Suo marito – Capitolo 2 – Scuola di grandezza

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Suo marito - Capitolo 2

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II. Scuola di grandezza

 1.

            Nello studiolo angusto, arredato di mobili, se non meschini, certo molto comuni, comperati di combinazione o a un tanto il mese, ma pur fornito già d’un tappeto nuovo fiammante e di due tende agli usci anch’esse nuove e d’una tal quale appariscenza, sembrava non ci fosse nessuno. Ma c’era lui, Ippolito Onorio Roncella: là, immobile come le tende, come quel tavolinetto innanzi al divanuccio, immobile come le due tozze scansie e le tre seggiole imbottite.

            Guardava con occhi sonnolenti quegli oggetti e pensava che ormai poteva essere di legno anche lui. Sicuro. È tarlato bene.

            Stava seduto presso la piccola scrivania, con le spalle volte contro l’unica finestretta quadra, che dava sul cortile e da cui entrava perciò ben poca luce, riparata come se fosse molta da una lieve cortina.

            A un certo punto, tutto lo studiolo parve sussultasse. Niente. S’era mosso lui, Ippolito Onorio Roncella.

            Per non guastare all’ampia bellissima barba grigia e ricciuta, lavata, pettinata, spruzzata di liquido odore, quel boffice ch’egli le dava ogni mattina palpeggiandola con la mano cava, si fece venir sul petto, con una mossa del collo, il fiocco del berretto da bersagliere che teneva sempre in capo, e si mise a lisciarlo pian piano. Come il bimbo la poppa della mamma o della bàlia, così egli, fumando, aveva bisogno di lisciar qualcosa e, non volendo la barba, si lisciava invece quel fiocco del berretto da bersagliere.

            Nella quiete cupa del mattino cinereo, nel silenzio grave, ch’era come la tetra ombra del tempo, Ippolito Onorio Roncella sentiva quasi sospesa in una immobilità di triste e oscura e rassegnata aspettativa la vita di tutte le cose, prossime e lontane. E gli pareva che quel silenzio, quell’ombra del tempo, varcasse i limiti dell’ora presente e si profondasse a mano a mano nel passato, nella storia di Roma, nella storia più remota degli uomini, che avevano tanto faticato, tanto combattuto, sempre con la speranza di venire a capo di qualche cosa; e sissignori, a che erano riusciti? Ecco qua: a poter considerare come lui, che – a conti fatti – poteva anche valere quanto un’altra faccenda, stimata di grandissimo momento per l’umanità, questa di lisciare quietamente il fiocco d’un berretto da bersagliere.

            – Che si fa?

            Così domandava di tratto in tratto, con voce cornea e con un verso che accorava profondamente, un vecchio maledetto pappagallo nel silenzio del cortile: il pappagallo de la signora Ely Faciolli, che abitava lì accanto.

            – Che si fa? – veniva d’ora in ora a domandare quella vecchia e sapiente signora alla stupidissima bestia.

            E:

            – Che si fa? – le rispondeva ogni volta il pappagallo; il quale poi, per conto suo, pareva ripetesse la domanda, quanto era lunga la giornata, a tutti gli inquilini della casa.

            Ciascuno gli rispondeva a suo modo, sbuffando, secondo la qualità o il fastidio delle proprie faccende. Tutti, con poco garbo. Peggio di tutti gli rispondeva Ippolito Onorio Roncella, il quale non aveva più nulla da fare, messo da tre anni ormai a riposo, perché senza la minima intenzione d’offendere – (poteva giurarlo) – aveva dato di bestia a un suo superiore.

            Per più di cinquant’anni egli aveva lavorato di testa. Bella testa, la sua. Piena zeppa di pensieri, l’uno più piacevole dell’altro. Basta ora, eh? Ora egli voleva attendere solamente ai tre regni della natura, rappresentati in lui dai capelli e dalla barba (regno vegetale), dai denti(regno minerale), e da tutte le altre parti della sua vecchia carcassa (regno animale).Quest’ultimo e un po’ anche i minerali gli s’erano guastati alquanto, per l’età; il regno vegetale invece gli dava ancora una bella soddisfazione; ragion per cui egli, che aveva fatto sempre ogni cosa con impegno e voleva che paresse, a chi come quel pappagallo gli domandava: – Signor Ippolito, che si fa? – additava la barba e rispondeva gravemente:

            – Il giardiniere.

            Sapeva d’avere una nemica acerrima entro di sé: l’animaccia ribelle, che non poteva tenersi di schizzare in faccia a tutti la verità come un cocomerello selvatico il suo sugo purgativo. Non per offendere, veh, ma per mettere le cose a posto.

            – Tu sei un asino; ti bollo; e non se ne parli più. – Questa è una sciocchezza; la bollo; e non se ne parli più.

            Amava le cose spicce, quella sua nemica. Un bollo, e lì. Meno male che, da qualche tempo, era riuscito ad addormentarla un poco, col veleno, fumando da mane a sera in quella pipa dalla canna lunghissima, mentre con la mano si lisciava il fiocco del berretto da bersagliere. A quando a quando, però, certi furiosi terribili assalti di tosse lo avvertivano che la nemica si ribellava all’intossicamento. Il signor Ippolito allora, strozzato, paonazzo in volto, con gli occhi schizzanti, tempestava coi pugni, coi piedi, si convelleva, lottava rabbiosamente per vincere, per domare la ribelle. Invano il medico gli diceva che l’anima non c’entrava, non aveva che vederci, e che quella tosse gli veniva dai bronchi attossicati, e che smettesse di fumare o non fumasse più tanto, se non voleva incorrere in qualche malanno.

            – Caro signore, – gli rispondeva, – consideri la mia bilancia! In un piatto, tutti i pesi della vecchiaja; nell’altro ci ho soltanto la pipa. Se la levo, tracollo. Che mi resta? Che faccio più, se non fumo?

            – E seguitava a fumare.

            Esonerato dell’ufficio, ch’egli aveva avuto, indegno di lui, al Provveditorato agli studii, per quel giudizio esplicito e spassionato sul suo capo, invece di ritirarsi a Taranto, sua città natale, dove, morto il fratello, non avrebbe trovato più nessuno della sua famiglia, era rimasto a Roma per ajutare con la non lauta pensione la nipote Silvia Roncella, venuta da circa tre mesi a Roma con lo sposo. Ma già n’era pentito, e come!

            Non poteva soffrire specialmente quel suo nuovo nipote, Giustino Boggiolo; per tante ragioni, ma soprattutto perché gli dava afa. Afa, afa. Che è l’afa? Ristagno di luce in basso che snerva l’elasticità dell’aria. Bene. Quel suo nuovo nipote s’indugiava a far lume, il più affliggente lume, in tutte le bassure: parlava troppo, spiegava le cose più ovvie e più chiare, quelle più terra terra, come se le vedesse lui solo e gli altri senza il suo lume non le potessero vedere. Che smanie, che affanno, a sentirlo parlare! Il signor Ippolito dapprima soffiava due o tre volte pian piano, per non offenderlo; alla fine non ne poteva più e sbuffava, sbuffava e sbatteva anche le mani in aria per spegnere tutto quell’inutile lume e restituire l’elasticità all’aria respirabile.

            Di Silvia sapeva che, fin da ragazza, aveva il viziaccio di scribacchiare; che aveva stampato quattro, cinque libri, forse più; ma non s’aspettava davvero che dovesse arrivargli a Roma letterata già famosa. Uh, il giorno avanti, le avevano offerto finanche un banchetto tant’altri pazzi scribacchiatori come lei… Non era però cattiva, in fondo, Silvia, no; anzi non pareva per nulla, poverina, che avesse quella specie di bacamento cerebrale. Aveva, aveva ingegnacelo veramente, quella donnetta lì; e in tante e tante cose collegava, collegava bene con lui. Sfido! lo stesso sangue… la stessa macchinetta cavapensieri, tipo Roncella!

            Il signor Ippolito socchiuse gli occhi e tentennò il capo, pian piano, per non guastarsi la barba.

            Aveva fatto studii particolari, lui, su quella macchinetta infernale, specie di pompa a filtro che metteva in comunicazione il cervello col cuore e cavava idee dai sentimenti, o, com’egli diceva, l’estratto concentrato, il sublimato corrosivo delle deduzioni logiche.

            Pompatori e filtratori famosi, i Roncella, tutti quanti, da tempo immemorabile!

            Ma a nessuno finora, per dir la verità, era mai venuto in mente di mettersi a spacciar veleno per professione, come ora pareva volesse fare quella ragazza, quella santa figliuola: Silvia.

            Il signor Ippolito non poteva soffrire le donne che portano gli occhiali, camminano come soldati, oggi impiegate alla posta, telegrafiste, telefoniste, e aspiranti all’elettorato e alla toga; domani, chi sa? alla deputazione e magari al comando dell’esercito.

            Avrebbe voluto che Giustino impedisse alla moglie di scrivere, o, non potendo impedirglielo (ché Silvia veramente non gli pareva tipino da lasciarsi in questo imporre dal marito), che non la incoraggiasse almeno, santo Dio! Incoraggiarla? Altro che incoraggiarla! Le stava appresso dalla mattina alla sera, a incitarla, a spingerla, a fomentare in tutti i modi in lei quella passionaccia maledetta. Invece di domandarle se avesse rassettato la casa, sorvegliato la serva nella pulizia o in cucina, o se magari si fosse fatta una bella passeggiata a Villa Borghese; le domandava se e che cosa avesse scritto durante la giornata, mentr’egli era all’ufficio, quante cartelle, quante righe, quante parole… Sicuro! Perché contava finanche le parole che la moglie sgorbiava, come se poi dovesse spedirle per telegrafo. Ed ecco là: aveva comperato di seconda mano una macchina da scrivere e ogni sera, dopo cena, stava fino a mezzanotte, fino al tocco, a sonar quel pianofortino lì, lui, per aver bell’e pronto, ricopiato a stampa, il materiale, – com’egli lo chiamava – da mandare ai giornali, alle rassegne, agli editori, ai traduttori, coi quali era in attivissima corrispondenza. Ed ecco là lo scaffale coi palchetti a casellario, i registri a repertorio, i copialettere… Computisteria in piena regola, inappuntabile! Perché cominciava a smerciarsi il veleno, eh altro! anche fuori, all’estero… Gusti! Non si smercia il tabacco? E le parole che sono? Fumo. E che cos’è il fumo? Nicotina, veleno.

            Sentiva finirsi lo stomaco il signor Ippolito, assistendo a quella vita di famiglia. Abbozzava, abbozzava da tre mesi; ma già prevedeva non lontano il giorno che non avrebbe potuto più reggere e avrebbe detto il fatto suo in faccia a quel figliuolo, non per offenderlo, veh, ma per mettere le cose a posto, secondo il solito suo. Un bollo, e lì. Poi, magari, se ne sarebbe andato a viver solo.

            – Permesso? – domandò in quel punto dietro l’uscio una vocetta dolce dolce di donna, che il signor Ippolito riconobbe subito per quella de la vecchia signora Faciolli, padrona del pappagallo e della casa (o «la Longobarda», com’egli la chiamava.)

            – S’accomodi, s’accomodi, – brontolò, senza scomporsi.

 2.

            Era quella stessa vecchia signora, che aveva accompagnato Silvia al banchetto il giorno avanti. Veniva ogni mattina, dalle otto alle nove, a dar lezione di lingua inglese a Giustino Boggiolo.

            Gratis, beninteso, quelle lezioni; come gratis la signora Ely Faciolli, proprietaria della casa, accordava al suo caro inquilino Boggiolo l’uso del proprio salotto sempre che n’avesse bisogno per qualche ricevimento letterario.

            Bacata anche lei, la vecchia signora, non tanto del verme solitario della letteratura, quanto del tarlo della storia e della tignuola dell’erudizione, stava attorno premurosa a Giustino Boggiolo e gli faceva continue e pressanti esibizioni di tant’altri servizii, avendole Giustino lasciato intravveder da lontano il miraggio d’un editore e fors’anche d’un traduttore (tedesco, s’intende) per la voluminosa opera inedita: Dell’ultima dinastia Longobarda e dell’origine del potere temporale dei Papi (con documenti inediti), nella quale ella aveva chiaramente dimostrato come qualmente l’infelice famiglia degli ultimi re longobardi non fosse finita del tutto con la prigionia di Desiderio né con l’esilio di Adelchi a Costantinopoli; ma che anzi, ritornata in Italia e rimpiattata sotto mentito nome in un angolo di questa classica terra (l’Italia), a salvaguardarsi dall’ira dei Carolingi e dei Papi, fosse durata ancora per molto e molto tempo.

            La madre della signora Ely era stata inglese, e si vedeva ancora dal color biondo del parrucchino tutto arricciolato che teneva su la fronte la figliuola. La quale era rimasta nubile per aver fatto con l’occhialino analisi troppo sottili in gioventù, per aver troppo badato cioè al naso un tantino storto, alle mani un pochino grosse di questo o di quel pretendente. Pentita, troppo tardi, di tanta schifiltà, ella era adesso tutta miele per gli uomini. Ma non pericolosa. Portava sì quel parrucchino su la fronte e si rafforzava un po’ col lapis le ciglia, ma solo per non spaventar troppo lo specchio e indurlo a un mesto sorriso di compatimento. Le bastava.

            – Ben levato, buon giorno, signor Ippolito, – diss’ella entrando con molti inchini e spremendo dagli occhi e dal bocchino un sorriso, di cui avrebbe potuto anche fare a meno, poiché il Roncella aveva abbassato gravemente le pàlpebre per non vederla.

            – Bene a lei, signora, – rispose egli. – Tengo in capo, al solito, e non mi alzo, eh? Lei è di casa…

            – Ma sì, grazie… stia comodo, per carità! – s’affrettò a dire la signora Ely, protendendo le mani piene di giornali. – È forse ancora a letto il signor Boggiolo? Ero venuta di furia perché ho letto qua… oh se sapesse quante, quante belle cose dicono i giornali della festa di jeri, signor Ippolito! Riportano il magnifico brindisi del senatore Borghi! Annunziano con augurii caldissimi il dramma della signora Silvia! Chi sa quanto dev’essere contento il signor Giustino!

            – Piove, no?

            – Come dice?

            – Non piove?… Mi pareva che piovesse, – brontolò, volgendosi verso la finestra, il signor Ippolito.

            La signora Ely conosceva il vizio del signor Ippolito di dare quelle brusche giratine al discorso; pur non di meno, questa volta, restò un po’ confusetta; poi, raccapezzatasi, rispose frettolosamente:

            – No, no; ma sa? starà poco forse… È nuvolo. Tanto bello jeri, e oggi… Ah jeri, jeri, una giornata che mai più… Una giornata… Come dice?

            – Doni, – gridò il signor Ippolito, – doni, dico, del Padreterno, signora mia, messo di buon umore dall’allegria degli uomini. Come vanno, come vanno codeste lezioni d’inglese?

            – Ah, benissimo! – esclamò la vecchia signora. – Dimostra un’attitudine, il signor Boggiolo, a imparare le lingue, un’attitudine che mai più… Già il francese, proprio bene; l’inglese, fra quattro o cinque mesi (oh, anche prima!) lo parlerà discretamente. Attaccheremo poi subito col tedesco.

            – Pure il tedesco?

            – Eh sì… non potrebbe farne a meno! Serve, serve tanto, sa?

            – Pei Longobardi?

            – Lei scherza sempre coi miei Longobardi, cattivo! – disse la signora Ely, minacciandolo graziosamente con un dito. – Gli serve per veder chiaro nei contratti, per sapere a chi affida le traduzioni e poi per rendersi conto del movimento letterario, per leggere gli articoli, le critiche dei giornali…

            – Ma Adelchi, Adelchi, – muggì il signor Ippolito. – Questa faccenda d’Adelchi come va? è proprio vera?

            – Vera? Ma se c’è la lapide, non gliel’ho detto? scoperta da me nella chiesetta di S. Eustachio a Catino presso Farfa, per una fortunata combinazione, circa sette mesi fa, mentre vi ero in villeggiatura. Creda pure, signor Ippolito, che re Adelchi non morì in Calabria come dice il Gregorovius.

            – Morì nel catino?

            – A Catino, già! Documento inconfutabile. Loparius, dice la lapide, Loparius et judex Hubertus…

            – Oh, ecco qua Giustino! – interruppe il signor Ippolito, fregandosi le mani. – Lo riconosco al passo.

            E tirò in gran fretta cinque o sei boccate grosse di fumo.

            Sapeva che suo nipote non poteva soffrire ch’egli se ne stésse lì nello scrittojo. Veramente, aveva la sua camera, ch’era la migliore dell’appartamento, dove nessuno lo avrebbe disturbato. Ma a lui piaceva tanto starsene lì, a riempire di fumo quello sgabuzzino.

            («Nubifico l’Olimpo!», sghignava tra sé.)

            Boggiolo non fumava; e, ogni mattina, aprendo l’uscio, chiudeva gli occhi, lì su la soglia, e cacciava il fumo con le mani e sbuffava e si faceva venir la tosse… Il signor Ippolito non se ne dava per inteso, anzi tirava il fumo dalla pipa a più grosse boccate, come aveva fatto or ora, e lo depositava denso nell’aria, senza soffiarlo.

            Non tanto quel fumo, però, non poteva soffrire Giustino Boggiolo, quanto il modo con cui lo zio lo guardava. Gli pareva quasi un vischio quello sguardo che gli impacciasse non solo tutti i movimenti, ma anche i pensieri. Ed egli aveva tanto da fare, lì dentro, nelle poche ore che l’ufficio gli lasciava libere! Intanto, la lezione d’inglese doveva farsela dare nella saletta da pranzo, come se non avesse studiolo.

            Quella mattina però egli aveva da dire qualche cosa in segreto alla signora Faciolli e nella saletta da pranzo, ch’era presso alla camera, dove Silvia si tratteneva fino a tardi, non avrebbe potuto. Si fece animo dunque e, dato il buon giorno allo zio con un insolito sorriso, lo pregò d’aver la bontà di lasciarlo solo, lì con la signora Ely, almeno per un momentino.

            Il signor Ippolito aggrottò le ciglia.

            – Che hai in mano? – gli domandò.

            – Mollica di pane, – rispose Giustino, aprendo la mano. – Perché? Mi serve per la cravatta.

            Si tolse la cravatta, di quelle a nodo fatto, e accennò di stropicciarvi sù la mollica.

            Il signor Ippolito approvò col capo; si alzò e parve lì lì per dire qualche altra cosa; ma si trattenne. Reclinò indietro il capo e, schizzando il fumo prima da un angolo e poi dall’altro della bocca e facendo dondolare il fiocco del berretto, se ne andò.

            Per prima cosa Giustino andò a spalancare la finestra, stronfiando, e buttò fuori con rabbia la mollica.

            – Ha veduto i giornali? – gli domandò subito, spiccando due passettini, vispa e contenta come una passeretta, la signora Faciolli.

            – Sissignora, li ho di là, – rispose, imbronciato, Giustino. – Li aveva portati anche lei? Grazie. Eh, devo comperarne ancora tanti… Bisognerà mandarne via parecchi. Ma ha visto che razza di pasticci… che pasticcioni questi giornalisti?

            – Mi pareva che… – arrischiò la signora Ely.

            – Ma nossignora, scusi! – la interruppe il Boggiolo. – Quando le cose non si sanno, o non si dicono oppure, se si vogliono dire, si domanda prima a chi le sa, come stanno e come non stanno. Non fossi stato là! Ero là, perbacconaccio, pronto a dare tutte le spiegazioni, tutti gli schiarimenti… Che c’entrava cavarsi dalla manica certe storie? Il Lifield qua… no, dov’è? su la Tribuna… diventato un editore tedesco! E poi, guardi: Delosche… qua, Deloche invece di Desroches. Mi dispiace, ecco… mi dispiace. Devo mandare i giornali anche a lui, in Francia, e…

            – Come sta, come sta la signora Silvia? – domandò la Faciolli, per non insistere su quel tasto che sonava male.

            Sonò peggio quest’altro.

            – Mi lasci stare! – sbuffò Giustino, dando una spallata, e buttò su la scrivania i giornali. – Cattiva nottata.

            – Forse l’emozione… – si provò a spiegar quella.

            – Ma che emozione! – scattò irritato il Boggiolo. – Quella… emozioni? Quella è una benedetta donna, che non la smuove neanche il Padreterno. Tanta gente convenuta là per lei, il fior fiore, no? il Gueli, il Borghi… crede che le abbia fatto piacere? Ma nemmen per sogno! Già, ho dovuto trascinarla per forza, ha visto? E le giuro su l’anima mia, signora, che questo banchetto è venuto da sé, cioè in mente al Raceni, a lui soltanto: io non ci sono entrato né punto né poco. Dopo tutto, mi pare che sia riuscito bene…

            – Benissimo! come no? – approvò subito la signora Ely. – Una festa che mai più!

            – Beh, a sentir lei, – fece Giustino, alzando le spalle, – dice e sostiene che ha fatto una pessima figura…

            – Chi? – gridò la Faciolli, battendo le mani. – La signora Silvia? Oh santo cielo!

            – Già! Ma lo dice ridendo, sa? – seguitò il Boggiolo. – Che non glien’importa nulla, dice. Ora, si deve o non si deve stare in mezzo? Io faccio, io faccio… ma pure lei dovrebbe ajutarmi. Mica scrivo io; scrive lei. Se la cosa va, perché non dobbiamo fare in modo che vada il meglio possibile?

            – Ma sicuro! – approvò di nuovo, convintissima, la signora Ely.

            – Quel che dico io, – riprese Giustino. – Avrà, sì, ingegno, Silvia; saprà magari scrivere; ma certe cose, creda pure, non le capisce. E non parlo d’inesperienza, badi. Due volumi, buttati via così, prima di sposar me, senza contratto… Una cosa incredibile! Appena posso, farò di tutto per riscattarli, quantunque pei libri, sa? ormai non mi faccio più tante illusioni. Sì, il romanzo va; ma non siamo in Inghilterra e neppure in Francia. Ora ha fatto il dramma; s’è lasciata persuadere, e l’ha fatto subito, bisogna dirlo, in due mesi. Io non me ne intendo… L’ha letto il senatore Borghi e dice che… sì, non saprebbe prevedere l’esito, perché è una cosa… non so com’ha detto… classica, mi pare… sì, classica e nuova. Ora, dico, se l’imbrocchiamo, se riusciamo bene a teatro, capirà, signora mia, può esser la nostra fortuna.

            – Eh altro! eh altro! – esclamò la signora Ely.

            – Ma dobbiamo prepararci, – soggiunse con stizza Giustino, giungendo le mani. – C’è aspettativa, curiosità… Ora s’è tenuto questo banchetto. Io ho potuto vedere che è piaciuta.

            – Moltissimo! – appoggiò la Faciolli.

            – Guardi, – seguitò Giustino. – L’ha invitata la marchesa Lampugnani, che ho sentito dire è fra le prime signore; l’ha invitata anche quell’altra, che ha pure un salotto ricercatissimo… come si chiama? la Bornè-Laturzi… Bisogna andare, non è vero? Mostrarsi… Ci vanno tanti giornalisti, critici drammatici… Bisognerà che lei li veda, parli, si faccia conoscere, apprezzare… Ebbene, chi sa quanto mi farà penare per indurla!

            – Forse perché, – arrischiò, impacciata, la signora Ely, – forse perché si trova in… in uno stato?

            – Ma no! – negò subito Giustino Boggiolo. – Ancora per due o tre mesi non parrà, potrà presentarsi benissimo! Io le ho detto che le farò un bell’abito… Anzi, ecco, volevo dirle appunto questo, signora Ely; se lei mi sapesse indicare una buona sarta, che non avesse però troppe pretensioni, troppi fumi… ecco, perché… aspetti, scusi; e se poi mi volesse ajutare nella scelta di quest’abito e… e anche, sì, a persuadere Silvia che, santo cielo, si lasci guidare e faccia quello che deve! Il dramma andrà in iscena verso la metà di ottobre.

            – Ah, cosi tardi?

            – Tardi; ma quest’indugio in fondo non mi dispiace, sa? Il terreno non è ancora ben preparato; conosco pochi; e poi la stagione, fra qualche settimana non sarebbe più propizia. Il vero chiodo però è Silvia, è Silvia ancora così impacciata. Abbiamo circa sei mesi innanzi a noi, per provvedere e rimediare a tutte queste cose e ad altre ancora. Ecco, io vorrei concertare un programmino. Per me, non ce ne sarebbe bisogno, ma per Silvia… Mi fa stizza, creda, che il maggiore ostacolo debba trovarlo proprio in lei. Non che si ribelli ai consigli; ma non vuole sforzarsi per nulla a investirsi bene della sua parte, ecco, a far quella figura che dovrebbe, a vincere insomma la propria indole…

            – Schiva… già!

            – Come dice?

            – È troppo schiva, dicevo.

            – Schiva?… si dice così? Non lo sapevo. Le mancano le maniere, ecco. Schiva, sì, la parola mi capàcita. Un po’ di scuola, creda, le è necessaria, come il pane. Io mi sono accorto che… non so… c’è come una… una intesa tra tanti che… non so… si riconoscono all’aria… basta pronunziare un nome, il nome… aspetti, com’è?… di quel poeta inglese di piazza di Spagna, morto giovine…

            – Keats! Keats! – gridò la signora Ely.

            – Chizzi, già… questo! Appena dicono Chizzi… niente, hanno detto tutto, si sono capiti. Oppure dicono… non so… il nome di un pittore forestiere… Sono così… quattro, cinque nomi di questi che li collegano, e non hanno neanche bisogno di parlare… un sorriso… uno sguardo… e fanno una figurona! una figurona! Lei che è tanto dotta, signora Ely, mi dovrebbe far questo piacere, ajutarmi, ajutare un po’ Silvia.

            E come no? promise, felicissima, la signora Ely che avrebbe fatto di tutto e del suo meglio. Aveva la sarta, intanto, e per l’abito – un bell’abito nero, di drappo lucido, no? – bisognava farlo in modo che man mano…

            – Naturalmente!

            – Sì, si possa, insomma…

            – Naturalmente, fra tre… quattro mesi… eh! Vuole che andiamo domani, insieme, a comperarlo?

            Stabilito questo, Giustino trasse dal cassetto della scrivania alcuni albums e li mostrò, sbuffando:

            – Guardi, quattro, oggi!

            Un affar serio, quegli albums. Ne piovevano da tutte le parti alla moglie. Ammiratrici, ammiratori che, direttamente o per mezzo del Raceni, o per mezzo anche del senatore Borghi, chiedevano un pensiero, un motto o la semplice apposizione della firma.

            A dar retta a tutti, Silvia avrebbe perduto chi sa quanto tempo. È vero che, per ora, non s’affannava troppo, anche in considerazione dello stato in cui si trovava; ma a qualche lavorino leggero leggero tuttavia attendeva, per non stare in ozio del tutto e rispondere alle richieste minute di questo o di quel giornale.

            La seccatura di quegli albums se l’era perciò accollata lui, Giustino Boggiolo: vi scriveva lui i pensieri invece della moglie. Non se ne sarebbe accorto nessuno, perché egli sapeva imitare appuntino la scrittura e la firma di Silvia. I pensieri li traeva dai libri di lei già stampati; anzi, per non star lì ogni volta a sfogliare e a cercare, se n’era ricopiati una filza in un quadernetto, e qua e là ne aveva anche inserito qualcuno suo; sì, qualche pensiero suo, che poteva passare, via, tra tanti… In quelli della moglie s’era arrischiato di far nascostamente, alle volte, qualche lieve correzioncina ortografica. Leggendo nei giornali gli articoli di scrittori raffinati (come, per esempio, il Betti, che aveva trovato tanto da ridire sulla prosa di Silvia) s’era accorto che costoro scrivevano – chi sa perché – con lettera majuscola certe parole. Ebbene, anche lui, ogni qual volta nei pensieri di Silvia ne trovava qualcuna majuscolabile, come vita,morte, ecc.: là, una bella V, una magnifica M! Se si poteva fare con così poca spesa una miglior figura…

            Scartabellò nel quadernetto e, con l’ajuto della signora Ely, scelse quattro pensieri.

            – Questo… Senta questo! «Si dice sempre: Fa’ quel che devi! Ma il Dovere intimo nostro si esplica spesso su tanti attorno a noi. Ciò che è Dovere per noi, può essere di danno agli altri. Fa’ dunque quel che devi; ma sappi anche quello che fai.»

            – Stupendo! – esclamò la signora Ely.

            È mio, – disse Giustino.

            E lo trascrisse, sotto la dettatura della signora Ely, in uno di quegli albums. «Dovere» con lettera majuscola, due volte. Si stropicciò le mani; poi guardò l’orologio: ih, tra venti minuti doveva trovarsi all’ufficio! Lectio brevis, quella mattina.

            Sedettero, maestra e scolaro, innanzi alla scrivania.

            – Perché faccio tutto questo io? – sospirò Giustino. – Me lo dica Lei…

            Aprì la grammatica inglese e la porse alla signora Ely.

            – Forma negativa, – prese poi a recitare con gli occhi chiusi. – Present Tense: I do not go, io non vado; thou dost not go, tu non vai; he does not go, egli non va…

 3. 

            Così cominciò per Silvia Roncella la scuola di grandezza: maestro in capo, il marito; supplente coadiutrice, Ely Faciolli.

            Vi si sottomise con ammirevole rassegnazione.

            Ella aveva sempre rifuggito dal guardarsi dentro, nell’anima. Qualche rara volta che ci s’era provata per un istante, aveva avuto quasi paura d’impazzire.

            Entrare in sé voleva dire per lei spogliar l’anima di tutte le finzioni abituali e veder la vita in una nudità arida, spaventevole. Come vedere quella cara e buona signora Ely Faciolli senza più il parrucchino biondo, senza cipria e nuda. Dio, no, povera signora Ely!

            Ed era poi quella la verità? No, neppur quella. La verità: uno specchio che per sé non vede, e in cui ciascuno mira sé stesso, com’egli però si crede, qual’egli s’immagina che sia.

            Orbene, ella aveva orrore di quello specchio, dove l’immagine della propria anima, nuda d’ogni finzione necessaria, per forza doveva anche apparirle priva d’ogni lume di ragione.

            Quante volte, nell’insonnia, mentre il marito e maestro le dormiva placido accanto, ella non s’era veduta assaltare nel silenzio da uno strano terrore improvviso, che le mozzava il respiro e le faceva battere in tumulto il cuore! Lucidissimamente allora la compagine dell’esistenza quotidiana, sospesa nella notte e nel vuoto della sua anima, priva di senso, priva di scopo, le si squarciava per lasciarle intravedere in un attimo una realtà ben diversa, orrida nella sua crudezza impassibile e misteriosa, in cui tutte le fittizie relazioni consuete di sentimenti e d’immagini si scindevano, si disgregavano.

            In quell’attimo terribile ella si sentiva morire, provava proprio tutto l’orrore della morte e con uno sforzo supremo cercava di riacquistare la coscienza normale delle cose, di riconnettere le idee, di risentirsi viva. Ma a quella coscienza normale, a quelle idee riconnesse, a quel sentimento solito della vita non poteva più prestar fede, poiché sapeva ormai eh’erano un inganno per vivere e che sotto c’era qualcos’altro, a cui l’uomo non può affacciarsi, se non a costo di morire o d’impazzire.

            Per giorni e giorni, tutto le appariva cambiato; nessuna cosa più le stimolava un desiderio; non vedeva anzi più nulla ne la vita di desiderabile; il tempo le s’affacciava davanti voto, cupo e greve e tutte le cose in esso, come attonite, in attesa del deperimento e della morte.

            Le avveniva spesso, meditando, di fissare lo sguardo sopra un oggetto qualunque e rilevarne minutamente le varie particolarità, come se quell’oggetto l’interessasse. La sua osservazione, dapprima, era quasi macchinale: gli occhi del corpo si fissavano e si riconcentravano in quel solo oggetto, quasi per allontanare ogn’altra causa di distrazione, e ajutar così quelli de la mente nella meditazione. Ma, a poco a poco, quell’oggetto le s’imponeva stranamente; cominciava a vivere per sé, come se a un tratto esso acquistasse coscienza di tutte le particolarità scoperte da lei, e si staccava da ogni relazione con lei stessa e con gli altri oggetti intorno.

            Per paura d’esser di nuovo assaltata da quella realtà diversa, orribile, che viveva oltre la vista consueta, quasi fuori delle forme dell’umana ragione, forse senz’alcun sospetto dell’inganno umano o con una derisoria commiserazione di esso, ella stornava subito lo sguardo; ma non sapeva più posarlo sopra alcun altro oggetto; sentiva orrore della vista; le pareva che gli occhi suoi trapanassero tutto; li chiudeva e si cercava in cuore angosciosamente un ajuto qualunque per ricomporsi la finzione squarciata. Il cuore però, in quello strano sgomento, le si inaridiva. Non già per la macchinetta di cui parlava lo zio Ippolito! Ella non riusciva a cavar nessuna idea da quel sentimento oscuro e profondo: non sapeva riflettere, o piuttosto, se l’era sempre vietato.

            Da ragazza aveva assistito a scene penose tra il padre e la madre, ch’era stata una santa donna tutta dedita alle pratiche religiose. Ricordava l’espressione della madre nello stringersi al cuore la crocetta del rosario quando il marito la derideva per la sua fede in Dio e per le sue lunghe preghiere, la contrazione di spasimo di tutto il volto, quasi che, serrando così gli occhi, ella potesse anche non udire quelle bestemmie del marito. Povera mamma! E con quale affanno e con qual pianto tendeva, subito dopo, le braccia a lei, piccina, e se la stringeva al seno e le turava le orecchie; e poi, appena il padre voltava le spalle, la faceva inginocchiare e le faceva ripetere con le manine giunte una preghiera a Dio, che perdonasse a quell’uomo il quale, se era tanto onesto e buono, era pur segno che Lo aveva in cuore, e intanto, ecco, non Lo voleva riconoscer fuori! Sì, erano queste le parole della mamma. Quante volte, dopo la morte di lei, non se le era ripetute! Aver Dio in cuore e non volerlo riconoscere fuori. Ella, con la madre, da piccina, andava sempre in chiesa; aveva seguitato ad andarci sola, rimasta orfana, tutte le domeniche; ma non avveniva forse a lei, in fondo, quello stesso che avveniva al padre? Riconosceva ella veramente Dio, fuori? Seguiva esternamente, come tanti altri, le pratiche del culto. Ma che aveva dentro? Come il padre, un sentimento oscuro e profondo, uno sgomento, quello stesso che entrambi si erano scorti l’uno negli occhi dell’altra, allorché tra loro due, sul letto, era spirata la madre. Ora, credere ad esso, sì, per forza, se ella lo provava; ma non era forse Dio una suprema finzione creata da questo sentimento oscuro e profondo per tranquillarsi? Tutto, tutto quanto era un apparato di finzioni che non si doveva squarciare, a cui bisognava credere, non per ipocrisia, ma per necessità, se non si voleva morire o impazzire. Ma come credere, se si sapevano finzioni? Ahimè, senza un fine, che senso aveva la vita? Le bestie vivevano per vivere, e gli uomini non potevano e non sapevano; per forza gli uomini dovevan vivere, non per vivere, ma per qualche cosa fittizia, illusoria che désse senso e valore alla loro vita.

            Laggiù a Taranto l’aspetto delle cose ordinarie, consuete a lei fin dalla nascita e divenute parte della sua vita quotidiana quasi incosciente, non le avevano mai inquietato troppo lo spirito, quantunque ella avesse scoperto in esse tante meraviglie nascoste agli altri, ombre e luci di cui gli altri non si erano mai accorti. Avrebbe voluto rimanere laggiù presso al suo mare, nella casa ov’era nata e cresciuta, dove si vedeva ancora, ma con l’impressione strana che fosse un’altra, quella là, sì, un’altra se stessa ch’ella stentava a riconoscere. Le pareva di vedersi proprio, così da lontano, con occhi d’altri, e che si scorgesse… non sapeva dir come… diversa… curiosa… E quella là scriveva? aveva potuto scrivere tante cose? come? perché? chi gliel’aveva insegnate? donde le erano potute venire in mente? Pochi libri aveva letti, e in nessuno aveva mai trovato un tratto, un atteggiamento che avesse una somiglianza anche lontanissima con tutto ciò che veniva a lei di scrivere spontaneamente, così, all’improvviso. Forse non si dovevano scrivere tali cose? Era un errore scriverle a quel modo? Ella, o piuttosto, quella là non lo sapeva. Non avrebbe mai pensato a stamparle, se il padre non gliele avesse scoperte e strappate dalle mani. Ne aveva avuto vergogna, la prima volta, una gran paura di sembrare strana, quando non era tale, per nulla: sapeva fare tutte le altre cose tanto per benino, lei: cucinare, cucire, badare alla casa; e parlava così assennata, poi… – oh, come tutte le altre fanciulle del paese… C’era però qualcosa dentro di lei, uno spiritello pazzo, che non pareva, perché lei stessa non voleva ascoltarne la voce né seguirne le monellerie, se non in qualche momento d’ozio, durante il giorno, o la sera, prima d’andare a letto.

            Più che soddisfazione, nel vedere accolto favorevolmente e lodato con molto calore il suo primo libro, ella aveva provato una gran confusione, un’ambascia, una costernazione smaniosa. Avrebbe saputo più scrivere, ora, come prima? non più per sé soltanto? Il pensiero della lode le si affacciava, e la turbava; si poneva tra lei e le cose che voleva descrivere o rappresentare. Non aveva toccato più la penna, per circa un anno. Poi… oh come aveva ritrovato cresciuto, ingrandito quel suo demonietto, e com’egli era divenuto cattivo, malizioso, scontento… Un demoniaccio s’era fatto, che le faceva quasi quasi paura, perché voleva parlar forte, ora, quando non doveva, e rider di certe cose che ella, come gli altri, nella pratica della vita, avrebbe voluto stimar serie. Era cominciato il combattimento interno, da allora. Poi s’era presentato Giustino…

            Ella vedeva bene che il marito non la comprendeva, o meglio, non comprendeva di lei quella parte ch’ella stessa, per non apparir singolare dalle altre, voleva tener nascosta in sé e infrenata, che ella stessa non voleva né indagare né penetrare fino in fondo. Se un giorno questa parte avesse preso in lei il sopravvento, dove la avrebbe trascinata? Dapprima, quando Giustino, pur senza comprendere, s’era messo a spingerla, a forzarla al lavoro, allettato dagli insperati guadagni, ella, sì, aveva provato un vivo compiacimento, ma più per lui, quasi, che per sé. Avrebbe voluto, però, che egli si fosse arrestato lì e, sopratutto, che – dopo il molto rumore che s’era fatto attorno al romanzo La casa dei nani – non avesse tanto brigato e tempestato per venire a Roma.

            Lasciando Taranto, aveva avuto l’impressione che si sarebbe smarrita, e che per assumer coscienza di sé in un’altra vita, e così vasta, avrebbe dovuto fare un violentissimo sforzo. E come si sarebbe ritrovata? Ella non si conosceva ancora, e non voleva conoscersi. Avrebbe dovuto parlare, mostrarsi… e che dire? Era proprio ignara di tutto. Quel che di volutamente angusto, di primitivo, di casalingo era in lei s’era ribellato, massime quando i primi segni della maternità le si erano manifestati. Quanto aveva sofferto durante quel banchetto, esposta lì, come a una fiera! S’era veduta quale un automa mal congegnato, a cui si fosse sforzata la carica. Per paura che questa scattasse da un momento all’altro, s’era tenuta s’era tenuta; ma poi il pensiero che dentro a questo automa si maturava il germe d’una vita, di cui ella avrebbe avuto tra breve la responsabilità tremenda, le aveva dato acute fitte di rimorso e reso addirittura insopportabile lo spettacolo di tanta insulsa e sciocca vanità.

            Passato lo sbalordimento, passata la confusione dei primi giorni, s’era messa a girare per Roma in compagnia dello zio Ippolito. Che bei discorsi avevano fatto insieme! Che gustose spiegazioni le aveva dato lo zio! Era stato un gran conforto per lei il trovarlo a Roma, l’averlo con sé.

            Bastava soltanto proferire questo nome – Roma – perché tanti e tanti si sentissero obbligati all’ammirazione, all’entusiasmo. Sì, aveva ammirato anche lei; ma con senso d’infinita tristezza: aveva ammirato le ville solitarie, vegliate dai cipressi; gli orti silenziosi del Celio e dell’Aventino, la tragica solennità delle rovine e di certe vie antiche come l’Appia, la chiara freschezza del Tevere… Poco la seduceva tutto ciò che gli uomini avevano fatto e detto per fabbricare innanzi ai loro stessi occhi la propria grandezza. E Roma… sì, una prigione un po’ più grande, dove i prigionieri apparivano un po’ più piccoli e tanto più goffi, quanto più gonfiavan la voce e si sbracciavano a far più larghi gesti.

            Ella cercava ancora rifugio nelle più umili occupazioni, si appigliava alle cose più modeste e più semplici, quasi elementari. Sapeva di non poter dire quel che voleva, quel che pensava, perché la sua stessa volontà, il suo stesso pensiero, tante volte, non avevano più senso neanche per lei, se vi rifletteva un poco.

            Per non veder Giustino imbronciato, si forzava a tenersi su, a darsi una cert’aria, un certo tono. Leggeva, leggeva molto; ma fra tanti libri, soltanto quelli del Gueli erano riusciti a interessarla profondamente. Ecco un uomo che doveva aver dentro un demonio simile al suo, ma molto più dotto!

            Non bastava la lettura a Giustino; voleva inoltre che ella si assuefacesse a parlar francese e ne acquistasse pratica con la signora Ely Faciolli, che conosceva tutte le lingue, e da costei si facesse accompagnare nei musei e nelle gallerie d’arte antica e moderna per saperne parlare all’occorrenza; e di più voleva che si prendesse cura della persona, che s’acconciasse un po’ meglio, via!

            Le veniva da ridere, certe volte, innanzi allo specchio. Si sentiva come tenuta dal suo sguardo stesso. Oh perché proprio doveva esser così, lei, con quella faccia? con quel corpo? Alzava una mano, nell’incoscienza; e il gesto le restava sospeso. Le pareva strano che l’avesse fatto lei. Si vedeva vivere. Con quel gesto sospeso si assomigliava allora a una statua d’antico oratore (non sapeva chi fosse) veduta in una nicchia, salendo un giorno da via Dataria per la scalinata del Quirinale. Quell’oratore, con un rotolo in una mano e l’altra mano tesa a un sobrio gesto, pareva afflitto e meravigliato d’esser rimasto lì, di pietra, per tanti secoli, sospeso in quell’atteggiamento dinanzi a tanta e tanta gente ch’era salita e sarebbe salita e saliva per quella scalinata. Che impressione strana le aveva fatto! Era a Roma da pochi giorni. Un meriggio di febbrajo. Il sole, pallido, su i grigi umidi selci della piazza del Quirinale, deserta. C’erano soltanto il soldato di sentinella e un carabiniere su la soglia del Palazzo Reale. (Forse a quell’ora il re sbadigliava nella reggia.) Sotto l’obelisco, tra i grandi cavalli impennati, l’acqua della fontana scrosciava; ed ella, come se quel silenzio attorno fosse diventato subito lontananza, aveva avuto l’impressione del fragorìo incessante del suo mare. S’era voltata: su la cordonata del Palazzo aveva veduto un vispo passero che molleggiava su i selci, scotendo la testina. Sentiva forse anch’esso un vuoto strano in quel silenzio e come un misterioso arresto del tempo e della vita, e se ne voleva accertare, spiando impaurito?

            Ella conosceva bene quest’improvviso e per fortuna momentaneo sprofondarsi del silenzio negli abissi del mistero. Gliene durava a lungo, però, l’impressione d’orrida vertigine, con cui contrastava la stabilità, ma così vana, delle cose: ambiziose e pur misere apparenze. La vita che s’aggirava, piccola, solita, fra queste, le pareva poi che non fosse per davvero, che fosse quasi una fantasmagoria meccanica. Come darle importanza? come portarle rispetto? quel rispetto, quell’importanza che voleva Giustino?

            Eppure, dovendo vivere… Ma sì, ella riconosceva che, in fondo, aveva ragione lui, il marito, e torto lei a esser così. Bisognava fare, ormai, a modo di lui. E si proponeva di contentarlo in tutto e di lasciarsi guidare, vincendo il fastidio e facendosi anche vedere ben disposta, per non risponder male a quanto egli aveva fatto e faceva per lei.

            Povero Giustino! Così economo e misurato, ecco, non badava più neanche a spese per farla comparire… Che bell’abito le aveva comperato e fatto allestire di nascosto! E ora si doveva andare per forza, proprio per forza, in casa della marchesa Lampugnani? Sì, sì, sarebbe andata, avrebbe fatto da manichino a quel bell’abito nuovo: manichino non molto adatto, non molto… snello, in quel momento, ma via! se egli credeva proprio che fosse necessario andare, era pronta.

            – Quando?

            Gongolante, Giustino, nel vederla così arrendevole, le rispose che sarebbero andati la sera del giorno appresso.

            – Ma aspetta, – soggiunse. – Non voglio che tu faccia cattive figure. Capisco che ci sono tante piccole formalità, tante… sì, saranno magari sciocchezze, come tu credi, ma è bene saperle, cara mia. M’informerò. Della signora Ely, dico la verità, poco mi fido per queste cose.

            E Giustino Boggiolo, quella sera, uscendo dall’ufficio, si recò a far la visita promessa a Dora Barmis.

 4. 

            Appoggiata alla cassapanca della saletta d’ingresso, una stampella. Su la stampella, un cappello a cencio. La bussola, che metteva nel salotto, era chiusa, e nella penombra si soffondeva il color verde giallino della carta a scacchi applicata ai vetri.

            – Ma no, no, no: vi ho detto no; basta! – s’intese gridare di dentro, irosamente.

            La servetta, venuta ad aprire, restò a questo grido un po’ perplessa se entrare in quel momento ad annunziare il nuovo visitatore.

            – Disturbo? – domandò, timidamente, Giustino. La servetta si strinse ne le spalle, poi si fece animo, picchiò sul vetro della bussola, aprì:

            – C’è un signore…

            – Boggiolo… – suggerì piano Giustino.

            – Ah, voi Boggiolo? Che piacere! Entrate, entrate, – esclamò Dora Barmis tendendo il capo e sforzandosi di comporre subito a un’aria risolente il volto acceso, alterato dallo sdegno e dal dispetto.

            Giustino Boggiolo entrò un po’ sbigottito, inchinando il capo anche a Cosimo Zago, che, scontraffatto, pallidissimo, s’era levato su un piede e, tenendo bassa la grossa testa arruffata, si reggeva penosamente su la spalliera d’una seggiola.

            – Vado. A rivederla, – diss’egli, con voce che voleva parer calma.

            – Addio, – gli rispose subito Dora, sprezzante, senza guardarlo; e tornò a sorridere a Giustino. – Sedete, sedete, Boggiolo. Come siete stato bravo… Ma tardi, eh?

            Appena lo Zago, zoppicando malamente, fu uscito, ella fece un balzo su la seggiola, con le braccia per aria e sbuffò:

            – Non ne potevo più! Ah caro amico, come vi fa pentir la gente d’avere un po’ di cuore! Ma se un povero disgraziato viene a dirvi: «Sono brutto… sono storpio…» – che gli rispondete voi? «No, caro; perché? E poi pensate che la Natura v’ha compensato con altri doni…» E la verità! Sapeste che bei versi sa fare quel poverino… Lo dico a tutti; l’ho detto anche a lui; l’ho stampato; ma egli ora me ne fa pentire… C’est toujours ainsi! Perché sono donna, capite? Ma io gliel’ho detto tout bonnement, potete crederci! Così, come a un collega… Io sono donna, perché… perché non sono uomo, santo Dio! Ma non ci penso neppure, tante volte, che sono donna, ve l’assicuro! Me lo dimentico assolutamente. Sapete come me ne ricordo? Vedendo certuni che mi guardano, che mi guardano… Oh Dio! Scoppio a ridere. Ma già! dico tra me. Davvero, io sono donna. Mi amano… ah ah ah… E poi, che volete, caro Boggiolo, vecchia ormai, no? Su… eh perbacco! fatemi un complimento, ditemi che non sono vecchia…

            – Non c’è mica bisogno di dirlo, – fece Giustino, arrossendo e abbassando gli occhi.

            Dora Barmis scoppiò a ridere, secondo il solito suo, arricciando il naso:

            – Caro! caro! Vi vergognate? Ma no, via! Prendete il thè? prendete un vermouth? Ecco, fumate.

            E gli porse con una mano la scatola delle sigarette, mentre con l’altra premeva il bottone del campanello elettrico sotto il palco che reggeva tanti libri e ninnoli e statuette e ritratti, sospeso là su l’ampio divano ad angolo, ricoperto di stoffe antiche.

            – Grazie, non fumo, – disse Giustino.

            Dora posò la scatola delle sigarette sul tavolino basso basso, tondo, a due piani, che stava davanti al divano. Entrò la servetta.

            – Porta il vermouth. A me, il thè. Qua, Nina, preparo io.

            Poco dopo, la servetta rientrò con la teiera, col vermouth e con le paste in una coppa argentata. Dora versò il vermouth a Giustino e gli disse:

            – Di ben altro, ora che ci penso, dovreste vergognarvi, voi, bel tomo! E questo, badate, ve lo dico sul serio adesso.

            – Di che? – domandò Giustino, che già aveva capito; tanto vero che schiuse le labbra sotto i baffi a un risolino fatuo.

            – Voi avete dalla natura un sacro deposito, Boggiolo! – disse la Barmis, agitando un dito e con tono di minaccia e di severo ammonimento. – Prendete un fondant… Vostra moglie non appartiene solamente a voi. I vostri diritti, caro, devono essere limitati. Voi, magari, se vostra moglie non ne soffre… Dite un po’, è gelosa di voi, vostra moglie?

            – Ma no, – rispose Giustino. – Del resto, non posso dirlo, perché…

            – Non le avete mai dato il minimo incentivo, – compì la frase Dora. – Siete dunque davvero un bravo figliuolo; si vede; ma troppo bravo, forse… eh? dite la verità… No, voi dovreste risparmiarla, Boggiolo. Del resto… gli uomini dànno un brutto nome alla cosa; ma quelle de le donne potrebbero bene chiamarsi antenne: le hanno anche le farfalle… Su, gli occhi! su, gli occhi! Perché non mi guardate? Vi sembro molto curiosa? Oh bravo, così! Ridete? Ma sicuro, caro mio, non basta essere un bravo figliuolo, quando si ha la fortuna d’avere una moglie come la vostra… Conoscete la poetessa Bertolè-Viazzi? Non è venuta al banchetto, perché, povera donna…

            – Anche lei? – domando Giustino Boggiolo pietosamente.

            – Eh… ma molto più grave! – esclamò Dora. – Ha un marito addirittura terribile, quella lì!

            Giustino si strinse ne le spalle e sospirò con un mesto sorriso:

            – D’altra parte…

            – Ma che d’altra parte! – scattò Dora Barmis. – Bisogna che il marito in certi casi abbia considerazione e pensi che… Guardate: da quattro o cinque anni la Bertolè lavora a un poema, molto bello, v’assicuro, tutto intessuto di ricordi eroici, di famiglia: il nonno fu un patriota vero, esiliato a Londra, poi garibaldino; il padre le morì a Bezzecca… Ebbene, a pensare che ella ha già nel capo una gestazione come quella, un poema vi dico, un poema! e poi a vederla contemporaneamente, povera donna, oppressa, deformata più giù, per un altro verso… No no, credete, è proprio un di più, una soperchieria crudele! O l’una cosa o l’altra, ecco!

            – Capisco, – fece Giustino, angustiato. – Ma crede che sia seccato poco anche a me? Silvia però non farà nulla durante tutto questo tempo.

            – E sarà un tempo prezioso perduto! – esclamò Dora.

            – Lo dice a me? – soggiunse Giustino. – Tutto perduto e niente di guadagnato. La famiglia che cresce… e chi sa quante spese e cure e pensieri. Poi, la lontananza: perché il bambino, o la bambina che sarà, dovremo mandarla via, a bàlia, presso la nonna…

            – A Taranto?

            – No, a Taranto. La mamma di Silvia è morta da tanti anni. Da mia madre, a Cargiore.

            – Cargiore? – domandò Dora, sdrajandosi sul divano. – Dov’è Cargiore?

            – In Piemonte. Oh, un villaggetto sparso, di poche case, presso Torino.

            – Perché voi siete piemontese, è vero? – tornò a domandare la Barmis, avvolgendosi tra il fumo della sigaretta. – Si sente. E come mai avete conosciuto la Roncella?

            – Mah, – fece Giustino. – Mi mandarono laggiù a Taranto, dopo il concorso all’Archivio Notarile…

            – Uh, poverino!

            – Un anno e mezzo d’esilio, creda. Fortuna che il padre di Silvia, allora mio capo…

            – All’Archivio?

            – Capo-Archivista, sissignora… Oh, un buon impiego, per questo! Mi prese subito a benvolere.

            – E voi, birbante, gl’innamoraste la figliuola letterata?

            – Eh, per forza… – sorrise Giustino.

            – Come, per forza? – domandò Dora, riscotendosi.

            – Dico per forza, perché… vacci oggi, vacci domani… Un povero giovine, là solo… Lei non può capire che cosa sia… Vissuto sempre con la mia mamma, povera vecchina; abituato alle cure di lei… L’onorevole Datti, deputato del mio collegio, mi aveva promesso che presto m’avrebbe fatto chiamare a Roma, all’archivio del Consiglio di Stato. Ma sì! il Datti… Eppoi, mia madre avrebbe forse potuto raggiungermi qua? Dovevo prender moglie per forza. Ma non m’innamorai di Silvia perché letterata, sa? Non ci pensavo neppure, allora, alla letteratura. Sapevo, sì, che Silvia aveva stampato due libri; ma questo anzi per me… Basta!

            – No no, raccontate, raccontate, – lo incitò Dora. – Mi fate tanto piacere.

            – Ma c’è poco da raccontare, – disse Giustino. – Quando andai la prima volta in casa di lei, m’immaginavo di trovare… non so, una giovine con la testa accesa… Ma che! Semplice, timida… già Lei l’ha veduta…

            – Che amore, già! che amore! – esclamò Dora.

            – Il padre sì, mio suocero, buon’anima…

            – Ah, le è morto anche il padre?

            – Sissignora, di colpo; un mese appena dopo il nostro matrimonio. Poverino, fanatico, lui! Ma s’intende, l’unica figliuola… Se ne compiaceva; dava a leggere quei libri, i giornali che ne parlavano, a tutti gl’impiegati, lì, all’ufficio… La prima volta li lessi anch’io, così…

            – Per dovere d’ufficio, eh? – domandò ridendo la Barmis.

            – Capirà, – fece Giustino. – Silvia però soffriva proprio, vedendo il padre così infervorato, non permetteva mai che ne parlasse in sua presenza. Quieta quieta, senz’alcuna ambizione, neppure nel vestire, sa? attendeva alle cure domestiche, faceva tutto lei in casa. Quando sposammo, mi fece finanche ridere…

            – Che volevate piangere?

            – No, dico, mi fece ridere perché volle confessarmi il suo vizio nascosto, come lo chiamava: quello di scrivere. Mi disse che dovevo rispettarglielo, ma che in compenso non mi sarei mai accorto di quando ella scrivesse e di come facesse a scrivere tra le faccende di casa.

            – Cara! E voi?

            – Ma io promisi. Poi, però, – pochi mesi dopo il matrimonio – sicuro! – arrivò dalla Germania un vaglia di trecento marchi, per diritto di traduzione. Non se l’aspettava neanche lei, Silvia, si figuri! Tutta contenta, dentro di sé, che in quei suoi libri fosse riconosciuto un merito, che forse nemmeno lei supponeva d’avere, ignara, inesperta, aveva aderito alla richiesta di traduzione delle Procellarie (il suo secondo volume di novelle) così, senza pretender nulla…

            – E voi allora?

            – Eh, aprii gli occhi, si figuri! Venivano altre richieste da rassegne, da giornali. Silvia mi confessò che nel cassetto aveva tant’altri manoscritti di novelle, l’abbozzo d’un romanzo… La casa dei nani… Gratis? Come, gratis? Perché? Non è forse lavoro? E il lavoro non deve fruttare? Loro letterati stessi, per questa parte qui, non sanno farsi valere. Ci vuole uno che le sappia queste cose e ci badi. Io, guardi, appena capii che c’era da cavarne qualche cosa, cominciai a prender subito le debite informazioni, con ordine; mi misi in corrispondenza con un mio amico libraio di Torino per aver notizie del commercio librario; con parecchi redattori di rassegne e giornali che avevano scritto bene dei libri di Silvia; scrissi, mi ricordo anche al Raceni…

            – Eh, mi ricordo anch’io! – esclamò Dora, sorridendo.

            – Tanto buono, il Raceni! – seguitò Giustino. – Eppoi studiai la legge su la proprietà letteraria, sicuro! e anche il trattato di Berna sui diritti d’autore… Eh, la letteratura è un campo, signora mia, da contrastare allo sfruttamento sfacciato della stampa e degli editori. Ne hanno fatte tante anche a me, nei primi giorni! Contrattavo così, tentoni, si sa… Ma poi vedendo che le cose andavano… Silvia si spaventava dei patti che facevo; nel vedere poi accettati i prezzi, Quando le mostravo il denaro guadagnato, rimaneva soddisfatta… eh sfido! Però, sa, posso dire d’averlo guadagnato io, il denaro, perché ella dai suoi lavori non avrebbe saputo cavare mai nulla.

            – Che uomo prezioso siete voi, Boggiolo! – disse Dora, chinandosi a mirarlo davvicino.

            – Non dico questo, – fece Giustino, – ma creda che gli affari li so trattare. Mi ci metto con impegno, ecco. Devo veramente gratitudine agli amici, al Raceni, per esempio, eh’è stato tanto buono con mia moglie fin dal principio. E anche a lei…

            – Ma no! Io? che ho fatto io? – protestò Dora, vivamente.

            – Anche lei cara, anche lei, – ripetè Giustino, – insieme col Raceni, tanto buona. E il senatore Borghi?

            – Ah, il padrino della fama di Silvia Roncella è stato lui! – disse Dora.

            – Sissignora, sissignora… proprio così, – confermò il Boggiolo. – E debbo anche a lui la mia venuta a Roma, sa? Non ci voleva, giusto in questo momento, il guajo della gravidanza…

            – Vedete? – esclamò Dora. – E la vostra signora, chi sa quanto soffrirà poi a staccarsi dal bambino!

            – Ma! – fece il Boggiolo, – dovendo lavorare…

            – È molto triste! – sospirò la Barmis. – Un figliuolo!… Dev’essere terribile vedersi, sentirsi madre! Io morrei di gioja e di spavento! Dio Dio Dio non mi ci fate pensare.

            Scattò in piedi, come sospinta da una susta; si recò presso l’uscio della camera e cercò sotto la portiera la chiavetta della luce elettrica; ma poi si volse e disse con voce cangiata:

            – O vogliamo restare così? Non vi piace? Dämmerung… Intristisce questa pena del giorno che muore, ma fa anche bene. Bene e male, a me. Tante volte, divento più cattiva, pensando in quest’ombra. M’accoro e mi nasce un’invidia angosciosa della casa altrui, d’ogni casa che non sia come questa…

            – Ma è tanto bello qui… – disse Giustino, guardando intorno.

            – Voglio dire, così sola… – spiegò Dora, – così triste… Vi odio tutti, io, voialtri uomini, sapete? Perché a voi sarebbe tanto più facile esser buoni, e non siete, e ve ne vantate. Oh, quanti uomini ho sentito io ridere delle loro perfidie, Boggiolo. E ne ho riso anch’io ascoltandoli. Ma poi, a ripensarci sola, in quest’ora, che voglia, che voglia m’è nata tante volte… d’uccidere! Su, su, facciamo la luce, sarà meglio!

            Girò la chiavetta e salutò la luce con un profondo sospiro. Era impallidita davvero e aveva negli occhi bistrati come un velo di lacrime.

            – Non dico per voi, badate, – soggiunse con un mesto sorriso, tornando a sedere. – Voi siete buono, lo vedo. Volete essere mio amico sincero?

            – Felicissimo! – s’affrettò a rispondere Giustino, un po’ commosso.

            – Datemi la mano, – riprese Dora. – Proprio sincero? Ne cerco uno da tanto tempo, che mi sia come un fratello…

            E stringeva la mano.

            – Sissignora…

            – Col quale io possa parlare a cuore aperto…

            E stringeva vie più la mano.

            – Sissignora…

            – Ah, se voi sapeste quanto sia doloroso questo sentirsi sola, sola nell’anima, intendete? perché il corpo… Oh, non mi guardano che il corpo, come sono fatta… i fianchi, il petto, la bocca… ma gli occhi non me li guardano, perché si vergognano… Ed io voglio essere guardata negli occhi, negli occhi…

            E seguitava a stringer la mano.

            – Sissignora… – ripetè Giustino, guardandola negli occhi, smarrito e vermiglio.

            – Perché negli occhi ho l’anima, l’anima che cerca un’anima a cui confidarsi e dire che non è vero che noi non crediamo alla bontà, che non siamo sinceri quando ridiamo di tutto, quando per parere esperti diventiamo cinici, Boggiolo! Boggiolo!

            – Che debbo fare? – domandò stordito, esasperato, in uno stato da far pietà, Giustino Boggiolo, sotto la morsa di quella mano così frale e pur così nervosa e forte.

            Dora Barmis si buttò via dalle risa.

            – Ma no, davvero! – disse allora con forza Giustino per riprendersi. – Se io posso fare per Lei qualche cosa, sono qua, signora! vuole un amico? sono qua; glielo dico davvero.

            – Grazie, grazie, – rispose Dora, tirandosi su. – Scusatemi, se ho riso. Vi credo: voi siete troppo… oh Dio… sapete che i muscoli da cui dipende il riso non obbediscono alla volontà, ma a certi moti emozionali incoscienti? Io non sono avvezza a una bontà come la vostra. La vita per me è stata cattiva; e, trattando con uomini cattivi, anch’io… pur troppo… Non vorrei farvi male! Forse la vostra bontà degenererebbe… No? Malignerebbero gli altri, lo stesso… E anch’io, ma sì, parlandone con gli altri, sapete? son capace di mettermi a ridere d’essere stata oggi così sincera con voi… Basta, basta! Non ci facciamo illusioni. Sapete chi mi ha chiesto di vostra moglie? La marchesa Lampugnani. Voi avete un invito, e ancora non siete andati.

            – Sissignora, domani sera, infallibilmente, – disse Giustino Boggiolo. – Silvia non ha potuto. Anzi io ero yenuto qua per questo. Ci sarà Lei domani sera, dalla Marchesa?

            – Sì, sì, – rispose Dora. – Tanto buona, la Lampugnani, e s’interessa tanto di vostra moglie; desidera proprio di vederla. Voi le fate fare una vita troppo ritirata.

            – Io? – esclamò Giustino. – Io no, signora; io anzi vorrei… Ma Silvia è ancora un po’… non saprei come dire…

            – Non me la guastate! – gli gridò Dora. – Lasciatela com’è, per carità! Non la forzate…

            – No, ecco, – disse Giustino, – ma per saperci regolare… capirà… Ci va molta gente dalla Marchesa?

            – Oh, i soliti, – rispose la Barmis. – Forse domani sera ci sarà anche il Gueli, permettendo la Frezzi, si sa.

            – La Frezzi? chi è? – domandò Giustino.

            – Una donna terribile, caro, – rispose la Barmis. – Colei che tiene in dominio assoluto Maurizio Gueli.

            – Ah, non ha moglie il Gueli?

            – Ha la Frezzi, che è lo stesso, anzi peggio, povero Gueli! C’è tutto un dramma, sotto. Basta. Ama la musica la vostra signora?

            – Credo, – rispose Giustino, impacciato. – Non so bene… Ne ha sentita poca… là, a Taranto. Perché, si fa molta musica in casa della Marchesa?

            – Talvolta sì, – disse Dora. – Viene il violoncellista Begler, il Milani, il Cordova, il Furlini, e s’improvvisa il quartetto…

            – Eh già, – sospirò Giustino. – Un po’ di conoscenza della musica… di quella difficile… oggi è proprio necessaria… Wagner.

            – No, Wagner, col quartetto! – esclamò Dora. – Tchaikowsky, Dvorak… e poi, si sa, Glazounov, Mahler, Raff.

            – Eh già, – sospirò di nuovo Giustino. – Tante cose si dovrebbero sapere…

            – Ma no! basta saperli pronunziare, caro Boggiolo! – disse Dora, ridendo. – Non vi date pensiero. Se non dovessi guardarmi la professione, scriverei io un libro, che vorrei intitolare La Fiera o il Bazar della Sapienza… Proponetelo a vostra moglie, Boggiolo. Ve lo dico sul serio! Le darei io tutti i dati e i connotati e i documenti. Una filza di questi nomi difficili… poi un po’ di storia dell’arte… – basta leggere un trattatello qualunque – un po’ d’ellenismo, anzi di pre-ellenismo, arte micenaica e via dicendo, – un po’ di Nietzsche, un po’ di Bergson, un po’ di conferenze, e avvezzarsi a prendere il thè, caro Boggiolo. Voi non ne prendete, e avete torto. Chi prende il thè per la prima volta, comincia subito a capire tante cose. Volete provare?

            – Ma l’ho preso già, qualche volta, – disse Giustino.

            – E non avete capito ancor nulla?

            – Se devo dire la verità, preferisco il caffè…

            – Caro! Non lo dite, però! Il thè, il thè; bisogna avvezzarsi a prendere il thè, Boggiolo! Verrete in frac domani sera, dalla Marchesa. Gli uomini in frac; le donne… no, qualcuna viene anche senza décolleté.

            – Glielo volevo domandare, – disse Giustino. – Perché Silvia…

            – Ma sfido! – lo interruppe Dora, ridendo forte. – Senza décolleté, lei, in quello stato; non c’è bisogno di dirlo. Siamo intesi?

            Quando, di lì a poco, Giustino Boggiolo uscì dalla casa di Dora Barmis, la testa gli girava come un molino a vento.

            Da un pezzo, accostandosi ora a questo ora a quel letterato, osservava, studiava quel che ci voleva e come gli altri riuscissero a far bella figura; le loro impostature di grandezza. Ma tutto gli sembrava come campato in aria. L’istabilità della fama lo angosciava: gli pareva come l’esitar sospeso d’uno di quegli argentei pennacchioli di cardo che il più lieve soffio portava via. La Moda poteva da un istante all’altro mandare ai sette cieli il nome di Silvia o buttarlo a terra e sperderlo in un angolo bujo.

            Aveva il sospetto che Dora Barmis si fosse alquanto burlata di lui; ma questo tuttavia non gl’impediva d’ammirar lo spirito indiavolato di quella donna. Ah quanto più facile sarebbe stato il suo compito, se ‘Silvia avesse avuto almeno un po’ di quello spirito, di quelle maniere, di quella padronanza di sé. Ne difettava anch’egli, finora; lo riconosceva; e riconosceva perciò quasi un diritto alla Barmis di beffarsi di lui. Non gliene importava. Era stata una lezione, in fin dei conti. Doveva prendere ammaestramento e inviamento e stato anche a costo di soffrire in principio qualche mortificazioncella. Egli mirava alla meta.

            E come per raccogliere il frutto di quei primi ammaestramenti, quella sera, rientrò in casa con tre volumi nuovi da far leggere alla moglie:

            1. – un breve compendio illustrato di storia dell’arte;

            2. – un libro francese su Nietzsche;

            3. – un libro italiano su Riccardo Wagner.

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Suo marito – Indice

Introduzione
Capitolo 1 – Il banchetto
Capitolo 2 – Scuola di grandezza
Capitolo 3 – Mistress Roncella two accouchements
Capitolo 4 – Dopo il trionfo
Capitolo 5 – La crisalide e il bruco
Capitolo 6 – Vola via
Capitolo 7 – Lume spento

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