Da Weschool.
Lo stile dei romanzi di Pirandello si rivela foggiato sulle medesime ragioni di poetica su cui si fonda il livello del significato profondo della sua letteratura. Con le sue tendenze all’instabilità, alla combinazione multiforme.
Lo stile dei romanzi di Pirandello:
frantumazione, oralità, teatro
Poetica Stile dei romanzi
Il livello stilistico dei romanzi di Luigi Pirandello offre una molteplicità di elementi di interesse; caratteri che si rivelano del resto coerenti con la poetica dell’autore siciliano, e che spesso hanno la funzione di strumenti privilegiati per il suo lavoro letterario. Tre sono i punti principali a cui si possono ricondurre, secondo la critica, i fenomeni della scrittura di Pirandello: la composizione di strutture non lineari del racconto; l’opzione per una particolare medietà linguistica (e cioè per una lingua non stilisticamente elevata, ed anzi con ampio ricorso alle forme dell’oralità); l’influenza del teatro, della sua lingua e dei suoi procedimenti rappresentativi nella scrittura romanzesca, strettamente connessa, com’è chiaro, con la stesura di veri e propri capolavori delle scene come l’Enrico IV o i Sei personaggi in cerca di autore.
Le strutture non lineari della narrazione
Come ravvisa Enrico Testa, docente di Storia della Lingua italiana all’Università di genova, ne Il fu Mattia Pascal così come negli altri romanzi pirandelliani, si può osservare il “distacco dai modi tradizionali della narrativa, del vecchio ordine ‘lineare’ adottato per la raffigurazione degli eventi e dei personaggi”. [1]
[1] E. Testa, Lo stile semplice. Discorso e romanzo, Torino, Einaudi, 1997, p. 167.
Questo effetto è ottenuto attraverso l’impiego di tecniche tra loro diverse; le quali, tuttavia, potrebbero essere ricondotte al comune fattore della destabilizzazione di un punto di vista – e quindi della possibilità di un racconto alla maniera tradizionale – fermo, certo, affidabile. Lo stesso Testa nota in primo luogo le frequenti “fratture” nella progressione del racconto, per cui la voce narrante si concede “una divagazione, colloquiale ed ironica, col lettore”. [2]
[2] Ivi, p. 168.
Se si considera, in aggiunta, la natura inattendibile e ambigua dei narratori pirandelliani (da Mattia Pascal sino a Vitangelo Moscarda), si può intendere quanto questa loro abitudine a infrangere i limiti del loro tradizionale compito di conduttori del racconto, per rivolgersi direttamente al lettore con commenti ironici sulla storia e i personaggi, sia un elemento di forte messa in discussione di ogni punto di riferimento, per quanto possibile, saldo e stabile.
È d’altra parte questa una delle forme di scrittura a cui Pirandello affida la propria poetica della relatività, della frantumazione dei punti di vista e delle identità. Anche il frequente ricorso a frasi avversative (sia sintatticamente, sia logicamente), che da un lato ancora limita la progressione lineare della narrazione, dall’altro contribuisce alla creazione di una quadro dai riferimenti per nulla saldi. “Un forestiere certo, cui io rubavo il compianto”, medita la voce narrante del Mattia Pascal, quasi lasciando trasparire una qualche forma di senso di colpa per l’aver approfittato così spregiudicatamente della coincidenza del suicidato presso il proprio paese; “Ma poi pensai che quel pover’uomo era morto non certo per causa mia” si corregge immediatamente, cancellando quell’ombra, con un effetto finale cinicamente ironico, ulteriormente sottolineato proprio dalla particella avversativa. [3]
[3] L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, in Tutti i romanzi, a cura di G. Macchia, Milano, Mondadori, 1973, vol. I, p. 403.
Lo stile medio
Gli elementi che portano alla frattura della linearità narrativa si ritrovano, quasi tutti, anche alla seconda caratteristica dello stile pirandelliano, ovvero la tendenza costante ad attingere ai modi dell’oralità, e dunque alle consuetudini della comunicazione orale più che di quella scritta e letteraria. Come osserva Maurizio Dardano “i segnali discorsivi”, di cui abbondano i romanzi in analisi:
frangono continuamente la linea della scrittura, mimando il corso di un ragionamento che procede “a sbalzelloni”, […] pertanto l’esposizione, ellittica e ricca di sottintesi, sostituisce spesso l’argomentare chiaro e pianificato. [4]
[4] M. Dardano, Leggere i romanzi, Roma, Carocci, 2008, p. 93.
Anche al di fuori degli abbondantissimi dialoghi che occupano i testi, il lettore è sempre in rapporto con una voce che sembra parlargli – direttamente, e dunque con tutti gli inciampi e le ambiguità di queste situazioni – piuttosto che sottoporgli un’argomentazione scritta in senso tradizionale. L’oralità ha dunque un ruolo centrale. È “altissima”, registra Testa, la ricorrenza “concessa a fenomeni d’enunciazione”, che riguardano quindi l’atteggiamento di chi racconta a voce (piuttosto che scrivere su una pagina) la propria esperienza di vita. È questo un dato di fatto della prosa pirandelliana; basta aprire un romanzo, come ad esempio i Quaderni di Serafino Gubbio operatore, per accorgersene:
Si sa che, di questi giovanotti, i più, oltre che per tutto il resto, bazzicano qui per l’amicizia contratta, o che vorrebbero contrarre, con qualche giovane attrice; e che tanti se ne vanno quando non son riusciti a contrarla, o se ne son stancati. Diciamo amicizia: per fortuna, le parole non arrossiscono. [5]
[5] L. Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, in Tutti i romanzi, a cura di G. Macchia, Milano, Mondadori, 1973, vol. II, p. 593.
Lo stesso Testa mette però in guardia dal fatto che queste scelte dell’autore non sono da attribuire alla semplice volontà di imitare il parlato, che sarebbe piuttosto un elemento di ascendenza verista o verghiana. Non a caso “all’apertura nei confronti dell’oralità corrisponde dunque una serie di controspinte che mirano a reintegrare il gesto vocale nei dominii dello scritto”. [6]
[6] E. Testa, cit., p. 179.
L’obiettivo pirandelliano non sarebbe dunque mimetico, ma d’altro tipo. Lo rivela il modo in cui l’autore ricalca le parlate dialettali o le marche linguistiche straniere, assegnate ad alcuni dei suoi personaggi:
– Chi è Minerva? – domandai, mortificato.
– Ma la mia cagnetta! – riprese quella, ridendo ancora. – La viechìa mia, segnore, che se grata así soto tute le sedie. Con permisso! con permisso! [7]
[7] L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, cit., p. 505.
Non c’è intenzione di trascrizione veritiera dei fatti; piuttosto, “una tensione espressiva che privilegia le forme di ‘un italiano bastardo, comicissimo’ e, di conseguenza, effetti caricaturali e parodici”. [8] L’oralità, con i suoi caratteri morfologici e sintattici peculiari, con l’insieme dei suoi segnali discorsivi oralizzanti, non è dunque di per sé l’obiettivo di un’operazione naturalista. Tutti questi elementi, piuttosto, si intrecciano nella scrittura di Pirandello, [9] e la rendono un modo per oggettivare sulla pagina la propria poetica, e cioè per:
raffigurare stati psicologici frantumati e fluttuanti dettati dal “sentimento del contrario” e per condurre la narrazione secondo un piano che non coincide più né con il codice mimetico del realismo né con l’ordine “naturale” del romanzo ottocentesco. [10]
[8] E. Testa, cit., p. 182.
[9] Ibidem: “Il presunto grigiore della sua prosa è in realtà attraversato da fili di colori diversi, che, iridescenti senza essere accecanti, sono comunque distinguibili sull’ordito ‘medio’ del suo italiano”.
[10] Ibidem.
L’influenza teatrale
Parlato, d’altro canto, è il teatro. All’autore interessa la dinamicità del racconto, e “il parlato deve essere azione e l’azione deve esprimersi nel parlato”, come spiega Dardano, invitando a considerare, ne Il fu Mattia Pascal, la scena della lettura del giornale con la notizia del suicidio: l’articolo “è letto a spezzoni, ripetuti e commentati dall’io narrante”. [11]
[11] M. Dardano, cit., p. 89.
E questo “parlato” è spesso, anche nel Pirandello romanziere, un parlare recitato. Il lettore si trova dunque in una condizione accostabile, per certi versi, a quella dello spettatore in platea, alle prese con voci narranti che di sovente illustrano indicano (l’autore è del resto diligentissimo nel tracciare con precisione le fisionomie e gli ambienti sociali nelle sue didascalie). Basti citare l’uso molto frequente del pronome dimostrativo “questo”, in riferimento agli elementi in scena. E, in questo quadro di natura teatrale, i personaggi sono plasmati e si comportano di conseguenza:
l’istrionismo è un elemento costante. La verbalizzazione dei fatti e dei pensieri è recitata e talora declamata; psicologicamente funge da autodifesa umoristica della “maschera nuda”, come controllo di un super-io ironico sull’emergere di un disagio esistenziale; retoricamente incrementa un’espressività colloquiale che nei momenti di maggiore pathos o intensità dialettica tende al coinvolgimento dell’interlocutore esterno, oltre che, eventualmente, di quello interno; in altri termini il lettore. [12]
[12] N. Borsellino, Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello, in Letteratura italiana. Le opere, diretta da A. Asor Rosa, vol. IV Il Novecento. L’età della crisi, Torino, Einaudi, 1995, p. 94.
I personaggi, letteralmente, vanno in scena. Anche per questo verso, siamo al punto nodale delle poetica pirandelliana, che registra la frantumazione dell’identità dell’uomo in una serie di maschere, e la soluzione della vita in una successione di mascherate, recite, che ciascuno compie di fronte agli altri e (soprattutto…) di fronte a se stesso.
Lo stile dei romanzi di Pirandello, dunque, si rivela foggiato sulle medesime ragioni di poetica su cui si fonda il livello del significato profondo della sua letteratura. Con le sue tendenze all’instabilità, alla combinazione multiforme; alla simulazione di un parlato che è anch’esso segnale di frantumazione e che produce l’onnipresente sensazione di un recitare in atto; e, infine, proprio all’apertura agli elementi del teatro e della teatralità, la scrittura del Pirandello romanziere incarna con efficacia la condizione di relatività del reale che l’autore fa propria, portando la letteratura italiana nel vivo del Novecento europeo.
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