Legge Valter Zanardi.
«Curiosa quella mosca che vola, curioso quel canarino che saltella tornato nella gabbia, e quella gabbia che ne traballa, in questa cameretta che si rischiara sempre più accogliendo la luce d’un giorno che qua, per il corpo di questa donna rovesciato sul tavolino, non è più nulla.»
Prima pubblicazione: Raccolta Il viaggio, Bemporad, Firenze 1928.
Spunta un giorno
Legge Valter Zanardi
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Lo squallore dell’alba s’è fermato, spettrale, ai vetri della finestra rimasta con gli scuri aperti, e pare non abbia più forza d’alitare da lì nel bujo della camera.
A poco a poco comincia a effondersi come un brulichio nell’ombra. E prima s’impiglia nel trapunto lieve delle tendine; poi, quasi vaporando, traspare di tra le gretole rarefatte d’una gabbiola che pende dal palchetto in capo alla finestra, nel mezzo, senza destare tuttavia il canarino accoccolato sul ballatojo. Poi, ecco, inoltrandosi, lambisce appena le gambe, l’orlo d’un tavolino nero davanti la finestra; e, grado grado, si soffonde sul piano di esso, avvistandone quasi a tentoni gli oggetti: alcune carte sparse, alcuni libri, una bugia di ferro smaltato col bocciuolo d’ottone, in cui la candela s’è consumata tutta; una lettera suggellata; un’altra lettera; un cannello di ceralacca; un ritratto fotografico… Oh! e che ha quel ritratto? Uno spillone da cappello confitto nel collo. E ride? Sì, si può discernere bene: il giovine effigiato in quel ritratto ride con aria spavalda, senza punto curarsi di quello spillone confitto nel collo. E poi? Una rivoltella. Un braccio? Sì; e un altro braccio; e il capo scarmigliato d’una donna.
Morta?
La squallida luce passa oltre, senza un brivido, a quella scoperta. Il capo rovesciato di quella donna non le importa più del trapunto di quelle tendine, più del legno del tavolino o del manico d’osso della rivoltella.
Seguita a penetrare lentamente nella camera; arriva alla parete di contro alla finestra e vi scopre un piccolo lavabo con lo specchio ovale a pie del letto; il letto intatto, su cui sono buttati un cappellino, una vecchia borsetta di cuojo rosso, un ombrello, un libro.
A un tratto, il canarino si desta nella gabbiola; guarda verso il cielo piegando da un lato il capino giallo; si rigira sul saltatojo con un breve squittio.
Buon giorno!
Le braccia, la testa della donna rimangono abbandonate sul piano del tavolino. Tra i neri capelli scomposti s’intravede un orecchio che pare di cera.
Bravo, sì. Puoi ridere.
Che t’ha fatto in fine questa donna, configgendoti nel collo lo spillone del cappello?
Niente.
Forse, questa notte, mentre dormivi placidamente, ti sarai sentito pinzare come da un insetto costì nel collo, e avrai alzato una mano a grattarti, seguitando a dormire e a sorridere nel sonno.
Perché si vede: tu hai l’aria di non credere alla minaccia d’un suicidio.
Hai, costì presso, il capo abbandonato di lei e, ridendo, guardi altrove, come se ancora tu non creda che ella possa essersi uccisa veramente.
Guardi lontano, tu.
Sai che il mondo è vasto e che puoi facilmente trovare posto ovunque: non hai nulla dentro che ti possa trattenere, qua o altrove.
Chi ha molta vita in sé, vita d’affetti e di pensieri, e la dispensa con amore anche fra le quattro pareti d’una cameretta, può anche non avvertirne più l’angustia materiale, perché quella cameretta diviene idealmente tutto il suo mondo; e non saprebbe più distaccarsene. Ma uno come te, senza ingombro d’affetti e di pensieri, dico di quelli che non si lasciano mettere da un momento all’altro nelle valige per essere trasportati altrove, può viaggiare facilmente e trovare posto ovunque.
Per te la vita è fuori.
Questa camera è troppo impregnata ora dal lezzo nauseante del sego della candela bruciata fino in fondo. Tu non lo senti e te ne ridi, perché sei qua soltanto in effigie. Non lo sente più neanche lei. Forse lo sentirà il canarino.
Guarda! Lo sportello della gabbiola è aperto. Lo avrà lasciato lei così aperto jersera, legato con un nastrino a una gretola per tenere lo scatto.
Il canarino seguita a guardare, scotendo il capino giallo e saltando irrequieto da un regoletto all’altro.
Non s’è ancora accorto che lo sportellino è aperto.
Se n’è accorto; ecco che vi s’affaccia; allunga e ritira il capino. Pare che faccia le riverenze.
O aspetta un invito per spiccarsi di là?
L’invito non viene e, perplesso, di tratto in tratto seguita a tentare, quasi a bezzicar l’aria, con brevi acuti squittii.
Ah ecco, è volato verso il letto.
Sul punto di posarvisi si trattiene sulle ali, come sgomento; cade sulla rimboccatura del lenzuolo intatta e composta sul guanciale; saltella, cercando, gemendo; scende sul piano del letto, molleggiando; s’accosta alla borsetta di cuojo rosso; spia due e tre volte e poi le allunga una beccatina; un altro salto ed è sull’ombrello; guarda di là più a lungo, smarrito; e via di nuovo alla gabbia.
Tu, dal ritratto, seguiti a ridere.
Forse sai che ella aveva la gentile abitudine di lasciare aperto così, ogni sera, lo sportellino della gabbia, perché poi la mattina quella cara bestiolina volasse a lei sul letto, a un richiamo, e le saltasse tra le dita o le cercasse il tepore del seno o le bezzicasse le labbra o il lobo dell’orecchio?
Giù per la strada si sente già lo struscio delle granate degli spazzini; poi il rotolio di qualche carretto di lattajo.
La luce è già cresciuta e vibra ilarandosi a mano a mano.
Una mosca, dalla vetrata della finestra, vola su la tenda e poi dalla tenda sulla spalla di lei. In due tratti scorre sull’orlo del bavero del giacchettino, incerta se saltare a posarsi sulla nuca che si scorge un po’, tra i riccioli neri, anch’essa come di cera. Rivola; è sullo spillone che tu hai confitto nel collo; scende lunghesso e ti viene in faccia; ti lascia un piccolo neo sulla guancia, e via.
Oh, così, con codesto neo sulla guancia, ora tu sembri più carino.
Seguita a ridere, caro.
Curiosa quella mosca che vola, curioso quel canarino che saltella tornato nella gabbia, e quella gabbia che ne traballa, in questa cameretta che si rischiara sempre più accogliendo la luce d’un giorno che qua, per il corpo di questa donna rovesciato sul tavolino, non è più nulla.
Quasi abbia preso una risoluzione, il canarino trilla forte come per chiamare ajuto. Allora, la testa di quella donna abbandonata tra le braccia sul tavolino, si scuote.
Chi sa da quante ore lì curva, la giovine stira la schiena; ritira le braccia coi pugni serrati verso il seno e contrae tutto il volto sbattuto e scomposto con una specie di ruglio nella gola e nel naso.
Ma subito, forse per il lezzo nauseante di cui la camera è impregnata, insieme con l’orribile sconcerto dello stomaco digiuno, le si desta, non meno orribile, la coscienza dell’atto non compiuto.
Non si è uccisa!
Vinta dalla stanchezza, nella disperazione, dopo avere scritto le due lettere, chinata la fronte sulle braccia prima di risolversi all’atto, s’è addormentata. Ora sbarra gli occhi, alla vista delle due lettere suggellate e della rivoltella lì accanto. La commozione si cangia subito in affanno di rabbia, che la sospinge in piedi.
Un crampo a una gamba.
Un intorpidimento alle dita della mano destra.
Ma nel mentre si stringe con l’altra mano quelle dita intorpidite e si prova col peso di tutto il corpo a premere sulla gamba che le spasima tesa per sciogliere il crampo, gli occhi le vanno al ritratto sul tavolino, con lo spillone confitto nel collo. Non sente più né il crampo né l’intorpidimento delle dita: brandisce lo spillone e prende a tempestare di colpi furibondi la faccia del giovine lì effigiato, finché non la trafigge tutta, da non lasciarne più scorgere nulla; e alla fine, non ancora soddisfatta, fa in pezzi il cartoncino sfigurato e scaraventa quei pezzi a terra.
Omicidio e dispersione del cadavere.
È davvero stravolta dal furore, con occhi da pazza. Va a spalancare la finestra. Reclina indietro il capo e socchiude gli occhi per la pena che l’aria nuova le fa, entrando a slargarle il petto oppresso, in cui ancora il cuore le batte e le duole.
Comprende che non può restare più lì, sola con se stessa, neanche un minuto, con quelle due lettere suggellate e quella rivoltella sotto gli occhi; corre al letto, prende il cappellino e se lo caccia sui capelli scarmigliati; la borsetta di cuojo, e vi ficca dentro le lettere e la rivoltella.
Esce dalla camera sul corridojo ancora bujo, come una ladra.
Sta per aprire la porta e precipitarsi giù per le scale, allorché una vociacela grida da un uscio in fondo al corridojo:
– Ehi! ehi! Signorina!
Resta un momento perplessa, in agguato; poi, con uno scrollo iroso, apre la porta, se la tira dietro, scende a precipizio la prima rampa. Arrivata al pianerottolo, deve fermarsi, perché una donnaccia adiposa, mezzo ignuda, affannata dall’adipe, dal sonno improvvisamente interrotto e dalla corsa, riaperta la porta, prende a gridare dall’alto della ringhiera:
– Ah se ne scappa? Io mi vesto, sa? corro in questura! Le pare che possano bastarmi quattro libracci e tre straccetti a garantirmi di cinque mesi di pigione? Corro in questura! Si dovrebbe vergognare! Scapparsene via così!
Come un cane che abbai fuor della botola, a ogni domanda, a ogni minaccia che avventa, si butta avanti e si tira indietro, e con le tozze mani sanguigne afferra, non potendo altro, la ringhiera, mentre la vociacela rimbomba dall’alto nel vuoto della scala ancora invasa dall’ombra e dal silenzio della notte.
Benché fiera d’aspetto, la giovine ne rimane come schiacciata, atterrita.
Non sa più né fuggire né trovare la voce per darle una qualche risposta e farla tacere. Alla fine, come costretta, fa alcuni cenni per significare che sì, andrà…
– … dal vecchio? – domanda, da su, la voce.
Col capo fa di sì, più volte. E fatto questo segno, come se ormai ne abbia diritto, riprende a scendere la scala comodamente, anzi cava dalla borsetta i guanti logori per calzarseli; mentre quell’altra, subito ammansita, si ritira dal pianerottolo borbottando:
– Meno male che s’è persuasa!
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