Sgombero – Audio lettura 3

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Legge Giuseppe Tizza
«Viene una guardia: «Proibito dormire sulla strada». E allora dove? «Sgombrate!» Tu non sgombri. Niente paura. Qualcuno, se proprio non vuoi, ci penserà a farti sgombrare. Avrà pur diritto, chi non ha più casa, a un posto dove stare, sulla terra.»

Prima pubblicazione: Appendice I, 1938.

Sgombero audiolibro
Immagine dal Web

Sgombero

Voce di Giuseppe Tizza

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             Squallida stanza a terreno. Un lettuccio su cui giace rigido, ma non ancora composto nel consueto atteggiamento dei morti, il cadavere d’un vecchio, con la barba messa da malato e i globi degli occhi stravolti, quasi trasparenti sotto le palpebre esili come veli di cipolla. Le braccia fuori delle coperte e le mani giunte sul petto. Il letto ha la testata contro la parete, e un Crocefisso è appeso al capezzale. Accanto al letto è un tavolinetto da notte con qualche bicchiere di medicinale, una bottiglia e un candeliere di ferro. Nel mezzo, un usciolo semiaperto; e più là, un antico canterano con l’impiallacciatura crepacchiata, con su qualche rozza suppellettile. Inginocchiata alla sponda destra del letto e arrovesciata su esso con tutto il busto e la faccia e le braccia lungo distese, è la vecchia moglie del morto, vestita di nero, con un fazzoletto violaceo in testa. Non dà segno di vita. Davanti all’usciolo semiaperto è una ragazzina di otto o nove anni, del vicinato, con gli occhi sbarrati e un dito alla bocca, in sgomenta contemplazione del cadavere. Nell’ombra dell’andito, attraverso la semiapertura dell’usciolo, s’intravedono uomini e donne del vicinato che spiano e non osano entrare. Nella parete destra è una finestra che dà sul cortile; e anche di qua s’intravedono, attraverso i vetri, altri visi di curiosi che spiano. Nella parete sinistra è un decrepito armadio di legno tinto, a due sportelli. Sedie impagliate; un tavolino.

             Si sente dall’andito la voce di Lora:

             – Fate largo! Lasciatemi passare!

             Entra.

             Ha poco più di vent’anni. Aria equivoca. Modi bruschi. Porta avvolto nella carta un cero, e in mano frutta di vivaci colori: arance, mele. Appena entrata, dice alla ragazza:

             – Ah, brava, t’han lasciata entrare? Così poi da grande ti rammenti quando hai visto un morto la prima volta. Vuoi anche toccarlo col ditino? No? E allora vattene!

             La prende e la mette fuori dell’uscio, dicendo a quelli dell’andito:

             – C’è un funerale di prima classe in capo alla via: l’ho visto io passando: tiro a quattro, cocchiere e famigli in parrucca bianca, una sciccheria! correte, correte a vederli! Amate il sudicio come le mosche?

             E tira a sé l’usciolo.

             – Ma già, l’ippopotamo… – esclama in mezzo alla stanza, scrollando le spalle. – Quando hai visto al Giardino Zoologico che Dio ha creato anche l’ippopotamo, di che ti vuoi più maravigliare? C’è l’ippopotamo, come c’è chi si piglia le bambine e poi le ammazza; e c’è chi deve far la sgualdrina, e chi ti butta in mezzo alla strada. E le mosche. Le mosche.

             Posa sul canterano il cero e la frutta. Gli occhi le vanno allora a quegli altri che stanno a spiare dai vetri della finestra. Vi corre, irritata:

             – Ma guarda, anche qua, appiccicate ai vetri!

             Appena apre la finestra, quelli scappano via. E allora lei si sporge a gridar fuori:

             – Ma sì, ma sì, sono io! Che peste, eh, Bigiù? Ma mi sai dire perché sei da più di me tu? perché vendi a casa all’ingrosso, a pezze intere, e io faccio la mercantina di strada e vendo a metro? Che vuoi! Tu l’assaggi ancora col pollice e l’indice la stoffa; io non l’assaggio più, stoffetta di liquidazione. Va’, va’ su, che la scala può darsi che toccherà di scenderla anche a te. Allegra, comare! Siamo entrati in due, a braccetto, stamattina, la Morte e il Disonore, già, il Disonòòòre! Ma guarda che faccia! Toh, cara, aspetta: ti butto una meluccia.

             Prende una mela rossa dal canterano e fa per gettarla alla ragazzina messa fuori poc’anzi.

             – Scappi? Non la vuoi! Be’, me la mangio io.

             L’addenta e richiude la finestra, facendo, subito dopo, l’atto di turarsi il naso:

             – Fffff, questo puzzo ardente di lavatojo! Guarda sul letto il cadavere del padre:

             – Mangio, sì, mangio, e mi possa far veleno! Digiuna da jeri. Le mani, eh, ora non le stacchi più! Certi schiaffoni! E mi sputavi anche in faccia, m’acciuffavi pei capelli, mi sbattevi di qua e di là a furia di pedate! Ragazzina, che vuoi? ne sapevo già più d’un’immagine sacra a capo del letto. Ora le tieni l’una sull’altra, così sul petto, le mani, fredde come la pietra.

             Va a scuotere per la spalla la madre.

             – Su, mamma: sei digiuna da jeri anche tu: bisogna che prenda qualche cosa. D’improvviso ha il dubbio che non le abbiano reso giusto il resto, e fa il conto:

             – Quattro e otto, dodici, e cinque, diciassette. Aspetta. Che altro ho comprato ? Ah, già, da quell’imbecille, la frutta. Vendeva gli uccellini a mazzo, legati pei fori del becco, e me li ha sbattuti in faccia, mascalzone, senza neppur vedere che portavo un cero.

             Sobbalza, sovvenendosene:

             – Ah già, il cero.

             Lo va a prendere dal canterano e lo scartoccia.

             – Perché non si dica che non te l’abbiamo acceso. Prende il candeliere di ferro dal tavolinetto da notte.

             – Speriamo che lo regga.

             Pianta il cero nel bocciolo del candeliere.

             – Toh, guarda, come fatto su misura.

             C’è sul tavolinetto una scatola di fiammiferi. Accende il cero e lo posa lì.

             – Ardere e sgocciolare: bella professione. Come le vergini.

             – Tu lo vedi? No. E neppure i santi di legno su l’altare. Ma noi li vediamo illuminati i santi, e c’inginocchiamo. E tutta fede, la fabbrica dei ceri. Ora crediamo che tu stia godendo di là. Ma non lo dai a vedere, poveretto. Su, mamma, oh: bisognerà pur vestirlo prima che s’indurisca. Piangi, sì, seguita a piangere. Bella professione anche la tua, lì buttata per morta anche tu. Bisogna far presto. È grazia che abbiano aspettato che morisse. Vogliono fuori tutto prima di sera. E alle quattro verranno quelli della Misericordia. Non daranno neanche al cero il tempo di consumarsi tutto.

             Guarda il cero acceso, poi alza gli occhi al Crocefisso appeso al muro.

             – Ah, il Crocefisso tra le mani.

             Va all’altra sponda del letto; accosta una sedia e vi monta; stacca il Croce; fisso; lo tiene un po’ tra le mani:

             – Ah Cristo! I poveri che ricorrono a Te… L’hai fatto apposta! Chi può avere più il coraggio di lagnarsi della sua sorte con Te, e di tutto il male che gli altri gli fanno, se Tu stesso senza peccato Ti sei lasciato mettere in croce con le braccia aperte, Cristo! La speranza che si godrà di là, sì. La fiamma di questo cero da quattro soldi.

             Salta dalla sedia e mette il Crocefisso tra le mani del morto, dicendo alla madre:

             – Oh, bada che gli si sono davvero indurite: tu non lo vesti più, o bisognerà spaccar di dietro la giacca per infilargli le maniche di qua e di là. Ah, non vuoi muoverti? Aspetti che ti prendano per un braccio e ti buttino fuori della porta? Be’, guarda!

             Prende la sedia e vi si siede.

             – Mi metto ad aspettare anch’io che venga uno spazzino con la pala e la scopa a buttarmi sul carretto delle immondizie. Beato chi s’è levato il pensiero di muoversi; anche di qui là, anche d’alzare una mano per portarsi un boccone alla bocca! Tanto poi, alla fine, hai ragione, tutto si fa da sé, quando non hai più voglia di nulla. Entrano, ti tirano per le braccia a rimetterti in piedi; tu non ci stai; ma non ti confondere, se non ti ci vogliono, non ti danno neanche il tempo d’abbatterti, t’allungano una pedata o ti tirano uno spintone alle spalle e ti mandano a ruzzolare nella strada. Gli stracci, il letto col morto, il cante­rano, tutto in mezzo alla strada: se lo pigli chi vuole! E tu lì per terra, bocconi, come ora sul letto, tra la gente che si ferma a guardarti. Viene una guardia: «Proibito dormire sulla strada». E allora dove? «Sgombrate!» Tu non sgombri. Niente paura. Qualcuno, se proprio non vuoi, ci penserà a farti sgombrare. Avrà pur diritto, chi non ha più casa, a un posto dove stare, sulla terra: su un paracarro come un fantoccio posato; su un gradino di chiesa; su un sedile di giardino; accorrono i bambini: sì, la nonnina. Che dici, bello mio? Cecce? Non ti capisco. Ah, ti vuoi mettere a cecce qua con me? Babba non vuole. Va’ a vedere i pesciolini nella vasca. Rossi, sì. Uh, Dio sia lodato! Poi ti metti con la mano così, e qualcuno passando ti butterà un soldo o un tozzo di pane. Ma io no, sai; guarda: puh, uno sputo! La mano, io, piuttosto che a chiedere, la stendo a graffiare, rubare, ammazzare; e poi, sì, la galera: da mangiare e dor­mire gratis.

Si alza, esasperata, e va a dire al padre:

             – M’approfitto che non puoi più sentire e mi sfogo per tutti gli schiaffi che mi desti. Non lo volesti mai capire come fu, che ci si può arrivare senza saperlo, quando meno ci pensi, che ti ci trovi preso, mentre piangi e ti disperi, perché il tuo corpo, toccato senza intenzione, ha sentito da sé una dolcezza che ti si fa viva in mezzo alla disperazione e te l’avvampa, tutt’a un tratto, insieme con tutte le cose che non vedi più, cieco, abbracciato e disperato, in un piacere che non t’aspettavi. Fu così. Fu così. Qua. Me lo lasciasti tu, qua, tuo nipote tradito dalla moglie. Piangeva, seduto qua su questo stesso letto; gli presi così la testa per confortarlo; si mise a smaniare, a frugarmi con la faccia sul petto: eh, donna, così, che ci si debba sentir piacere, non mi sono fatta da me! S’accese il sangue a tutt’e due; e anche lui, dopo, rimase lì steso come morto, dallo spavento d’avermi avuta. E poi se ne tornò dalla moglie consolato, vigliacco! d’aver conosciuto da me, disse, che tutte le donne, tanto, sono uguali, e oneste non ce n’è; uguali come gli uomini, la stessa carne; e che dunque non c’è perché – disse – se lo fa un uomo tante volte, e non è nulla, se lo fa poi la donna, una volta, debba parer tanto da considerarla perduta per sempre. «Infine, ti sei preso un piacere anche tu!» Vigliacco, e il figlio? Per te non fu nulla; ma per me… Ah, padre, sei morto e ti perdono, ma se mi sono dannata così, lo debbo a te. Tutti uniti nel giudizio d’una donna, voi uomini: tutti: non c’è padre; non c’è fratelli; anzi loro, i più feroci. E il più feroce di tutti fosti tu, che mi buttasti come una cagna sulla strada. Ma io così, guarda, mi levai lagrime e sputi dalla fàccia, e la presentai al primo che passò. La strada, la rabbia di gettarti in faccia la vergogna che non volesti tenere nascosta. Ma poi il figlio, il figlio… Non è vero quello che si dice; sarà vero dopo, ma prima no; sentirselo, cosa spaventosa! E poi quando nasce… È vero dopo; la creaturina che ti cerca… Te lo venni a lasciare qua, d’otto mesi, una notte, dietro la porta, nella cesta del suo corredino. Dev’esserci ancora, il corredino; o l’avete venduto? Dio, ti ringrazio d’essertelo preso con Te così bambino! Su su, vestiamo lui adesso!

             Va ad aprire l’armadio; ne cava un abito di panno marrone appeso alla gruc­cia. Si volta alla madre:

             – È vero che l’addormentava lui, ogni sera, con quella canzone… com’era? che la cantavi anche tu, a me bambina. Me lo vennero a dire, una notte che pioveva, uno che passò di qua e lo sentì dal cortile. E poi voleva da me… capisci? dopo avermi detto questo!

             Guarda l’abito del padre che ha ancora in mano; l’esamina:

             – Oh, ma quest’abito è ancora buono. Quasi quasi… Tanto, se ha già fatto la sua comparsa davanti a Dio, per quelli che tra poco se lo verranno a prendere, che gli serve più l’abito? E tu, stretta come sei… qua c’è dell’altra roba… potresti intenderti con un rigattiere. Oh, mi senti? Bisogna far fagotto! Ci sarà altra roba nel canterano…

             Va al canterano; ne apre il primo cassetto; rovista dentro: stracci. Apre il se­condo; non c’è nulla. Apre il terzo: c’è il corredino.

             – Ah, è qui.

             Lo guarda. S’accascia a terra. Ne tira fuori qualche capo: una fascia arroto­lata, una carnicina, un bavaglino; poi alla fine, una cuffietta: introduce una mano a pugno chiuso nel cavo di essa, e come se cullasse un bimbo si mette a canticchiare con una voce lontana la vecchia canzone della madre. E mentre canta, tutto a mano a mano s’oscura, finché, spenta ogni luce, si vede soltanto la fiamma del cero.

             Silenzio.

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