1921 – Sei personaggi in cerca d’autore – Commedia da fare

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Un dramma che contiene in sé tutte le future evoluzioni e trasformazioni della drammaturgia e della ricerca contemporanea. Uno spettacolo che raffigura una metafora insuperabile della condizione dell’uomo moderno, in bilico tra realtà e apparenza, verità e finzione.

FONTE  Novelle «Personaggi» (1906) – «La tragedia di un personaggio» (1911) – «Colloqui coi personaggi» (1915)
STESURA ottobre 1920 – gennaio 1921
PRIMA RAPPRESENTAZIONE 10 maggio 1921  – Roma, Teatro Valle, Compagnia Dario Niccodemi, interpreti Vera Vergani e Luigi Almirante.

Approfondimenti nel sito:
Sezione Tematiche – Anna Maria Bonfiglio – L’impossibile verità dei “Sei personaggi” pirandelliani
Sezione Tematiche – Charlotte Gandi – Tesina – Per una lettura di «Sei personaggi in cerca d’autore»
Sezione Tematiche – Lucrezia Zipra – Sei personaggi in cerca d’autore – Messinscena
Sezione Tematiche – Michela Mastrodonato- La Divina Commedia “da fare”: Dante autore dei Sei Personaggi
Sezione Tematiche – Andrea Mazzola – Testo Teatrale – Sei autori in cerca d’un personaggio
Sezione Tematiche – Sarah Zappulla Muscarà – Il debutto shock dei “Sei personaggi”
Sezione Tematiche – Monica Canu – Pirandello e i personaggi rifiutati da un autore scomparso
Sezione Tematiche – Biagio Lauritano – Riflessione – Sei personaggi in cerca d’autore: realtà o finzione?
Sezione Tematiche – Andrea Camilleri – Biografia del figlio cambiato: Il Padre nei Sei personaggi e il padre di Pirandello
Sezione Tematiche – Ivano Mugnaini – Il settimo personaggio: la sfida dell’immedesimazione nei lavori di Pirandello
Sezione Tematiche – Pirandello e Artaud. Una nota
Sezione Novelle – Personaggi
Sezione Novelle – La tragedia di un personaggio
Sezione Novelle – Colloquii coi personaggi
Sezione Video – Sei personaggi in cerca d’autore. 1965. Romolo Valli, Rossella Falk
Link esterni
Opere Letterarie del 900 Italiano – Introduzione e trama
Fogli d’arte (Blog) – Analisi

In English – Six characters in search of an author
En Español – Seis personajes en busca de autor

Premessa, Articolo
Prefazione dell’Autore
Personaggi, Inizio
Dopo la pausa
Si riapre il sipario

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Sei personaggi in cerca d'autore
Romolo Valli, Rossella Falk, Sei personaggi in cerca d’autore, 1965, La compagnia dei giovani. Immagine dal Web.

Uno dei testi più prestigiosi della tradizione teatrale italiana. Un dramma che contiene in sé tutte le future evoluzioni e trasformazioni della drammaturgia e della ricerca contemporanea. Uno spettacolo che raffigura una metafora insuperabile della condizione dell’uomo moderno, in bilico tra realtà e apparenzaverità e finzione. Un racconto di come vita e teatro possano incontrarsi su un palco, creando un magico e misterioso cortocircuito.

Premessa, analisi grafica e articolo

Premessa

Edizione di riferimento:  Luigi Pirandello, I romanzi, le novelle e il teatro, Collana I mammut, Newton Compton editori

       Raccontano i biografi di Pirandello (Frateili, Nardelli, Giudice) di come una volta dei muratori, che lavoravano davanti alle finestre della casa dello scrittore, sospendessero il lavoro per contemplare, stupiti e affascinati, quanto avveniva nel suo studio. Pirandello era alla scrivania, si era messo «a parlare da solo, gesticolare, strabuzzando gli occhi, e facendo le più strane facce del mondo» [1]. Che cosa avranno pensato quegli operai? Che il famoso drammaturgo, evidentemente pazzo, fosse stato forse sorpreso in un momento di delirio? In realtà, Pirandello appariva impegnato in uno dei non infrequenti «colloqui coi personaggi», di cui si dà notizia nella novella omonima pubblicata per la prima volta nel 1915, magari proprio «nell’aspra discussione con uno dei più petulanti», che gli s’era attaccato alle costole per persuaderlo a scrivere un romanzo, lui, il personaggio, protagonista. O forse era in corso un’altra discussione, non meno animata, con il dottor Leandro Scoto, anch’egli personaggio, quello che in un’altra novella, pubblicata ancora prima, nel 1906, con il titolo di Personaggi, gli porta The Astral plane, il libro di un teosofo inglese, il Leadbater, uscito nel 1897. Il dottor Scoto legge un passo che appariva riportato quasi letteralmente, senza indicazione precisa di fonte, già nella prima edizione del Fu Mattia Pascal [2]. Sono parole che hanno attratto l’attenzione di Giovanni Macchia, che le riporta e discute:

[1] Si veda G. Giudice, Pirandello, Torino, Utet, 1980, p. 337.
[2] Quella uscita a puntate nel 1904 sulla «Nuova Antologia»; il passo sarebbe stato eliminato nelle edizioni successive.

       «Ho letto testé in un libro», scriveva Pirandello prestando sue proprie letture a quelle del protagonista, «che i pensieri e i desiderii nostri s’incorporano in un’essenza plastica, nel mondo invisibile che li circonda, e tosto vi si modellano in forma di esseri viventi, la cui apparenza corrisponde alla loro intima natura. E questi esseri, non appena formati, non sono più sotto il dominio di chi li ha generati, ma godono d’una lor propria vita, la cui durata dipende dall’intensità del pensiero o del desiderio generatore» [3].

 [3] G. Macchia, Magia, teosofia, spiritismo in La stanza della tortura, Milano, Mondadori, 1981, p. 52.

       Nella novella Personaggi il dottor Scoto ad un certo punto chiude il libro e guarda lo scrittore:

       «Ebbene», soggiunse, «nessuno meglio di Lei può sapere che questo è vero. Ed io, per quanto ancora non sia libero e indipendente da Lei, ne sono la prova. Ne sono una prova tutti i personaggi creati dall’arte. Alcuni hanno pur vita troppo efimera; altri immortale. Vita vera, più vera della reale, sto per dire! […]

       Io guardo a mia volta il dottor Leandro Scoto che mi si dimostra così erudito e gli domando:

       «Scusi, dove vuole arrivare con questa dissertazione teosofica – estetica?»

       «Alla vita!», esclama lui, allora, con un gesto melodrammatico. «Io voglio vivere, ho una gran voglia di vivere per la mia e per l’altrui felicità. Mi faccia vivere, signore! Mi faccia viver bene, la prego; ho buon cuore, guardi! Un discreto ingegno, oneste intenzioni, parchi desiderii: merito fortuna. Mi dia, prego, un’esistenza imperitura» [4].

 [4] L. Pirandello, Novelle per un anno, a c. di P. Gibellini, Firenze, Giunti, 1994, t. III, p. 661.

       Eccoci dunque, nel pieno del tema centrale di Sei personaggi in cerca d’autore, un tema assillante, che aveva ispirato anche La tragedia d’un personaggio, novella pubblicata nel 1911. In Colloquii coi personaggi si assiste addirittura alla misteriosa assunzione della madre, da poco morta, a personaggio, che fa pensare a una evocazione spiritica. Doveva risultarne, come si desume da una lettera del 1917 al figlio Stefano, «un romanzo da fare», di cui resta un frammento, in un «foglietto» pubblicato da Corrado Alvaro nel 1934 [5]. Anzi, come si legge nella Prefazione al dramma del 1925, addirittura «un magnifico romanzo», che poi però non sarebbe stato scritto, mentre i personaggi, ormai vivi, non si rassegnavano ad essere rifiutati, allontanati, fino al punto da ossessionare continuamente l’autore, che non sapeva come liberarsene. Ad un certo punto, ci racconta quella Prefazione, da annoverarsi tra gli scritti più straordinari di Pirandello, nasce l’idea di una rappresentazione drammatica:

[5] Leggibile ora in L. Pirandello, Saggi, Poesie, Scritti varii, a c. di M. Lo Vecchio-Musti, Milano, Mondadori, 1965, pp. 1256-58.

       O perché – mi dissi – non rappresento questo novissimo caso d’un autore che si rifiuta di far vivere alcuni dei suoi personaggi, nati vivi dalla sua fantasia, e il caso di questi personaggi che, avendo ormai infusa in loro la vita, non si rassegnano a restare esclusi dal mondo dell’arte? Essi si sono già staccati da me; vivono per conto loro; hanno acquistato voce e movimento; sono dunque già divenuti di per se stessi, in questa lotta che hanno dovuto sostenere con me per la loro vita, personaggi drammatici, personaggi che possono da soli muoversi e parlare; vedono già se stessi come tali; hanno imparato a difendersi da me, sapranno ancora difendersi dagli altri. E, allora, ecco, lasciamoli andare dove sono soliti d’andare i personaggi drammatici per aver vita: su un palcoscenico. E stiamo a vedere che cosa ne avverrà.

       La «commedia da fare», come recita il sottotitolo dei Sei personaggi, fu scritta nell’inverno 1920-21, nella residenza di via Pietralata, a Roma. Una volta finita, fu letta nel corso di una serata a casa di Arnaldo Frateili, a un piccolo gruppo di ascoltatori. Ed ecco una nuova incarnazione dello spettacolo che stupiva i muratori. Ricorda Frateili:

       Fummo subito presi, sconvolti, storditi da quella lettura; sconvolti non solo dalla commedia, ma dalla passione che Pirandello metteva nel recitarla. Alla fine non so più che si disse: discutevamo come energumeni intorno a Pirandello diventato sorridente e tranquillo [6].

[6] Si veda la Notizia a Sei personaggi in cerca d’autore in L. Pirandello, Maschere nude, vol. II, Milano, Mondadori, 1999, a c. di A. D’Amico, p. 628.

       Possiamo considerare quelle discussioni accese la prova generale di quanto sarebbe avvenuto alla prima, il 9 maggio 1921, al teatro Valle. Per tutto il corso della rappresentazione, applausi, fischi, grida. «La lotta tra plaudenti e disapprovanti», scrisse due giorni dopo il Frateili, «ha toccato intensità sonore mai raggiunte» [7]. Il pubblico, una volta uscito, non si disperse, ma aspettò l’autore. Pirandello dovè trattenersi quasi un’ora in teatro; quando comparve, con la figlia Lietta a braccetto, fu accolto da grida di «manicomio» e lanci di monetine. Riuscì a salire su un taxi, che si allontanò in fretta, mentre discussioni, scontri verbali e fisici persistevano e sarebbero durati tutta la notte.

[7] A. Frateili, «L’idea nazionale», 11 maggio 1921; cfr. la Notizia cit., p. 630, nota 1.

       Tanto aveva potuto, in spettatori che s’aspettavano tutt’altro, l’apparizione all’inizio della pièce non di una scena apparecchiata per la recita, ma di un palcoscenico «com’è di giorno, senza quinte né scena, quasi al buio e vuoto». Come è noto, il pubblico non ci mise molto a ricredersi. Nel settembre successivo, al Teatro Manzoni, i milanesi accolsero trionfalmente i Sei personaggi, che in seguito, di scena a Parigi, con la regia magica di Pitoëff, diffusero la fama dell’autore in tutta Europa e quindi nel mondo.

       Il teatro, improvvisamente, rivelava se stesso a un pubblico di borghesi abituato a vederlo dissimulato, camuffato in quel che i naturalisti chiamavano la tranche de vie, un frammento della realtà. Protagonisti non uomini, ma personaggi, i quali rappresentano se stessi in un testo che «non ha atti né scene». Era l’inizio, come pensa Szondi [8], del teatro epico, dell’opera che estrapola da sé la propria sostanza drammatica, quella propriamente aristotelica, e la trasforma in narrazione, facendo dello spettatore un osservatore che non resta coinvolto nell’azione scenica? Comunque li si voglia definire, è un fatto che i Sei personaggi hanno trasformato la percezione stessa del teatro, lasciando in ognuno di noi come un lungo brivido che si rinnova ogni volta che si alzi un sipario. Pirandello, ha scritto Ferguson, «vede la vita umana stessa in quanto teatrale […] Egli inverte la convenzione del realismo moderno; anziché pretendere che il palcoscenico non sia affatto palcoscenico, ma il salotto familiare, pretende che il salotto familiare non sia reale, ma un palcoscenico contenente molte “realtà”» [9].

 [8] P. Szondi, Il dramma impossibile (Pirandello), in Teoria del dramma moderno 1880-1950, Torino, Einaudi, 1972, p. 111: «Contro il postulato fondamentale della forma drammatica, che considera il dialogo e l’azione, proprio nella loro definitività, come espressioni adeguate dell’essere umano, Pirandello vi scorge una limitazione indebita e nociva della vita interiore,  infinitamente varia e molteplice. In quanto critica del dramma, i suoi Sei personaggi in cerca d’autore non sono un’opera drammatica, bensì epica».

 [9] F. Ferguson, Idea di un teatro, Milano, Feltrinelli, 1962, p. 234.

È un modo tutto pirandelliano di rielaborare l’idea barocca della reciprocità e quasi intercambiabilità di mondo e teatro: quella per cui siamo contemporaneamente spettatori e personaggi di noi stessi, sempre, nell’una e nell’altra funzione, in cerca di autore. La vediamo, quell’idea, sigillata in uno straordinario sonetto di Pietro Metastasio, Sogni e favole io fingo; e pure in carte. La vita è rappresentata come un delirio in cui non facciamo che ingannare noi stessi, perché tutto, quel che scriviamo e quel che viviamo, è solo favola, sogno, o, se si preferisce, con un anticipo vertiginoso su una futura, solidale intuizione di Giorgio Manganelli, menzogna, come la letteratura. C’è una famosa affermazione di Pirandello, ben nota ai suoi lettori, secondo la quale la vita o si vive o si scrive. Di solito viene interpretata nel senso oppositivo: la congiunzione disgiuntiva avrebbe il senso dell’aut latino, per cui la vita ci sarebbe concesso o di viverla o di scriverla. Ma forse l’interpretazione può essere anche un’altra, la disgiunzione corrisponderebbe piuttosto a un bel: vivere, scrivere la vita, è più o meno la stessa cosa, perché l’arte è altrettanto vera, e altrettanto falsa, della vita stessa.

       L’idea barocca, trapiantata su un palcoscenico di un qualunque teatro del presente, con gli attrezzi in mostra, l’apparizione del macchinista in «camiciotto turchino», tra il suono delle martellate e il progressivo, indolente arrivo degli attori per le prove, perde smalto, appare contemplata da dietro le quinte polverose, si borghesizza. È questo irrompere nel quotidiano di qualcosa che non sembra appartenergli, quasi una dimensione autre che all’improvviso si apra e si riveli, a sconcertare il pubblico. Eccoli, i personaggi, «certi signori», come li definisce l’usciere, che chiedono del Capocomico, il quale si rivolge loro chiamandoli, appunto, «lor signori». Sono, come sanno tutti i lettori di Pirandello, un Padre, sulla cinquantina, la Madre, «come atterrita e schiacciata da un peso intollerabile», la Figliastra, «sui diciott’anni», spavalda, «quasi impudente», bellissima e vestita a lutto, il Figlio, ventiduenne, «irrigidito in un contenuto sdegno per il Padre e in un’accigliata indifferenza per la Madre». Infine, un ragazzo e una bambina.

       Fin dal testo del 1921, i personaggi saranno come circonfusi da una «strana, tenuissima luce appena percettibile» e come «irradiata da essi». A partire dal testo del 1925, si aggiungeranno, sui loro volti, oggetti risalenti alle origini stesse del teatro e ormai desueti: le maschere. «Le maschere», scrive Pirandello nelle didascalie del dramma, «ajuteranno a dare l’impressione della figura costruita per arte e fissata ciascuna immutabilmente nell’espressione del proprio sentimento fondamentale». I personaggi rappresenteranno quindi «il rimorso per il Padre, la vendetta per la Figliastra, lo sdegno per il Figlio, il dolore per la Madre», che avrà «fisse lacrime di cera nel livido delle occhiaje e lungo le gote». Pirandello sta assemblando nel suo copione elementi della tragedia antica, collocati tra il ciarpame ammucchiato nei depositi d’un teatro moderno, accanto alla figurazione tipicamente déco della prima attrice vestita di bianco con il «cappellone spavaldo» in capo e il cagnolino tra le braccia, mentre gli altri attori, uomini e donne che arrivano alla spicciolata, «vestiti d’abiti piuttosto chiari e gaj», ciarlieri, pettegoli e lamentosi, si accendono sigarette e si mettono a ballare al suono d’un pianoforte. Sarebbe come vedere Edipo, vestito degli abiti miseri e stracciati di un mendicante, entrare in un tipico luogo del nostro tempo, come un bar, una discoteca o una corsia d’ospedale [10].

[10] E l’abbiamo visto, per la verità, nel film di Pasolini Edipo re e nella bellissima Serata a Colono, Una parodia, in Il mondo salvato dai ragazzini e altri poemi di Elsa Morante.

L’effetto di shock in quella serata del 1921 dové essere impressionante. Pirandello raccoglieva una materia che avrebbe potuto interessare Ibsen, un’immagine d’inferno familiare sordido, compresso, che si libera alla fine con una catastrofe che sembra piovere dal cielo, come la maledizione degli dei. «Dramma analitico», lo definisce Szondi, uno specimen che attraversa i secoli ricongiungendosi a Sofocle: per svolgere il quale, «secondo le regole della drammaturgia classica, sarebbe stata necessaria non solo la maestrìa di Ibsen, ma anche la sua cieca violenza». Pirandello, commenta sempre Szondi, si rese invece chiaramente conto della resistenza della materia e dei suoi presupposti spirituali alla forma drammatica. Perciò rinunciò ad essa, e anziché spezzare quella resistenza la mantenne, nella tematica. Nacque così un’opera che si sostituisce a quella divisata e ne tratta come di un’opera impossibile [11]. 

 [11] Cfr. Teoria del dramma moderno cit., pp. 107-108.

       I Sei personaggi sono il frutto di una geniale trasposizione: un sogno in cui si costella, affiorando da un buio gorgo autobiografico, una materia torbida e dolente, di per sé inaccostabile. Una storia che può affiorare solo a patto di non riconoscerla, di considerarla, in un certo senso, “finta”: la «cupa storia che non si racconta», si trasforma, con un processo inverso a quello descritto da Montale, in «favola» [12]. C’è qualcosa di manzoniano in tutto questo, non il Manzoni nobilmente scolastico tratteggiato dal Praga, il «casto poeta che l’Italia adora, / vegliardo in sante visioni assorto» [13], ma un Manzoni noir, ossessionato dall’idea tormentosa che si nasconde oltre la storia del matrimonio che non si doveva fare, una figura dell’inconscio, l’immagine materna, oggetto di un così forte e intollerabile investimento libidico da dover esser completamente sublimata. Quel che restava di letterale di una passione che nell’Edipo re muove un’altra grande peste sarebbe andato a esprimersi nella vicenda dell’amore torbido e proibito di Gertrude, la Lucia sventurata che aveva risposto al suo Don Rodrigo.

[12] Cfr. Mediterraneo, in Ossi di seppia, sezione VI, Noi non sappiamo quale sortiremo, vv. 13-15: «Oh la favola onde s’esprime / la nostra vita, repente / si cangerà nella cupa storia che non si racconta».

[13] E. Praga, Preludio, in Penombre, vv. 13-14.

       La materia dei Sei personaggi poteva lievitare in forma solo nell’«opera impossibile», che condusse Pirandello a inventare il teatro del teatro, negli stessi anni in cui Gide scriveva I falsari, il primo romanzo del romanzo. Quella materia investiva un universo familiare, quello che, secondo Cesare Garboli, è il vero protagonista di tutta l’opera di Pirandello, il grande tema vischioso, prolificante, tenuto a bada, e indirettamente, tormentosamente espresso con i ragionamenti logorroici, la «logica seviziatrice» che si esprime nel «linguaggio dei verbali di polizia», occupando, nel suo teatro, il posto della vita e facendo sì che «il cavillo giuridico ribalti comicamente la realtà, costringendola a mosse burattinesche e inusuali» [14]. Un inferno finto, che ricopre quello vero, che è davanti ai suoi occhi: il groviglio familiare costituito, ad esempio, in Così è (se vi pare) dal «folle» sodalizio tra suocera e genero, cui fa cerchio un coro di funzionari statali impettiti, con le relative signore, tutti meticolosamente distinti nei vari gradi della gerarchia.

[14] Cfr. C. Garboli, Un po’ prima del piombo. Il teatro in Italia negli anni Settanta, Firenze, Sansoni, 1998, p. 278.

       Questa impasse, ammesso che esista, è brillantemente evitata nei Sei personaggi, con una scelta tecnica calibratissima. La realtà non viene affrontata direttamente: si parla non di persone, ma di personaggi, non della vita, ma del teatro, non della realtà, ma della finzione. Il teatro, nel momento in cui mette in scena se stesso, assorbe e purifica la vicenda rappresentata, consegnandola allo scatto limpido, deciso della fantasia che alimenta la tragedia surreale dei personaggi e la rende credibile. Fiorisce, su quel palcoscenico in primo piano fin dall’inizio, un punto di vista straniante, che fa lievitare e dissolvere ogni pesanteur di una materia troppo intima, che sembra assumere il carattere fantasmatico dei personaggi.

       La famiglia che si presenta sulla scena nei Sei personaggi è in realtà tutta tramata di riferimenti autobiografici, che sono stati analizzati, anche minuziosamente, dagli interpreti. Andrea Camilleri, nella sua recente biografia pirandelliana, ritrova «nel grido della madre che sorprende la Figliastra tra le braccia del marito una terribile eco del grido disperato di Antonietta allorché la follia le fece supporre un legame incestuoso tra Luigi e la figlia» [15].

 [15] A. Camilleri, Biografia del figlio cambiato, Milano, bur, 2006, p. 224.

Se il personaggio della Figliastra riconduce a Lietta, la Madre ha più di un carattere in comune con Antonietta Portulano, la moglie di Pirandello, che nel gennaio 1919, a causa dell’aggravarsi dei disturbi psichici, fu internata in una clinica psichiatrica; la casa, prima agitata da liti e deliri continui, improvvisamente si fece silenziosa. La Madre, nel dramma, rinfaccia al Padre di averla scacciata; il Padre l’accusa di aver assunto tutta la sua pietà per lei «come la più feroce delle crudeltà». Si noti che Lietta, un giorno che la madre, nel pieno della follia, l’accusò di avere una relazione con il padre, inorridita, cercò di uccidersi con un piccolo revolver che si trovava in casa. Il suicidio fallì perché l’arma, arrugginita, non funzionò. «Lietta allora fuggì di casa e si buttò per le vie di Roma alla ricerca del Tevere. Perché voleva proprio farla finita» [16].

 [16] G. Giudice, Pirandello cit., p. 298.

Ma la ragazza, che poco conosceva Roma, non riuscì a trovare il fiume e anche la morte per acqua fu evitata. Viene spontaneo osservare come questo episodio biografico, che impressionò enormemente Pirandello e fece accrescere i suoi sensi di colpa verso la propria famiglia e anche quella d’origine, si rifletta nel dramma, divaricandosi nella morte per annegamento della bambina e nel suicidio del ragazzo con un colpo di pistola. Jean Michel Gardair, citato da Camilleri, a proposito della morte della Bambina e del Giovanetto, osserva a sua volta:

       Non si può non sottolineare che l’età dei due fanciulli, quattordici e quattro anni, corrisponde, da una parte, all’età in cui morì una sorella minore di Pirandello, dall’altra, alla stessa età che egli stesso aveva all’epoca della scena trasposta in Ritorno, all’indomani della quale un’altra delle sue sorelle minori era diventata improvvisamente demente. Infine, con il sinistro scoppio di risa della Figliastra, con il quale termina la pièce, Pirandello attira su di sé per sempre la vendetta di Antonietta, troppo sagace Erinni, che ha espiato con la follia il terribile privilegio della chiaroveggenza. [17]   

[17] A. Camilleri, Biografia cit., p. 225. La citazione è da J.M. Gardair, Pirandello e il suo doppio, Roma, Abete, 1977.

       Il dramma si chiude con la «stridula risata» della Figliastra. Le ombre dei Personaggi «grandi e spiccate», sotto il fascio di luce d’un riflettore verde, hanno atterrito e volto in fuga il Capocomico. Il Figlio, la Madre, il Padre sono fermi a metà del palcoscenico, «rimanendo lì come forme trasognate». Poco dopo, conclude la didascalia, «calerà la tela». Tutto torna nel buio: i personaggi, gli attori, l’autore invano inseguito da tutti ed egli stesso proteso a inseguire una verità impronunciabile, il puzzle familiare, appena composto e di nuovo dissolto. Pirandello ha messo in scena il proprio autodafé, piantandolo nel cuore della finzione più audace cui spettatori abbiano mai assistito. La colpa, l’abbandono, l’incesto, il rimorso, la punizione fluttuano ancora, incredibilmente leggere, quasi in forma di ectoplasmi, come i personaggi che le incarnano, sulle tavole del palcoscenico. Personaggi, niente altro che personaggi in cerca d’autore: da quel momento, però, il teatro non sarebbe più stato lo stesso.

Giuseppe Leonelli

Analisi grafica

L’identità irrapresentabile del personaggio
da Valsesia Scuole (link non più attivo)

La vicenda dei sei personaggi non può essere scritta e rappresentata poiché gli strumenti abituali di rappresentazione teatrale sono disadatti a tradurre autenticamente una realtà tanto crudele e psicologicamente oscura. Il copione, i ruoli degli attori la finzione scenica: tutto è troppo convenzionale. Questo dramma può solo essere rivissuto dall’interno dalla coscienza duramente segnata dei personaggi stessi ( idee tragiche di un’esistenza potenzialmente minacciosa per la buona coscienza borghese ). Il modo di rivivere tale vicenda può solo essere quella di un incubo surreale.

Sei personaggi in cerca d'autore - Analisi grafica 1

Sei personaggi in cerca d'autore - Analisi grafica 2

Articolo

Quando i personaggi si dimostrano più veri delle persone reali
di Riccardo Mainetti

Per gentile concessione dell’autore

In attesa di potermi rileggere il testo teatrale questa sera ho deciso di godermi nuovamente lo spettacolo teatrale, in dvd, del dramma “Sei personaggi in cerca d’autore” scritto da Luigi Pirandello; dramma che ebbi modo di vedere, per la prima volta, in teatro, al Teatro Carcano di Milano, quando frequentavo l’ultimo anno delle superiori e che poi, io acquistai, anni fa, allorquando uscirono in dvd alcuni spettacoli di Pirandello, in dvd appunto.

In un teatro non bene identificato e, del resto, poco importa di quale teatro, in particolare, si tratti, una compagnia, anche qui non ben identificata, si sta preparando a provare la commedia di Luigi Pirandello intitolata “Il giuoco delle parti”.

Sul palcoscenico vanno in scena le piccole scenette della vita quotidiana di una compagnia di teatro, chi arriva in ritardo, chi deve ripassare le parti che faticano ad entrargli in testa, chi, con sufficienza, si pone a confronto con gli componenti della compagnia, e così via.

Quando, dopo tutti gli intoppi, piccoli e grandi, la compagnia è ormai pronta a cominciare, anzi comincia, la prova della commedia pirandelliana ecco che sulla scena compaiono sei personaggi che paiono, o forse sono, sbucati dal nulla. Alla normale, quasi scontata direi, domanda del capocomico su chi siano, quello che tra i sei veste i panni del Padre rivela che essi sono personaggi.

Sì, personaggi, “vivi e reali” ai quali l’autore, dopo aver dato loro la vita ideandoli, non ha però poi avuto il coraggio o la forza di permetter loro di mettere in scena il loro dramma personale.

Immaginatevi la sorpresa, l’ilarità in certi casi, della compagnia di attori a vedersi piombare lì, in scena, così, all’improvviso, quei sei strani figuri che dicono, anzi pretendono, di essere dei personaggi e di essere più veri e reali degli attori stessi.

È infatti sempre il Padre, ad un certo punto, che, rivolto al capocomico poi assurto al rango di autore, dichiara che sì, è vero, loro, in quanto personaggi, creati da un autore, con un’esistenza prefissata, una vita stabilita e scritta sulla carta, sono più reali di qualunque persona reale, financo il loro autore, che gode in una vita che può cangiare di giorno in giorno.

I sei personaggi riescono ad intrigare con la propria vicenda il capocomico il quale decide di accettare il ruolo di loro autore e mette in scena, o meglio permette loro di mettere in scena, il dramma del quale essi sono portatori.

E la storia comincia a dipanarsi e, nel corso del primo atto, fa la sua comparsa, una comparsa breve e fugace il settimo dei sei personaggi, quello tra loro che non è in cerca di un autore ma che è il motore di tutto il primo atto: Madama Pace, una donna che, dietro la rispettabile facciata di un negozietto di sartoria, nasconde, nel retrobottega, la realtà di una “casa equivoca”.

Qui, nella stanza ubicata nel retrobottega del negozio di Madame Pace, si compie l’incontro, dopo tanti anni tra il Padre e la Figliastra; incontro che, per poco, proprio per pochissimo, non sfocia in qualcosa di molto più intimo.

Dopo questo incontro il Padre accetta di riportare sotto il proprio tetto la Figliastra, la Madre, colei che fu sua moglie, e i due figlioletti nati anch’essi dal secondo matrimonio di lei.

Questo improvviso piombare in casa di quei quattro “nuovi venuti” provoca la ribellione del Figlio Legittimo il quale, con sdegno, si rifiuta di insegnare la propria parte fino a che, costretto, non rivela quello a cui gli è capitato di assistere, e quello di cui è stato protagonista nel giardino della casa; il ritrovamento del corpo della sorellina annegata e il seguente suicidio del fratellino.

Dopo un vibrante battibecco, per così dire, tra il Padre e colui che, nella finzione scenica dovrebbe vestirne i panni, nel quale il secondo, non credendo alla morte del ragazzino, urla “Finzione!” ed il Padre che di rimando urla “Ma quale finzione? Realtà!” la scena si chiude con i sei personaggi, o meglio quelli che dei sei personaggi sopravvivono, lasciano la scena e il capocomico che, dopo aver constatato che oramai si è fatto tardi per le prove, dice alla compagnia di tornare in serata e, dopo aver ordinato il “Buio in sala!”, lascia a sua volta il teatro.

Sulla scena, ormai buia, il sipario si riapre sui sei personaggi, in ombra, che tornano, tutti, un’ultima volta alla ribalta per poi ritirarsi, a loro volta, dalla scena.

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