1931 – Sogno (ma forse no) – Commedia in un atto

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Con esemplare geometria drammaturgica Pirandello ci guida all’interno delle dinamiche universali del rapporto di coppia, restando sul crinale sottile, e per lui determinante, che separa realtà e immaginazione, la lucida veglia e lo stato onirico.

STESURA dicembre 1928 – gennaio 1929
PRIMA RAPPRESENTAZIONE 11 gennaio 1936 – Trasmissione radiofonica, Ente Italiano Audizioni Radiofoniche. 10 dicembre 1937 – Genova, Giardino d’Italia, Filodrammatica del Gruppo Universitario di Genova . Prima rappresentazione assoluta al Teatro Nacional di Lisboa il 22 settembre 1931, su traduzione portoghese di Caetano de Abreu Beirão col titolo Sonho (mas talvez não).

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Sogno ma forse no
Ivan Giambirtone, Vittoria Faro, Sogno (ma forse no), 2018, Teatro di Documenti. Immagine dal Web

Premessa

Commedia in un atto unico scritta tra la fine del 1928 e l’inizio del 1929, Sogno (ma forse no) è uno dei più innovativi testi di Luigi Pirandello, tanto che lo stesso autore, in vita, non ebbe mai modo di vederlo rappresentato, solo prodotto dal Teatro Nazionale di Lisbona nel 1931, dove debuttò con il titolo Sonho (mas talvez nao). In Italia fu rappresentato per la prima volta nel 1937 a Genova.

In «Sogno (ma forse no)», la visione onirica è il luogo in cui proiettare le ossessioni, le paure, i mostri dell’anima oppressa dal perbenismo di facciata: quel che non si può dire, per rispetto delle convenzioni e della morale comune, prende vita in una sorta di delirio cosciente e alimenta una tempesta inevitabile.

        Il tema dell’incerto confine tra sogno e realtà era stato già trattato da Pirandello, in una situazione del tutto diversa, nella novella La realtà del sogno (1914). Mentre nella novella, tuttavia, c’è un tempo per il sogno e uno per la cosiddetta realtà, qui le due dimensioni si intersecano creando un clima di sospesa tensione. Una giovane e bella donna ha un amante del quale comincia però a stancarsi, mentre avverte il fascino di un suo antico amante, tornato ricchissimo da terre lontane. Nel breve spazio di un sogno, la donna vive drammaticamente l’esito possibile cui l’affievolirsi del suo amore potrebbe condurla. Pirandello si rivela abilissimo nel costruire la scena del sogno-incubo: dispone ormai di raffinati strumenti teatrali. Il dialogo tra la donna e il suo amante è la parte meno importante del testo; molta suggestione è, invece, affidata all’atmosfera ambigua e perturbante, concentrata in una scenografia espressionistica. Nel sogno l’amante, consapevole della fine dell’amore nell’animo della donna, la strangola, tracciando con le sue mani convulse ben altro vezzo al collo della fedifraga che non la splendente collana di perle, ammirata dalla donna nella vetrina di un gioielliere e desiderata moltissimo. Fin qui il sogno. La donna, si risveglia, tirando un sospiro di sollievo; ma c’è la collana che, carica di un malefico potere, unirà sogno e realtà. Entra, infatti, la cameriera e porta alla signora un pacchetto; è proprio la stessa collana del sogno che le manda quel ricchissimo suo antico amante. Bussano di nuovo alla porta; è l’amante che sta per essere spodestato con il quale la donna inizia una conversazione che potrà prendere le note acute del sogno; la «realtà» potrà ripercorrere le fasi preannunciate dall’incubo; sarà stato solo un sogno ? Forse No!

Sogno (ma forse no)
Commedia in un atto – 1936

Personaggi

La Giovane signora
L’Uomo in frak
Un cameriere, che non parla

        Una camera: ma forse no: un salotto. Certo, una giovane signora vi giace su un letto: ma forse no: sembra piuttosto un divano, a cui per qualche molla si sia abbattuta l’alta spalliera. Del resto, nulla in principio si discerne bene, perché la stanza è stenebrata appena da un lume innaturale che emana dal tappetino verde prato davanti al divano. Questo lume par debba da un momento all’altro sparire a un lieve moto nel sonno della giovane signora dormente.

        Difatti, è proprio il lume d’un sogno: come quel sedotto è una camera da letto soltanto nel sogno della giovane signora: e un letto, quel divano. Nella parete di fondo è un uscio chiuso. In quella destra è un grande specchio su una piccola mensola lavorata artisticamente in forma di cofano, e dorata. Questa mensola per ora non si vede: e anche lo specchio per ora sembra piut­tosto una finestra.

        La ragione di quest’inganno è semplice: nello specchio si riflette la finestra che gli sta dirimpetto, nella parete sinistra: e naturalmente, per la giovane si­gnora che sogna, la finestra è lì dov’è lo specchio che la riflette: e questa fi­nestra di sogno sarà difatti aperta, pia tardi, dall’uomo che verrà. Sotto lo specchio è per ora abbassato il tappeto che poi ricoprirà il piano della mensola. Questo tappeto è della stessa stoffa delle pareti della camera, per cui non sì distinguerà affatto. Così abbassato, serve a nascondere .fino a terra il vano dentro al quale è sparita nel sogno la mensola, che poi riappa­rirà, col suo tappeto sopra, allorché il sogno sarà finito, e lo specchio sarà ri­tornato uno specchio.

        Pende dal soffitto una lumiera con tre globi rosei, ora spenti, di vetro smeri­gliato.

        Nella tenebra diradata appena da quel lume di sogno, a un certo punto, da sotto il divano che fa da letto, vien fuori una mano, un’enorme mano, che sol­leva lentamente la spalliera abbattuta; e grado grado che questa si rizza, emerge dietro, enorme anch’essa, la testa d’un uomo dall’ aspetto stravolto, i capelli scomposti, la fronte corrugata, gli occhi terribilmente foschi e come induriti in una cupa minaccia. È un’orribile maschera d’incubo.

        Si solleva sempre più, fino a mezzo il busto, mostrando l’abito da sera sotto un mantello nero e la sciarpa bianca di seta: e incombe sulla giovane signora che ha aperto gli occhi e levato a riparo le mani, spaventata, raggricchiandosi a sedere.

        Il lume a terra si smorza e la testa scompare dietro la spalliera. È un attimo. S’accendono i tre globi della lumiera che emanano una tenue soavissima luce rosata: ed ecco ritto in piedi accanto al divano l’Uomo in frak, non più nell’e­norme maschera d’incubo come è apparso dianzi, ma di proporzioni normali, non però tali ch’egli appaja reale, bensì come sognato, con la stessa espres­sione di fosca minaccia, divenuta per così dire verosimile. La scena che seguirà, mutevole e quasi sospesa tutta nell’inconsistenza d’un sogno, sarà di continuo intramezzata da pause più o meno lunghe e anche da certi subitanei arresti di rappresentazione, durante i quali l’Uomo in frak la­scerà in tronco non solo il gesto ma ogni movimento espressivo così degli occhi come di tutto il volto e di tutta la persona, rimanendo lì come un fan­toccio posato. Da questi arresti si riavrà ogni volta assumendo tutt’a un tratto espressioni spesso in violento contrasto con quella di prima, secondo quel nuovo aspetto e quel nuovo animo che la giovane signora si foggia dì lui, va­gando i ricordi nella volubile incostanza del sogno.

        LA GIOVANE SIGNORA: Sei qui? Come sei entrato?

        L’UOMO IN FRAK (resta dapprima immobile: poi si volta appena a guardarla; cava da un taschino del panciotto scollato una piccola lucida chiave inglese e la mostra: quindi se la rimette nel taschino).

        LA GIOVANE SIGNORA: Ah, l’hai ritrovata tu? Proprio come avevo sospettato. Quando te la richiesi, dopo la tua ultima imprudenza.

        L’UOMO IN FRAK (sorride).

        LA GIOVANE SIGNORA: Perché sorridi?

        L’UOMO IN FRAK (smette a un tratto di sorridere e la guarda fosco, per farle in­tendere che è inutile mentire con lui e volergli dare a credere che la chiave gli sia stata ritirata «per la sua ultima imprudenza»).

        LA GIOVANE SIGNORA (dominando, di nuovo impaurita, il turbamento che quello sguardo le cagiona): Non te l’ho richiesta per altro. Tenevo tanto poco a ria­verla, che me la misi in tasca senza neppur badarci. Dev’essermi scivolata dalla tasca sul tappeto, quando m’alzai perché la cameriera m’aveva chiamata di là un momento.

        L’UOMO IN FRAK (appena ella volta il capo a guardare dall’altra parte per ac­compagnare col gesto le parole «di là un momento» con la rapidità d’un ladro fa l’atto da lei immaginato: cioè, si china sul tappeto come per raccat­tarvi una chiave e nasconderla subito proprio là dove ha già mostrato d’a­verla, nel taschino del panciotto. Nel compiere quest’atto, ha gli occhi accesi d’un maligno riso che gli si torce anche sulle labbra. Appena però si rimette ritto, ritorna nell’ atteggiamento di prima, come se non si fosse mai mosso).

        LA GIOVANE SIGNORA (dopo avere atteso un po’ ch’egli le dica qualche cosa): Si può sapere che hai? Perché mi guardi così?

        L’UOMO IN FRAK: Che ho? Nulla. Come ti guardo? (E così dicendo le si ap­pressa: si china su lei, poggiando un ginocchio sul piano del divano, una mano sulla spalliera e l’altra, delicatamente, sull’avambraccio di lei.) Non posso starti lontano: non vivo più se non ti sento così, così, vicina a me: se non sento così l’odore dei tuoi capelli – quest’ebbrezza – e questa soavità della tua pelle – e questo profumo di tutta la tua persona. Tutta, tutta la mia vita sei tu.

        LA GIOVANE SIGNORA (scatta in piedi e si scosta, passandogli davanti. Gli dimo­stra così che le è intollerabile sentirgli ripetere le solite parole d’amore. Ma è pur stata lei a fargliele ripetere, ricordando per un momento che egli, in­namorato, le è apparso tante volte con quell’aspetto alterato e scomposto che ora, nel sogno, le sta facendo tanta paura. Pentita subito del suo scatto, s’a­spetta che egli ora, avendo avuto con esso la prova che ella non lo ama più, fingerà d’aver detto per scherno quelle parole. Si volta perciò impaurita verso di lui).

        L’UOMO IN FRAK (rimasto come un automa sospeso nel suo atteggiamento amo­roso, lì chino, proteso verso il posto dove prima era seduta lei, ora, appena ella si volta a guardarlo, si butta sgarbatamente a sedere sul divano, con le gambe aperte, con le braccia aperte, e rovescia indietro il capo, rompendo in una lunga risata di scherno. Mentre ride così, man mano la spalliera gli va cedendo dietro le spalle, fino ad abbattersi tutta sulla molla come prima. Gradatamente anche i tre globi della lumiera vanno smorzando la loro luce rosea: finché egli, arrivato resupino con la sua risata sulla spalliera tutta abbattuta, nell’attimo di bujo tra lo spegnersi dei tre globi della lumiera e il riaccendersi del lume a terra, non si sarà tirato su un fianco a giacere per lungo sulla spalliera che fa di nuovo da letto, poggiato su un gomito e con la testa sorretta dalla mano, come se da gran tempo fosse lì, a seguitare un discorso con voce pacata e un triste sorriso sulle labbra, a lei che ora sì tro­verà seduta sul divano ai piedi di lui): …certo, né una donna può obbligare un uomo, né un uomo una donna a rispondere a un amore che non si senta più”. Ma allora bisogna avere la franchezza di dirlo: «Io non ti amo più».

        LA GIOVANE SIGNORA: Tante volte non si dice per pietà; non perché manchi la franchezza, che anzi farebbe molto comodo.

        L’UOMO IN FRAK: Molto comodo può essere anche a una donna credere che tac­cia per pietà. Quando una donna dice di tacere per pietà, ha già ingannato.

        LA GIOVANE SIGNORA: Mano!

        L’UOMO IN FRAK: Sì – non foss’altri, se stessa. Sotto codesta pietà sarà sempre nascosto qualche tornaconto.

        LA GIOVANE SIGNORA (alzandosi): Grazie per il concetto che hai di noi donne.

        L’UOMO IN FRAK: Ma quand’anche non ci fosse alcun tornaconto, non capisci che la pietà sarebbe sempre falsa?

        LA GIOVANE SIGNORA: Io ho sempre saputo che un inganno può anche essere pie­toso.

        L’UOMO IN FRAK: Quale? quello di far credere che si ami, quando non si ama più? Inganno inutile. Chi ama veramente s’accorge subito che nell’altro non c’è più amore. E guaj se finge di non accorgersene: sarà come insegnare il tradimento. Una pietà vera, che non nasconda secondi fini, può essere, in chi la usi, soltanto pietà: non più amore. Pretenderlo è corrompere questa pietà. Nascerà lo sdegno, per forza: quello sdegno che consiglia e induce al tradimento; perché già, tanto, il primo tradimento l’abbiamo voluto noi stessi col non volerci accorgere di quell’inganno.

        LA GIOVANE SIGNORA (tornando a sedere al posto di prima): Dunque tu pensi che bisogna dirlo?

        L’UOMO IN FRAK (senza scomporsi): Sì. Lealmente.

        LA GIOVANE SIGNORA: Perché l’inganno, anche pietoso, è un tradimento?

        L’UOMO IN FRAK: Sì. Quando l’uomo o la donna l’accetti, come un mendicante l’elemosina. (Pausa.) Vorrei sapere come tratteresti un mendicante che, per dimostrarsi grato dell’elemosina che gli hai fatta, pretendesse baciarti in bocca come un innamorato.

        LA GIOVANE SIGNORA (con un sorriso ambiguo): Se l’elemosina è d’amore, un bacio è il meno che quel mendicante possa chiedere.

        L’UOMO IN FRAK (rizzandosi in piedi dall’altra parte del divano e con atto d’ira risollevando la spalliera per rimetterla ritta a posto come prima): Dimenti­cavo di parlare con una donna. (Passeggia concitato per la stanza.) La lealtà, la lealtà è un debito, e il più sacro, verso noi stessi, anche prima che verso gli altri. Tradire è orribile. Tradire è orribile.

        LA GIOVANE SIGNORA: Non so perché tu mi parli così, questa notte, e debba tanto eccitarti quello che dici.

        L’UOMO IN FRAK: Non quello che dico io: quello che hai detto tu. Io sto parlando in astratto.

        LA GIOVANE SIGNORA: Ma anch’io, caro. Tu non puoi dubitare di me.

        L’UOMO IN FRAK: Tu sai bene ch’io dubito sempre e che ho tutta la ragione di dubitare. (Va, risoluto, ad aprire la finestra del sogno e farà entrare un esagerato raggio di luna e un lento e lieve fragorìo di mare.) Non ti ricordi più? (E resta a guardare davanti a quella finestra aperta.)

        LA GIOVANE SIGNORA (guardando invece davanti a sé, seduta, come una che ri­cordi): Ah sì, è vero, quest’estate, al mare…

        L’UOMO IN FRAK (sempre davanti alla finestra, come se vedesse il mare di là): …tutt’un fremito d’argento sotto la luna…

        LA GIOVANE SIGNORA: Sì, sì; fu veramente una pazzia…

        L’UOMO IN FRAK: Io ti dissi: stiamo provocando il mare a sentirci così sicuri su questo canotto che un’onda può mandare a fondo da un momento all’altro.

        LA GIOVANE SIGNORA: … e mi volesti far paura, piegandoti di qua e di là…

        L’UOMO IN FRAK: E ricordi che altro ti dissi allora?

        LA GIOVANE SIGNORA: Sì. Una cosa cattiva.

        L’UOMO IN FRAK: Che ti volevo far provare la stessa paura che sentivo io fidan­domi del tuo amore. Tu te n’avesti a male. E io allora mi provai a farti inten­dere che come noi due, quella sera, provocavamo il mare sentendoci sicuri su quel canotto, che l’onda più lieve poteva mandare a fondo da un momento al­l’altro, così a me sarebbe sembrato di provocare te, dicendomi sicuro di quel po’ d’affidamento che potevi darmi col tuo amore.

        LA GIOVANE SIGNORA: Ti pareva poco anche allora? –

        L’UOMO IN FRAK: Ma sì! ma sempre, cara! Per forza. Non perché tu voglia. A te anzi parrà di potermi dar tutto l’affidamento. È sempre poco, perché tu stessa, cara, tu,stessa non puoi avere nessuna certezza che domani, di qui a un mo­mento, mi amerai ancora. Ci fu pure un momento che tu sentisti d’amarmi: e prima non m’amavi. Ci sarà pure un momento che sentirai di non più amarmi, e non m’amerai più. – Forse questo momento è venuto. – Guardami! – Perché hai paura di guardarmi?

        LA GIOVANE SIGNORA: Non ho paura. So che tu sei ragionevole. Hai detto tu stesso poco fa che nessuno può costringere un altro a rispondere a un amore che non senta più.

        L’UOMO IN FRAK: Sì, ragionando. Ma guaj, ma guaj se in te l’amore dovesse fi­nire mentre in me dura ancora, così vivo e così forte!

        LA GIOVANE SIGNORA: Io voglio che tu ragioni.

        L’UOMO IN FRAK: Sì sì, ragiono, ragiono. Ragiono fin che vuoi, per farti piacere. Per non aver paura, tu vuoi la prova che ho ancora perfetto l’uso della ra­gione? Ecco, ecco: te la do. E comprendo benissimo tutto, non temere, finché la fiamma del mio spirito resta accesa soltanto qua (si tocca la fronte) com­prendo benissimo, come vedi, che il tuo amore, cominciato in un momento, in un momento può anche finire, per un caso qualsiasi, impreveduto, impre­vedibile. Che vuoi di più? Arrivo fino a dire: allo svolto d’una via, per un in­contro impensato, per un subitaneo sbarbaglio che accechi, per una improv­visa, irrefrenabile accensione dei sensi…

        LA GIOVANE SIGNORA: Oh questo poi…

        L’UOMO IN FRAK: Perché no?

        LA GIOVANE SIGNORA: Ma perché c’è pure in noi la ragione, la ragione, la ra­gione che subito ci richiama.

        L’UOMO IN FRAK: A che cosa? al dovere?

        LA GIOVANE SIGNORA: A non lasciarci prendere così.

        L’UOMO IN FRAK: La vita prende, la vita prende: ha preso sempre così! Perché vuoi che te lo dica, proprio io, come se tu non lo sapessi? Guaj, guaj se la fiamma ti s’accende qua (si tocca il petto) e ti brucia il cuore! Tu non sai che atroce fumo prorompa da un cuore che brucia, dal sangue, dal sangue che brucia: e che orribile notte questo fumo ti fa subito nel cervello: la tempesta, per cui non ragioni più. Vuoi ora impedire alla tempesta che scagli i suoi fulmini e che uno ti incendii la casa e ti uccida? Così dicendo s’è fatto terribile: e appena ha nominato la tempesta, un sordo fragore crescente, come di tempesta, si ode di là dalla finestra aperta, e il raggio di luna si cangia in un livido guizzante lampeggio di sinistre luci.

        LA GIOVANE SIGNORA (atterrita, si nasconde il volto con le mani).

        L’UOMO IN FRAK (subito, com’ella si nasconde il volto, resta in tronco, col gesto sospeso e senza più espressione nel viso, come un automa. Cessano anche d’un tratto il fragore e il lampeggiamento: torna quieto il raggio di luna, e tutto rimane in una quasi arcana immobilità, che durerà fintanto che la Gio­vane Signora terrà le mani sul volto).

        LA GIOVANE SIGNORA (senza staccarsi le mani dal volto, si alza e muove qualche passo verso la finestra per chiuderla).

        L’UOMO IN FRAK (pur restando sospeso ancora nell’attonito atteggiamento, volge soltanto il capo e le braccia nella direzione di lei, come se ella, mo­vendo quei passi verso la finestra, per attrazione, lo facesse voltare cosi).

        LA GIOVANE SIGNORA (si leva le mani dal volto e guardando la finestra resta anche lei per un istante stupita dell’immobilità di quel lume di luna, sereno. In quello stupore, sorride: si ricorda del «momento», che cominciò ad amare quest’uomo: fu appunto in un salotto presso una finestra per cui entrava la luna. Si volge a lui con quel sorriso sulle labbra).

        L’UOMO IN FRAK (assume subito l’espressione di quel «momento», cioè d’un si­gnore che in un salotto ha visto con la coda dell’occhio la signora di cui è innamorato andare a una finestra, e, fingendo d’andarci anche lui per pren­dere un po’ d’aria, resti sorpreso di trovarla lì per caso): Oh, scusate! Siete qui? Fa veramente un caldo insopportabile. Non si può più ballare. Forse sa­rebbe meglio andare tutti in giardino, con questa bella luna: e che qualcuno restasse qua a sonare: giù si sentirebbe la musica venire da lontano e si balle­rebbe al fresco, là nello spiazzo attorno a quella vasca che zampilla. Da lontano, velato, come dall’alto, il suono di un pianoforte.

        LA GIOVANE SIGNORA: Credevo che il giardino e questa bella luna vi dovessero far nascere il desiderio d’andar giù, non con tutti, ma solo con la bella si­gnora in rosa con cui avete tanto ballato questa sera.

        L’UOMO IN FRAK: Perché mi dite così? Siete stata voi…

        LA GIOVANE SIGNORA (interrompendolo): Piano! Ci possono sentire.

        L’UOMO IN FRAK (piano e guardingo): … voi a dirmi di non seguitare a ballare insieme, per non dar troppo nell’occhio: e ora mi rimproverate…

        LA GIOVANE SIGNORA (facendogli prima cenno di tacere, e poi sussurrandogli pianissimo): Andate giù in giardino senza farvi scorgere. Tra poco, appena potrò, vi scenderò anch’io.

        L’UOMO IN FRAK (felice, dopo aver spiato in giro con gli occhi se nessuno dal salotto lo scorga, le prende una mano e gliela bacia furtivo): Vado. V’a­spetto. Presto! (E s’allontana dalla finestra: si muove guardingo per il sa­lotto in direzione dell’uscio chiuso: vi giunge: torna a guardare circospetto come uno che voglia cogliere il momento opportuno per aprire quell’uscio: lo apre: esce.)

        LA GIOVANE SIGNORA (rimane, come nascosta, nel vano della finestra, avvolta nel raggio di luna. A poco a poco questo raggio si smorza insieme col lume a terra e si fa sempre più lontano e fievole il suono del pianoforte, perché la visione di quel «momento» lentamente si spegne in lei. Quando si sarà al tutto spenta e il suono del pianoforte con essa, nell’attimo di bujo che prece­derà il riaccendersi dei tre globi rosati della lumiera, la finestra sarà ri­chiusa, la Giovane Signora sarà tornata a sedere sul divano al posto di prima).

        L’UOMO IN FRAK (immobile, accanto al divano, nella prima espressione di fosca minaccia: tal quale come in principio).

        LA GIOVANE SIGNORA (dopo aver atteso che egli si risolva a parlare, pestando un piede): Ma insomma mi dirai, mi dirai qualche cosa! Non seguiterai mica a starmi davanti tutta la notte con codesto cipiglio! (Nel dire queste parole quasi piange, nell’angoscia, dalla rabbia che è costretta a frenare.)

        L’UOMO IN FRAK: Non sono io: me lo dai tu questo cipiglio. Tu sai bene che sono ancora pieno d’amore per te: sai bene che se ora mi voltassi a guardarmi allo specchio, io stesso, così come tu mi hai davanti, non mi riconoscerei. Mi direbbe la verità lo specchio, presentandomi un’immagine ch’io non mi cono­sco: questa, questa che tu mi dai. E perciò tu hai fatto sparire lo specchio e me l’hai fatto aprire come una finestra.

        LA GIOVANE SIGNORA (quasi gridando): No, no, è la finestra! è la finestra! Ti giuro che è la finestra! È inutile che ti volti a guardare!

        L’UOMO IN FRAK: Non mi volto, stai tranquilla. E la finestra, sì. Sfido che è una finestra dal momento che ho potuto aprirla! E non c’è forse il giardino di là, dove per la prima volta le nostre bocche si sono congiunte in un bacio che non finiva più? E non c’è davanti il mare che abbiamo provocato insieme quest’estate in una notte di luna? – Nulla atterrisce più di uno specchio una coscienza non tranquilla. – E tu sai che per altre ragioni, dipendenti anch’esse da te – se penso a ciò che per te ho fatto e seguito a fare – io non posso alzar gli occhi davanti a uno specchio. Ora stesso, ora stesso, che tu mi hai davanti così, tu sai pur bene dove sono – ci sei venuta una volta – in quella saletta gialla del Circolo – e sto barando, sto barando per te – nessuno per fortuna se n’accorge – ma sto barando, sto barando per poterti regalare quel vezzo di perle…

        LA GIOVANE SIGNORA: No, no, non lo voglio più! non lo voglio più! T’ho detto che mi sarebbe tanto piaciuto averlo…

        L’UOMO IN FRAK: Per avvilirmi.

        LA GIOVANE SIGNORA: No, per indurti a considerare che pretendevo troppo da te.

        L’UOMO IN FRAK: Tu séguiti a mentire! Non hai voluto affatto indurmi a uno sdegno segreto per le tue troppe pretensioni: ma a considerare piuttosto che eri fatta per un amante più ricco, che avrebbe potuto facilmente procurarsi il piacere di soddisfare i tuoi costosi desiderii.

        LA GIOVANE SIGNORA: Oh mio Dio, questo, avresti dovuto pensarlo da te fin da principio, sapendo chi ero, che vita ho sempre fatto!

        L’UOMO IN FRAK: Sapevi anche tu chi ero io, quando ti sei messa con me. Non sono stato mai ricco. Mi sono ingegnato in tutti i modi per trovare i mezzi di seguirti nel tuo tenore di vita, senza tuo scapito e senza troppi sacrifizii per te. È tutto quello che ho fatto e che tu (se volessi essere un po’ sincera) devi pure aver supposto…

        LA GIOVANE SIGNORA: Sì, l’ho supposto.

        L’UOMO IN FRAK: Espedienti d’ogni genere…

        LA GIOVANE SIGNORA: Supposto – supposto – e anche ammirato com’hai saputo nascondermi ogni imbarazzo.

        L’UOMO IN FRAK: Perché m’è parso niente – il meno che potessi fare per tutto il compenso che mi davi tu, lasciandoti amare da me.

        LA GIOVANE SIGNORA: Ma hai pur preteso che considerassi…

        L’UOMO IN FRAK: No! che cosa?

        LA GIOVANE SIGNORA: Come no? se hai fatto appello alla mia sincerità! – che considerassi quanto t’è costato…

        L’UOMO IN FRAK: T’ho detto, niente: come niente speravo dovesse costare a te la rinuncia ai tuoi desiderii più costosi.

        LA GIOVANE SIGNORA: Per non obbligarti a spese che sapevo non avresti potuto fare, sì. E ho rinunziato, ho rinunziato infatti, tu non puoi neppure immagi­nare a quante cose!

        L’UOMO IN FRAK: L’immagino, l’immagino benissimo!

        LA GIOVANE SIGNORA: T’è parso naturale?

        L’UOMO IN FRAK: Sì, amandomi…

        LA GIOVANE SIGNORA: Io ne ho provato rabbia!

        L’UOMO IN FRAK: Che mi sembrasse naturale?

        LA GIOVANE SIGNORA: Sì. Che amandoti, non dovessi desiderare più nulla! E al­lora apposta, quella sera, passando davanti la vetrina di quel giojelliere – ap­posta, apposta sì, ho voluto esser crudele.

        L’UOMO IN FRAK: E credi che non me ne sia accorto?

        LA GIOVANE SIGNORA: Ti sono parsa crudele?

        L’UOMO IN FRAK: No. Donna.

        LA GIOVANE SIGNORA (battendo un pugno sul ginocchio e alzandosi): Ancora! Non capite che è colpa vostra, di voi uomini, se le donne sono così, per code­sto concetto che n’avete? Colpa vostra, se sono crudeli: colpa vostra, se v’in­gannano: colpa vostra, se vi tradiscono?

        L’UOMO IN FRAK: Piano – piano… Perché vai così sulle furie? Credi che non m’accorga adesso che vai cercando un pretesto per farti comunque Una ra­gione?

        LA GIOVANE SIGNORA (voltandosi di scatto, stupita): Io?

        L’UOMO IN FRAK (con viso fermo): Sì – tu. – Di che ti stupisci?

        LA GIOVANE SIGNORA (imbarazzata): Ragione di che?

        L’UOMO IN FRAK: Tu lo sai bene di che. – Io ho detto «donna» per correggere il tuo «crudele». M’è parso giusto, non crudele, che tu quella sera, passando davanti la vetrina di quel giojelliere, per scherzo e sul serio facessi quel so­spiro di golosità. (Lo rifa, come un bambino davanti a un cibo prelibato, e accompagna il sospiro col gesto che di solito fanno i bambini appetendo qualcosa che faccia loro gola, cioè passandosi più volte rapidamente le mani sul petto:) «Ah! quanto mi piacerebbe quel vezzo di perle.» Ella ride e, d’un tratto, mentre ride, si fa bujo: un bujo assoluto: e, in questo bujo, lo scrigno che si sarà veduto fin da principio nella parete di fondo ac­canto all’uscio chiuso, sarà liberato, mediante qualche filo o altro congegno, dei due sportelli – che saranno di carta dipinta e applicati in modo da potere venir via facilmente – e, potentemente illuminato dall’alto da un riflettore che lo isoli da tutto il resto, apparirà come una splendida vetrina di giojel­liere, con molte gioje esposte innaturali, entro queste, nel mezzo, bene in vista, disposto con arte in mostra nel suo sostegno di raso, il vezzo di perle, anch’esso innaturale. Nell’attimo stesso che questa vetrina apparirà così il­luminata, come una visione fascinosa, la Giovane Signora cesserà di ridere. E la visione durerà un lungo tratto nel massimo silenzio. Per la forza isolatrice del riflettore i due personaggi non si dovrebbero vedere come nuli’altro della stanza si dovrebbe vedere. Del resto, essi voltano le spalle a quello scrigno. La visione di quella vetrina di giojelliere è solo per gli spettatori. I due personaggi, è come se l’avessero davanti a sé. A un certo punto si ve­dranno due mani maschili, ma fine e bianchissime, scostare, come dall’in­terno della bottega, le tendine che fanno da sfondo alla vetrina, e prendere con cautela quel vezzo di perle. Poi, senza che la visione di essa sparisca, si riaccenderanno nella scena i tre globi rosati della lumiera, e appariranno immobili, nel punto dov’erano, l’Uomo in frak e la Giovane Signora, presi nel fascino, che li fa parlare rigidi, sottovoce, guardando davanti a sé.

        L’UOMO IN FRAK: Vuoi che le rubi?

        LA GIOVANE SIGNORA: No, no. M’è passato in un baleno per la mente. Non le voglio, non le voglio da te! T’ho già detto che te n’ho manifestato il desiderio per crudeltà. So bene che tu non puoi regalarmele se non rubandole.

        L’UOMO IN FRAK: O rubando ad altri per comperartele! – Ciò che sto facendo! Mentre – hai visto? – altre mani – altre mani hanno ritirato dalla vetrina il vezzo di perle – per te – e tu lo sai – lo sai (a questo punto si scompone dalla rigidità e si volta a lei terribile:) – e osi dirmi che non lo vuoi più da me? Sfido che non lo vuoi più da me! Lo avrai da un altro! Tu m’hai già tradito, vile! (L’afferra per le braccia, poiché ella, spaventata, s’è alzata per sfuggirgli.) E so chi è! so chi è! Vile! Vile! (La scrolla.) Ti sei rimessa col tuo primo amante, ritornato ricco or ora da Giava! l’ho visto! l’ho visto! Si tiene ancora appartato, ma io l’ho visto!

        LA GIOVANE SIGNORA (che si sarà dibattuta per liberarsi dalla stretta, a questo punto gli sfugge): Non è vero! non è vero! Lasciami!

        L’UOMO IN FRAK (la ghermisce di nuovo: la ributta sul divano: le si fa sopra, con le mani alla gola come per strozzarla): Non è vero? Se ti dico che l’ho visto, infame! Tu ti aspetti da lui quelle perle, mentr’io mi sto insozzando le mani per te, a rubare al Circolo ai miei amici: miserabile, miserabile, per con­tentarti, per soddisfare la tua crudeltà!

        Le è sopra: sta per strozzarla: ella già cede sotto la stretta feroce: tutte le luci vacillano: d’un tratto si spengono, poiché ella si sogna di morire stroz­zata da lui. Bujo assoluto, che dovrebbe durare il meno possibile. Si udranno, durante questo bujo, reiterati colpi all’uscio chiuso, esageratamente forti, cupi, irreali, come se rintronassero nel sogno. E intanto, si rialzeranno sullo scrigno i due sportelli: la mensola informa di cofano dorato verrà avanti col suo tappetino sopra, e lo specchio tornerà ad essere un vero specchio, senza più il riflesso della finestra, perché questa, nella parete di sinistra, sarà aperta, e un bel raggio di sole al tramonto entrerà da essa, quando, sparito l’Uomo in frak, si rifarà sulla scena una limpida e quieta luce di giorno. Su­bito, a questa luce, i picchi all’uscio, da forti, cupi e irreali che erano, si

        fanno reali, cioè piani, discreti, e non più di tre – ben distinti. Contempora­neamente si vedrà la Giovane Signora svegliarsi dal suo sogno e portarsi le mani alla gola, dando così a vedere che s’è sentita soffocare. Trarrà lunghi respiri, con pena, esprimendo lo spavento che, sognando, s’è presa. È ancor quasi stupita del sogno che ha fatto, e si guarderà in giro, come una che non si raccapezzi bene nella realtà che ora si vede attorno. Tenta d’alzarsi dal divano, ma ricade a sedere, mancandole le gambe: si nasconde il volto con le mani, e sta un po’ così. Si riodono all’uscio i tre picchi, discreti.

        LA GIOVANE SIGNORA (mettendosi in piedi e stando un po’ in orecchi prima di rispondere): Avanti. (Va verso la finestra aperta, aggiustandosi un po’ i ca­pelli. Entra il cameriere, recando su un vassojo un astuccio involtato in una carta finissima e legato da un nastrino d’argento. Fa per appressarsi. Elicilo ferma, dicendogli:) Lasciate pur lì. (Indica la mensola. Il cameriere lascia l’involto su la mensola: s’inchina ed esce, richiudendo l’uscio. – Ella rimane dapprima dov’è, come sospesa. – In quell’involto è quel regalo prezioso che s’aspetta. – Ma la gioja di riceverlo è contrariata dal recente spavento del sogno e dalla minaccia ch’esso contiene per lei, se veramente l’amante che ella ha or ora veduto nel sogno, così terribile addosso a lei, abbia il sospetto del suo tradimento, di cui la prova, ecco, è lì presente su quella mensola. – Va allora, di fretta e quasi furtiva, alla mensola come per nascondere l’in­volto. Eo prende e, sospettosa, guarda verso l’uscio chiuso, per un tratto. Poi, non sapendo resistere alla tentazione dì vedere il regalo, apre l’involto con mani nervose: poi l’astuccio: e prima ne cava un biglietto da visita e legge le parole che vi sono scritte sotto il nome: infine trae il vezzo di perle: lo osserva: l’ammira: sorride: se lo stringe con ambo le mani al seno e soc­chiude gli occhi: se lo prova allo specchio, mettendoselo al collo, senza tut­tavia agganciarlo alla nuca. – Si sente un’altra volta picchiare all’uscio. – Subito la Giovane Signora si toglie il vezzo di perle, prende dal piano della mensola il biglietto da visita, apre il cassettino che è lì nella mensola sotto il tappetino e vi nasconde tutto. – Poi dice, rivolta verso l’uscio:) Chi è? Avanti. (E al cameriere che rientra e le porge un biglietto da visita, ordina:) Fate passare. (Introdotto dal cameriere, entra, nuovo di tutto, sereno, l’Uomo che nel sogno era in frak. Ora indossa un abito da pomeriggio. Eo seguiteremo a chiamare l’Uomo in frak.) Oh caro, venite, venite avanti. Il cameriere s’inchina ed esce, richiudendo l’uscio.

        L’UOMO IN FRAK (dopo aver baciato a lungo la mano che ella gli ha porta): Mi sono fatto aspettare?

        LA GIOVANE SIGNORA (simulando la massima indifferenza): No no… (Siede sul divano.) Si vede dagli occhi che ho dormito?

        L’UOMO IN FRAK (dopo averla osservata): Veramente no. (Piano:) Hai dormito? (Siede.)

        LA GIOVANE SIGNORA: Sì, qua, un momento… Mi son sentita prendere tutt’a un tratto dal sonno. – Strano…

        L’UOMO IN FRAK: …E sognato?

        LA GIOVANE SIGNORA (c.s.): No, no. È stato proprio un momento. Devo però – non so – essermi messa male. (Si carezza il collo con la mano.) Mi… mi son sentita mancare improvvisamente il respiro. (Sorride.) Va’ a sonare, per pia­cere. Facciamo portare il tè. (Egli si alza e va a premere il bottone del cam­panello elettrico presso lo specchio. Poi torna a sedere.)

        L’UOMO IN FRAK: Temevo d’aver fatto tardi. Ho avuto una contrarietà che m’ha fatto tanto dispiacere. Poi ti dirò.

        Il cameriere picchia all’uscio ed entra.

        LA GIOVANE SIGNORA: Portate il tè. (Il cameriere s’inchina ed esce.) Che contra­rietà?

        L’UOMO IN FRAK: Volevo farti una sorpresa.

        LA GIOVANE SIGNORA: Tu? a me? (E scoppia a ridere.)

        L’UOMO IN FRAK (restando male): Perché ridi?

        LA GIOVANE SIGNORA (seguitando a ridere): Una sorpresa, tu?

        L’UOMO IN FRAK: Non credi che te ne possa più fare?

        LA GIOVANE SIGNORA: Sì, caro. Tutto è possibile. Ma sai com’è? Quando ci si conosce da troppo tempo, le sorprese… E poi l’hai detto con un tono così af­flitto… (Rifacendo l’aria e il tono:) «Volevo farti una sorpresa»… (Ride di nuovo.)

        L’UOMO IN FRAK: Perché ho provato veramente un dispiacere.

        LA GIOVANE SIGNORA: Vuoi scommettere che indovino?

        L’UOMO IN FRAK: Che cosa?

        LA GIOVANE SIGNORA: Aspetta. L’hai provato per me o per te, il dispiacere?

        L’UOMO IN FRAK: Per te, e per me anche, appunto per la sorpresa che non ho po­tuto più fare.

        LA GIOVANE SIGNORA: E allora sì, ho indovinato. Per farti vedere che, di sorprese, tu non puoi farmene più. (Va dietro la seggiola, si china con le due braccia sulle spalle di lui, senz’abbracciarlo, ma intrecciando le mani davanti; e ac­costando la faccia a quella di lui.) Volevi proprio regalarmelo, quel vezzo di perle?

        L’UOMO IN FRAK: Sono entrato dal giojelliere per comprarlo. (Poi, di scatto, sor­preso:) Ma dunque tu sapevi ch’era stato venduto?

        LA GIOVANE SIGNORA: Sì, caro. Per questo ho potuto indovinare.

        L’UOMO IN FRAK: E come lo sapevi?

        LA GIOVANE SIGNORA: Oh bella! Come? Jersera, passando, m’accorsi che nella vetrina non c’era più.

        L’UOMO IN FRAK: Fino alle quattro c’era! Lo vidi io!

        LA GIOVANE SIGNORA: Ah no, io son passata più tardi, verso le sette: non c’era più.

        L’UOMO IN FRAK: Strano. Perché mi hanno detto che è stato venduto proprio questa mattina.

        LA GIOVANE SIGNORA: Ah – hai domandato?

        L’UOMO IN FRAK: Ero entrato – ti dico – per comperare. E m’hanno detto ap­punto, questa mattina.

        LA GIOVANE SIGNORA (simulando una perfetta indifferenza): A chi? non te l’hanno detto?

        L’UOMO IN FRAK (senza il minimo sospetto, e perciò senza dare la minima im­portanza alla domanda di lei): Sì – a un signore – m’hanno detto. (Tirandola davanti a sé.) Ma tu, scusa, se hai potuto – sentendo del mio dispiacere – in­dovinare così presto che si trattava di quelle perle, è segno che ci pensavi.

        LA GIOVANE SIGNORA: No no…

        L’UOMO IN FRAK: Come no? – e che t’aspettavi ch’io te le portassi.

        LA GIOVANE SIGNORA: Oh Dio, ho saputo che tu giuochi da parecchie sere al Circolo con una vena incredibile…

        L’UOMO IN FRAK: Sì, – e sai perché? (io ne ho la certezza) – per l’accensione in cui mi ha messo il desiderio che tu m’avevi manifestato di quelle perle – un vero estro, lucidissimo – che m’ha assistito e non m’ha fatto fallire nessun colpo.

        LA GIOVANE SIGNORA: Hai vinto molto?

        L’UOMO IN FRAK: Molto, sì. (Con sincero trasporto:) E tu ora m’ajuterai a cer­care qualche altra cosa bella – bella bella – per te, che ti piaccia molto…

        LA GIOVANE SIGNORA: No! No!

        L’UOMO IN FRAK: Sì – per farmi passare il dispiacere di non averti potuto questa volta contentare.

        LA GIOVANE SIGNORA: Ma no, caro, io non ho mai pensato sul serio a quelle perle, che le potessi avere da te… Fu soltanto, così, un capriccio momentaneo, quella sera, passando… No no, io voglio esser buona.

        L’UOMO IN FRAK: Lo so – lo so che tu sei buona – tanto – con me. – Ma tutta la mia vincita di queste sere è tua, proprio tua, te lo posso assicurare: la debbo a te unicamente.

        LA GIOVANE SIGNORA: Tanto meglio! E sono allora più che mai contenta così – che io t’abbia fatto vincere, e che tu non abbia più trovato quelle perle. Non ne parliamo più, per piacere. (Si sente picchiare all’uscio, e subito dopo entra il cameriere recando sul vassojo tutto l’occorrente per il tè.) Ecco il tè. Prendiamo il tè. (Il cameriere deporrà il vassojo su un tavolinetto basso di lacca presso la mensola, e lo trasporterà davanti al divano. Prima che co­minci a disporre il servizio, la Giovane Signora dirà:) Lasciate. Faccio io. Il cameriere s’inchina ed esce.

        L’UOMO IN FRAK (alieno, come per dire qualche cosa): Oh, sai? M’hanno detto che è ritornato da Giava…

        LA GIOVANE SIGNORA (versando il tè): Sì sì, lo so…

        L’UOMO IN FRAK: Ah, l’hanno detto anche a te?

        LA GIOVANE SIGNORA: Sì, l’altra sera. Non ricordo più chi…

        L’UOMO IN FRAK: Pare che abbia fatto là molti soldi…

        LA GIOVANE SIGNORA: Latte o limone?

        L’UOMO IN FRAK: Latte – Grazie.

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