Prime pubblicazioni: Il Marzocco, 7 maggio 1905, poi in La vita nuda, Treves 1910. «Abbandonata su una poltrona, con gli occhi chiusi, senza più forza neanche di sollevare un dito, udiva intanto di là, nella saletta da pranzo, conversare lietamente le tre sorelle col marito, e si struggeva dall’invidia.» |
Novella dalla Raccolta “La vita nuda” (1922)
Senza malizia – Audio lettura 1 – Legge Lorenzo Pieri
Senza malizia – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
Senza malizia – Audio lettura 3 – Legge Valter Zanardi
Senza malizia – Audio lettura 4 – Legge Giuseppe Tizza
11. Senza malizia – 1905
I. Quando Spiro Tempini, con le lunghe punte dei baffetti insegate come due capi di spago lì pronti per passar nel foro praticato da una lesina, facendo a leva di continuo con le dita sui polsini inamidati per tirarseli fuor delle maniche della giacca; timido e smilzo, miope e compito, chiese debitamente alla maggiore delle quattro sorelle Margheri la mano di Iduccia, la minore, e se ne andò con quelle piote ben calzate ma fuori di squadra e indolenzite, inchinandosi più e più volte di seguito; tanto Serafina, quanto Carlotta, quanto Zoe, quanto Iduccia stessa rimasero per un pezzo quasi intronate.
Ormai non s’aspettavano più che a qualcuno potesse venire in mente di chieder la mano d’una di loro. Dopo essersi rassegnate a tante gravi sciagure, alla rovina improvvisa e alla conseguente morte per crepacuore del padre, poi a quella della madre, e quindi a dover trarre profitto dei buoni studii compiuti per arricchire squisitamente la loro educazione signorile, s’erano anche rassegnate a rimaner zitelle.
Veramente, certe loro amiche carissime non volevano credere a quest’ultima rassegnazione, perché pareva loro che le Margheri, da un pezzo, si fossero come impuntate: Serafina a trent’anni; Carlotta, a ventinove; Zoe a ventisette; Ida a venticinque. Il tempo passava, cominciava a urtarle un po’ sgarbatamente alle spalle; invano. Lì, ferme ostinatamente su la triste soglia di quegli anni oltrepassati, che stavano ad aspettare? Eh via, qualcuno che le inducesse finalmente a muoversene, ad andare innanzi non più sole. Quando queste care amiche sentivano dalle tre sorelle maggiori chiamar per nome l’ultima, si confessavano che faceva loro l’effetto che la chiamassero da lontano, da molto lontano, Iduccia. Perché, a conti fatti, Ida, via! doveva aver per lo meno ventotto anni.
Intanto, ajutate da amici autorevoli, rimasti fedeli dopo la rovina, le Margheri erano riuscite col lavoro, cioè impartendo lezioni particolari di lingue straniere (inglese e francese), di pittura ad acquerello, d’arpa e di miniatura, a tener su intatta la casa, che attestava con l’eleganza sobria e semplice della mobilia e della tappezzeria l’agiatezza in cui eran nate e di cui avevano goduto; e andavano ancora a concerti e a radunanze, accolte dovunque con molta deferenza e con simpatia per il coraggio di cui davano prova, per il garbo disinvolto con cui portavano gli abiti non più sopraffini, per le maniere gentili e dolcissime e anche per le fattezze graziose e tuttora piacevoli. Erano magroline (forse un po’ troppo; spighite, dicevano i maligni) e di alta statura tutt’e quattro; Ida e Serafina, bionde; Carlotta e Zoe, brune.
Certamente era una bella soddisfazione per loro poter bastare a se stesse col proprio lavoro. Avrebbero potuto morir di fame, e non morivano. Si procuravano da mangiare, da vestir discretamente, da pagar la pigione. E quelle care amiche che avevano marito e le altre che avevano il fidanzato o facevano all’amore si congratulavano tanto con esse di questo bel fatto; e quelle promettevano che avrebbero mandato presto la piccola Titti o il piccolo Cocò a studiar l’arpa o la pittura ad acquerello; e le altre per miracolo, nelle effusioni d’affetto e d’ammirazione, non promettevano che si sarebbero affrettate a mettere al mondo un figliuolo, una figliuola, per avere anch’esse il piacere d’ajutare le coraggiose amiche a provvedersi da vestir discretamente, da pagar la pigione e non morire di fame.
Ma ecco intanto questo signor Tempini, piovuto dal cielo.
Ci volle un bel po’, prima che le quattro sorelle rinvenissero dallo stupore. Conoscevano il Tempini soltanto da pochi mesi; lo avevano veduto, sì e no, una dozzina di volte nei salotti ch’esse frequentavano; né pareva loro ch’egli avesse mai manifestato in alcun modo – timido com’era, e impensierito sempre di quei piedi troppo grossi, ben calzati e indolenziti – d’aver qualche mira su esse.
Quasi quasi, dopo tanta vana e smaniosa attesa, quella richiesta così improvvisa e insperata le contrariava; le insospettiva.
Che considerazioni aveva potuto far costui nel venirsi a cacciare, così a cuor leggero, con quell’aria smarrita, tra quattro ragazze sole, senza dote, senza stato se non precario, o almeno molto incerto, unite fra loro, legate inseparabilmente dall’ajuto che eran costrette a prestarsi a vicenda? Che s’era immaginato? Come s’era indotto? Che aveva fatto Iduccia per indurlo?
– Ma niente! vi giuro: nientissimo! – badava a protestare Iduccia infocata in volto.
Le sorelle dapprima si mostrarono incredule; tanto che Iduccia si stizzì e dichiarò finanche che non voleva saperne, perché le era antipatico, ecco, antipaticissimo quel… come si chiamava? Tempini.
Eh via! eh via! Antipatico? Perché? Ma no! – Giovane serio, – disse Serafina; – giovane colto, – disse Carlotta; laureato in legge, – disse Zoe; e Serafina aggiunse: – Segretario al Ministero di Grazia e Giustizia; – e Carlotta: – Libero docente di… di… non ricordo bene di che cosa, all’Università di Roma.
E lo conoscevano appena le sorelle Margheri!
Zoe finanche si ricordò che il Tempini aveva tenuto una volta una conferenza al Circolo Giurìdico: sì, una conferenza con projezioni, in cui si mostravano le impronte digitali dei delinquenti – ricordava benissimo – anzi la conferenza era intitolata: Segnalamenti dactiloscopici col rilievo delle impronte digitali.
Del resto, Serafina e Carlotta avrebbero domandato maggiori ragguagli, si sarebbero consigliate con gli amici autorevoli, non perché dubitassero minimamente del Tempini, ma per far le cose proprio a modo.
II. Tre giorni dopo, Spiro Tempini fu accolto in casa, e quindi presentato nelle radunanze quale promesso sposo di Iduccia.
Di Iduccia soltanto? Pareva veramente il promesso sposo di tutt’e quattro le Margheri; anzi, più che di Iduccia, delle altre tre; perché Iduccia, vedendo così naturalmente partecipi le sorelle della soddisfazione, della gioja che avrebbero dovuto esser sue principalmente, s’irrigidiva in un contegno piuttosto riserbato, e faceva peggio; che quelle, supponendo ch’ella non riuscisse ancora a vincere la prima, ingiusta antipatia per il Tempini, ritenevano che fosse loro dovere compensarlo di quella freddezza, opprimendolo di cure, d’amorevolezze, così che egli non se n’accorgesse.
– Spiro, il fazzoletto da collo! Avvolgiti bene, mi raccomando. Hai la voce un po’ rauca.
– Spiro, hai le mani troppo calde. Perché?
Poi ciascuna gli aveva chiesto un piccolo sacrifizio. Zoe:
– Per carità, Spiro, non t’insegare più codesti baffetti. Carlotta:
– Se fossi in te, Spiro, me li lascerei un po’ più lunghetti i capelli. Non ti pare, Iduccia, che pettinati così a spazzola gli stieno male? Meglio con la scriminatura da un lato. Alla Guglielmo.
E Serafina:
– Iduccia dovrebbe farti smettere codesti occhiali a staffa. Da notajo, Dio mio, o da professore tedesco! Meglio le lenti, Spiro! Un pajo di lenti, e senza laccio, mi raccomando! Apincenez.
Alle piote, nessun accenno. Erano irrimediabili.
In men d’un mese Spiro Tempini diventò un altro. I maligni però lo commiseravano a torto, perché egli, cresciuto sempre solo, senza famiglia, senza cure, era felicissimo tra quelle quattro sorelle tanto buone e intelligenti e animose, che lo vezzeggiavano e gli stavano sempre attorno a domandargli ora una notizia, ora un consiglio, ora un servizietto.
– Spiro, chi è Bacone?
– Per piacere, Spiro, abbottonami questo guanto.
– Auff, che caldo! Ti seccherebbe, Spiro, di portarmi questa mantellina?
– Oh di’, Spiro, sapresti regolarmi quest’orologino? Va sempre indietro… Iduccia, zitta. Sospettare delle sorelle, questo no, neanche per ombra; ma certo cominciava a essere un po’ stufa di tutto quello sfoggio di civetteria senza malizia. Avrebbero dovuto comprenderlo le sorelle, che diamine! avvedersi che il Tempini, essendo per natura così timido e servizievole, e standogli esse così d’attorno senza requie, tre pittime, la trascurava per badare a loro. Non gli lasciavano più né tempo né modo non che d’accostarsi a lei, ma neanche di respirare. Spiro di qua, Spiro di là… Avrebbe dovuto aver quattro braccia quel poveretto per offrirne uno a ciascuna e altrettante mani per pigliarsele tutte e quattro. Le seccava poi maggiormente che esse, con le loro manierine, quasi quasi lo costringevano ogni volta a portar quattro regali invece di uno.
Ma sì! Gli facevano tanta festa, ogni volta, che egli, per paura che rimanessero poi deluse, si guardava bene dal recarne qualcuno particolare a lei ch’era la fidanzata.
Non parlava, Iduccia, ma certe bili ci pigliava a quello spettacolo di vezzi e di premure! Così, santo Dio, egli avrebbe potuto chiedere senz’altro la mano di Zoe, o di Carlotta, o anche di Serafina… Perché aveva chiesto la sua?
Iduccia aspettava dunque con molta impazienza, quantunque senza il minimo entusiasmo, il giorno delle nozze, sperando bene che, in tal giorno almeno, una certa distinzione egli finalmente avrebbe dovuto farla.
III. Avvenne un contrattempo spiacevolissimo.
Per fare il viaggio di nozze, Spiro Tempini aveva sollecitato al Ministero di Grazia e Giustizia un lavoro straordinario. Non ostante l’amore e il gran da fare che gli davano le tre future cognatine, lo aveva condotto a termine con quella minuziosa diligenza, con quello zelo scrupoloso che soleva mettere in tutti i lavori d’ufficio e negli studii pregiatissimi di scienza positiva. Contava che questo lavoro gli fosse retribuito pochi giorni prima di quello fissato per le nozze; ma, all’ultimo momento, quando già tutto era disposto per la celebrazione del matrimonio, stampate le partecipazioni, spiccati gli inviti, il decreto ministeriale era stato respinto dalla Corte dei Conti per vizio di forma.
Spiro Tempini parve lì lì per cader fulminato da una congestione cerebrale. Lui, di solito così timido, così ossequente, così misurato nelle espressioni, si lasciò scappare parole di fuoco contro la burocrazia, contro l’amministrazione dello Stato, anche contro il Ministro, contro tutto il Governo, che gli mandava a monte il viaggio di nozze. Non per il viaggio di nozze in se stesso; ma perché si vedeva costretto a venir meno a un riguardo di delicatezza verso le tre cognatine nubili.
S’era stabilito (anzi non s’era messo neanche in discussione) ch’egli avrebbe fatto casa comune con esse; sì, ma santo Dio, almeno la prima notte non avrebbe voluto rimanere lì, sotto lo stesso tetto. S’immaginava l’imbarazzo, per non dir altro, di quelle tre povere ragazze, quando, andati via tutti gl’invitati, finita la festa, lui e Iduccia… Ah! Ci sudava freddo. Sarebbe stato un momento terribile, uno strappo a tutte le convenienze, un angoscioso tormento di tutta la notte… Come la avrebbero passata quelle tre povere anime, con la sorellina divisa da loro per la prima volta, di là, in un’altra camera con lui?
Invano Spiro Tempini, per rimediarvi, pregò, scongiurò Iduccia, che si contentasse d’un viaggetto di pochi giorni, pur che fosse, d’una giterella a Frascati o ad Albano. Iduccia – forse perché non capiva ed egli non osò di farla anzi tempo capace – Iduccia non volle saperne. Le parve un ripiego meschino e umiliante. Là, là, meglio rimanere a casa.
Il Tempini diede un’ingollatola e arrischiò:
– Dicevo per… per le tue sorelle, ecco…
Ma la sposina, che si teneva già da un bel pezzo, gli piantò tanto d’occhi in faccia e gli domandò:
– Perché? Che c’entrano le mie sorelle? Ancora?
E chi sa che altro avrebbe aggiunto Iduccia, nella stizza, se non fosse stata una ragazza per bene, che doveva figurare di non capir nulla fino all’ultimo momento.
Fu però una bella festa; non molto vivace, perché si sa, l’idea delle nozze richiama alla mente di chi abbia un po’ di senno e di coscienza non lievi doveri e responsabilità; ma degna tuttavia e decorosa, soprattutto per la qualità degli invitati. Spiro Tempini, che teneva più alla libera docenza che al posto di segretario al Ministero di Grazia e Giustizia, perché credeva di contare in fine qualche cosa fuori dell’ufficio, invitò pochi colleghi e molti professori d’Università, i quali ebbero la degnazione di parlare animatamente di studii antropologici e psicofisiologici e di sociologia e d’etnografia e di statistica.
Poi il «momento terribile» venne, e fu, pur troppo, quale il Tempini lo aveva preveduto.
Quantunque volessero sembrar disinvolte, le tre sorelle e anche Iduccia stessa vibravano dalla commozione. Avevano trattato finora con la massima confidenza il Tempini; ma quella sera, che impaccio! che senso, nel vederlo rimanere in casa, con loro; lui solo, uomo; già nel pieno diritto d’entrare in una intimità che, per quanto timida in quei primi istanti e imbarazzata, avventava.
Profondamente turbate, con gli occhi lampeggianti, le tre sorelle guardavano la sposa e le leggevano negli occhi la stessa ambascia che strizzava le loro animucce non al tutto ignare, certo, ma perciò anzi più trepidanti.
Iduccia si staccava da loro; cominciava da quella sera ad appartenere più a quell’estraneo che ad esse. Era una violenza che tanto più le turbava, quanto più delicate eran le maniere con cui si manifestava finora. E poi? Boi Iduccia, lei sola, tra breve, avrebbe saputo…
Le s’accostarono, sorridendo nervosamente, per baciarla. Subito il sorriso si cangiò in pianto. Due, Serafina e Carlotta, scapparono via nella loro camera senza neanche volgersi a guardare il cognato; Zoe fu più coraggiosa: gli mostrò gli occhi rossi di pianto e, alzando il pugno in cui teneva il fazzoletto, gli disse tra due singhiozzi:
– Cattivo!
IV. Ma era destino che Iduccia non dovesse godere della distinzione che il Tempini, finalmente, aveva dovuto fare tra lei e le sorelle. La pagò, e come! questa distinzione, la povera Iduccia. Può dirsi che cominciò a morire fin dalla mattina dopo.
Il Tempini volle dare a intendere tanto a lei quanto alle sorelle, che non era propriamente una malattia.
– Disturbi, – diceva alle cognatine, afflitto ma non impensierito. Alla moglie diceva:
– Eh, troppo presto, Iduccia mia! troppo presto! Basta. Pazienza.
Ma Iduccia soffriva tanto! Troppo soffriva. Non aveva un momento solo di requie. Nausee, capogiri, e una prostrazione così grave di tutte le membra che, dopo il terzo mese, non potè più reggersi in piedi.
Abbandonata su una poltrona, con gli occhi chiusi, senza più forza neanche di sollevare un dito, udiva intanto di là, nella saletta da pranzo, conversare lietamente le tre sorelle col marito, e si struggeva dall’invidia. Ah che invidia rabbiosa le sorgeva man mano per quelle tre ragazze, che le pareva ostentassero innanzi a lei, così sconfitta, con tutti i loro movimenti, le corse pazze per le stanze, quasi una loro vittoria: quella d’esser rimaste ancora agili e salde nella loro verginità.
Era tanto il dispetto, che quasi quasi credeva il suo male provenisse principalmente dal fastidio ch’esse le cagionavano con la loro vista e le loro parole.
Ecco, ridevano, sonavano l’arpa, si paravano, come se nulla fosse, senza alcun pensiero per lei che stava tanto male.
Ma non era giusto? non era naturale?
Lei aveva marito: esse non l’avevano; bisognava dunque ch’ella ne piangesse pure le conseguenze.
Spiro, del resto, le tranquillava; diceva loro che non c’era da darsene pensiero. La lieve afflizione che potevano sentire per il malessere di lei era poi bilanciata dalla gioja d’aver presto un nipotino, una nipotina. Ed era tale questa gioja, ch’esse stimavano finanche ingiusti, talvolta, i lamenti e i sospiri di lei.
Ah, in certi giorni, l’invidia di Iduccia, nel veder le tre sorelle come prima, più di prima attorno al marito, tre pecette addirittura, s’inveleniva, fino a diventar vera e propria gelosia.
Poi si calmava, si pentiva dei cattivi pensieri; diceva a se stessa ch’era giusto infine che, non potendo lei, badassero almeno loro a Spiro. E forse, chi sa! ci avrebbero badato sempre loro, tutte e tre vestite di nero.
Perché lei sarebbe morta. Sì, sì: lo sentiva. N’era sicurissima! Quell’esserino che man mano le si maturava in grembo, le succhiava a filo a filo la vita. Che supplizio lento e smanioso! Se la sentiva proprio tirare, la vita, a filo a filo, dal cuore. Sarebbe morta. Le tre sorelle avrebbero fatto loro da madre alla sua creaturina. Se femmina, l’avrebbero chiamata Iduccia, come lei. Poi, passando gli anni, nessuna delle tre avrebbe più pensato a lei, perché avrebbero avuto un’altra Iduccia, loro.
Ma il marito? Per lui non poteva essere la stessa cosa, quella bambina. Egli forse… quale delle tre avrebbe scelto?
Zoe? Carlotta? Serafina?
Che orrore! Ma perché ci pensava? Tutte e tre insieme, sì, avrebbero potuto far da madre alla sua creaturina; ma se egli ne sceglieva una… Zoe, per esempio, ecco Zoe, no, non sarebbe stata una buona madre, perché avrebbe avuto da attendere ad altri figliuoli, ai suoi; e alla piccina orfana avrebbero allora badato con più amore Carlotta e Serafina, quelle cioè ch’egli non avrebbe scelto.
Ecco dunque: se lo faceva per il bene della sua piccina, Spiro non avrebbe dovuto sceglierne alcuna. Non poteva forse rimanere lì, in casa, come un fratello?
Glielo volle domandare Iduccia, pochi giorni prima del parto, confessandogli la gran paura che aveva di morire e i tristi pensieri che l’avevano straziata durante tutti quei mesi d’agonia.
Spiro le diede su la voce, dapprima; si ribellò; ma poi cedendo alle insistenze di lei – ch’eran puerili, via! come quel timore – dovette giurare.
– Sei contenta, ora?
– Contenta…
Tre giorni dopo, Iduccia morì.
V. Ma potevano mai pensare sul serio le tre sorelle superstiti di prendere il posto della sorellina morta, che aveva lasciato un così gran vuoto nel loro cuore e nella casa? Come sospettarlo? Ma nessuna delle tre!
Ecco, faceva male Zoe, anzi, a mostrar troppo il compianto e la tenerezza per la povera piccina orfana.
Serafina e Carlotta, più riserbate, più chiuse, quasi irrigidite nel loro cordoglio, la richiamavano:
– Zoe!
– Perché? – domandava Zoe, dopo aver cercato invano di leggere negli occhi delle sorelle la ragione di quel richiamo.
– Lasciala stare, – le diceva freddamente Carlotta.
Serafina poi, a quattr’occhi, le consigliava di frenare un po’, ecco, quelle troppo vivaci effusioni d’affetto per la bambina.
– Ma perché? – tornava a domandare Zoe, stordita. – Quella povera cosuccia nostra!
– Va bene. Ma innanzi a lui…
– A Spiro?
– Sì. Frenati. Potrebbe parergli che tu…
– Che cosa?
– Capirai… La nostra condizione, adesso, è un po’… un po’ difficile, ecco… Finché c’era Iduccia…
Ah già! Zoe capiva. Finché c’era Iduccia, Spiro era come un fratello; ma ora che Iduccia non c’era più… Esse erano tre ragazze sole, costrette, per via di quella piccina, a convivere col cognato vedovo, e… e…
– Dobbiamo farlo per Iduccia nostra! – concludeva Serafina, con un pro fondo sospiro.
Poco dopo, però, Zoe, ripensandoci meglio, domandava a se stessa:
«Che cosa dobbiamo fare per Iduccia nostra? Poche carezze alla piccina? E perché? Perché Spiro, vedendo ch’io gliene faccio troppe, potrebbe supporre… Oh Dio! Com’è potuta venire in mente a Serafina una tale idea? Io?».
Così, tutte e tre, ora, si vigilavano a vicenda, quando Spiro era in casa e anche quando non c’era. E questa vigilanza puntigliosa e il rigido contegno scioglievano a mano a mano e facevano cader tutti i legami d’intimità che s’eran prima annodati fraternamente tra esse e il cognato.
Questi notò presto la freddezza; ma suppose in principio che dipendesse dal cordoglio per la recente sciagura. Poi cominciò ad avvertire negli sguardi, nelle parole, in tutte le maniere delle tre cognatine un certo ritegno quasi sospettoso, come una mutria impacciata, che distornava la confidenza.
Perché? Non intendevano più trattarlo da fratello?
Il gelo cresceva di giorno in giorno.
E anche Spiro allora si vide costretto a frenarsi, a ritrarsi.
Un giorno gli cascarono le lenti dal naso; e invece di comperarsene un altro pajo, inforcò gli occhiali a staffa già smessi per far piacere a Serafina.
La prima volta che gli toccò d’andare dal barbiere, gli disse che voleva smettere la pettinatura con la divisa da un lato, adottata per consiglio di Carlotta, e si fece tagliare i capelli a spazzola, come prima.
Non riprese a insegarsi i baffi, per non far supporre che, da vedovo, pensasse ancora ad aver cura della propria persona, quantunque Zoe però gli avesse detto che i baffi insegati gli stavano male.
Ma poi, notando che Serafina e Carlotta, a tavola, lanciavano qualche occhiata obliqua a quei baffi e poi si guardavano tra loro, temendo ch’esse potessero sospettare ch’egli intendesse usare qualche particolarità a Zoe, tornò anche a insegarsi i baffi come un tempo.
Così si ritrasse dall’intimità anche con la figura.
Tante cure – pensava – tante amorevolezze prima, e ora… Ma in che aveva mancato? Era forse lui cagione, se Iduccia era morta? Era stata una sciagura.
Egli la sentiva come loro, più di loro. Non avrebbe dovuto anzi affratellarli di più il dolore comune? Desideravano forse le sue cognate che si staccasse da loro e facesse casa da sé? Ma egli, rimanendo, aveva creduto di far loro piacere; le ajutava, e non poco; provvedeva lui quasi del tutto ormai al mantenimento della casa. E poi c’era la bambina. La piccola Iduccia. Non la aveva egli affidata alle loro cure? Ma ecco, notava intanto con grandissimo dolore che anche la piccina era trattata con freddezza, se non proprio trascurata.
Spiro Tempini non sapeva più che pensare. Prese il partito di trattenersi quanto più poteva fuori di casa, per pesare il meno possibile in famiglia. Da tanti segni gli parve di dovere argomentare che la sua presenza dava ombra e impicciava.
Ma il gelo crebbe ancor più. Ora Serafina diceva a Carlotta:
– Vedi? Non sta più in casa, il signore. Quel poco che ci sta: guardingo, impacciato. Chi sa che cova! Ah, povera Iduccia nostra!
Carlotta si stringeva nelle spalle:
– Che ci possiamo far noi?
– Eh già, – incalzava Serafina. – Vorrei sapere che cosa pretenderebbe da noi, con quella freddezza. Dovremmo forse buttargli le braccia al collo per trattenerlo? Dico la verità, non me lo sarei mai aspettato!
Carlotta abbassava gli occhi; sospirava:
– Pareva tanto buono… Ed ecco Zoe:
– Parlate di Spiro? Uomini, e tanto basta! Tutti gli stessi. Sono appena sei mesi, e già…
Altro sospiro di Carlotta. Sospirava anche Serafina, e aggiungeva:
– Mi tormenta il pensiero di quella povera creaturina.
E Zoe:
– E chiaro che a lui non basta esser trattato come possiamo trattarlo noi. E Carlotta, di nuovo con gli occhi bassi:
– Nella condizione nostra…
– Pensate, intanto, pensate, – riprendeva Serafina. – La nostra piccola Iduccia in mano a una estranea, a una matrigna!
Le tre sorelle fremevano a questo pensiero; si sentivano proprio fendere la schiena da certi brividi, che parevano rasojate a tradimento.
No, no, via! Un sacrifizio era necessario per amore della bambina. Necessità! Dura necessità! Ma quale delle tre doveva sacrificarsi?
Serafina pensava: «Tocca a me. Io sono la maggiore. Ormai qui non si tratta di fare all’amore. Più che una moglie per sé, egli deve scegliere una madre per la bambina. Io sono la maggiore; dunque, la più adatta. Scegliendo me, dimostrerà che non ha voluto far torto alla memoria di Iduccia. Siamo quasi coetanei. Ho solamente sei mesi più di lui».
«Tocca a me» pensava invece Zoe. «Son la minore; la più vicina a Iduccia, sant’anima! Egli allora aveva scelto l’ultima. Ora l’ultima sono io. Tocca dunque a me. Senz’alcun dubbio, se s’affaccia anche a lui la necessità di questo sacrifizio, sceglierà me.»
Carlotta poi, dal canto suo, non credeva d’esser meno indicata delle altre due. Pensava che Serafina era troppo attempatella e che, sposando Zoe, Spiro avrebbe dimostrato di badare più a sé che alla piccina. Le pareva indubitabile, dunque, che avrebbe scelto lei, piuttosto, che stava nel mezzo, come la virtù.
Ma Spiro? Che pensava Spiro?
Egli aveva giurato. E vero che non sempre chi vive può serbar fede al giuramento fatto a una morta. La vita ha certe difficoltà, da cui chi muore si scioglie. E chi si scioglie non può tener legato chi rimane in vita.
Se non che, quando per la prima volta Spiro Tempini s’era accostato improvvisamente alle quattro Margheri, la scelta aveva potuto farla lui. Ora, per stare in pace, capiva che avrebbero dovuto invece scegliere loro.
Ma come scegliere, Dio mio, se egli era uno ed esse erano tre?
Raccolta La vita nuda 01 – La vita nuda – 1907 02 – La toccatina – 1906 03 – Acqua amara – 1905 04 – Pallino e Mimì – 1905 05 – Nel segno – 1904 06 – La casa del Granella – 1905 07 – Fuoco alla paglia – 1905 08 – La fedeltà del cane – 1904 09 – Tutto per bene – 1906 10 – La buon’anima – 1904 11 – Senza malizia – 1905 12 – Il dovere del medico – 1902 13 – Pari – 1907 14 – L’uscita del vedovo – 1906 15 – Distrazione – 1907 |
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