca, senza un quadro, senza gingilli d’arte, dalle pareti occupate tutte da alti scaffali sovraccarichi di libri, entrava l’ultimo abbagliamento purpureo del crepuscolo fiammeggiante dietro i cipressi di Monte Mario.
Sprofondato nel seggiolone di cuojo innanzi alla grande antica scrivania massiccia, Maurizio Gueli rimase un pezzo accigliato e torbido a guatar quell’ometto che quasi vaporava innanzi a lui nel purpureo abbagliamento; quell’ometto che veniva, così sorridente e sicuro, a cimentare il destino di due vite.
Già in due occasioni egli aveva manifestato alla Roncella la stima e la simpatia per l’opera e per l’ingegno di lei, partecipando al banchetto in suo onore, quando da poco ella era arrivata a Roma, e andando a salutarla alla stazione dopo il trionfo del dramma; le aveva poi scritto una prima volta a Cargiore, e di recente era stato a visitarla nel villino di via Plinio. Tutte queste attestazioni di stima e di simpatia avevano potuto aver luogo durante l’una o l’altra separazione dalla Frezzi; e per esse egli aveva provato tanto più forte il turbamento, quell’impressione di trasgredire e di far male, in quanto che subito aveva intravveduto in quella giovine, dallo spirito così simile al suo, per quanto ancor selvatico e inculto, quella che avrebbe potuto liberarlo dalla suggezione della Frezzi, se la troppa distanza dell’età, il dovere di lei, se non verso quell’indegno marito, certamente verso il figlio, non gli avessero fatto considerare come un vero e proprio delitto il solo pensarlo. Eppure, nella lettera che le aveva diretto a Cargiore s’era lasciato andare a dirle più che non dovesse, e ultimamente, nella visita al villino, a farle intendere assai più che non dicesse. Le aveva letto negli occhi lo stesso orrore che egli aveva del proprio stato e, insieme, lo stesso terrore di strapparsene; e aveva ammirato lo sforzo con cui a un tratto era riuscita a riprendersi di fronte a lui, quasi scacciandolo. Doveva ora credere a quel che gli diceva il marito, che ella cioè lo aspettava con impazienza? Voleva dire, senza dubbio, che aveva preso una violenta, disperata risoluzione, da cui non si tornava più indietro. E aveva mandato proprio il marito, a invitarlo? No: questo gli parve troppo, e non da lei. L’invito seguiva certamente al biglietto di congratulazione ch’egli le aveva scritto dopo la lettura della novella su la Vita Italiana; e quell’impazienza era forse un’aggiunta del marito.
Maurizio Gueli non avrebbe voluto riconoscerlo; ma pur vedeva chiaramente che istigatore era stato lui, due volte: con la sua visita, prima; con quel biglietto, poi. E avendo ella resistito alla prima istigazione, quasi offendendolo, era naturale che ora, dopo quel biglietto, lo invitasse.
Doveva andare? Poteva rifiutarsi; addurre una scusa, un pretesto. Ah, la violenza continua, in cui da venti anni era tenuta la sua vita, la continua esasperazione dell’animo lo traevano, appena solo, a eccedere inevitabilmente, a commettere atti inconsulti, a compromettere e a compromettersi.
Era infatti per lui eccesso, atto inconsulto, compromissione grave ciò che per ogni altro sarebbe stato innocuo e comunissimo atto senza conseguenze: una visita, un biglietto di congratulazione… Egli doveva considerarli delitti, e tali in fondo ritenerli veramente nella mostruosa coscienza che quella donna gli aveva fatto, per cui avevan peso di piombo anche i più lievi e innocenti atti della vita: uno sguardo, un sorriso, una parola…
Maurizio Gueli si sentì sollevare da un impeto di ribellione, da una prepotente foga d’orgoglio; ritorse contro la Frezzi l’irritazione che in quel momento provava per la coscienza del male che in verità credeva d’aver fatto con quella visita prima, con quel biglietto poi; e per togliersi dalla visto quel figuro là in attesa della risposta, promise che presto sarebbe venuter.
– La incoraggi, sa! – gli diceva ora Giustino, accomiatandosi, davanti alla porta. – La spinga, la spinga anche con forza… Questo benedetto dramma! È già alla fine del secondo atto; le manca il terzo; ma l’ha già tutto pensato; e creda che… a me par bello, ecco: e anche… anche il Baldani che l’ha sentito, dice che…
– Il Baldani?
Dal tono con cui il Gueli fece questa domanda, Giustino comprese d’aver toccato un tasto che non doveva toccare. Ignorava che Paolo Baldani s’era scagliato in quei giorni con furia demolitrice, in una serie d’articoli su un giornale fiorentino, contro tutta l’opera letteraria e filosofica del Gueli, dal Socrate demente alle Favole di Roma.
– Già… sì, è venuto a visitare Silvia, e… – rispose impacciato, esitante. – Silvia veramente non voleva; sono stato io… sa? per… per spingerla…
– Dica alla Roncella ch’io verrò da lei questa sera stessa, – troncò il Gueli, allontanandolo da sé con una quasi opaca durezza di sguardo.
Giustino si profuse in inchini e in ringraziamenti.
– Perché io parto domani per Parigi – volle aggiungere, già sul pianerottolo, – per assistere a…
Ma il Gueli non gli diede tempo di finire: chinò appena il capo e chiuse l’uscio.
La sera andò a Villa Silvia. Vi ritornò il giorno appresso, quando già Giustino Boggiolo era partito per Parigi; e d’allora in poi ogni giorno, o di mattina o nel pomeriggio.
Era in entrambi, la stessa coscienza, che un minimo atto, una minima concessione, un minimo abbandono, avrebbe determinato un rivolgimento assoluto e intero della loro esistenza.
Ma come sarebbe stato a lungo possibile impedirlo, se tanta era l’esasperazione delle loro anime e così chiaramente l’uno la avvertiva nell’altra? se i loro occhi, incontrandosi, s’abbagliavano a vicenda, le loro mani tremavano al pensiero d’un fortuito contatto, e quella ritenutezza li manteneva in uno stato di così angosciosa, insostenibile sospensione, da far loro considerare come un riposo, come una liberazione ciò che più temevano e a cui volevano sfuggire?
Il solo fatto che egli veniva lì e che ella lo accoglieva e tutti e due stavano insieme e soli, pur quasi senza guardarsi e senz’affatto toccarsi, era già concessione peccaminosa per l’uno e per l’altra, una compromissione che sentivano a mano a mano irreparabile.
Avvertivano entrambi di cedere sempre più, inevitabilmente, a una violenza non già d’un interno sentimento reciproco che li attraesse; ma, al contrario, a una violenza esterna che li premesse e li spingesse a unirsi contro lo sforzo che essi anzi facevano per resistere e tenersi discosti, sentendo che la loro unione sarebbe per forza quale essi in fondo non avrebbero voluto.
Ah, potersi liberare a vicenda da quelle condizioni odiose, senza che la loro unione fosse possibile solo a costo d’una colpa che incuteva a lei ribrezzo e orrore, a lui sgomento e rimorso!
La violenza che avvertivano era appunto questa: di dover commettere quella colpa più forte di loro, ma necessaria, inevitabile, se volevano liberarsi. Ed ecco, eran lì, messi insieme, per commetterla, tremanti, disposti e restii.
Egli aveva dietro di sé la fiera ombra di quella donna rigida livida irsuta, che già gli fischiava negli orecchi di non poter più ritornare a lei, di non poter più mentire, adesso, negare che della libertà aveva profittato per avvicinarsi a un’altra donna: eccola lì, quella! onesta, è vero? onesta come lui, simile in tutto a lui; ah quella sì! e lo avrebbe ricondotto all’arte, quella, prendendolo per mano, a viver di poesia; e gli avrebbe riacceso col fuoco della gioventù il sangue intorpidito… Ma via, perché così timido? Su, su, coraggio! Ah, forse l’amore… già! l’amore lo rimbamboliva… Che bella manina, eh? con quella venuccia azzurra che si diramava… Posarsela su la fronte, passarsela sugli occhi, quella manina… e baciarla, baciarla lì su le unghie rosee… Quelle, no, non sgraffiavano. Gattina mansa, gattina mansa… Su, provarsi a strisciarle la groppa! Miagolio o belato? Povera pecorella, che un marito infame voleva mungere e tosare…
Come andar di nuovo incontro a un simile dileggio? Sentiva quelle parole, come se la Frezzi veramente gliele fischiasse dietro le spalle.
E dietro, a spingerla, ella si sentiva il marito che appunto la aveva messa e lasciata lì col Gueli e se n’era partito per Parigi, a dar spettacolo anche là delle sue bravure, a convertire in denari anche là lo spasso che avrebbe offerto a attori, attrici e scrittori e giornalisti francesi, sicuro che intanto qua ella col Gueli gli apparecchiava il nuovo dramma. Lo voleva! non voleva altro! E come non gli era importato di tutte le risa, così non gl’importava ora che la moglie fosse sospettata da tutti i pettegoli che, durante la sua assenza, vedevano andar lì il Gueli già libero della Frezzi, il Gueli su la cui simpatia per lei s’era già tanto malignato. .
Stavano entrambi, con quella loro tempesta compressa a stento in petto, saggi e discosti ancora, là, fermi al posto e al compito assegnato: intenti a quel nuovo dramma che pareva, col titolo, li irridesse e li aizzasse: – Se non così…
Le propose egli forse perciò di mutare quel titolo? L’atto della protagonista, di quella Ersilia Arciani, quel suo andare in casa della amante del marito a prendersi la bimba, gli suggeriva l’immagine del nibbio che piomba in un nido a ghermirvi il pulcino. Ecco, forse il dramma poteva intitolarsi così: Nibbio.
Ma conveniva all’indole di Ersilia Arciani, alla ragione e al sentimento ond’era mossa a quell’atto l’idea di rapacità crudele che il nibbio richiama? Non conveniva, secondo lei. Ma Silvia intendeva perché egli, con quella proposta di mutare il titolo, tendeva ad alterar l’indole della protagonista, a dare una ragione di vendetta e un intento aggressivo a quell’atto di lei: egli certo in quell’indole chiusa, in quella rigidezza austera di Ersilia Arciani vedeva alcunché della Frezzi e non sapeva tollerar che quella fosse e si dimostrasse così nobile, così indulgente alla colpa, e la voleva snaturare. Snaturandola però così, non sarebbe stato tutt’altro il dramma? Bisognava riprenderlo, ripensarlo tutto daccapo.
Egli restava in apparenza assorto a quelle sagge osservazioni che ella gli faceva in un tono che chiaramente lasciava intendere d’avere inteso e di non volere insistere per non toccare una piaga ancor viva e dolorosa.
Erano già apparse sui giornali di Roma, di Milano, di Torino lunghe conversazioni del marito coi corrispondenti da Parigi, i quali, pur parlando seriamente del dramma e della viva ansia con cui il pubblico parigino ne attendeva la rappresentazione, con un tono poi che lasciava chiaramente sottintendere un’intenzione di burla, decantavano la prodigiosa attività, lo zelo, il fervore ammirevole di quell’ometto «che talmente considerava come sua l’opera della moglie, che quasi era debito ne venisse gloria anche a lui». Venne alla fine il telegramma di Giustino annunziante il trionfo, e seguirono il telegramma giornali e giornali e giornali col giudizio dei critici più autorevoli tutti in gran parte benigni.
Silvia impedì al Gueli d’indugiarsi a leggere innanzi a lei, anche per conto suo, quei giornali.
– No, per carità, per carità! Non posso più sentirne parlare! Le giuro che darei… non so, mi par poco ogni cosa, tutto, tutto darei, per non averlo scritto, quel dramma!
Èmere, intanto, quasi a ogni ora veniva ad annunziare una nuova visita. Silvia avrebbe voluto far dire a tutti che non era in casa. Ma il Gueli le fece intendere che avrebbe fatto male. Ella scendeva giù nel salotto, e lui rimaneva lì, nascosto nello studio, ad aspettarla, scorrendo quei giornali, o piuttosto, pensando. Giù, intanto, con lei erano o il Baldani o il Luna o il Betti.
– Ah, gioventù! – sospirò una volta il Gueli nel vederla rientrar nello studio col volto acceso.
– No! che dice? – scattò ella, pronta e fiera. – Io ne ho schifo! ne ho schifo! Ah, deve finire, deve finire, deve finire… Se sapesse come li tratto!
Già qualche silenzio d’una gravezza enorme cadeva tra i loro discorsi stanchi e trascinati a forza; qualche silenzio, durante il quale sentivano il loro sangue fremere e frizzare e le loro anime angosciarsi nell’ansia d’una tremenda attesa. Ecco, bastava che in uno di quei momenti egli stendesse una mano su la mano di lei: ella gliel’avrebbe lasciata, e irresistibilmente avrebbe appoggiato il capo, nascosto il viso sul petto di lui; e il loro destino, ormai inevitabile, si sarebbe compiuto. Perché dunque ritardarlo ancora? Ah, perché! perché ancora l’uno e l’altra potevano pensare questo loro abbandono e perciò tenersi ancora, quantunque già dentro di sé abbandonati l’uno all’altra perdutamente.
Doveva pur venire l’istante che non l’avrebbero più pensato!
Si vedevano arrivati al limite estremo d’un atto che avrebbe segnato la fine della loro prima vita, senz’essersi ancora detta una parola d’amore, parlando d’arte, come un’alunna può parlarne al suo maestro; si sarebbero a un tratto ritrovati di là, smarriti, angosciati, sconvolti, all’inizio d’una nuova vita, non sapendo neppure come dirsi, come intendersi su la via da prendere subito, subito, perché ella a ogni modo si allontanasse di là.
Sentivano così assolutamente il bisogno di fuggire, più per pietà di sé che per amore, che il disgusto d’indugiarsi nei particolari del modo bastava a trattenerli ancora.
Certo, avrebbe dovuto anch’egli lasciar la sua casa tutta piena dei ricordi di colei. Dove andare? Bisognava trovar qualche rifugio, almeno per il primo momento, un ricovero per sottrarsi allo scoppio dello scandalo inevitabile. Anche questo li avviliva profondamente e li disgustava.
Non avevano essi il diritto di vivere in pace, alla fine, e umanamente, nella pienezza incontaminata della loro dignità? Perché avvilirsi? perché nascondersi? Ma perché né il marito né colei avrebbero accettato in silenzio le ragioni che essi, prima ancora di venir meno al loro debito di lealtà verso l’uno e verso l’altra, potevano gittar loro in faccia, affermando quel diritto così a lungo e in tanti modi calpestato; avrebbero gridato, cercato d’impedire… Altro disgusto, più forte del primo.
Tra questi pensieri stavan sospesi e trattenuti, quand’egli – alla vigilia appunto del ritorno di Giustino da Parigi – avviò un discorso nel quale subito ella sottintese una proposta risolutiva di quel loro stato di pena.
Pesava su loro come una condanna quel dramma stento e duro, ch’ella aveva cominciato e non riusciva a condurre a fine; nella discussione su i personaggi e le scene di esso s’era impigliata finora l’ambascia della loro irresoluzione. Ora, la proposta di lui di metter da canto e lasciar lì quel dramma e il suggerimento improvviso di un altro da comporre insieme, fondato su una visione ch’egli aveva avuto tant’anni addietro della Campagna romana, presso Ostia, tra la gente di Sabina, che scende a svernar colà in orride capanne, significarono chiaramente per lei la fine della irresoluzione; e più chiaramente ancora ella scoprì in lui il proposito di troncare ogni indugio e d’affrontar la loro vita nuova, nobile e operosa, nell’invito che le fece per il giorno appresso – il giorno appunto che doveva arrivare il marito – d’andare insieme a veder quei luoghi presso Ostia, luoghi minacciosi, dalla parte verso il mare, ove giganteggia una torre solitaria, Tor Bovacciana, con a’ piedi il fiume traversato da un’alzaja, lungo la quale passa una barcaccia per il tragitto di qualche pescatore silenzioso, di qualche cacciatore…
– Domani? – chiese ella; e l’aria e la voce espressero una totale remissione.
– Sì, domani, domani stesso. A che ora arriverà?
Ella intese subito chi, e rispose:
– Alle nove.
– Bene. Sarò qui alle nove e mezzo. Non bisognerà dir nulla. Parlerò io. Partiremo subito dopo.
Non si dissero altro. Egli andò via in fretta; ella rimase tutta vibrante sotto l’oscura imminenza del suo nuovo destino.
La torre… il fiume traversato dall’alzaja… la barca che traghetta i rari passanti per quei luoghi minacciosi…
Aveva sognato?
Là, dunque, il ricovero? A Ostia… Non bisognava dir nulla… Domani!
Ella avrebbe lasciato tutto qui: sì, tutto, tutto. Gli avrebbe scritto. Fino all’ultimo non avrebbe mentito. Di questo sopratutto era grata al Gueli. Anche partendo, il giorno appresso, non avrebbe mentito. In quel dramma, con quel dramma da lui proposto sarebbe entrata nella vita nuova, con l’arte e dentro l’arte, nobilmente. Era la via; non era un mezzo o un pretesto d’inganno: la via per uscire, senza menzogna e senza vergogna, da quella casa odiosa, non più sua.
3.
– Via, via, fate presto, fate presto: non arriverete a tempo!
Giustino gridò dal cancello del villino quest’ultima raccomandazione ai due che s’allontanavano in carrozza, e aspettò che Silvia almeno, se non il Gueli, si voltasse a salutarlo con la mano.
Non si voltò.
E Giustino, seccato di quella mutria persistente della moglie, scrollò le spalle e risalì in camera ad aspettare che Èmere venisse ad annunziargli che il bagno era pronto.
«Che donna!», pensava. «Far quel viso disgustato anche a un invito così gentile… Il duomo d’Orvieto: bello! Arte antica… roba da studiare…»
Veramente, tanto tanto non era piaciuto neanche a lui, che proprio nel giorno, anzi quasi nel punto stesso del suo arrivo da Parigi, il Gueli fosse venuto a invitar la moglie a quella gita artistica. Ma se il Gueli non sapeva che egli sarebbe arrivato quella mattina! Ne aveva mostrato tanto dispiacere, anche perché il giorno appresso doveva partire per Milano e non avrebbe avuto più il tempo di mostrare a Silvia tutte le meraviglie d’arte racchiuse là – nel duomo d’Orvieto.
Bello, bello, il duomo d’Orvieto: lo aveva sentito dire… Certo, non avrebbe potuto fare una grande impressione a lui che veniva da Parigi, ma… arte antica, roba da studiare…
Proprio urtante, ecco, quel viso disgustato. Tanto più che il Gueli, santo Dio, s’era prestato così gentilmente a tenerle compagnia in quei giorni, e con tanta grazia la esortava a non farsi scrupolo dell’arrivo del marito, il quale, essendosi certamente divertito a Parigi, non poteva aversi a male che la moglie si pigliasse qualche svago per poche ore, fino alla sera… Ma già, quando lui stesso, perbacco, le aveva detto: – Va’ pure, ti prego, mi fai piacere!
Giustino si picchiò due volte la fronte con un dito, fece una smusata e canterellò:
– Non mi piaaàce… non mi piaaàce…
Èmere venne ad annunziargli che il bagno era bell’e pronto.
– Eccomi!
Steso poco dopo, deliziosamente, nella bianca vasca smaltata, in cui l’acqua assumeva una dolcissima tinta azzurrina; ripensando al fragoroso turbinìo degli splendori di Parigi nella nitida quiete di quel luminoso stanzino da bagno, suo, si sentì beato. Sentì che quello alla fine era veramente il riposo del trionfatore.
Deliziosa lì, in quel tepido bagno, anche la sensazione della stanchezza, che gli ricordava quanto aveva lavorato per vincere a quel modo.
Ah, questa vittoria di Parigi, questa vittoria di Parigi era stata il vero coronamento di tutta l’opera sua! Ora si poteva dire appieno soddisfatto: felice, ecco.
Tutto sommato, era anche bene che Silvia si fosse recata a quella gita. Con la stanchezza e nella prima foga dell’arrivo egli avrebbe forse sciupato l’effetto del racconto e delle descrizioni che voleva farle.
Ora, dopo il bagno, prenderebbe un ristoro, poi andrebbe a dormire. Riposatamente, la sera, il racconto e le descrizioni alla moglie e al Gueli delle «gran cose» di Parigi. Gli sarebbe piaciuto che fosse presente qualche giornalista, da riferirli poi al pubblico, magari in forma d’intervista. Ma domani, eh! ne avrebbe trovato uno, cento ne avrebbe trovati, felicissimi di contentarlo.
Si svegliò verso le otto di sera, e per prima cosa pensò ai regali ch’aveva portato da Parigi alla moglie: una magnifica vestaglia, tutta una spuma di merletti; un’elegantissima borsa da passeggio d’ultimo modello; tre pettini e un ferma-capelli di tartaruga chiara, finissimi, e poi un arredo d’argento artisticamente lavorato per la scrivania. Volle trarli dalle valige perché la moglie, subito com’entrava, s’empisse gli occhi di meraviglia e di piacere: i pettini e la borsa su la specchiera; la vestaglia, sul letto. Si fece ajutar da Èmere a portare i pezzi dell’altro regalo su la scrivania; ve li depose, e rimase lì nello studio per vedere che cosa avesse fatto la moglie durante la sua assenza.
Come, come? Niente! Possibile? Il dramma… oh, che! ancora alla fine del secondo atto… Su la prima cartella il titolo era cancellato e accanto alla cancellatura era scritto tra parentesi Nibbio seguito da un punto interrogativo.
Che voleva dire?
Ma come! Niente? Neanche un rigo, in tanti giorni! Possibile?
Frugò nei cassetti: niente!
Di mezzo alle cartelle grandi del dramma scivolò una cartellina staccata. La prese: vi erano scritte qua e là di minutissimo carattere alcune parole: fugacità lucida… poi, più sotto:fredde difficoltà amare… più sotto ancora: tra tanto prosperar di menzogne… e poi: Quante salde opinioni che traballano come ubriachi… e infine: campane, gocce d’acqua infila su la ringhiera del ballatoio… alberi pazzi e pensieri pazzi… le tendine bianche della canonica, l’orlo sbrindellato d’una veste su una scarpa scalcagnata…
Uhm! Giustino fece un viso lungo lungo. Rivoltò la cartellina. Niente. Non c’era altro.
Eccolo là tutto quello che aveva scritto la moglie in circa venti giorni! Non era valso a nulla, dunque, neppure il consiglio del Gueli… Che significavano quelle frasi staccate?
Si posò le mani su le guance e ve le tenne un pezzo. Gli occhi gli andarono su la seconda frase: fredde difficoltà amare…
– Ma perché? – disse forte, scrollando le spalle.
E si mise a passeggiare per lo studio, ancora con le mani su le guance. Perché e quali difficoltà ora che tutto, mercé lui, era facile e piano: aperta la via, e che via! un vialone, senza più né sassi né sterpi, da correre di trionfo in trionfo?
– Difficoltà amare… Fredde difficoltà amare… Fredde e amare… Uhm! Ma quali? perché?
E seguitava a passeggiare, con le mani, ora, afferrate dietro la schiena. Si fermava un tratto, più assorto, con gli occhi chiusi, e riprendeva ad andare per rifermarsi poco dopo, ripetendo a ogni fermata, adesso, con un lungo stiramento del viso:
– Alberi pazzi e pensieri pazzi…
E lui che s’aspettava il dramma finito e che contava di cominciar domani stesso a intercalare le prime «indiscrezioni» su esso nel racconto ai giornalisti del trionfo di Parigi!
Entrò Èmere a recargli i giornali della sera.
– E come? – gli domandò Giustino. – Già così tardi?
– Passate le dieci, – rispose Èmere.
– Ah sì? E come? – ripetè Giustino che, avendo dormito fino a tardi, aveva perduto l’esatta percezione del tempo. – Che hanno fatto? Avrebbero dovuto esser qui alle nove e mezzo al più tardi… Il treno arriva alle nove meno dieci…
Èmere aspettò, impalato, che il padrone finisse quelle sue considerazioni, e poi disse:
– Giovanna voleva sapere se si deve aspettare la signora.
– Ma sicuro che si deve aspettare! – rispose, irritato, Giustino. – E anche il signor Gueli che cenerà con noi… Forse qualche ritardo… Se… se… ma no! se avessero perduto la corsa, avrebbero fatto un telegramma. Sono già le dieci?
– Passate, – ripetè Èmere, sempre impalato, impassibile.
Giustino, guardandolo, sentì crescersi l’irritazione. Aprì un giornale per guardar negli avvisi, se per caso ci fosse qualche cambiamento nell’orario delle ferrovie.
– Arrivi… arrivi… arrivi… Ecco qua: da Chiusi, ore 20 e 50.
– Sissignore, – disse Èmere. – La corsa è già arrivata.
– Come lo sai, imbecille?
– Lo so perché il signore, qua, del villino accanto, che va e viene da Chiusi, giusto sarà arrivato da un tre quarti d’ora.
– Ah sì?
– Sissignore. Anzi, sentendo il rumore della carrozza e immaginando che fosse la signora, io ero sceso ad aprire il cancello. Ho visto invece il signore del villino accanto, che viene da Chiusi… Se la signora è andata a Chiusi…
– È andata a Orvieto! – gridò Giustino. – Ma è la stessa linea… Vuol dire che hanno proprio perduto la corsa!
– Se il signore vuole che vada a domandare qui accanto…
– Che cosa?
– Se il signore è proprio arrivato da Chiusi…
– Sì, sì, va’, e di’ intanto alla Giovanna che aspetti.
Èmere andò, e Giustino, riprendendo concitatamente a passeggiare:
– Hanno perduto la corsa… hanno perduto la corsa… hanno perduto la corsa… – si mise a dire con gesti di rabbia. – Orvieto!… la gita a Orvieto!… il duomo d’Orvieto!… Giusto oggi, il duomo d’Orvieto! che c’entrava? Se hanno la testa!… Certi bisogni precipitosi, irresistibili… certe idee!… Poi s’arrabbiano se sentono dire da quello… come si chiama? che sono tutti quanti un’infunata di pazzi! Il duomo d’Orvieto… Avesse lavorato, capivo la distrazione! Non ha fatto nulla, perdio! Alberi pazzi e pensieri pazzi… ecco: lo dice lei stessa…
Èmere tornò a dire che il signore del villino accanto era proprio arrivato da Chiusi.
– E va bene! – gli gridò Giustino. – Porta in tavola per me solo! Avrebbero potuto almeno spedire un telegramma, mi pare.
A tavola, la vista dei due coperti apparecchiati per la moglie e per il Gueli, a cui si riprometteva il piacere di raccontare le «gran cose» di Parigi, gli accrebbe il dispetto, e ordinò a Èmere che li sparecchiasse.
Èmere forse stava a guardarlo come lo aveva sempre guardato; ma a Giustino parve che quella sera lo guardasse in altro modo, e anche di questo provò stizza, e lo mandò in cucina.
– Quand’ho bisogno, ti chiamo.
La vista d’un marito, a cui avvenga che la moglie, per un caso impreveduto, resti la notte a dormir fuori in compagnia d’un altro uomo, dev’esser molto divertente per uno che non abbia moglie, specie poi se questo marito è arrivato quel giorno stesso in casa dopo venti giorni d’assenza e ha portato alla moglie tanti bei regali. Bel regalo, in ricambio!
Giustino si sarebbe guardato bene dall’immaginare che il Gueli, gentiluomo austero, più che maturo, potesse minimamente profittare d’un caso come quello… Che! che! E poi, Silvia, il riserbo, l’onestà in persona! Ma un telegramma, perdio, un telegramma avrebbero potuto spedirlo, anzi dovuto, dovuto, ecco: un telegramma avrebbero dovuto spedirlo.
Questa mancanza del telegramma non spedito si fece a mano a mano più grave agli occhi di Giustino, perché a mano a mano si gonfiò di tutta la stizza che egli provava per quella gita giusto nel giorno del suo arrivo, per il racconto delle «gran cose» di Parigi che gli era rimasto in gola e gl’impediva di mangiare, per i regali che la moglie non avrebbe visti e per il meritato compenso che aveva tutto il diritto d’aspettarsene dopo venti giorni d’assenza, perdio! Non spedire neanche un telegramma…
Il silenzio della casa, forse perché egli stava con l’orecchio in attesa della scampanellata d’un fattorino del telegrafo, gli fece a un tratto una sinistra impressione. Si alzò da tavola; guardò di nuovo nel giornale l’orario della ferrovia per sapere a che ora il giorno appresso la moglie poteva esser di ritorno, e vide, che non prima del tocco: arrivava un’altra corsa di mattina, ma troppo presto per una signora. Era sperabile intanto che, se non durante la notte, la mattina per tempo arrivasse il telegramma, il telegramma, il telegramma. E andò su per leggersi a letto il giornale e aspettare il sonno che certamente per tante ragioni sarebbe tardato a venire.
Sporse il capo dall’uscio a guardar la camera vuota della moglie. Che pena! Sul letto, come in attesa, era la bella vestaglia di merletti. Per il riflesso della campana attorno alla lampadina di luce elettrica, il bianco dei merletti si coloriva d’una soave tenuissima tinta rosea. Giustino se ne sentì turbato e angosciato, e volse gli occhi alla specchiera per vedere i pettini e la borsa appesa a uno dei bracci che reggevano in bilico lo specchio; vi si accostò e, notando un certo disordine, lì sul piano della specchiera, certo per la fretta con cui Silvia la mattina, all’importuno invito del Gueli, s’era acconciata, si mise a rassettare, pensando che doveva esser pure ben triste per la moglie, ormai abituata a dormire in una camera come quella, passar la notte chi sa in quale misero alberguccio d’Orvieto…
4.
Si svegliò tardi, la mattina, e per prima cosa domandò a Èmere se non era arrivato il telegramma.
Non era arrivato.
Qualche disgrazia? Qualche incidente? Ma no! il Gueli, Silvia Roncella non erano due viaggiatori come gli altri. Se qualche disgrazia fosse loro occorsa, si sarebbe subito saputo. E poi, tanto più, se mai, il Gueli o qualcun altro gli avrebbe telegrafato, per non tenerlo in più gravi angustie con quel silenzio. Pensò di telegrafar lui a Orvieto; ma dove indirizzare il telegramma? No, niente. Meglio aspettare con pazienza l’arrivo del treno. Intanto avrebbe atteso a sistemare i conti arretrati da tanti giorni, quello degli introiti e quello degli esiti. Un bel da fare!
Era da circa tre ore tutto immerso nella sua minuziosissima contabilità, e però lontano ormai da ogni costernazione per la moglie, quando Èmere venne ad annunziargli che c’era giù una signora che gli voleva parlare.
– Una signora? Chi?
– Voleva vedere propriamente la signora. Le ho detto che la signora non c’è.
– Ma chi è? – gridò Giustino. – Signora… signora… signora… È mai stata qui?
– Nossignore, mai.
– Forestiera?
– Nossignore, non pare.
– E chi può essere? – domandò a sé stesso Giustino. – Ecco, vengo.
E scese al salotto. Restò su la soglia come basito al cospetto di Livia Frezzi, la quale, col viso scontraffatto, orribilmente macerato, quasi pinzato qua e là da rapidi guizzi nervosi, lo investì coi denti serrati e le labbra divaricate e gli occhi verdi fissi e scoloriti…
– Non è tornata? Non sono ancora tornati?
Giustino, nel vedersela addosso, irta così di furia dilaniatrice, ebbe paura, e insieme compassione e sdegno.
– Ah, sa anche lei? – fece. – Jersera… jersera certo… avranno perduto la… la corsa… ma… ma forse a momenti…
La Frezzi gli si fece ancor più addosso, proprio quasi ad aggredirlo:
– Dunque voi sapevate? voi avete permesso che andassero insieme? voi!
– Come… signora mia… ma perché? – rispose, traendosi indietro. – Lei… lei s’immagina… io compatisco… ma…
– Voi? – incalzò la Frezzi.
E allora Giustino, giungendo pietosamente le mani, quasi a raccogliere e a offrire con supplice atto la ragione a quella povera donna:
– Ma che ci può esser di male, scusi? Io la prego di credere che la mia signora…
Livia Frezzi non lo lasciò proseguire: serrò le mani artigliate accanto al volto contratto, quasi spremuto per fare uscir fuori dei denti serrati l’insulto imbevuto di tutto il suo fiele, di tutto il suo disprezzo e proruppe:
– Imbecille!
– Ah, perdio! – scattò Giustino. – Lei m’insulta a casa mia! Insulta me e la mia signora col suo sospetto indegno!
– Ma se li hanno visti, – riprese quella, faccia contro faccia, con le labbra stirate ora da un orribile ghigno. – Insieme, a braccetto, tra le rovine di Ostia… così!
E sporse una mano per afferrargli il braccio.
Giustino si scansò.
– Ostia? ma che Ostia! Lei travede! Chi gliel’ha detto? Se sono andati a Orvieto!
– A Orvieto, è vero? – sghignò ancora la Frezzi. – Ve l’hanno detto loro?
– Ma sissignora! Il signor Gueli! – affermò con forza Giustino. – Una gita artistica, una visita al duomo d’Orvieto… Arte antica, roba da…
– Imbecille! imbecille! imbecille! – proruppe di nuovo la Frezzi. – Gli avete, così, tenuto mano?
Giustino, pallidissimo, levò un braccio e, contenendosi a stento, fremette:
– Ringrazii Dio, signora, d’esser donna, se no…
Più torbida e più fiera che mai, la Frezzi gli tenne testa, interrompendolo:
– Voi, voi ringraziate Dio piuttosto, che non l’ho trovata qui! Ma saprò trovar lui, e sentirete!
Scappò via con questa minaccia, e Giustino rimase a guardarsi attorno, vibrante e stordito, movendo le dieci dita delle mani in aria come non sapesse che prendere e che toccare.
– È impazzita… è impazzita… è impazzita… – bisbigliava. – Capace di commettere un delitto…
Che doveva far lui? Uscire, correrle dietro? Uno scandalo per istrada… Ma intanto?
Si sentiva come trascinato dalla furia di colei, e protendeva il corpo quasi per lanciarsi alla corsa, e subito lo arretrava, trattenuto da una riflessione che non aveva tempo né modo d’affermarsi nel confuso sbigottimento, nella perplessità, tra tanti incerti, opposti consigli. E vaneggiava:
– Ostia… che Ostia!… Sarebbero tornati… A braccetto… tra le rovine… È pazza… Li hanno visti… Chi può averli visti?… E sono andati a dirlo a lei?… Qualcuno che la sa gelosa, e ci si spassa… E intanto?… Costei è capace d’andare alla stazione e di far chi sa che cosa…
Guardò l’orologio, senza pensare che la Frezzi non aveva alcuna ragione d’andare alla stazione a quell’ora, se supponeva che il Gueli e Silvia fossero andati a Ostia e non a Orvieto; e chiamò Èmere perché gli portasse giù il cappello e il bastone. Mancava quasi mezz’ora al tocco: aveva appena il tempo di trovarsi presente all’arrivo del treno.
– Alla stazione, caccia! – gridò, montando su la prima vettura incontrata presso il Ponte Margherita.
Ma vi giunse pochi istanti dopo l’arrivo del treno da Chiusi. Ne scendevano ancora gli ultimi passeggeri. Guardò tra questi. Non c’erano! Corse verso l’uscita, lanciando occhiate qua e là su tutti quelli che si lasciava indietro. Non li vedeva! Possibile che non fossero arrivati neppure con quel treno? Forse erano già usciti, s’eran già messi in vettura… Ma non li avrebbe incontrati, venendo, lì presso la stazione:
– Mi saranno sfuggiti!
E saltò in un’altra vettura per farsi riportare al villino, di furia.
Era quasi sicuro, quando vi giunse, che Èmere dovesse rispondergli che nessuno era arrivato.
Non poteva più esser dubbio ormai che qualche cosa di grave doveva essere accaduto. Si trovava fra la stranezza (che ora gli saltava agli occhi losca) di quella gita proposta giusto sul punto del suo arrivo, a cui, dopo il mancato ritorno, seguiva un così lungo, inesplicabile silenzio, e il sospetto oltraggioso di quella pazza. Avrebbe voluto arrestarlo perché non riempisse quel vuoto e quel silenzio e non s’impadronisse anche di lui, quell’oltraggioso sospetto; e tentava di parargli contro, per sbigottirlo, l’enormità dell’inganno che quei due gli avrebbero fatto, incommensurabile per la sua coscienza di marito esemplare, che sempre e tutto si era speso per la moglie, fino a conquistarle quei trionfi e l’agiatezza; e la fama d’austerità di cui godeva il Gueli, e l’onestà, l’onestà di sua moglie, scontrosa e dura. Strana, sì: ella era stata strana in quegli ultimi tempi, dopo il trionfo del dramma, ma appunto perché quella sua onestà scontrosa e dura, amante della semplicità e dell’ombra, non sapeva ancora acconciarsi al fasto e allo splendore della fama. No, no, via! come dubitare dell’onestà di lei, che gli doveva, se non altro, tanta gratitudine, e della lealtà del Gueli, già vecchio, e poi così legato da tanti anni a quella donna, schiavo di lei?
Uno sprazzo… Che forse al Gueli il servo avesse telegrafato a Orvieto l’improvviso arrivo della Frezzi da Monteporzio, e ora egli non osasse ritornare a Roma? Ma, perdio, doveva tenersi Silvia con sé, là, per la sua paura di ritornare? E Silvia, prestarsi, senza capire che n’andava di mezzo la sua dignità? Ma che, no! Non era possibile! Avrebbero capito che, più stavano a ritornare, più sarebbero cresciuti i sospetti e le furie di quella pazza… Tranne che il Gueli, persuaso da quella paura, perseguitato da quel sospetto, ora, fuori delle grinfe della Frezzi, non inducesse Silvia…
Quel silenzio, quel silenzio con lui, più di tutto era grave!
Doveva egli andare a Orvieto? E se non c’erano più? Se non c’erano mai stati? Ecco, già ne dubitava… Forse erano andati altrove… Gli sovvenne a un tratto che il Gueli aveva detto di dover partire per Milano. Che si fosse portata seco Silvia fin lassù? Ma come: senza darne avviso? Se onestamente fosse nato loro il desiderio di visitare qualche altro luogo, glien’avrebbero dato notizia in qualche modo… No, no… Dov’erano andati?
Ah, ecco il campanello! Balzò allo squillo, non aspettò che Èmere corresse ad aprire il cancello, vi corse lui, si trovò di fronte il postino che gli porgeva una lettera.
Era di Silvia! Ah, finalmente… Ma come? Su la busta, un francobollo di città… Gli scriveva da Roma?
– Va’! va’! – gridò a Èmere, accorso, mostrandogli che aveva preso lui la lettera.
E strappò la busta, lì nel giardino stesso, innanzi al cancello.
La lettera, brevissima, d’una ventina di righe in tutto, era senza luogo di provenienza né data né intestazione. Lette le prime parole, egli si provò a trarre, come trafitto, due volte invano il respiro; il volto gli si sbiancò; gli s’intorbidarono gli occhi; vi passò sopra una mano; poi strinse questa e l’altra che reggeva la lettera, e la lettera si spiegazzò.
Ma come?… via?… così?… per non ingannarlo? E guardava fieramente un placido leoncino di terracotta là presso il cancello, che, con la testa allungata su le zampe anteriori, niente, seguitava a dormire. – Ma come? e non l’aveva ingannato, con quel vecchio lì?… non era andata via con lui? E gli lasciava tutto… che voleva dir tutto? che era più tutto, che era più lui, se ella… Ma come? Perché? Non una ragione! Niente… Se ne andava via così, senza dire perché… Perché egli aveva fatto tanto, troppo, per lei? Questo, il compenso? Gli buttava in faccia tutto… Come se egli avesse lavorato per sé solo e non per lei insieme! E poteva più star lì, egli, senza di lei? Era il crollo… il crollo di tutta la sua vita… il suo annientamento… Ma come? Nulla, nulla, nulla di preciso diceva quella lettera; non parlava affatto del Gueli; diceva di non volerlo ingannare e soltanto affermava recisamente il proposito di rompere la loro convivenza. E proveniva da Roma! Era ella dunque a Roma? E dove? In casa del Gueli, no, non era possibile; c’era la Frezzi, e costei era venuta da lui quella mattina stessa. Forse non era a Roma; e quella lettera era stata mandata a qualcuno perché la impostasse. A chi? Forse al Raceni… forse alla signora Ely Faciolli… Qualche cosa all’uno o all’altra aveva dovuto scrivere e, se non altro, dalla busta si sarebbe scoperto il luogo di provenienza. Egli doveva andare, rintracciarla a ogni costo, farla parlare, che gli spiegasse perché non poteva più vivere con lui, e farle intendere la ragione. Doveva essersi impazzita! Forse il Gueli… No, egli non sapeva ancor credere che si fosse potuta mettere col Gueli! Ma forse questi, chi sa che le aveva istigato contro di lui, vessato com’era dalla Frezzi, impazzito anche lui… Ah pazzi, pazzi tutti! E che cieco era stato lui ad andare a invitarlo contro la volontà di lei… Chi sa che si figurava di lui il Gueli! Che egli volesse vessar la moglie come la Frezzi vessava lui? Ecco, sì, doveva averle messo in capo questa nequizia… Perché egli la spingeva a lavorare? Ma per lei! per lei! per mantenerla nella fama, nell’altezza a cui la aveva inalzata con tante fatiche! Tutto, tutto per lei! Se egli aveva anche perduto l’impiego per lei? se per sé stesso non era più vissuto, come sospettar di lui una tale nequizia? Ella, se mai, ella, Silvia aveva sfruttato lui, s’era preso tutto il suo lavoro, tutto il suo tempo, tutta l’anima sua; ed ecco, ora lo abbandonava, ora lo buttava lì, via, come uno straccio inutile. Poteva egli tenersi il villino, i guadagni fatti sui lavori di lei? Pazzie! Neanche a pensarci! Ed ecco, restava in mezzo a una strada, senza più stato, senza professione, come un sacco vuoto… No, no, perdio! Prima che scoppiasse lo scandalo, la avrebbe ritrovata! la avrebbe ritrovata!
S’avventò al cancello per correre alla casa della signora Ely Faciolli; ma non l’aveva ancora aperto tutto, che due cronisti, e subito dopo un terzo e un quarto, gli si pararono di fronte con visi alterati dalla corsa e dall’ansia.
– Che è stato?
– Il Gueli… – disse uno ansimante. – È stato ferito il Gueli.
– E Silvia? – gridò Giustino.
– No, niente! – rispose un altro, che tirava appena il fiato. – Stia tranquillo, non c’era!
– E dov’è? dov’è? – domandò Giustino, smaniando e cercando di scappare.
– Non è a Roma! non è a Roma! – gli gridarono quelli a coro, per trattenerlo.
– Se era col Gueli! – esclamò Giustino, fremendo, convulso. – E la lettera… la lettera è da Roma!
– Una lettera, ah… una lettera della sua signora? L’ha ricevuta lei?
– Ma sì! Eccola qua… Sarà un quarto d’ora… Con francobollo di città…
– Si può vederla? – chiese uno, timidamente.
Ma un altro s’affrettò a chiarire:
– No, sa! Non è possibile! È certo che la sua signora è a Ostia.
– A Ostia? Certo?
– Sì sì, a Ostia, a Ostia, senza dubbio.
Giustino si portò le mani al volto e tornò a fremere:
– Ah, dunque è vero! dunque è vero! dunque è vero!
I quattro rimasero a guardarlo, impietositi; uno chiese:
– Lei sapeva che la sua signora era a Roma?
– No, jeri, – scattò Giustino, – col Gueli… mi dissero che andavano a Orvieto…
– A Orvieto? No, che!
– Pretesto!
– Per metterla su una falsa traccia…
– Se il Gueli, guardi, tornava da Ostia…
– Scusi, – ripetè quello, allungando una mano, – si potrebbe vederla codesta lettera?
Giustino tirò indietro il braccio.
– No, niente… dice che… niente! Ma dove, dove è stato ferito il Gueli?
– Due ferite, gravissime!
– Al ventre, al braccio destro…
Giustino squassò la testa:
– No! dico, dove? dove? a casa? per istrada?
– A casa, a casa… Dalla Frezzi… Ritornava da Ostia e… appena giunto a casa…
– Da Ostia? Dunque, l’avrà impostata lui, la lettera…
– Ah, ecco… già… è probabile…
Giustino tornò a coprirsi il volto con le mani, gemendo:
– È finita! è finita! è finita!
Poi domandò con rabbia:
– È stata arrestata la Frezzi?
– Sì, subito!
– Io lo sapevo, che avrebbe commesso un delitto! È stata qua questa mattina!
– La Frezzi?
– Sì, qua, a cercar di mia moglie! E non le son corso dietro!
– Ah, amici miei! amici miei! amici miei! – soggiunse, tendendo le braccia a Dora Barmis, al Raceni, al Lampini, al Centann, al Mola, al Federici, che, appena volata la notizia del delitto, erano accorsi prima alla casa del Gueli, e avevano ancora nei volti l’orrore del sangue sparso là nelle stanze e nella scala invase dai curiosi, e la febbre dello scandalo enorme.
Dora Barmis, rompendo in lagrime, gli buttò le braccia al collo; tutti gli altri gli si fecero intorno, premurosi e commossi; ed entrarono così a gruppo nel salotto del villino. Qua, Dora Barmis, che gli teneva ancora un braccio intorno al collo, per poco non se lo fece sedere su le ginocchia. Non rifiniva dal gÈmere tra le lagrime abbondanti:
– Poverino… poverino… poverino…
Intenerito da questo compianto e sentendosi a poco a poco racconsolare, riscaldare il cuore da quell’attestato di stima e d’affetto di tutti quegli amici letterati e giornalisti:
– Che infamia! – prese a dire Giustino guardandoli a uno a uno in faccia, pietosamente. – Oh, amici miei, che infamia! A me, a me questo tradimento! Mi siete tutti testimonii di quello che io ho fatto per questa donna! Qua, qua, tutt’intorno, anche le cose parlano! Io, tutto, per lei! Ed ecco, ecco il compenso! Torno jeri da Parigi… anche lì, la gloria, in uno dei primi teatri di Francia… feste, banchetti, ricevimenti… tutti, così, attorno a me, a sentir le notizie che davo di lei, della sua vita, dei suoi lavori… torno qua, sissignori! oh che infamia, amico mio, amico mio, caro Baldani, grazie! Che infamia, sì! che indegnità, grazie! Caro Luna, anche lei! grazie… Caro Betti, grazie; grazie a tutti, amici miei… Anche lei, Jàcono? Sì, una vera perfidia, grazie! Oh, caro Zago, povero Zago… vede? vede? – No! – gridò a un tratto, scorgendo i quattro cronisti intenti a ricopiar la lettera della moglie, che gli doveva esser caduta di mano. – No! Lo dicano a tutti, lo sappia la stampa e l’oda tutta l’Italia! E sappiatelo anche voi, e lo sappiano anche tutti i miei amici di Francia: Qua, ella, in questa lettera, sissignori, dice che mi lascia tutto! Ma lascio tutto io, io a lei! Ne ho schifo! A lei, io, io ho dato tutto, io a lei… e mi sono rovinato! Lascio tutto qua… casa, titoli, danaro… tutto, tutto… e me ne ritorno dal mio figliuolo, io, senza nulla, rovinato. Dal mio figliuolo… Non ho mai pensato neanche al mio figliuolo… io, per lei! per lei!
A questo punto la Barmis non potè più reggere, balzò in piedi e l’abbracciò freneticamente. Giustino, tra lo stordimento e la commozione di tutti, scoppiò in dirottissimo pianto, nascondendo il volto su la spalla di quella sua consolatrice.
– Sublime, sublime, – diceva piano il Luna al Baldani, uscendo dal salotto. – Sublime! Ah, bisognerebbe assolutamente, poverino, che subito qualche altra scrittrice, subito se lo prendesse per segretario! Peccato, peccato, che quella Barmis là non sappia scrivere… È proprio sublime, poverino!
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