Storia di Pirandello poeta, saggista e narratore

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Di Pasquale Guaragnella

Università di Bari

Si ripropone la storia di Pirandello poeta, saggista e narratore, a partire dal periodo della formazione culturale e degli esordi letterari fino ai mesi che precedono la morte, quando lo scrittore siciliano appare ancora fortemente impegnato nella scrittura delle sue ultime, intensissime, novelle.

Indice Tematiche

Storia di Pirandello

Storia di Pirandello poeta, saggista e narratore

Indice

1. La prima formazione culturale
2. Luigi Pirandello poeta
3. L’attività di saggista
4. Le novelle
5. I primi romanzi e  Il Fu Mattia Pascal
6. I romanzi della maturità
7. L’ultimo romanzo:  Uno, nessuno e centomila

Se Pirandello è conosciuto in Europa e nelle Americhe soprattutto come autore di drammi teatrali, è anche vero che l’autore siciliano, a ben considerare, si rivela uno dei più importanti narratori del Novecento italiano. Senza dire che le stesse sue poesie hanno costituito un importante “serbatoio” di temi per le novelle e i romanzi, e che la stessa produzione saggistica ha accompagnato in maniera significativa l’attività dello scrittore. Basterebbe pensare, in proposito, al saggio più noto di Pirandello, L’umorismo, che dà una impronta ai romanzi più innovatori, come i Quaderni di Serafino Gubbio operatore o Uno, nessuno e centomila. Si tende dunque a presentare l’itinerario biografico-culturale dell’autore, dalle prime prove poetiche ai suoi interessi di letterato e saggista per i problemi dell’arte moderna. Si tratta di un itinerario che nasce dentro un periodo di crisi della cultura italiana tra Otto e Novecento: e tenderà a svilupparsi in maniera sempre più decisa verso una complessa produzione narrativa. Di quest’ultima si illustreranno temi e figure principali, mettendo pure in evidenza il rapporto di Pirandello con la cultura europea, ovvero con importanti intellettuali e scrittori.

1. La prima formazione culturale

La nascita

Luigi Pirandello nasce in Sicilia nel 1867, in una campagna, non molto distante dalla città di Agrigento, dove la madre si era rifugiata a causa dell’imperversare di un’epidemia di colera. Nelle pagine di un romanzo autobiografico rimasto incompiuto, l’autore rievocherà in chiave sottilmente umoristica la sua nascita, raccontando che mentre un suo zio, durante la notte, andava con un lanternino in mano per quella campagna in cerca di una contadina che aiutasse la madre a partorire, la madre si aiutava da sola e il piccolo Luigi nasceva prima che lo zio ritornasse con la contadina.
Dopo aver raccontato delle circostanze della nascita, Pirandello, sempre nelle pagine del romanzo autobiografico, svolge questa interessante osservazione: “La mia nascita fu segnata nei registri della piccola città situata sul colle (Agrigento). Tra i tanti che vi morivano, uno che nasceva era come una riparazione”.
L’osservazione è incentrata sul contrasto tra la vicenda delle morti assai diffuse e la quasi sorprendente nascita di un bambino. V’è di più. Pirandello svolge in proposito una riflessione relativa alla casualità del nascere: “Io penso che sarà cosa certa per gli altri che dovevo nascere là e non altrove e che non potevo nascere né dopo né prima; ma confesso che di tutte queste cose non mi son fatta ancora né certo saprò farmi mai un’idea”.
In realtà l’idea coltivata da Pirandello sarà proprio intorno al carattere del tutto casuale del nascere e del vivere: una idea che caratterizzerà, lo vedremo più avanti, alcune pagine celebri dei romanzi maggiori di Pirandello, quali per esempio Il fu Mattia Pascal o Uno, nessuno e centomila, in cui l’autore svilupperà i temi della vita come gioco del caso; oppure si soffermerà sul carattere del tutto “casuale” del nome, in quanto ognuno si ritrova con un nome (cognome) che ha ereditato dal padre, un nome che gli deriva dalla famiglia nella quale è nato: da quel seme che ha proliferato grazie al congiungimento carnale di un uomo e di una donna. In fondo, questo è il mistero della nascita di ogni essere umano nel mondo.
È da aggiungere che, per un curioso destino, la campagna nella quale Pirandello nacque aveva un nome emblematico. Seguiamo le parole dello stesso autore: “Io […] sono figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco denominato, in forma dialettale, Cavusu dagli abitanti di Girgenti [Agrigento], corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco Kaos”.

La famiglia d’origine

La casualità diventa poi necessità del rapporto tra genitori e figli. Pirandello ha coltivato sempre un grande amore per la madre e un difficile sentimento nei confronti del padre. L’uno e l’altra discendevano da famiglie che erano state di sentimenti garibaldini e antiborbonici e avevano dunque partecipato con passione all’annessione della Sicilia al regno d’Italia (1860). Erano famiglie laiche e Pirandello erediterà da loro questo sentimento laico della vita, anche se è da aggiungere che il piccolo Luigi risentirà molto dei racconti di una vecchia domestica, che farà credere al bambino nella realtà di spiriti e fantasmi e gli trasmetterà le prime paure sui misteri e le zone oscure dell’esistenza.
In questo senso il bambino cresce con una sensibilità presto esasperata, con un animo dedito alla meditazione, e soprattutto con un ingegno precoce.

Il periodo giovanile

Pirandello ha circa quattordici anni quando compone una tragedia (il cui manoscritto è andato perduto). Egli si rivolge inoltre agli studi umanistici. E qui sorge un motivo di incomprensione tra figlio e padre. Stefano Pirandello era un imprenditore e voleva che il figlio si impegnasse in studi di indirizzo tecnico-commerciale. Ma il giovane Luigi, con piccoli e innocenti inganni, studia per il liceo classico a Palermo. Nel periodo degli studi a Palermo è databile anche l’innamoramento per una cugina. Più tardi Pirandello si trasferisce a Roma per frequentare l’Università.
Per avere un’idea del modo di pensare di Pirandello in questa età giovanile, ma un modo di pensare che si fissa come quel peculiare carattere che sarà suo sino alla fine dei suoi giorni, può essere utile riproporre un passo di una lettera inviata da Roma ai suoi genitori, perché in questo passo abbiamo il modo di considerare la vita come teatro di contrasti, un modo che sarà sempre di Pirandello. Seguiamo dunque il giovane Pirandello che così scrive:

All’Università oggi grande dimostrazione di studenti: hanno fischiato un professore, Antonio Labriola, che ieri spingeva gli operai a insorgere [contro il governo]. Molti e molti però lo hanno applaudito – si è fatto un baccano, un baccano indescrivibile […].
Tra tanti fischi e tanti applausi distruggentisi per comporre un pandemonio, io ho riso, conservando il mio sangue freddo, […] anche perché più che a rabbia mi muoveva a pietà tutta quella gente ragionevole, che ragionava così malamente e in diverso modo, senza rispetto alcuno alle opinioni che possono benissimo essere contrarie, ma debbono discutersi sobriamente in un luogo, che almeno dovrebbe essere fatto per questo. Come andrà a finire?

Si considerino le situazioni umane rappresentate dal giovane Pirandello: uno spettacolo di fischi e di applausi, cioè di sentimenti e passioni fortemente contrastanti. E poi si consideri il personale atteggiamento del giovane, che è di riso, ma nello stesso tempo è un riso ispirato a pietà, non già a disprezzo, pietà per altri giovani come lui, che hanno perso ogni lume di ragionevolezza e per di più dissacrano – non hanno alcun rispetto – un luogo, come l’Università, che dovrebbe essere deputato al confronto libero delle idee, ma un confronto che secondo Pirandello non dovrebbe essere rissoso, bensì sobrio. Ma tant’è, nella vita, è difficile avere la pace. E anche Pirandello si troverà a litigare, all’Università, con un professore di latino. Al quale, durante una lezione, accadde di sbagliare la traduzione di un passo. Pirandello era seduto al primo banco accanto a un giovane prete che s’intendeva bene di latino: all’errore del professore seguirono i sorrisi d’intesa dei due studenti. A quel punto, sentendosi scoperto nel suo errore, il professore aggredì il giovane prete con pesanti parole, ma non svelando la vera ragione della sua ira. Ma qui Pirandello si alzò in piedi e davanti all’intero uditorio rivelò le ragioni del riso suo e del suo compagno di banco, per abbandonare subito dopo l’aula. Pirandello fu deferito al Consiglio di disciplina dell’Università di Roma e dovette quindi abbandonare l’Università. Per sua fortuna, un altro professore, Ernesto Monaci, titolare della cattedra di Filologia romanza, che stimava il giovane, ne prese a cuore la sorte e lo invitò ad iscriversi all’Università di Bonn per seguire là i corsi di Filologia romanza del professore Foerster, amico e corrispondente del Monaci.

 

2. Luigi Pirandello poeta

Il tema amoroso in “Mal giocondo”

Prima della partenza per la Germania Pirandello pubblicava la sua prima raccolta di poesie, Mal giocondo. Il titolo, che nell’arte retorica costituisce un ossimoro in quanto dispone l’una accanto all’altra due parole di significato evidentemente contrastante (male indica un evento negativo o doloroso; giocondo è un aggettivo che indica allegria), deriva da un verso di un importante artista italiano del Quattrocento: Angelo Poliziano. Il verso è inserito nell’opera più nota di Poliziano, Le Stanze, e si trova nel I canto. Esso recita: Sì bel titolo d’Amore ha dato il mondo /a una cieca peste, a un mal giocondo”.
È Amore che dà nello stesso tempo dolore e gioia. In un componimento poetico intitolato Udite, l’amore di Pirandello per la cugina Lina vive nelle immagini di un cavaliere che capita in una selva incantata inseguendo “un fantasma innanzi a lui fuggente lusingatore” e la passione d’amore è simboleggiata da verdi serpentelli e da steli spinosi di strani fiori che si attorcigliano intorno alle gambe del giovane.
Il rapporto di odio-amore nei confronti della cugina si rivela in un altro componimento compreso in Mal giocondo, nel quale Lina appare nelle vesti di “Alcina fata crudel e diversa” che gli sorride da lontano. Alcina è una maga presente in una delle più importanti opere del Rinascimento italiano, il poema cavalleresco intitolato Orlando furioso, di cui è autore Ludovico Ariosto. Alcina nel poema ariostesco appare una donna bellissima, ma solo per virtù di magia, dal momento che quando la magia svanisce, Alcina appare vecchia e brutta. Inoltre, quando la maga si stancava dei suoi amanti, come l’antica Circe, li trasformava in sterpi, piante ed alberelli. Per questo Pirandello può concludere il suo componimento con questi versi:

Perché sì bella e pur sì trista sei,
dimmi, dolce amor mio, dimmi perché…
[…]
Vecchia sei tu, ma celami
essenza tua con vista giovanil,
come la vecchia Terra a primavera
le rughe cela coi fiori d’april.
Quando una notte di te avrò goduto,
un sterpo fammi, e non trarmi mai più.
Io ti dirò, co ‘l mio miglior saluto
“Come sei brutta, o bella Alcina, tu…”

Come si può rilevare, i versi sviluppano i contrasti: “bella” – “trista”, “vecchia” – “giovane”, “brutta” – “bella”.

Altre tematiche di “Mal giocondo”

Nella raccolta di Mal giocondo non sono rappresentate soltanto le situazioni contrastanti di un amore difficile nei confronti della cugina Lina: compaiono anche temi ispirati a una polemica politica e sociale nei confronti dei costumi, delle abitudini, dei comportamenti collettivi che Pirandello aveva osservato nel suo primo soggiorno a Roma. Soprattutto si rivelava la sfiducia del giovane Pirandello verso le classi dirigenti da lui ritenute del tutto incapaci di realizzare il sogno di Giuseppe Mazzini, uno dei profeti del Risorgimento italiano, cioè di un movimento politico e ideale che era stato alla base dell’unità d’Italia e aveva indicato nella città di Roma la capitale del nuovo regno (1870). A proposito della città di Roma, è utile richiamare l’attenzione su di un componimento poetico che si concentra sullo spettacolo della folla, spettacolo peculiare della letteratura moderna, e descritto da autori importanti come Edgar Allan Poe (per la città di Londra nell’Ottocento) o da Baudelaire (per la città di Parigi). Pure Pirandello descrive dunque lo spettacolo della folla nella città di Roma:

Ecco la folla. Chierici e beoni,
giovani e vecchi, femine ed ostieri,
soldati, rivenduglioli, accattoni,
voi nati d’ozio e di lascivia
[…]
bottegaj, vetturini, gazzettiei,
voi vagheggini, anzi stoffe ambulanti,
donne vendute da l’incedere franco
goffe nutrici, e voi dame eleganti,
quale strano spettacolo a lo stanto
di rimirar, non sazio, occhio offerite
così male accozzate in largo branco.
Oh viaggio curioso de le vite
sciocche d’innumerabili mortali!
Oh per le vie de le città spedite,
che retata di drammi originali!

In un passaggio testuale di una lettera autobiografica redatta per un giornale, precisamente a proposito della sua prima raccolta poetica, Pirandello aveva modo di svolgere alcune importanti osservazioni:

Il mio primo libro fu una raccolta di versi, Mal giocondo, pubblicata prima della mia partenza per la Germania. Lo noto, perché han voluto dire che il mio umorismo è provenuto dal mio soggiorno in Germania; e non è vero; in quella prima raccolta di versi più della metà sono del più schietto umorismo, e allora io non sapevo neppure che cosa fosse l’umorismo.

 

Pasqua di Gea

Volendo rilevare che il suo umorismo non aveva un rapporto diretto con il suo soggiorno in Germania, Pirandello teneva anzi a sottolineare che in quel paese, anzi, aveva scritto poesie di altro tono e altra ispirazione. Si trattava della raccolta intitolata Pasqua di Gea, pubblicata a Milano nel 1891, ma effettivamente scritta a Bonn tra il 1889 e il 1890 e dedicata a Jenny Schulz-Lander, una giovane tedesca amata dallo studente Pirandello nel periodo del suo soggiorno nella città tedesca. Pasqua di Gea è il titolo della raccolta: e infatti Pirandello intende cantare, anche con intenzione polemica, non già la Pasqua cristiana, bensì quella della Terra, dell’antica madre Gea per cui la Natura risorge in primavera. Come dire che Primavera e Amore si ridestano manifestandosi in un irrefrenabile impeto di vita.

Le Elegie Renane

Pure le poesie raccolte poi sotto il titolo di Elegie renane furono scritte a Bonn e pubblicate successivamente a Roma nel 1895. E anche queste furono ispirate dall’amore per la giovane tedesca Jenny Schulz-Lander. Il titolo si ispira, con tutta evidenza, alle Elegie romane di Goethe, tradotte da Pirandello forse nello stesso periodo in cui componeva le sue Elegie. Ma è stato giustamente rilevato che le Elegie renane non sono esclusivamente caratterizzate dal modello goethiano, ovvero da un gioioso sentimento d’amore: qua e là si coglie l’incapacità del giovane poeta siciliano di accogliere l’amore con gioiosa letizia. Pirandello poeta non fa riferimento solo a modelli del passato, come Goethe.

La Zampogna

La raccolta poetica intitolata Zampogna è stata pubblicata a Roma nel 1901. Si tratta di un’opera che rivela che Pirandello è un artista aperto a cogliere le voci più significative della poesia contemporanea italiana, in particolare l’esperienza di un poeta come Giovanni Pascoli, che con la raccolta Myricae (= tamerici) aveva dato voce a una ispirazione agreste in chiave simbolista. L’influenza di Pascoli si avverte infatti in un componimento intitolato Ritorno, nel quale Pirandello rievoca la casa in cui è nato, la casa sita nella contrada agrigentina denominata Caos:

Casa romita in mezzo a la natìa
campagna, aerea qui, sull’altipiano
d’azzurre argille, a cui sommesso invia
fervor di spume il mare aspro africano,
te sempre vedo, sempre, da lontano,
se penso al punto in cui la vita mia
s’aprì piccola al mondo immenso e vano;
da qui – dico – da qui presi la via.

Di questo componimento sarà utile esaminare il lessico o alcune particolari espressioni. Fermiamoci sulla immagine dell’“altipiano d’azzurre argille” che si affaccia sul mare africano. Nel frammento di un romanzo appena cominciato e mai proseguito, Informazioni sul mio involontario soggiorno sulla Terra, Pirandello riproporrà questa immagine suggestiva:

[…] ora che prevedo prossima la mia partenza, mi metto a dire in faccia a tutti le informazioni che darò, se m’avverrà che altrove mi si domanderanno notizie su questo mio involontario soggiorno sulla Terra, dove una notte di giugno caddi come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna d’olivi saraceni affacciata agli orli d’un altipiano d’argille azzurre sul mare africano.

La prossima partenza, di cui scrive Pirandello, indica la morte, rappresentata come un punto d’arrivo. E l’idea della vita come viaggio che disillude si ritrova pure nei restanti versi di Ritorno:

Da questo sentieruolo tra gli olivi,
di mentastro, di salvie profumato,
m’incamminai pe ‘l mondo, ignaro, e franco.
E tanto e tanto, o fiorellini schivi,
tra l’erma siepe, tanto ho camminato
per ricondurmi a voi, deluso e stanco.

A fronte della vita riguardata pessimisticamente come pena e dolore, la morte può essere considerata dal giovane Pirandello come una piccola salvezza, anche quando quella, la morte, colpisce un bambino. Non per caso leggiamo di “Un morto, e la campana non si lagna: / squilla, argentina, a gloria”. Ma perché? Semplicemente perché quel bambino, con la morte, si è sottratto alle fatiche e alle sofferenze del lavoro minorile in campagna, un lavoro penoso che gli avrebbe fruttato un po’ di pane. La conseguenza paradossale è che gli altri, i vivi che per quel poco di pane continuano a sudare, sono visti “agitare / verso la bara piccola il berretto / in saluto: – O figliuol! sii benedetto! / t’ha voluto il Signore risparmiare”. Leggendo questi versi si ha una prova dei paradossi rappresentati da una ispirazione sottilmente umoristica. Con una raccolta poetica successiva, Fuori di chiave, Pirandello dispiegherà più compiutamente la sua concezione umoristica.

La dissonanza di “Fuori di chiave”

L’autore pubblica Fuori di chiave nel 1912, presso Formiggini, un editore assai noto nella cultura italiana del Novecento per aver realizzato una collana dei “Classici del ridere” nella quale compaiono scrittori italiani ed europei assai cari a Pirandello, come Luigi Pulci, Folengo e Tassoni – rispettivamente poeti comici del Quattrocento, del Cinquecento e del Seicento – e inoltre Laurence Sterne, romanziere irlandese del Settecento, autore de La vita e le opinioni di Tristram Shandy gentiluomo, un libro che costituisce un modello, o meglio, un punto di riferimento per il Pirandello autore di Uno, nessuno e centomila.
Volgiamo ora l’attenzione al titolo della raccolta, Fuori di chiave. Questo titolo deriva dal linguaggio musicale e, come scrive un attento critico, Nino Borsellino, “incorpora componimenti intenzionalmente dissonanti su temi difformi, oscillanti”. Si prenda, per esempio, il primo componimento, Preludio orchestrale. Qui è rappresentato un violino che sta operando “una sua brava sonatina d’amor, con sentimento”, ma a questo strumento si contrappone un contrabbasso con un suo “strano, rauco ammonimento”. Il maestro d’orchestra – che impersonava allegoricamente il poeta – si scusa della “dissonanza” dicendo di non sapere che nella “cava pancia” del contrabbasso si è nascosta una certa dama (signora) molto magra, senza occhi, che si chiama …come si chiama? Il testo non lo dice: ma è presumibile che si tratti della raffigurazione della Morte. Intanto il maestro confessa di stringere invano la bacchetta d’orchestra, ma quella “mala signora” è ormai lei la direttrice d’orchestra. Il maestro s’arrabbia, invita i violini a suonar “piano, piano, piano”. Ma è tutto uno sforzo inutile: la signora rovescia l’uragano delle dissonanze. Quale la conclusione di questo concerto, allora? Nessuna conclusione, se non una infinita dissonanza. Ma quel concerto è la metafora della vita: anche la vita si svolge senza armonia, ed è fatta di infinite dissonanze.

Il repertorio tematico di “Fuori di chiave”

La vita può svolgersi anche nel contrasto tra ricchezza e povertà: e queste due ultime parole indicano tanto una condizione materiale quanto una condizione spirituale. V’è un componimento di Fuori di chiave il cui titolo è Tesoro, e si fa riferimento alla condizione del poeta passato umoristicamente – cioè attraverso un contrasto – dalla condizione di uomo ricco a quella di uomo povero.

Scrive Pirandello:

Come dunque ridotto mi son qui?
Con la ricchezza mia potea far tanto,
e nulla ho fatto, e son povero intanto.

Il testo si conclude poi in chiave umoristica:

dunque tanta ricchezza m’è servita
per comperarmi questa povertà.

I temi della ricchezza e di una successiva povertà, patita in ragione di uno spreco di sé, si ritroveranno nelle pagine de Il fu Mattia Pascal. Ma anche in Uno, nessuno e centomila ritornerà il tema, in quanto il protagonista cederà tutte le sue ricchezze per trascorrere i suoi giorni in un ospizio di povertà. Nella raccolta poetica Fuori di chiave si racchiude un importante repertorio tematico dell’opera di Pirandello: per esempio i temi del cosmo e dell’universo infiniti, dentro cui vive l’uomo che è un atomo, infinitamente piccolo; le figure dello sdoppiamento della personalità, il tema dello specchio. Basterà offrire qui alcuni esempi. Per il tema dello sdoppiamento gioverà rileggere l’esordio di un componimento intitolato Convegno:

Per le città, nostre o d’oltralpe, in ogni
luogo, ov’ha fatto alcun tempo dimora,
io vedo un altro me, com’ero allora,
il qual lieto s’aggira entro a quei sogni,
che suoi soltanto e non pur miei son ora.

D’altra parte, in un componimento intitolato Il pianeta, affiora l’immaginazione cosmica di Pirandello, la percezione degli spazi infiniti. e in questo spazio il movimento degli astri:

Gira, gira… Nello spazio
tante trottole: Ci scherza Dio

Quindi, il poeta mostra di rivolgersi a un savio antico, legato alla teoria cosmologica dell’antico astronomo Tolomeo che riteneva la terra al centro dell’universo e il sole, insieme con gli altri pianeti, a girare intorno alla Terra:

O savio antico,
teco or più non posso io credere
che la terra l’ombelico
sia del mondo e che s’aggirino
sole ed astri d’attorno
per offrirle uno spettacolo
e far lume notte e giorno.

Gioverà mostrare infine alcune affinità tematiche tra i versi del componimento Il pianeta, riprodotti sopra, e il seguente passaggio testuale de Il fu Mattia Pascal:

Il nostro Comune, in certe notti segnate nel calendario, non fa accendere i lampioni, e spesso – se è nuvolo – ci lascia al buio. Il che vuol dire, in fondo, che noi anche oggi crediamo che la luna non stia per altro nel cielo, che per farci lume di notte, come il sole di giorno, e le stelle per offrirci un magnifico spettacolo.

Come si può rilevare, uguali sono i temi della falsa credenza degli uomini, che ritenendosi al centro dell’universo, pensano che il sole e la luna servano solo a illuminare la terra in cui abitano e che le stelle stiano in cielo per offrire uno spettacolo alla vista degli uomini medesimi. Vale la pena ricordare che accanto al riso umoristico di Pirandello nei confronti delle false credenze, restano alcune pause di canto, che fanno pensare alla rappresentazione che della luna aveva dato Leopardi, un grande poeta italiano dell’Ottocento che per Pirandello costituisce un importante modello.

3. L’attività di saggista

Arte e scienza

Nel 1908 Pirandello, in vista del concorso a cattedra all’Istituto di Magistero (Roma), pubblica due importanti saggi: Arte e scienza e L’umorismo. L’autore viveva a Roma dal 1892, e presso il Magistero era professore incaricato di Lingua Italiana: impartiva lezioni di tedesco anche perché aveva attraversato un difficile momento economico, dovuto al tracollo degli investimenti familiari in una zolfara.
Il saggio introduttivo del volume Arte e scienza, che dà il titolo all’intera raccolta, si propone di esaminare con piglio critico il rapporto tra le due modalità della conoscenza (attraverso l’intuizione o attraverso il ragionamento) che il filosofo e critico letterario Benedetto Croce, nella sua Estetica del 1902, aveva definito rapporto “di doppio grado”. Pirandello, nell’elaborare una sua teoria psicologica dei meccanismi attraverso cui si attua la conoscenza, partirà dal poeta ottocentesco Giacomo Leopardi , difendendo il componimento leopardiano Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, ingiustamente contestato da uno studioso di antropologia e uno psichiatra che nulla avevano inteso di Leopardi. Chiudendo il capitolo con atteggiamento di positiva apertura alle possibilità dell’indagine critica in letteratura, Pirandello scrive: “L’armonia d’ogni opera d’arte può essere scomposta dalla critica, per mezzo dell’analisi, in rapporti intelligibili; e in quest’armonia la critica può scorgere una scienza, un insieme di leggi complesse…”.
Intanto, in tutto il decennio precedente, non erano mancati interventi critici di Pirandello sulle iniziative più originali nel panorama letterario: è il caso di ricordare l’acuta lettura del romanzo di Giovanni Verga, Mastro don Gesualdo, pubblicata nel quindicinale “Vita Nuova” dell’ottobre 1890 con il titolo Prosa moderna. Di piglio ironicamente critico nei confronti di una certa cultura positivistica corrente è un articolo apparso ne “La Nazione letteraria” (Firenze, 6 settembre 1893) che, nella mordace polemica con quanti non si fanno scrupolo di “penetrare con la lente del medico […] nei dominii dell’arte”, rivela tratti di consonanza con il più maturo Arte e scienza.

L’Umorismo

Nel saggio sull’Umorismo, Pirandello parte da un’analisi dei significati della parola: egli rivendica alla lingua italiana l’origine del termine e, richiamando uno studioso, Alessandro D’Ancona, – dopo aver ricordato che “umore” è uno dei vocaboli coi quali gli antichi identificavano la “malinconia” – l’autore segnalava che nella nostra lingua la parola ha il significato di fantasia, capriccio.
In realtà, aggiungeva Pirandello, secondo la voce pubblica e l’opinione diffusa, l’espressione “scrittore umoristico” sta per “scrittore che fa ridere”. Per questa ragione, più di uno scrittore “per non passare da buffone, ha voluto buttar via la parola sciupata, abbandonandola al volgo, e adottarne un’altra: ironismo, ironista”. Senonché, insiste Pirandello, anche la parola “ironia” richiederebbe un supplemento di riflessione. C’è l’ironia come figura retorica che implica una contraddizione tra quel che si dice e quel che si vuole venga inteso, interpretato. C’è poi – aggiunge Pirandello – un’altra ironia, ed è di carattere filosofico, derivante “da tutto il movimento idealistico e romantico post-kantiano”. Spiega l’autore che l’Io – per i filosofi idealisti (Fichte o Hegel) sola vera verità – può sorridere della vera natura dell’universo che, così com’è stata creata dall’Io, può essere annullata. Dunque, nell’ironia romantica – a differenza dell’ironia retorica, che invita a non prendere sul serio quello che si dice – “si può non prendere sul serio quel che si fa”. Ecco – scrive Pirandello – questa ironia filosofica rivela “qualche parentela col vero umorismo, più stretta certamente che non l’ironia retorica”.
A questo punto conviene precisare la definizione di umorismo. Intanto, è un fatto che non pochi studiosi e critici hanno operato una distinzione tra letteratura degli antichi, in cui sarebbe presente solo la dimensione del comico, e letteratura dei moderni, in cui invece sarebbe presente la dimensione dell’umorismo. Ma si tratta ancora una volta di intendersi sul significato della parola: l’umorismo non è solo prerogativa dei moderni, come invece pretendono alcuni critici o anche autorevoli scrittori. Qualche esempio. Victor Hugo dovrà trovarsi in grande difficoltà “volendo additare come principio dell’arte moderna la famosa teoria del grottesco, di fronte a Vulcano, a Polifemo, a Sileno, ai titani, ai satiri, ai ciclopi, alle sirene, alle furie, alle Parche, alle Orgie, al Teriste omerico” e al altre creature o figure grottesche dell’antichità.

D’altra parte se l’umorismo è un composto di riso e di pianto:

Oh, via! è proprio inutile sfoggiare esempi e citazioni. Sono questioni, disquisizioni, argomentazioni accademiche. L’umanità passata non c’è bisogno di cercarla lontano: è sempre in noi, tal quale. Possiamo tutt’al più ammettere che oggi, per questa […] cresciuta sensibilità e per il progresso (ahimè) della civiltà, siano più comuni quelle disposizioni di spirito, quelle condizioni di vita, più favorevoli al fenomeno dell’umorismo, o meglio di un certo umorismo; ma è assolutamente arbitrario il negare che tali disposizioni non esistessero o non potessero esistere in antico.

Ironia e umorismo

Pirandello non desiste dall’operare una distinzione tra ironia e umorismo e nel dedicare un intero importante capitolo alla poesia cavalleresca. Pirandello ripensa un episodio celebre del Furioso di Ariosto, nel quale l’eroina Bradamante, dopo aver lottato contro il mago Atlante, “riesce a rompere l’incanto; scioglie in fumo il castello del mago” ma quando sta per raccogliere il frutto delle sue fatiche, “si vede portar via dall’ippogrifo il suo Ruggero liberato”. Bradamante riceve le congratulazioni di molti cavalieri, che l’eroina, intenta solo alla liberazione del suo Ruggero, non s’era curata intenzionalmente di liberare: ma nemmeno i ringraziamenti riceve, in quanto molte donne ebbero dolore in quanto erano state liberate dal piacere di una dolce prigionia nel castello incantato di Atlante. Sull’episodio e sugli affetti o i sentimenti dei personaggi appena liberati, Ariosto non aggiunge altro. Senonché – aggiunge Pirandello – un vero umorista “non si sarebbe lasciata sfuggire la stupenda occasione di descrivere gli effetti nelle donne e nei cavalieri dell’improvviso sciogliersi dell’incanto, del ritrovarsi alla campagna, e il dolore del perduto bene della schiavitù per una libertà che dal bel sogno li faceva piombare nella realtà nuda e cruda”. La descrizione manca affatto. E perché manca? Ma perché Ariosto – osserva Pirandello – si sarebbe posto, rispetto alla sua materia, in condizioni del tutto opposte a quella in cui si sarebbe messo un umorista. Ariosto schiva il contrasto e cerca invece l’accordo tra le ragioni del proprio presente, del proprio tempo, da un lato, e le condizioni favolose di quel mondo passato, dall’altro lato. Certo, quell’intenzione di accordo è ironica, e quelle condizioni favolose si sciolgono nell’ironia: “la quale, distruggendo il contrasto […] resta comica, senza dramma”. Vero è che nel Furioso “possiamo anche aver il dramma, ma seriamente e finanche tragicamente rappresentato”, come per esempio la pazzia di Orlando, ma i due elementi – comico e tragico – non si fondono mai, laddove proprio la loro fusione è peculiare dell’umorismo.

Il “sentimento del contrario”

Pirandello dedica la parte seconda del saggio a una definizione dei caratteri e della materia dell’umorismo. Rileva l’autore che le caratteristiche più comuni e generalmente osservate dell’arte umoristica sono date da una “contraddizione” a cui si suole dare per causa principale il disaccordo che il sentimento e la meditazione scoprono o fra la vita reale e l’ideale umano o fra le nostre aspirazioni e le nostre debolezze e miserie, e per principale effetto quello della perplessità tra il pianto e il riso; poi lo scetticismo, di cui si colma ogni osservazione, ogni pittura umoristica, e infine il suo procedere minuziosamente e anche maliziosamente analitico.
Sono definizioni, queste, che consentono una prima conoscenza sommaria dell’umorismo. Ove si volesse una spiegazione più interna e ravvicinata, sarebbe bene – rileva Pirandello – seguire “il processo da cui risulta quella particolare rappresentazione che si suol chiamare umoristica”. Ebbene noi vedremo che nella creazione di ogni opera umoristica, la riflessione non si nasconde, non resta invisibile, non resta cioè quasi una forma del sentimento, quasi uno specchio in cui il sentimento si rimira; ma gli si para innanzi, da giudice; la analizza, spassionandosene, ne scompone l’immagine; da quest’analisi, però, da questa scomposizione, un altro sentimento sorge o spira: quello che potrebbe chiamarsi, e che io difatti chiamo il sentimento del contrario.
Ora, per spiegare la ragione del contrasto tra la riflessione e il sentimento, bisogna penetrare nello spirito dello scrittore umorista. A ben considerare, scrive Pirandello, non può essere amaramente comica la condizione di un uomo “a cui un pensiero non può nascere, che subito non gliene nasca un altro opposto, contrario; a cui per una ragione che egli abbia di dire sì, subito un’altra e due e tre non ne sorgano che lo costringano a dire no; e tra il sì e il no lo tengo sospeso, perplesso per tutta la vita”. Ora, lo stesso contrasto che è nella disposizione d’animo passa nella rappresentazione artistica di segno umoristico.

L’umorismo nella rappresentazione manzoniana di Don Abbondio

Un esempio di arte umoristica è dato dalla rappresentazione del personaggio di don Abbondio, nei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. A fronte di un prepotente signorotto, don Rodrigo, che usa minacciare i deboli, don Abbondio – rileva Pirandello – “è un coniglio”, pauroso come un coniglio. In questo senso, un osservatore superficiale, tenendo conto degli atti e dei gesti di questo sacerdote che ha paura di ogni cosa, considera il personaggio una figura comica. Ma chi non è superficiale, sente che il riso qui scaturisce da ben altro. Don Abbondio, a fronte di don Rodrigo, è l’uomo misero che si trova in luogo dell’uomo coraggioso “che ci sarebbe voluto”. Manzoni aveva un ideale altissimo della missione del sacerdote sulla terra: e don Abbondio, di quell’ideale è il sentimento del contrario oggettivato e vivente. Per questo il personaggio non è comico soltanto, ma profondamente umoristico. Qualcuno – ricorda Pirandello – potrebbe dire che l’atteggiamento di Manzoni sia ispirato a bonarietà, a simpatica indulgenza? Andiamo cauti: sì, Manzoni ha compatimento per il suo personaggio, ma è un compatimento che “ne fa strazio”, perché l’autore ride e fa ridere del personaggio. Senonché, compatendo e ridendo a un tempo, Manzoni “viene anche a ridere di questa povera natura umana” malata di tante debolezze.
Ne segue che “se questo particolare divien generale, se questo sentimento misto di riso o di pianto, quanto più si stringe e determina don Abbondio, tanto più si allarga e quasi evapora in una tristezza infinita. Ne segue […] che a voler considerare da questo lato la rappresentazione di don Abbondio noi non sappiamo più ridere”.
In fondo, la pietà di Manzoni si rivela spietata e “la simpatia indulgente”, di cui pure qualcuno ha parlato, “non è così bonaria come sembra a tutta prima”.

L’umorismo della vita

Riso e tristezza infinita. È questo il segreto umoristico della vita. Chiede Pirandello: “Vogliamo assistere alla lotta tra l’illusione, che s’insinua […] da per tutto e costruisce a suo modo il teatro della vita, e la riflessione umoristica che scompone una a una quelle costruzioni?” Ora la riflessione può scoprire tanto al comico e al satirico quanto all’umorista la costruzione illusoria in cui consiste la vita. Insiste l’autore:

Che cosa sono, in fondo, i rapporti sociali della così detta convenienza? Considerazioni di calcolo, nelle quali la moralità è quasi sempre sacrificata. L’umorista va più addentro, e ride senza sdegnarsi, scoprendo come, anche ingenuamente, con la massima buona fede, per opera di una finzione spontanea, noi siamo indotti a interpretare come vero riguardo, come vero sentimento morale, in sé, ciò che non è altro, in realtà, se non riguardo o sentimento di convenienza, cioè di calcolo.

Osserva in proposito che

Quanto più difficile è la lotta per la vita, e più è sentita in questa lotta la propria debolezza, tanto maggiore si fa poi il bisogno del reciproco inganno. La simulazione della forza, dell’onestà, della simpatia, della prudenza, in somma d’ogni virtù, e della virtù massima della veracità, è una forma d’adattamento, un abile strumento di lotta. L’umorista coglie subito queste varie simulazioni per la lotta della vita; si diverte a smascherarle, senza tuttavia indignarsene.

Debolezze, simulazioni e miserie dell’uomo. Qui Pirandello richiama lo strumento della nuova scienza, il telescopio, una vera e propria “macchinetta infernale”. Infatti, quando l’occhio guarda dalla lente più piccola – ricorda l’autore – il telescopio ci fa vedere grande quegli oggetti, come per esempio le stelle, che la natura “provvidenzialmente” aveva voluto farci vedere piccoli. Ma se l’anima nostra saltasse a guardar dall’altra lente, quella più grande? Noi vedremmo tutto rimpicciolito, compresi la terra e gli uomini con la loro presunta grandezza. Resta una fortuna: ed è che è peculiare della riflessione umoristica il provocare il sentimento del contrario, il quale induce a questa considerazione: “Ma è poi veramente così piccolo l’uomo, come il telescopio rivoltato lo fa vedere? Se egli può intendere e concepire l’infinita sua piccolezza, vuol dire che egli intende e concepisce l’infinita grandezza dell’universo. E non può essere piccolo chi concepisce la grandezza”. Piccolo e grande sono, “galileianamente“, misure relative (Il Saggiatore). Infatti, se poi l’uomo si sente grande e un umorista viene a saperlo, può capitare a quell’uomo illuso come a Gulliver, protagonista del libro di Swift, il quale appare gigante a Lilliput, tra i nani lillipuziani, “e balocco tra le mani dei giganti a Brobdignag”. Ma in fondo è proprio questo il segreto dell’arte umoristica: far apparire gli uomini “nani e giganti a un tempo”.

4. Le novelle

La nascita della vocazione narrativa

In un passaggio della lettera autobiografica Pirandello svolgeva questa osservazione: “Fino a tutto il 1892 non mi pareva possibile che io potessi scrivere altrimenti che in versi. Devo a Luigi Capuana la spinta a provarmi nell’area narrativa in prosa”.
Capuana era il più illustre letterato siciliano allora residente a Roma: tra gli scrittori più impegnati nella adesione ai canoni del verismo e naturalismo, nei primi anni novanta appariva come autore di romanzi quali Giacinta e Profumo, che eserciteranno un influsso decisivo sul primo Pirandello. Capuana era anche autore di raccolte di novelle come Le Appassionate e Le Paesane. Da quest’autore Pirandello eredita probabilmente un’ansia di “osservazione continua, illimitata, che alimenta l’ininterrotto susseguirsi di fotogrammi umani”. È una commedia umana che si svolge nella varietà pressoché infinita dei casi.

La prima produzione novellistica

A voler racchiudere la prima novellistica di Pirandello, quella che va approssimativamente dal 1895 al 1902, e a voler definire la varietà delle situazioni con brevi formule, si potrebbe ripetere, con un critico, che questa produzione narrativa viene a rappresentare specificamente due ambienti, quello cittadino-borghese e quello campestre: in sostanza Roma e la Sicilia. Questa prima produzione riproduce le due fondamentali dimensioni dell’esperienza umana di Pirandello: quella isolana (siciliana) e quella inurbata della capitale.
È stato rilevato che la sofferenza umana appare il motivo unitario del mondo pirandelliano, una sofferenza che accomuna le infinite situazioni rappresentate nella prima novellistica, una sofferenza che si manifesta nella assoluta solitudine dei gesti e dei pensieri, nel silenzio delle parole e delle lacrime. Ed è significativo che anche attraverso la rappresentazione dell’uomo solo, si avvii, già nella prima narrativa pirandelliana, la “morte del personaggio”, una morte che si svolgerà pienamente nel teatro di Pirandello, come testimonia il dramma celebre Sei personaggi in cerca d’autore. È stato scritto assai bene che “l’uomo di Pirandello sperimenta qui il primo atto del suo viaggio drammatico: e scopre, stupito e sconvolto, la incomunicabilità dei suoi pensieri, la solitudine dei suoi sentimenti, l’indifferenza ostile degli altri, la falsità delle loro pretese di solidarietà”.

Il tema della sofferenza in “Sole e ombra” e in “Notizie del mondo”

La complessa rappresentazione della sofferenza si definisce nel lessico e nello stile già della prima produzione novellistica.
Potremmo portare qui alcuni esempi collegati con il tema del suicidio. Esso si ritrova in Sole e ombra, una novella pubblicata per la prima volta nel 1896 e poi ristampata nel 1902 nella raccolta Beffe della morte e della vita. Qui il protagonista, Ciunna, avendo sottratto una cospicua somma di denaro, e prevedendo che lo aspetta solo il carcere, decide di suicidarsi. Decide di lasciare un biglietto alla famiglia in cui annuncia le ragioni del suo gesto e quindi decide di concedersi un’ultima giornata al mare. Qui ha un piacevole incontro con amico e sta per ritornare a casa, al tepore del sole che tramonta, avendo dimenticato le sue intenzioni suicide. Improvvisamente ricorda del biglietto e della probabile propagazione della notizia del suo suicidio: e quindi è in qualche misura costretto a suicidarsi.
Pure la novella intitolata Notizie del mondo, pubblicata per la prima volta nel 1901, viene poi inserita nella raccolta Beffe della morte e della vita. Qui un’amicizia fraterna lega il quasi-filosofo Tommaso Aversa e il candido Momino. Quando quest’ultimo improvvisamente muore, il primo decide di approntare una specie di diario quotidiano per dare notizie del mondo all’amico morto. Senonché la vicenda si conclude in maniera umoristica, in quanto Tommaso Aversa darà notizia all’amico del suo matrimonio con la vedova di Momino. Alla conclusione della vicenda, scrive Tommaso Aversa: “Mi portano in questo momento la partecipazione di nozze a stampa. Le ho fatte comporre con la massima semplicità. Ed ecco, il primo cartoncino è per te”. Dunque, il filosofo che non si faceva incantare dalle illusioni e dai desideri della vita subisce un destino umoristico e, alla fine, proprio lui viene intrappolato dal groviglio della vita e dalle sue sirene.
È stato rilevato, a proposito di questa prima produzione novellistica di Pirandello, che, come il linguaggio aderisce alle varie situazioni, così i personaggi delle novelle si servono della parola ancora con passione. Per esempio, in Notizie del mondo, Tommaso Aversa se la prende contro chi vuole parlare difficile. Non diversamente, nelle altre novelle del periodo, i personaggi spesso si irritano contro i “linguai”, ovvero contro coloro che parlano “bello” e difficile e colorano il discorso con avverbi e parole preziose.

La riflessione sul linguaggio

A partire dal 1904 Pirandello comincia a pensare in maniera sistematica a una poetica umoristica. Ne risente, per questo, anche la sua produzione novellistica. L’autore avvia, per così dire, una inchiesta sul linguaggio e sul significato per dichiarare l’inautenticità delle parole. Subentra il concetto di costrizione, di “obbligo”, di “maschera”, che Pirandello vede ormai in ogni ordine sociale. Impossibile una vita veramente libera: e allora i personaggi delle novelle cominciano a servirsi del discorso in maniera umoristica, per smascherare convenzioni, ipocrisie e menzogne della società.
Si tratta di personaggi sconfitti, ma questi sconfitti – è stato affermato assai bene – “sanno parlare come nessuno della vanità di ogni illusione comunicativa e di ogni dialogo” e “sanno esprimere l’impotenza della ragione” (L. Lugnani). Si pensi a una delle novelle più note – il cui titolo, tipicamente pirandelliano, è La trappola -, che comincia in questo modo: “No, no, come rassegnarmi? E perché? Se avessi qualche dovere verso altri, forse sì. Ma non ne ho! E allora perché? Stammi a sentire. Tu non puoi darmi torto. Nessuno, ragionando così in astratto, può darmi torto. Quello che sento io, senti anche tu, e sentono tutti.”

Le ultime novelle

Un autorevole linguista, Terracini, ha ricondotto le ultime novelle di Pirandello al “linguaggio dell’evasione”. E altri critici hanno parlato dei personaggi di queste novelle come di “uomini soli” che ricominciano a vivere senza linguaggio, per cui si è potuto dire che Pirandello maturo si è atteggiato a poeta del silenzio. La novella più rappresentativa di questa ultima fase è probabilmente quella che s’intitola Una giornata. Qui il protagonista, che narra in prima persona la propria storia, è strappato misteriosamente dal sonno e buttato fuori da un treno in una stazione di passaggio. Si ritrova solo, in una città ignota, sotto le prime luci dell’alba. Senza riuscire a comprendere e orientarsi, l’uomo è condotto in una vecchia casa, dove probabilmente ha trascorso la giovinezza. Qui si trova di fronte a uno specchio e stenta a riconoscersi. Oltre che alle cose avverte di essere pure estraneo a se stesso. L’uomo si vede invecchiato in un lampo, da giovane che era. Sente picchiare alla porta. Come in un sogno gli par di vedere entrare i suoi bambini, i quali mentre avanzano, crescono ad ogni passo e diventano adulti e poi vecchi. Questo il passaggio conclusivo: “Mi vien l’impeto di balzare in piedi. Ma debbo riconoscere che veramente non posso più farlo. E con gli stessi occhi che avevano poc’anzi quei bambini, ora già così cresciuti, rimango a guardare finché posso, con tanta tanta compassione, ormai dietro a questi nuovi, i miei vecchi figliuoli”.
Si colga il rovesciamento umoristico dei significati. Questi nuovi sono i figli che sono stati bambini e appaiono ora inesorabilmente vecchi; i vecchi figliuoli sono i bambini che hanno bussato alla porta e sono entrati nella stanza prima di trasformarsi in adulti e poi in vecchi.
In questa novella Pirandello ha rappresentato quel momento particolare della vita in cui, spezzato ogni rapporto con il mondo esterno e, per così dire, sospesa ogni dimensione del tempo, l’uomo moderno avverte la vanità di ogni cosa e il sentimento di non appartenenza alla società e al mondo. È un momento di vuoto, perché, a quel punto, è come se la vita non appartenesse più. È un momento di silenzio assoluto, è come se si indicassero a se stessi – e forse anche agli altri – le ragioni del non senso della vita.
Come vedremo, si tratta di una tematica che pervade l’opera dell’ultimo romanzo di Pirandello, forse il suo più importante: Uno, nessuno e centomila.

5. I primi romanzi e Il Fu Mattia Pascal

L’esclusa

Dopo la laurea filologica a Bonn, Pirandello visse a Roma fin dal 1892, e qui, nel 1901, pubblicava, tra il giugno e l’agosto, il romanzo L’esclusa sulle colonne de “La Tribuna” (il romanzo verrà poi edito in volume nel 1908).
Si tratta di una prima espressione letteraria, non ancora pienamente matura, nella quale l’influenza della prosa naturalista, sulla base di modelli costituiti da Giovanni Verga, o da un autore vicino al Pirandello come Luigi Capuana, si manifesta in un tono cronachistico, talora freddo e distaccato, rispetto ad una vicenda che, invece, presenta già i caratteri dei più maturi intrecci pirandelliani.
Lo scenario è quello della provincia siciliana: Rocco scaccia la moglie Marta, credendo che ella abbia una relazione con Gregorio Alvignani, intellettuale e parlamentare locale. In realtà non esiste alcun rapporto tra i due, salvo alcune appassionate lettere dell’Alvignani alla donna. Anche Francesco Ajala, padre di Marta, crede la figlia colpevole e, per il dolore, si lascia morire, autorecludendosi in casa e mandando in rovina i propri affari. Dopo aver tentato di procacciare da vivere in paese, a se stessa e alla madre, Marta accetta un incarico di maestra a Palermo: nella grande città, la giovane e bella protagonista è fatta oggetto della corte e delle attenzioni dei colleghi, ed il suo cuore risvegliatosi all’amore cede ora agli approcci dell’Alvignani, cui non aveva ceduto prima. Il marito Rocco, intanto, convintosi dell’innocenza della moglie, vuole richiamarla presso di sé, e trova proprio nell’Alvignani un imprevisto alleato. Inizia a manifestarsi il gusto pirandelliano per vicende in cui il caso domina l’esistenza dei personaggi, secondo inattesi e paradossali intrecci. Marta non può ora fare a meno di confessare al marito che, seppur prima innocente, ora ella ha davvero ceduto alla corte dell’Alvignani: ma Rocco, in una scena grottesca, in occasione dei funerali della propria madre, pur provando disprezzo per la moglie non può ora scacciarla nuovamente, e si rassegna a vivere con lei.
L’efficacia della trama e delle varie situazioni, che rapidamente si susseguono in virtù della prosa asciutta del narratore, giova a disegnare un quadro della società siciliana negli ultimi anni del secolo XIX, e lascia già intravedere quelli che saranno i temi fondamentali anche nella produzione drammaturgica.

Il turno

Nel 1902 esce Il turno, un romanzo ancora ambientato in Sicilia e che ancora risente dell’influenza esercitata sull’autore dai suoi modelli. La vicenda si presenta semplice, e per questa ragione mette in luce con maggiore evidenza quel gusto per il paradosso sociale che accompagnerà tanta parte dell’esperienza letteraria pirandelliana.
Marcantonio Ravì progetta di dare la bella figlia Stellina in sposa ad un anziano e ricco gentiluomo, già quattro volte vedovo, don Diego Alcozèr. Don Diego è vecchio e ricco e – nei progetti di Marcantonio – non potrà vivere ancora a lungo: in seguito la figlia, ormai ricca, sarà libera di sposare il giovane da lei amato, Pepé Alletto, un povero ma serio lavoratore. Il progetto che, più o meno secondo i dettami della loro volontà o del caso, ha visto i tre uomini protagonisti contro le proteste di Stellina, in un girandola di equivoci non si avvera: don Diego si mostra di fibra più sana del previsto e Stellina, ormai stanca della lugubre attesa, ottiene l’annullamento del matrimonio per sposare un terzo incomodo nel frattempo sopraggiunto.
Il sottofondo della narrazione è costituito, anche in questa seconda prova, dal ritratto della società provinciale siciliana, con i suoi pregiudizi e le sue maschere: ma in quest’opera, che nelle misure si presenta a metà strada tra il romanzo breve e la novella, emergono già quei tipici equivoci, e l’inarrestabile influenza del fato sulle vicende ed i progetti umani, che distingueranno anche la produzione più matura di Pirandello.
Accanto al tema del fatale equivoco è un tono di satira grottesca: al termine del romanzo, morto Ciro, il secondo marito di Stellina, si intuisce che verrà ormai “il turno” del povero Pepé, ma, proprio nella camera ardente ecco il commento di Marcantonio, rivolto alla figlia: “Questo, che pareva un leone, eccolo qua: morto! E quel vecchiaccio, sano e pieno di vita! Doman l’altro, sposa Tina Mèndola, la tua cara amica… Don Pepè, dopo tutto…”. Una battuta, questa conclusiva, che fotografa tanta vita “paesana” italiana, soprattutto nelle regioni meridionali della penisola, e non solo agli albori del Novecento.

La pubblicazione de “Il fu Mattia Pascal”

Apparso sulla rivista “La nuova antologia” tra l’aprile e il giugno 1904, e quindi edito in volume a cura della stessa testata, Il fu Mattia Pascal mostra, dopo l’esperienza dei due romanzi precedenti, una matura acquisizione degli stimoli tematici e dei modelli narrativi più consoni alla personale vicenda letteraria dell’autore. Non sono anni felici quelli in cui Pirandello lavora al romanzo che gli avrebbe dato vasto successo: un allagamento rovina la zolfara in cui il padre aveva investito i beni famigliari e la dote della moglie di Luigi, Maria Antonietta Portulano (sposata nel gennaio 1894). All’attività letteraria su riviste come “Il Marzocco” e “Ariel”, fondata dallo stesso Pirandello, si affianca l’impegno didattico: dal 1897 l’autore insegna letteratura italiana all’Istituto superiore di Magistero, e impartisce lezioni di tedesco, per far fronte alle difficoltà economiche che si appianeranno solo nel 1908, allorché il successo del Mattia Pascal, subito tradotto in varie lingue, e del saggio sull’umorismo gli consentiranno di accedere alla prestigiosa casa editrice Treves. Nello stesso anno Pirandello diviene professore ordinario presso il Magistero romano.

Le due premesse in apertura de “Il fu Mattia Pascal”

Il romanzo narra la particolare esperienza biografica occorsa a Mattia Pascal: ma prima di avviare l’ordinata cronaca della vita si offrono al lettore due premesse; la seconda è intitolataPremessa seconda (filosofica) a mo’ di scusa. Solo con il capitolo terzo (La casa e la talpa) ecco emergere Mattia, il fratello Roberto, maggiore di due anni, e la madre vedova circondata dall’amministratore Malagna e dalla severa zia Scolastica.
La duplice premessa articola un motivo topico nella poetica pirandelliana: il cominciamento. Nella prima il protagonista enuncia la sua unica certezza: “Io mi chiamo Mattia Pascal”; è questo un immediato ed esplicito riferimento al tema dell’identità, chiave del romanzo, e, a un tempo, al relativismo assoluto delle conoscenze umane. Apprendiamo che Mattia è da due anni impegnato come assistente nella Biblioteca che un monsignor Boccamazza donò al suo Comune (Miragno, nella provincia ligure) ed i cui libri, in condizioni di disordine e disfacimento, in una chiesetta sconsacrata, sono affidati alla custodia di don Eligio Pellegrinotto. È stato quest’ultimo a suggerire a Mattia di stendere una cronaca della sua singolare vicenda, e a indicargli possibili modelli letterari, fra i volumi cinque-secenteschi che affollano la biblioteca, accatastati secondo impensabili combinazioni. Ma la cronaca verrà stesa secondo uno stile che rifiuta espressamente ogni pretesa letteraria, avviata dal modesto “Cominciamo”, che chiude la seconda premessa, perché il caso ha posto Mattia in un una particolare condizione “come già fuori della vita”. E tuttavia, la seconda premessa, che vorrebbe esaltare il cominciamento nel cuore della vicenda, finisce al contrario col costituire un esordio filosofico, introducendo il tema di un ricorrente motto del protagonista: “Maledetto sia Copernico”. E, allo stupore di don Eligio, Mattia si deciderà infine a spiegare che il sistema copernicano, avendo svelato agli uomini che la Terra è “un’invisibile trottolina”, li ha privati del ruolo primario che essi ritenevano di avere nelle vicende del mondo. Non è soltanto una concreta sensazione di svuotamento della realtà, quella che in queste righe emerge dalle parole di Mattia: ma risulta parimenti rilevante il concetto che la Terra, pur avendo sempre girato, era come se fosse immobile al centro del creato, fintanto che gli uomini l’hanno considerata così, quasi ad attribuire una valenza cosmica all’umana capacità di dare oggettività al proprio vissuto.

“Il fu Mattia Pascal”: la vicenda narrata nel romanzo

Lungo la narrazione della vita giovanile di Mattia, il protagonista – io narrante costruisce un legame continuo tra le sue intime volontà, i genuini impulsi della sua coscienza, e quanto gli accade fatalmente, determinando la sua vita in modo imprevedibile. La figura che si autodisegna è così un personaggio alquanto “debole”, e apparirà naturale che, avutane l’occasione, egli scelga una sorta di “fuga” dalla realtà come apparente soluzione al problema quotidiano del vivere. Mattia e Roberto, orfani fin dall’infanzia, vissero felici con la madre, amorevole, ma di indole schiva e costituzione gracile. Il padre aveva lasciato loro un ingente patrimonio la cui amministrazione era condotta in modo disonesto da Malagna, e nel volgere di non troppi anni condusse alla rovina, senza che a nulla valessero gli inascoltati moniti di zia Scolastica, una sorella del padre di Mattia, bisbetica e zitella.
Quasi una “commedia degli errori” conduce Mattia al matrimonio con Romilda, nipote di Malagna e figlia di Marianna Dondi, vedova Pescatore, che per la figlia meditava ben altre nozze, più vantaggiose, con lo stesso amministratore. Mattia voleva indurre Romilda a sposare il ricco amico Pomino, ed intanto intratteneva una relazione con la giovane moglie di Malagna, Oliva. Il risultato di quest’intreccio fu che Malagna credette (o volle piuttosto credere) proprio il figlio che Mattia aveva dato a Oliva, mentre costrinse il giovane a sposare la nipote Romilda, anch’essa in attesa di un figlio da Mattia, ma piegata dalla volontà della madre a far credere fosse figlio di Malagna. L’intreccio è dominato dall’assurdità del caso, e dall’idea che gli uomini finiscano col giuocare nella vita i ruoli che a loro impone la consuetudine sociale. Si tratta di un tema, qui accennato, che avrà compiuto sviluppo nell’opera drammaturgica pirandelliana.
La convivenza con la moglie e la suocera-vedova risulta ben presto insopportabile a Mattia, che con l’aiuto di Pomino e della madre riesce ad ottenere l’incarico di bibliotecario che gli consente di mantenere la famiglia in dignitosa povertà. La morte contemporanea delle due figlie neonate e della madre lascia Mattia quasi svuotato e incapace di dolere.
Il capitolo VI è intitolato Tac, tac, tac… (un’onomatopea, ossia una parola che nel suono evoca un rumore naturale, in questo caso il rotolare della pallina nella roulette). Infatti il lettore incontra Mattia già seduto ai tavoli della roulette di Montecarlo, dove egli dice essersi ritrovato “per caso”, dopo un’ennesima scenata con moglie e suocera. Ecco, dunque, di nuovo il caso, a dominare gli eventi: una galleria di personaggi anima il casinò del piccolo principato, e Mattia, un po’ timido, vince in una serata la somma straordinaria di undicimila lire. Condotto a ritentare la sorte, e forse a perdere nuovamente tutto ciò che ha guadagnato, viene fermato da un evento tragico, il suicidio di un giovane giocatore.
A questo punto i progetti del protagonista sono oscillanti: riscattare un fondo rustico paterno e intraprendere l’attività di mugnaio, o restare bibliotecario; su tutto, però, grava la presenza nefasta di moglie e suocera. È in questo momento che, ancora secondo il dominio del fato, Mattia apprende da un quotidiano che al paese tutti lo credono morto suicida. La decisione è repentina: non tornare al paese, fuggire con il capitale accumulato al giuoco ed assumere una nuova identità. È la ricerca della felicità quella che anima i capitoli VII (Cambio treno) e VIII (Adriano Meis), nei quali Mattia giuoca con il proprio destino e si diverte ad assumere un nome fittizio composto con quello dell’imperatore-filosofo e il cognome di un viaggiatore incontrato nello scompartimento: “Recisa di netto ogni memoria in me della vita precedente, fermato l’animo alla deliberazione di ricominciare da quel punto una nuova vita”.
Dopo un viaggio attraverso varie città italiane, il protagonista inizia ad avvedersi delle difficoltà connesse alla vita sotto falso nome, dell’impossibilità di intrattenere una normale vita di relazione. È così che raggiunge Roma, dove prende alloggio nella casa di Anselmo Paleari, appassionato di spiritismo (“ascritto alla scuola teosofica”, dice Pirandello) e padre di Adriana. In casa sono anche il cognato di Adriana, Terenzio Papiano, e il fratello di quest’ultimo. Papiano si dimostra subito personaggio infido: egli è riuscito a circuire la signorina Caporale, l’altra pensionante di casa Paleari, e chiaramente medita, con la complicità del fratello malato, qualche azione anche ai danni di Mattia/Adriano. Intanto, quasi senza volerlo, tra la padrona di casa, Adriana, ed il nuovo venuto sembra avviarsi una strana e timida intesa fatta di sguardi e silenzio.
A rompere l’equilibrio è l’arrivo a Roma di un amico spagnolo di Papiano, che il protagonista ritiene possa essere un giocatore di professione incontrato a Montecarlo e dunque in grado di riconoscere Mattia Pascal nei panni di Adriano Meis. Unica soluzione è l’intervento chirurgico che corregga il difetto a un occhio, tratto somatico altrimenti troppo riconoscibile. Così Mattia dovrà trascorrere quaranta giorni di convalescenza nel buio assoluto. È in quest’occasione che Anselmo Paleari spiega al suo ospite la lanterninosofia: secondo il signor Anselmo l’uomo è l’unica, fra le creature, ad avere consapevolezza del proprio esistere, a cui “è toccato un tristo privilegio: quello di sentirsi vivere”; e tale sentimento costituisce un piccolo lanternino che ciascuno porta acceso dentro di sé; una fiammella di consapevolezza intellettuale, che proietta un raggio di luce più o meno ampio sulle cose che ci circondano.
Poco dopo Mattia viene coinvolto dal Papiano in una seduta spiritica, nel corso della quale egli viene derubato di una parte del suo patrimonio, senza che egli, poiché privo di identità, possa in alcun modo rivalersi sul ladro. Inoltre Adriana è ormai innamorata di Adriano Meis, e questi sa di non poter corrispondere, come pure vorrebbe, all’amore della giovane donna. La soluzione è immediata: mettere in scena il proprio suicidio: ciò che una prima volta era accaduto fatalmente, senza alcuna premeditazione, ora viene compiuto dal protagonista come unico gesto che possa dare nuovamente un senso alla sua esistenza: e così Adriano Meis muore suicida, perché Mattia Pascal possa reincarnarsi.
Tornato da Roma in Liguria, Mattia vuole incontrare per primo suo fratello Roberto: nell’emozione dell’improvvisa apparizione, e nella gioia di ritrovare vivo un fratello creduto morto, Roberto svela al lettore un gioco verbale sottilmente nascosto fin dall’inizio: “Mattia, l’ho sempre detto io, Mattia, matto! Matto! Matto! Matto!”. Le esclamazioni di Roberto indicano che la scelta dei nomi per il protagonista, in un romanzo così singolarmente anagrafico e giuocato sui ruoli e le identità, è stata acutamente meditata da Pirandello: Mattia è il Matto, cioè il pazzo, ma nel senso quasi medioevale del concetto; è colui che vive al di là del canone comune di ciò che la società ritiene debba essere la “normalità”.
Ma a Roberto tocca anche un ingrato compito: informare il fratello che sua moglie, ritenendosi vedova, si è risposata, proprio con Pomino, l’amico che in gioventù avrebbe voluto corteggiare Romilda giovandosi dell’aiuto di Mattia. Non è un matrimonio certo facile quello di Pomino con la suocera sempre in casa, e tuttavia esso è allietato dalla nascita di una bambina: ma la scena in cui, nottetempo Mattia, si presenta a casa della ex-moglie, terrorizzando la vedova Pescatore e il vecchio amico è certo un piccolo capolavoro a metà tra la satira e il grottesco. Il concetto fondamentale espresso da Pirandello è che, al di là delle convenzioni legali e delle chiacchiere paesane, quel che ormai più conta per Mattia è uscire da quella morte che è l’anonimato e la privazione d’identità, e riacquistare una parvenza di vita vera, anche se questa vita trascorrerà in malinconiche passeggiate al cimitero di Miragno, ove giace uno sconosciuto, il fu Mattia Pascal.

6. I romanzi della maturità

Suo marito

Del 1911 è il romanzo intitolato Suo marito, la cui revisione d’autore resterà interrotta dalla scomparsa di Pirandello: il romanzo entrerà nella raccolta postuma dei romanzi del 1941 con il titolo Giustino Roncella nato Boggiolo. La trama mostra analogie con le contraddizioni interiori che già Il fu Mattia Pascal aveva svelato: Giustino Boggiolo è un modesto impiegato dell’archivio notarile, travolto dalla celebrità della moglie scrittrice Silvia Roncella. Il Boggiolo si improvviserà impresario della consorte, mostrando in ciò una grettezza borghese. Questo è però solo uno dei fili tematici del romanzo. Centrale nella narrazione è l’episodio dell’amore di Silvia per l’anziano letterato Maurizio Gueli, che però, ferito dalla sua prima amante, Livia Frezzi, lascerà Silvia. Giustino intanto si è ritirato nella provincia torinese, e il nuovo incontro con Silvia è casuale (la rappresentazione di un dramma di lei). La morte del figlio sembrerebbe poter riavvicinare i due, ma ne segna invece l’invincibile separazione.

I vecchi e i giovani

D’ambiente siciliano (e perciò più vicino a L’esclusa e Il turno nei moduli stilistici) è il romanzo del 1913 I vecchi e i giovani. In quest’opera si consuma la tragedia sociale delle aspirazioni risorgimentali tradite e deluse. Non per nulla, a proposito di questo romanzo, un critico, Vitilio Masiello, ha parlato di “disincanto”. I personaggi costituiscono una singolare galleria: il principe Ippolito di Colimbetra, fedele all’antico regime preunitario dei Borboni, si presenta come un inguaribile nostalgico, mentre suo figlio Gerlando, dopo i sanguinosi fatti dei “Fasci siciliani” del 1893, finisce esule inseguito da un mandato di cattura militare. Il vecchio garibaldino Roberto Auriti vive senza dignità il proprio tramonto, non riuscendo a evitare neppure l’infamia del carcere. Flaminio Salvo, esempio di borghese neo-capitalista, sperimenta l’impossibilità di compensare col denaro le disgrazie familiari. Sullo sfondo troviamo un personaggio particolare – che già attirò l’attenzione di un lettore acuto come Benedetto Croce –, Mauro Mortara, veterano disilluso del Risorgimento che muore durante una manifestazione socialista.

I “Quaderni di Serafino Gubbio operatore”

Dopo aver portato a termine Il fu Mattia Pascal, Pirandello cominciò a pensare a un romanzo il cui titolo provvisorio era Filauri. Di questa idea di Pirandello sappiamo dalle lettere che ci danno notizia di un’opera ambientata nel mondo del cinema e il cui titolo, sostitutivo di Filauri, era La tigre.
Quando la sua composizione era avanzata il romanzo prese poi il titolo di Si gira… per indicare il mestiere e anche il nomignolo del protagonista, Serafino Gubbio, che fa il mestiere di operatore negli studi cinematografici a Roma e gira sempre una manovella per riprendere le scene di film. Ma Serafino, in questo suo mestiere, è stato spettatore di una scena tragica. Una tigre – di qui il primo titolo che si ricordava sopra – durante una ripresa filmica che prevedeva il suo abbattimento sbrana l’attore che avrebbe dovuto puntare il fucile sull’animale e invece, per gelosia, lo punta sulla sua ex-amante, l’attrice russa Varia Nestoroff, uccidendola. Serafino, che sta appunto girando la scena, continua impassibile a riprendere e tuttavia per il grave trauma subito perde la sua voce. In ragione di questa condizione di mutismo Serafino decide di raccontare per iscritto la sua storia. Il romanzo cambierà, nel 1925, ancora una volta il suo titolo in quello di Quaderni di Serafino Gubbio operatore, in cui la parola “Quaderni” dà risalto all’atto dello scrivere e “mette più direttamente in luce il punto di vista del narratore”.
Ridotto dunque al mutismo, Serafino scrive di osservare la gente e di cercare di capire se le persone osservate capiscono quel che fanno. Serafino poi fa una dichiarazione molto importante, significativa: “Soddisfo, scrivendo, a un bisogno di sfogo, prepotente. Scarico la mia professionale impassibilità e mi vendico anche; e con me vendico tanti, condannati come me a non esser altro, che una mano che gira una manovella”.
Ma questo scrivere sembra realizzarsi come per l’ultima volta, perché alla fine di questa narrazione, che spesso è divagante o frammentaria, si annuncia l’infinita ripetizione, in un qualsiasi studio cinematografico, della formula “si gira”. Dunque, questo significa che nell’età moderna il cinema prenderà definitivamente il sopravvento sulle tradizionali funzioni della letteratura di rappresentare la realtà. Il rischio è dunque che scompaia l’autore, lo scrittore nello scenario dell’età moderna. Ma probabilmente, in un prossimo futuro, si intuisce nelle pagine del romanzo di Pirandello, scomparirà anche l’operatore, quando una macchinetta non avrà più bisogno della sua mano e girerà da sé. Il romanzo si chiude con una scena di silenzio a fronte di una società le cui forme di comunicazione, una delle quali è appunto il cinema, stanno trasformando ogni cosa. Queste le dichiarazioni finali di Serafino: “Io mi salvo, io solo, nel mio silenzio, col mio silenzio, che m’ha reso così […].Voglio restare così. Il tempo è questo; la vita è questa; e nel senso che do alla mia professione, voglio seguitare così – solo, muto e impassibile – a far l’operatore”.
In questo senso, nel romanzo, il rapporto con la macchina resta ambiguo: da un lato questa rappresenta la minaccia alla creatività e alla individualità artistica; dall’altro essa è lo strumento per distanziare l’autore dalla pressione dei fatti e delle azioni dei personaggi, un’occasione per poter dare forma alla loro domanda di essere rappresentati.
Ma qual è il significato simbolico dello sguardo da lontano di Serafino? ovvero il significato della volontà di “distanza” e di “impassibilità ” dell’operatore dalla scena del mondo? Ha scritto assai bene un critico che la impassibilità di Serafino “rappresenta la definitiva conquista della compassione pirandelliana” in quanto “chi ha compreso la miseria della vita non può più medicare, può affinare i suoi strumenti di conforto” fino a viverli nella misura più profonda: il silenzio.
La via d’uscita alle ambiguità del rapporto tra rappresentazione artistica e vita dei personaggi, Pirandello la troverà nel teatro. Ma in un romanzo, il suo ultimo, andrà tentando pure un’altra via: quella della disintegrazione del personaggio e del suo naufragio nel gran teatro della natura. Il romanzo si intitolerà Uno, nessuno e centomila.

7. L’ultimo romanzo: “Uno, nessuno e centomila”

“Uno, nessuno e centomila”: i tempi di composizione

La elaborazione di Uno, nessuno e centomila prende avvio intorno al 1910, così come racconta il figlio dell’autore, Stefano, nella prefazione al romanzo comparso su “La Fiera Letteraria” nel 1925. In realtà le radici del romanzo si possono già rintracciare nel saggio L’Umorismo scritto nel 1908 .
La scrittura di Uno, nessuno e centomila incontra un destino singolare: impiegherà più di venticinque anni a concludersi. Contemporaneamente all’esperienza teatrale, la produzione narrativa di Pirandello diviene lo strumento per un’indagine a tappeto della realtà. Allo stesso tempo il romanzo seguirà le alterne vicende biografiche dell’autore, risentendo degli stati d’animo e delle inquietudini familiari che affliggevano Pirandello.

Uno, nessuno e centomila: la vicenda narrata

La narrazione si apre su una scena di vita quotidiana che ritrae una conversazione tra moglie e marito. Lo sguardo della moglie Dida rivela al marito Gengè (tale è il diminutivo che ella ha attribuito al protagonista, Vitangelo Moscarda) un difetto al naso che lo specchio non sembra avesse mai rivelato.
Scatta così in Moscarda il desiderio di una sottile vendetta: rivelare a coloro che ridono di lui i difetti loro propri. L’attitudine all’introspezione non è servita molto al Moscarda se dopo 28 anni si rende conto di non conoscersi affatto. Comincia così un lavorìo intenso di analisi non solo del corpo, ma dell’atteggiamento, delle posture inconsapevoli nella persona, il tentativo di catturare una immagine definitiva e sicura di se stesso. Nello specchio critico del proprio sguardo Moscarda si ritrova scomposto in molteplici identità, tante quanti sono gli occhi di chi lo guarda. Le attitudini riflessive del protagonista dichiarano in maniera esplicita la parentela con un grande romanzo della tradizione umoristica inglese, il Tristram Shandy di Laurence Sterne.
Un paio di capitoli inclusi nel Libro Secondo si intitolano provocatoriamente “E allora?” e “Con permesso” .
Il tono interlocutorio dei titoli, da cui sembra quasi che l’autore chiami in causa il lettore sollecitandone un intervento, una risposta, diventa un pretesto perché Moscarda metta in moto i meccanismi della memoria. Con l’intenzione di distruggere i miti e le certezze dell’opinione comune, Moscarda descrive la casa che abita con sua moglie e che ha ereditato dal padre.
Intanto la metamorfosi del protagonista è in pieno svolgimento. Il Libro Secondo si chiude con riferimento a Gengè, marionetta un po’ stupida, frutto delle costruzioni di Dida, marionetta in cui Vitangelo non si riconosce affatto. La consapevolezza di essere per ognuno un Moscarda differente conferma il protagonista nel proposito di scoprire ” tutti gli altri Moscarda che vivevano nei più vicini conoscenti, e distruggerli a uno a uno”.
Moscarda, che poco prima aveva espresso il desiderio di annullare ogni identità cancellando persino il proprio nome (tentativo già intrapreso ne Il fu Mattia Pascal), proprio sul nome apre un’inchiesta. Esordisce il protagonista nel capitolo intitolato Scoperte: “Il nome sia brutto fino alla crudeltà. Moscarda. La mosca, e il dispetto del suo aspro fastidio ronzante”.
Non aveva mica un nome per sé il mio spirito, né uno stato civile: aveva tutto un suo mondo dentro, e io non bollavo ogni volta di quel mio nome, a cui non pensavo affatto, tutte le cose che mi vedevo dentro e intorno. Ebbene, ma per gli altri io non ero quel mondo che portavo dentro di me senza nome tutto intero, indiviso e pur vario. Ero invece, fuori, nel mondo uno, – staccato – che si chiamava Moscarda, un piccolo e determinato aspetto di realtà non mia, incluso fuori di me nella realtà degli altri e chiamato Moscarda […] Moscarda. Possibile? E Moscarda era tutto ciò che esso diceva e faceva in quel mondo a me ignoto; Moscarda era anche la mia ombra; Moscarda se lo vedevano mangiare; Moscarda se lo vedevano fumare; Moscarda se andava a spasso; Moscarda se si soffiava il naso.
La mosca è l’insetto che si associa all’afa, allo stagno, a ciò che non scorre e non ha vita. Il richiamo a questo insetto definisce dunque una serie di significati legati alla morte. Tutto questo esprime una condizione di un’apparente vita fisica ma di morte interiore. Tuttavia va pure riconosciuto che l’abbinamento del cognome Moscarda al nome Vitangelo restituisce una seconda immagine: Vitangelo significa anche angelo della vita. Riassumendo, potremo dire che il nome Vitangelo Moscarda sta per angelo della vita e della morte.
L’intero terzo libro è la descrizione dettagliata di un itinerario di “scoperte”. Interrogandosi, Vitangelo scopre di esser figlio di un usuraio piuttosto che di un banchiere, come aveva sempre creduto. L’orrore della scoperta richiede il conforto della moglie Dida la quale, invece che comprendere lo smarrimento del marito, lo deride.
Quello della derisione è il destino che sembra perseguitare il protagonista: deriso e compatito dalla moglie, deriso e compatito dagli abitanti del suo paese, Richieri; Moscarda elabora un nuovo disegno dai contorni ancora una volta paradossali. Qualcuno a Richieri nutriva un sentimento di odio sotterraneo per Moscarda: è Marco di Dio. Essendosi interrotta, ad un certo punto, la beneficenza del Moscarda padre e restando troncati i sogni di gloria di Marco di Dio, quest’ultimo aveva cominciato a nutrire odio prima per il padre e poi per il figlio.
Per realizzare il suo esperimento Moscarda si reca nello studio del notaio Stampa, situato a Richieri in via del Crocifisso numero 24. Anche in questo caso il nome nasconde un evidente significato simbolico. Infatti Moscarda rappresenta la figura del Gesù-Messia ma anche il suo contrasto umoristico. Infatti è colui che dona e insieme attua uno spreco dei suoi beni e averi.
Del matto e del folle Moscarda ormai possiede la leggerezza e la capacità di ridere, che solo per ragioni di opportunità sociali mantiene ancora nascoste. Lo scenario in cui avviene prima lo sfratto della vecchia casupola abitata dai coniugi di Dio, e subito dopo la donazione di una nuova casa, è ricco di suggestioni. Vi è una folla sul far della sera che sotto una pioggia scrosciante occupa un vicolo buio. Già autori contemporanei di Pirandello, come Baudelaire e Poe, utilizzano le figure della pioggia e della folla per rappresentare situazioni di disagio e di angoscia. La violenza della folla che assiste al pubblico sfratto, motivo anch’esso baudelairiano, travolgerà Moscarda in un unico grido ripetuto “Usuraio! Usuraio!”.
Ma ecco il colpo di scena. “Un nero omicciattolo, malandato ma d’aspetto feroce, giovine di studio del notaro Stampa” si mette a urlare “con furiosi gesticolamenti” avvisando che c’è una donazione a favore di Marco di Dio: Vitangelo Moscarda, con atto notarile, gli ha ceduto una casa nuova in via dei Santi. Tra via del Crocifisso e via dei Santi si consuma il sacrificio di Moscarda. Tuttavia quel sacrificio darà occasione a Marco di Dio di pronunciare all’indirizzo del Moscarda le parole ” Pazzo! Pazzo!”.
Attraverso Marco di Dio, Moscarda compie dunque un esperimento che, fitto di implicazioni umoristiche, si iscrive a pieno titolo nel processo di scomposizione e smascheramento dell’identità. L’episodio dello sfratto e della truffa giocata ai danni di se stesso varrà a Moscarda l’etichetta di usuraio prima, e di folle dopo.

La conclusione del romanzo

Non resta che seguire l’epilogo di questa vicenda. Moscarda torna “rinchiocciato tra le gonnelle di Dida”, “nell’oziosa stupidità” della marionetta Gengè. Ma la stupidità contraddistingue più in generale l’intero matrimonio di Dida e Vitangelo, sicché l’occasione di un incontro-avventura extra-coniugale si offre al Moscarda in questi termini.
Anna Rosa, un’amica della moglie, fa pervenire al Moscarda un biglietto con l’invito ad un appuntamento segreto. L’incontro avviene in un convento e lì si consuma un misterioso incidente. Anna Rosa invita Vitangelo a seguirlo lungo un corridoio, ma inciampa sui gradini di una scalinata. Si ode il fragore di uno sparo e subito dopo un grido. Moscarda fa appena in tempo a sorreggere Anna Rosa ferita a un piede da un colpo della rivoltella che era dentro la borsetta. Le suore accorrono preoccupate alla vista di quanto accaduto, ma ancor più lo sono per l’imminente visita del vescovo e dello scandalo che l’episodio avrebbe suscitato. In realtà il motivo dell’invito di Anna Rosa era inteso a favorire un colloquio tra Moscarda e il vescovo e trovare così rimedio ad un’iniziativa di Dida. L’intenzione della moglie è infatti quella di far dichiarare Moscarda “malato di mente”.
L’incidente della rivoltella, provocando lo scandalo, fa precipitare umoristicamente la situazione. Abbandonato dalla moglie, Moscarda trascorre lunghe ore in compagnia di Anna Rosa convalescente. La bellezza, insieme alla grazia particolare che la convalescenza conferisce ad Anna Rosa, inducono Moscarda in tentazione. Il letto su cui stava per consumarsi l’atto d’amore tra i due personaggi vede invece il Moscarda ferito al petto dalla piccola rivoltella di Anna Rosa. La donna dirà più tardi ai giudici di essere stata spinta a uccidere Moscarda dalla situazione di fascino che si era creata in quei giorni. Dopo questo incidente, i giudici si raddoppiano e accanto al vescovo e ai rappresentanti della Chiesa compaiono sulla scena i giudici civili. Moscarda, dimesso dall’ospedale ma ancora convalescente, riposa su una poltrona vicino alla finestra con “una coperta di lana verde sulle gambe”. Il colore verde di quella coperta suscita in Moscarda particolari considerazioni sulla vita che esporrà al giudice istruttore. Moscarda appare al giudice come un malato curabile solo attraverso un eroico e nobile ripensamento. Moscarda dovrà fare dono di tutti gli averi per fondare un ospizio di mendicità nel quale egli stesso avrebbe dovuto ritirarsi e purificarsi dai propri peccati. In divisa turchina Moscarda si presenta in tribunale per deporre al processo contro Anna Rosa. La sua apparizione susciterà l’incontenibile risata della folla spettatrice. Anna Rosa, colpevole di tentato omicidio, è assolta; Moscarda, che pure è innocente, viene deriso dal pubblico per cui appare, ancora una volta, come un Gesù Cristo oltraggiato.
Ma ormai il romanzo si dirige verso le battute conclusive. Il viaggio cominciato davanti ad uno specchio si conclude in un tribunale. Non più interessato a guardarsi in uno specchio Moscarda si assoggetta a vivere la condizione del povero. Il nuovo Moscarda ha raggiunto la felicità dell’oltreuomo dimettendosi da ogni maschera umana:

Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di ieri; del nome d’oggi, domani […] Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. […] La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro tremulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani, libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo.

Nell’epilogo del romanzo, che è l’esito ultimo della vicenda intellettuale dell’autore siciliano, il protagonista Moscarda si dissolve affidandosi al vuoto e al silenzio, a una morte che è però rinascita. Proprio a quest’ultimo messaggio, il “non conclude” della vita, può ricollegarsi la volontà testamentaria espressa dal Pirandello prima di morire. La dichiarata aspirazione dell’autore fu che le ceneri del suo corpo, cremato, fossero disperse al vento.

Pasquale Guaragnella

Università di Bari

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