Legge Giuseppe Tizza.
«Diede di piglio al fiasco, furiosamente, e ingollò due bicchieri di vino, uno sopra l’altro, come se li fosse meritati e ne avesse acquistato un incontrastabile diritto, dopo quanto aveva detto.»
Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 29 marzo 1914, poi in La trappola, Treves, Milano 1915.
Sopra e sotto
Voce di Giuseppe Tizza
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Eran venuti su per la buja, erta scaletta di legno; su, in silenzio, quasi di furto, piano piano. Il professor Carmelo Sabato – tozzo pingue calvo – con in braccio, come un bamboccetto in fasce, un grosso fiasco di vino. Il professor Lamella, antico alunno del Sabato, con due bottiglie di birra, una per mano.
E da più d’un’ora, su l’alta terrazza sui tetti, irta di comignoli, di fumajoli di stufe, di tubi d’acqua, sotto lo sfavillio fitto, continuo delle stelle che pungevano il cielo senz’allargar le tenebre della notte profonda, conversavano.
E bevevano.
Vino, il professor Sabato: vino, fino a schiattarne: voleva morire. Il professor Lamella, birra: non voleva morire.
Dalle case, dalle vie della città non saliva più, da un pezzo, nessun rumore. Solo, di tratto in tratto, qualche remoto rotolio di vettura.
La notte era afosa, e il professor Carmelo Sabato s’era dapprima snodata la cravatta e sbottonato il colletto davanti, poi anche sbottonato il panciotto e aperta la camicia sul petto velloso: alla fine, nonostante l’ammonimento del Lamella: «Professore, voi vi raffreddate» s’era tolta la giacca, e con molti sospiri, ripiegatala, se l’era messa sotto, per star più comodo su la panchetta bassa, di legno, a sedere con le gambe distese e aperte, una qua, una là, sotto il tavolinetto rustico, imporrito dalla pioggia e dal sole.
Teneva ciondoloni il testone calvo e raso, socchiusi gli occhi bovini torbidi, venati di sangue, sotto le foltissime sopracciglia spioventi, e parlava con voce languida, velata, stiracchiata, come se si lamentasse in sogno:
– Enrichetto, Enrichetto mio, – diceva, – mi fai male… t’assicuro che mi fai male… tanto male,..
Il Lamella, biondino, magro, itterico, nervosissimo, stava sdrajato su una specie d’amaca sospesa di qua a un anello nel muro del terrazzo, di là a due bacchette di ferro sui pilastrini del parapetto. Allungando un braccio, poteva prendere da terra la bottiglia: prendeva quasi sempre la vuota, e si stizziva; tanto che, alla fine, con una manata la mandò a rotolare sul pavimento in pendio, con grande angoscia, anzi terrore del vecchio professor Sabato, che si buttò subito a terra, gattoni, e le corse dietro per pararla, fermarla, gemendo, arrangolando:
– Per carità… per carità… sei matto? giù parrà un tuono.
Parlando, il Lamella si storceva tutto, non poteva star fermo un momento, si raggricchiava, si stirava, dava calci e pugni all’aria.
– Vi farò male; ne sono persuaso, caro professore; ma apposta lo faccio: voi dovete guarire! vi voglio rialzare! E vi ripeto che le vostre idee sono antiquate, antiquate, antiquate… Rifletteteci bene, e mi darete ragione!
– Enrichetto, Enrichetto mio, non sono idee, – implorava quello, con voce stiracchiata, lamentosa. – Forse prima erano idee. Ora sono il sentimento mio, quasi un bisogno, figliuolo: come questo vino: un bisogno.
– E io vi dimostro che è stupido! – incalzava l’altro. – E vi levo il vino e vi faccio cangiar di sentimento…
– Mi fai male…
– Vi faccio bene! State a sentire. Voi dite: Guardo le stelle, è vero? no, voi dite rimiro… è più bello, sì, rimiro le stelle, e subito sento la nostra infinita, inferma piccolezza inabissarsi! Ma sentite come parlate ancora bene voi, professore? E ricordo che sempre avete parlato così bene voi, anche quando ci facevate lezione. Inabissarsi è detto benissimo! – Che cosa diventa la terra, voi domandate, l’uomo, tutte le nostre glorie, tutte le nostre grandezze? E vero? dite così?
Il professor Sabato fece di sì più volte col testone raso. Aveva una mano abbandonata, come morta, su la panchetta, e con l’altra, sotto la camicia, s’acciuffava sul petto i peli da orso.
Il Lamella riprese con furia:
– E vi sembra serio, questo, egregio professore? Ma scusate! Se l’uomo può intendere e concepire così la infinita sua piccolezza, che vuol dire? Vuol dire ch’egli intende e concepisce l’infinita grandezza dell’universo! E come si può dir piccolo, dunque, l’uomo?
– Piccolo… piccolo – diceva, come da una lontananza infinita, il professor Sabato.
E il Lamella, sempre più infuriato:
– Voi scherzate! Piccolo? Ma dentro di me dev’esserci per forza, capite? qualcosa di quest’infinito, se no io non lo intenderei, come non lo intende… che so? questa mia scarpa, putacaso, o il mio cappello. Qualcosa che, se io affiso… così… gli occhi alle stelle, ecco, s’apre, egregio professore, s’apre e diventa, come niente, plaga di spazio, in cui roteano mondi, dico mondi di cui sento e comprendo la formidabile grandezza. Ma questa grandezza di chi è? E mia, caro professore! Perché è sentimento mio! E come potete dunque dire che l’uomo è piccolo, se ha in sé tanta grandezza?
Un improvviso, curioso strido – zrì – ferì il silenzio succeduto vastissimo all’ultima domanda del Lamella. Questi si voltò di scatto:
– Come? che dite?
Ma vide il professor Sabato immobile, come morto, con la fronte appoggiata allo spigolo del tavolinetto.
Era stato forse lo strido d’un pipistrello.
In quella positura, più volte, il professor Carmelo Sabato, ascoltando le parole del Lamella, aveva gemuto:
– Tu mi rovini… tu mi rovini…
Ma a un tratto, balenandogli un’idea, levò il capo irosamente e gridò all’antico alunno:
– Ah, tu così ragioni? Questo, prima di tutto, l’ha detto Pascal. Ma va’ avanti! va’ avanti, perdio! Dimmi ora che significa. Significa che la grandezza dell’uomo, se mai, è solo a patto di sentire la sua infinita piccolezza! significa che l’uomo è solo grande quando al cospetto dell’infinito si sente e si vede piccolissimo; e che non è mai così piccolo, come quando si sente grande! Questo significa! E che conforto, che consolazione ti può venir da questo? che l’uomo è dannato qua a questa atroce disperazione: di vedere grandi le cose piccole – tutte le cose nostre, qua, della terra – e piccole le grandi là, le stelle?
Diede di piglio al fiasco, furiosamente, e ingollò due bicchieri di vino, uno sopra l’altro, come se li fosse meritati e ne avesse acquistato un incontrastabile diritto, dopo quanto aveva detto.
– E che c’entra? e che c’entra? – gridava intanto il Lamella, tirate le gambe fuori dell’amaca, e agitandole insieme con le braccia, come se volesse lanciarsi sul professore. – Conforto? consolazione? Voi cercate questo, lo so! Voi avete bisogno di vedervi, di sapervi piccolo…
– Piccolo, sì… piccolo, piccolo…
– Piccolo, tra cose piccole e meschine…
– Sì… così…
– Su un corpuscolo infinitesimale dello spazio, è vero?
– Sì, sì… infinitesimale…
– Ma perché? Per seguitare ad abbrutirvi, a incarognirvi!
Il professor Sabato non rispose: aveva in bocca di nuovo il bicchiere, che già gli ballava in mano: accennò di sì col testone, seguitando a bere.
– Vergognatevi! Vergognatevi! – inveì il Lamella. – Se la vita ha in sé, se l’uomo ha in sé quella sventura che voi dite, sta a noi di sopportarla nobilmente! Le stelle sono grandi, io sono piccolo, e dunque m’ubriaco, è vero? Questa è la vostra logica! Ma le stelle sono piccole, piccole, se voi non le concepite grandi: la grandezza dunque è in voi! E se voi siete così grande da concepir grandi le cose che pajono piccole, perché poi volete vedere piccole e meschine quelle che a tutti pajono grandi e gloriose? Pajono e sono, professore! Perché non è piccolo, come voi credete, l’uomo che le ha fatte, l’uomo che ha qua, qua in petto, in sé la grandezza delle stelle, quest’infinito, quest’eternità dei cieli, l’anima dell’universo immortale. Che fate? ah, voi piangete? ho capito! Siete già ubriaco, professore!
Il Lamella saltò dall’amaca e si chinò sul professor Sabato che, appoggiato al muro, si scoteva tutto, sussultando, quasi ruttando i singhiozzi, che a uno a uno gli rompevano dal fondo delle viscere, fetidi di vino.
– Su, su, smettetela, perdio! – gli gridò. – Mi fate rabbia, perché mi fate pietà! Un uomo del vostro ingegno, dei vostri studii, ridursi così! vergogna! Voi avete un’anima, un’anima, un’anima. Me la ricordo io, la vostra anima nobile, accesa di bene; me la ricordo io!
– Per carità… per carità… – gemeva, implorava il professor Carmelo Sabato, tra le lagrime, sussultando. – Enrichetto… Enrichetto mio… no, per carità… non mi dire che ho un’anima immortale… Fuori! fuori! Ecco, sì, ecco quello che io dico: fuori; sarà fuori l’anima immortale… e tu la respiri, tu sì, perché non ti sei ancora guastato… la respiri come l’aria, e te la senti dentro… certi giorni più, certi giorni meno… Ecco quello che io dico! Fuori… fuori… per carità, lasciala fuori, l’anima immortale… Io, no… io, no… mi sono guastato apposta per non respirarla più… m’empio di vino apposta, perché non la voglio più, non la voglio più dentro di me… la lascio a voi… sentitevela dentro voi… io non ne posso più… non ne posso più…
A questo punto, una voce dolce chiamò dal fondo della terrazza:
– Signore…
Il Lamella si volse. Là, nel vano nero dell’usciolo biancheggiavano le ampie ali della cornetta d’una suora di carità.
Il giovane professore accorse, confabulò piano con la suora, poi tutt’e due vennero premurosamente verso l’ubriaco e lo tirarono per le braccia su in piedi.
Il professor Carmelo Sabato, scamiciato, col testone ciondolante, il viso bagnato di lagrime, sbirciò l’uno e l’altra, sorpreso, intontito da tanta premura silenziosa; non disse nulla; si lasciò condurre, cempennante.
La discesa per la buja, angusta, ripida scaletta di legno fu difficile: il Lamella, avanti, con quasi tutto il peso addosso di quel corpaccio cascante; la suora, dietro, curva a trattener con ambedue le braccia, quanto più poteva, quel peso.
Alla fine, sorreggendolo per le ascelle, lo introdussero a traverso due stanzette bujé nella camera in fondo, illuminata da due candele or ora accese sui due comodini ai lati del letto matrimoniale.
Rigido, impalato sul letto, con le braccia in croce, stava il cadavere della moglie, dal viso duro, arcigno, illividito dal riverbero delle candele sul soffitto basso, opprimente della camera.
Un’altra suora pregava inginocchiata e a mani giunte a pie del letto.
Il professor Carmelo Sabato, ancora sorretto per le ascelle, ansimante, guardò un pezzo la morta, quasi atterrito, in silenzio. Poi si volse al Lamella, come a fargli una domanda:
– Ah?
La suora, senza sdegno, con umiltà dolente e paziente gli fé’ cenno di mettersi in ginocchio, ecco, così come faceva lei.
– L’anima, eh? – disse alla fine il Sabato, con un sussulto. – L’anima immortale, eh?
– Signore! – supplicò l’altra suora più anziana.
– Ah? sì… sì… subito… – si rimise, come spaurito, il professor Carmelo Sabato, calandosi faticosamente sui ginocchi.
Cadde, carponi, con la faccia a terra, e stette così un pezzo, picchiandosi il petto col pugno. Ma a un tratto dalla bocca, lì contro terra, gli venne fuori con suono stridulo e imbrogliato il ritornello d’una canzonettaccia francese: «Mets-la en trou, mets-la en trou…»seguito da un ghigno: ih ih ih ih…
Le due suore si voltarono, inorridite; il Lamella si chinò subito a strapparlo da terra e trascinarlo via nella stanza accanto; lo pose a sedere su una seggiola e lo scrollò forte, forte, a lungo, intimandogli:
– Zitto! zitto!
– Sì, l’anima… – disse piano, ansimando, l’ubriaco, – anche lei… l’anima… la plaga… la plaga di spazio… dove… dove roteano mondi, mondi…
– Statevi zitto! – seguitava a gridargli in faccia, con voce soffocata, il Lamella, scrollandolo. – Statevi zitto!
Il Sabato, allora, contro la sopraffazione provò di levarsi fiero in piedi; non potè; alzò un braccio; gridò:
– Due figlie… costei… due figlie mi buttò alla perdizione… due figlie! Accorsero le due suore a scongiurarlo di calmarsi, di tacere, di perdonare;
egli si rimise di nuovo, cominciò a dir di sì, di sì col capo, aspettando il pianto, che alla fine gli proruppe, dapprima con un mugolio dalla gola serrata, poi in tremendi singhiozzi. A poco a poco si calmò esortato dalle due suore; poi non pensando d’aver lasciato su nella terrazza la giacca, cominciò a frugarsi in petto con una mano.
– Che cercate? – gli domandò il Lamella.
Guardando smarritamente le due suore e l’antico alunno, ora l’una ora l’altro, rispose:
– M’hanno scritto. Tutt’e due. Volevano veder la madre. M’hanno scritto. Socchiuse gli occhi e aspirò col naso, a lungo, deliziosamente, accompagnando l’aspirazione con un gesto espressivo della mano:
– Che profumo… che profumo… Lauretta, da Torino… l’altra, da Genova… Tese una mano e afferrò un braccio del Lamella.
– Quella che volevi tu…
Il Lamella, mortificato davanti alle due suore, s’infoscò in volto.
– Giovannina… Vanninella, sì… Célie… ah ah ah… Célie Bouton… La volevi tu…
– Statevi zitto, professore! – muggì il Lamella, contraffatto dall’ira e dallo sdegno.
Il Sabato insaccò il capo fra le spalle, per paura, ma guardò da sotto in su con malizia l’antico alunno:
– Hai ragione sì… Enrichetto, non mi far male… hai ragione… L’hai sentita all’Olympia? Mets-la en trou, mets-la en trou…
Le due suore alzarono le mani come a turarsi gli orecchi, col viso atteggiato di commiserazione, e ritornarono alla camera della defunta, chiudendone l’uscio.
Inginocchiate di nuovo a pie del letto funebre, udirono a lungo la contesa di quei due rimasti al bujo.
– Vi proibisco di ricordarlo! – gridava, soffocato, il giovine.
– Va’ a guardare le stelle… va’ a guardare le stelle… – diceva l’altro.
– Siete un buffone!
– Sì… e sai? Vanninella m’ha… m’ha anche mandato un po’ di danaro… e io non gliel’ho rimandato, sai? Sono andato alla Posta, a riscuotere il vaglia, e…
– E… ?
– E ci ho comprato la birra per te, idealista.
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