Per gente più raffinata basta un solo «ismo». Gli «ismi» hanno tanto intorbidato le acque, alimentato tanta diffidenza, rovinato tanta brava gente: e oggi, al posto di nitide e spaziate costruzioni, abbiamo sotto gli occhi un paesaggio di arrendi alveari. Il pirandellismo, dunque.
Leonardo Sciascia – Pirandello e il pirandellismo
1953 (con lettere inedite di Pirandello a Tilgher).
I.
Nel 1926 Arrigo Cajumi, tracciando una parabola dei primi venticinque anni del secolo, scriveva: «E da due altri scrittori si può prendere congedo, Panzini e Pirandello. Gli ultimi anni, del resto, hanno favorito il distacco, e la loro parabola ascendente è terminata. Essi appartenevano ad una vecchia generazione: fioriti in ritardo, avvizziscono prestissimo. Hanno avuto sul tardi gli onori e i riconoscimenti che meritavano per un’opera quasi interamente compiuta prima della guerra. Pirandello scriveva allora, fra un’indifferenza feroce, delle novelle degne di Verga e di Maupassant; Panzini tracciava le sue pagine più delicate. La farandola postbellica, e l’opera di una critica entusiasta hanno portato in primo piano i due scrittori.
Ma il mondo del teatro di Pirandello era già, in fatto e in potenza, nelle sue novelle e nei suoi romanzi, e non ricevette che una trattazione tecnicamente diversa, e del resto magistrale. Venne però il giorno in cui il meccanismo teatrale prese la mano a Pirandello, e le suggestioni di una critica teorizzatrice l’ossessionarono, e la discesa incominciò. Anche per lui si ripete il problema di D’Annunzio, e non crediamo la risposta sia diversa. Egli è un vigoroso e talora eccellente scrittore: la materia dell’arte sua è stanca». Sostanzialmente, vedeva bene. Nel 1926 il critico militante poteva davvero prender congedo da Pirandello. La fama dello scrittore, fiorita in ritardo, doveva presto avvizzire; e stanca era la materia dell’arte sua. Ma quando Cajumi scriveva, si era al centro di quel clamoroso decennio che fece di Pirandello un autore alla moda: e non era difficile ad un critico vigile ed acuto come il Cajumi scorgere, negli entusiasmi e negli atteggiamenti stessi che suscitavano la fama dello scrittore, il germe della mortale indifferenza che doveva succedere; quell’indifferenza stessa che circondò Pirandello quando più urgente e continua era la sua forza creatrice.
Ci sono momenti in cui molti diseredati spirituali che vivono le avventure dell’intelligenza in un senso tutto balneare e salottiero, credono di essere riusciti a mettere effettivamente piede, e da conquistatori, in qualche marca di confine o addirittura in qualche ricca provincia del pensiero o della poesia. Lo abbiamo visto recentemente con l’esistenzialismo. Pirandello segna, con la sua esteriore fortuna, uno di questi momenti. Avviene come quando, in provincia, i guitti giungono con Shakespeare sul cartellone. Amleto, e i guitti lo sanno, garantisce la punta più alta degli incassi. Il medico condotto, il maestro di scuola, l’usciere municipale e il barbiere (peraltro, e sotto tutti gli altri riguardi, persone rispettabilissime) sanno che per una sera avranno l’emozione di scoprirsi «intelligenti». I monologhi di Amleto, come uno stupefacente, apriranno agli occhi di questa brava gente uno splendido continente sconosciuto: «il brivido del pensare» diramerà, delizioso come un solletico, nei corpi opachi; aiuterà la digestione e consegnerà più presto al sonno delle teste stanche di pensare. Naturalmente, Shakespeare non può farci nulla. Né Pirandello poté impedire che «il brivido del pensare» scendesse per le reni di tutti i diseredati spirituali d’Europa e d’America.
L’atteggiamento sociale, di tensione e di frenesia, che colpisce opere come Amleto o come quelle di Pirandello, non ha niente da vedere con la vera e sana popolarità. Schiettamente popolari sono le opere di Verdi: e segnano un caso veramente unico. La dichiarazione di Henry Ford (quello delle automobili) ai giornalisti, che Benedetto Croce riprende nel suo saggio su Pirandello, coglie giusto, ma in parte e superficialmente (e Croce avrebbe dovuto accorgersene). «Io non sono competente in fatto di letteratura; però sono dell’opinione che con lui si possa fare un affare eccellente: i suoi lavori si adattano ad un vasto pubblico: il Pirandello è l’ uomo del popolo, almeno io sono di questo avviso: egli non è per gli intellettuali: ragione per cui si è in me radicato il proposito di finanziare una sua tournée in America. Voglio dimostrargli che con lui si possono guadagnare dei milioni». Si guadagnano dei milioni anche con Sartre e con Camus: ma ciò non toglie che Camus e Sartre siano scrittori per gli «intelligenti». E poi bisogna distinguere: c’è popolarità e popolarità. C’è la popolarità dei Due sergenti e c’è quella di Amleto. Esteriormente il fenomeno si presenta indifferenziato: ma se ne scendiamo un po’ a fondo, vedremo che il popolo capisce i Due sergenti, ma non capisce Amleto: di fronte ad un’opera come Amleto «finge di capire». Fingere di capire è delizioso: si va a sentire un’opera, a vederla sulla scena, come quando si prende una droga che ci permetta per ore o per attimi di crederci o di essere quello che non siamo.
Questa «drogatura» ha fatto fiorire e marcire una fittizia fama dell’opera pirandelliana.
Momento senza dubbio deteriore, che nocque più che giovare all’opera e all’artista; ma da cui non si possono cavare le illazioni. crociane, la sillogistica sicurezza per cui, dato il fatto che i gusti della platea non coincidono con quelli degli intelligenti e che Pirandello più incontra il favore di quella che l’approvazione di questi, è legittimo concludere «che gli intelligenti, che non si sono mai persuasi del tutto della solidità della sua arte, manifestano a più riprese la loro poca fiducia nella durevolezza di questa fortuna». E si intende che il giudizio non tocca della fortuna tutta esteriore e transitoria, ma della fortuna che risiede nella virtù stessa dell’opera, nell’intima forza che le assicura universale sopravvivenza. Nella popolarità di Pirandello, Croce vide insomma la prova più evidente della validità del suo giudizio.
A scanso di equivoci, è bene chiarire che il «fingere di capire» cui si atteggia una platea, un pubblico, nei riguardi di un’opera, è un movimento generalmente inconscio, che solo approssimativamente definiamo con la parola «fingere». Man mano che si sale dagli strati sociali bassi a quelli più alti, la finzione si fa meno inconscia: finché si giunge alla stratificazione prima, che è quella del pubblico delle «prime» e dei salotti letterari, dei finanziatori di premi e degli acquirenti di quadri: tra costoro si giunge alla suprema e cosciente ipocrisia nei riguardi dell’arte e di qualunque artista Pirandello o Eliot, Picasso o Moore. L’ipocrisia inconscia degli strati più bassi si muove invece quando l’artista giunge al teatro o al cinema e quando ci sono in esso delle vibrazioni «filosofiche». Manzoni nota come la parola «poeta» valga per gli umili del suo romanzo a designare un caposcarico, un cervello balzano. Così è ancora. Ebbene, tutto ciò che toglie al poeta, il popolo lo riserva al filosofo. Un gran senso di reverenza accompagna l’uomo cui questa designazione tocca, che spesso altro non è che un misantropo della specie più comune. La parola «filosofo» ha significato molto vasto; ma un più ristretto e un più proprio significato ha invece la parola «filosofia»: e la si pronuncia, con eguale reverenza, a indicare una concezione pessimistica della vita, o comunque dubitosa e travagliata. Chi gode buona salute ha bisogno di sentire intorno a sé qualche ammalato: ecco il fascino della filosofia. Una volta tanto l’uomo sano, grosso – granitico, direbbe Flaubert – vuol porsi nella condizione del tribolato. Una finzione, un istrionesco gioco di contrari. Prende una sorta di vaccinazione, si immunizza una febbre leggera transitoria piacevole. E la soddisfazione di aver pensato. Il popolo non conosce poeti, ma filosofi. Della poesia, anche di quella che egli stesso è capace di esprimere, non ha nozione né rispetto.
Così, basta una formula come «essere è apparire» o «conflitto tra la Vita e la Forma» a fare la popolarità di un autore. Per gente più raffinata basta un solo «ismo». Gli «ismi» hanno tanto intorbidato le acque, alimentato tanta diffidenza, rovinato tanta brava gente: e oggi, al posto di nitide e spaziate costruzioni, abbiamo sotto gli occhi un paesaggio di arrendi alveari. Il pirandellismo, dunque. Un mondo di poesia viene consunto e calcinato fino al punto da estrarne delle filosofiche ceneri. A queste ceneri il vasto pubblico applaude; e il critico si volta dall’altra parte. Così incenerito, Pirandello diventa «l’uomo del popolo», come dice Ford; lo scrittore per un pubblico grosso e, come Manfredi, viene a lume spento inumato di fuor dal regno della critica crociana.
C’era, naturalmente, nell’opera pirandelliana il pericolo di una tale filosofica consunzione. Molti gangli di determinate opere, i più congestionati e scoperti, generavano a momenti una silenziosa autocombustione. Si ritrovavano distrutti; e l’insieme, disarticolato e cascante. Pirandello, nei suoi momenti meno felici, fece del pirandellismo. Dalla lirica disperazione ed urgenza che scaturiva dal terrore di sentirsi disintegrato in un feroce gioco di specchi, dal sentimento acutissimo di quella solitudine di siciliano che poi vorrà spiegare nel suo discorso su Verga, lo scrittore ripiega a volte su una linea di riflessione pseudofilosofica, quasi che nel lineare moto lirico insorgessero delle traumatiche annodature. La sua fortuna giunta tardi, avvizzita presto, va ricercata appunto in questi cedevoli aspetti della sua opera e in quella critica teorizzatrice che cominciò a discorrere di problemi; a condensare, come oggi si dice, contenuti; a cavare formule. E se questa fortuna avvizzì, come doveva avvizzire, una fortuna meno frenetica, meno entusiastica, ma, più solida e definitiva è da venire. Ai critici che teorizzando si esaltarono e a quelli che implacabilmente non consentirono, sfuggì questa essenziale, chiara e persino ovvia verità che dobbiamo al Debenedetti: il disastro di chi cerca, ha detto un bello spirito, è che finisce sempre col trovare. Sulla faccia esterna della sua opera, Pirandello mostrava quella che si chiama una «filosofia»; e la critica sotto, a dare una traduzione, una divulgazione letterale di quella «filosofia». Che poi non era se non un’astuzia della Provvidenza: il materiale isolante che permetteva a Pirandello di maneggiare il fuoco bianco del suo nucleo poetico e umano. Mancò insomma la critica vera… È semplice come l’uovo di Colombo; ma bisognava pensarci. Evidentemente, non ci pensò Benedetto Croce e non ci pensò Adriano Tilgher: i quali, trovandosi a considerare Pirandello da punti di vista opposti, finiscono paradossalmente con il vedere la stessa cosa:, un Pirandello filosofo o pseudofilosofo. E bisogna aggiungere che tanto più il Tilgher si affannò a cercare in Pirandello una filosofia, tanto più veniva a confermare il giudizio di Croce sulla pseudofilosofia. Così diversa era la loro concezione estetica che quanto Tilgher ammetteva veniva a rafforzare la negazione dell’altro; e viceversa. Una terza forza, per servirci del gergo politico corrente, nella critica su Pirandello, mancò fino al famoso discorso di Bontempelli, cui seguì l’acuto, impareggiabile saggio del Debenedetti. Singolari e felicissime intuizioni ebbe Antonio Gramsci: ma purtroppo soltanto ora che i suoi Quaderni del carcere e le sue disperse cronache drammatiche entrano nel nostro orizzonte bibliografico. Ma qui non non vogliamo tracciare un quadro completo ed esauriente di quella che è stata la critica su Pirandello. Più che un saggio critico, o di critica della critica, noi vogliamo tracciare un saggio sul costume, giungere al centro di quella ossessione di cui dice molto giustamente il Cajumi: «le suggestioni di una critica teorizzatrice l’ossessionarono». Ora, la critica teorizzatrice è soprattutto rappresentata da Adriano Tilgher: gli altri non hanno fatto altro che rimasticare la formula tilgheriana, riducendo quel che ancora in Tilgher era genialità, impeto di scoperta e pubblica autorità (un’autorità che nessun critico drammatico può più sognare di avere) a qualcosa di povero e di balbettato. La soggezione di Pirandello a Tilgher, e poi i suoi inutili tentativi di ribellione, sono quanto di più curioso si possa immaginare. In Pirandello, Tilgher trovò il suo «caso»: in un autore operante provò come in corpore vili la validità delle proprie teorie estetiche; o, per essere esatti, credette di provare. E se Pirandello gli dovette la sua contingente fortuna, bisogna pur dire che ancora gli deve quel grosso equivoco che pesa sulla sua opera.
Silvio D’Amico ci informa sulla prima opinione che Tilgher ebbe di Pirandello. Nella Concordia del 12 luglio 1916 Tilgher stroncava Pensaci, Giacomino!: «L’arte del Pirandello… è arte di ozio e di divertimento, senza contenuto profondo, senza serietà morale, senza interessamento vivo allo spirito e ai suoi problemi.. Gli sciocchi possono scambiare per profondità il sorriso ironico di Pirandello sui suoi personaggi, ma chi ha buon gusto non si lascia ingannare…»
E c’è da meravigliarsi, se poi fu lo stesso Tilgher a scrivere che in questa commedia «mai la relatività delle costruzioni umane, l’esistenza di un diritto e di una ragione che di fronte al comune diritto e alla comune ragione appaiono, e debbono apparire, assurdo e follia era stata sostenuta con violenza più acerba, più aperta, più lucidamente logica».
Ma qualcosa di simile accadde anche a D’Amico, a Gramsci e a Renato Serra. E forse dalla suggestione della critica di Serra è nata in molti critici questa «prima impressione» su Pirandello, che in alcuni è rimasta rigida e definitiva, come vedremo. Nel 1913, in una panoramica delle lettere italiane che resta anche oggi in gran parte valida, Renato Serra intruppò Pirandello con Bontempelli, Ojetti, Pastonchi, la Guglielminetti e la Prosperi (!), creando tra loro una confusionaria democrazia ottica: «non c’è pagina che si stacchi dalle altre, nè scrittore che spicchi dalla pagina». Certo, se dimentichiamo questa specie di gruppo fotografico che ci dà l’impressione più di una riunione sindacale che di una collocazione critica, il particolare cenno che Serra fa di Pirandello ci apparirà di sicura finezza: «C’è per esempio, un’intenzione di realismo più penetrante nel Pirandello, con una ricerca di particolare umili duri e silenziosamente veri, che dovrebbero far scoppiare i contrasti della pietà e dell’umorismo…». Ma l’errore prospettivo c’era, e gravissimo. Al centro della narrativa 1913 stava il Panzini; che è certo delizioso scrittore, ma che col tempo non crediamo debba far più spicco di un Dossi (il giudizio di Cajumi non fa una grinza). Errore che il Pancrazi, dopo circa un trentennio, ha avallato senza una sia pur lieve esitazione. Nell’inchiesta che tre anni fa la Rai pose tra gli uomini di cultura sui «dieci libri da salvare» in un eventuale conflitto atomico (un po’ per celia e un po’ per non morir) su undici interrogati soltanto due hanno creduto di dover salvare qualcosa di Pirandello: e il Pancrazi, che doveva tirare le conclusioni della inchiesta, non si contentò di una già così magra quotazione, e vibrò il colpo di grazia: «E dò molto volentieri due voti a Panzini perché vada un grado sopra a Pirandello…». In questo critico apparentemente così sereno, così aperto e cordiale, c’erano in realtà degli irrigidimenti incredibili, delle testarde esclusioni (di un altro siciliano ci pare non abbia mai scritto: di quel Savarese le cui qualità avrebbero dovuto entrare nella sfera delle sue immediate preferenze).
L’opera di Pirandello era «quasi interamente compiuta prima della guerra», come ben dice il Cajumi: ma è appunto la guerra il fatto che modifica o addirittura rivolge l’atteggiamento della critica. Pirandello viene «scoperto dopo un buon quarto di secolo dacché lavorava e pubblicava. Come mai tanto ritardo? Probabilmente, perché egli era arrivato con un buon quarto di secolo d’anticipo» (D’Amico). È la guerra che crea le condizioni effettuali per capire Pirandello; son gli uomini che tornano dalla guerra che spasmodicamente avvertono il dissolversi del loro principio d’identità, la tragica disintegrazione dell’io, il pazzo gioco di specchi intorno alla loro individualità mutila. L’orrore di cui erano stati protagonisti, il sangue la menzogna la bestemmia cui un cieco diritto li aveva votati: tutto ciò affiorava ora alle loro coscienze, nel silenzio della cosiddetta pace. Un incubo, una lucida ossessione. Ti si dà un fucile, un’uniforme, un piastrino col numero; e ti si getta tra il fango, tra il sangue, uccidere ed essere ucciso. I ministri del diritto ti dicono che il diritto splende sulle tue bandiere; i ministri della fede ti dicono che anche la fede vi splende, e benedicono il tuo fucile. E dall’altra parte ci sono uomini, numeri, cui sono state dette le stesse cose. E la carneficina continua, un giorno dopo l’altro, un anno dopo l’altro: finché ti si viene a dire che basta, che il diritto è stato ristabilito, la fede è salva, tutti gli uomini fratelli. Così si ritorna a casa. Ma che cosa è la casa, gli affetti che la compongono, io stesso che vi ritorno? Sono quello di prima, o un altro? E gli altri chi sono?
C’è anche il fatto che la nostra cultura comincia nel dopoguerra a europeizzarsi, a liberarsi dalle strettoie provinciali, a guardare con occhi, certo ancora non acuti, a quello che accade fuori; ma è soprattutto quel che accade nel cuore dell’uomo a render l’opera di Pirandello patrimonio essenziale. In una Europa da dagherrotipi, comoda, tranquilla, appena venata da qualche brivido sociale, tutta emozionata da scoperte archeologiche e da reali giubilei, Pirandello intravide la feroce e grottesca maschera di un mondo convulso, impazzito. Qualcosa di simile accadeva ad un altro grande spirito: l’americano Edgar Lee Masters. Nessuno ha finora pensato quanto «pirandellismo» (ci si perdoni per una volta questa parola) sia nella Spoon River Anthology, quale pirandelliano inferno sia nelle confessioni di quei morti. Masters racconta che fu da una visita di sua madre, che gli raccontava le chiacchiere e i pettegolezzi di Lewstown, che gli venne la spinta decisiva a raccontare la vita vera, di persone prese nel giro implacabile di un destino. Una illusione, come si vede: ma quel che importa è che la «comédie humaine» di Masters tradisce, nel risultato, la illusione suscitatrice. Vere quelle vite? Ma per chi? Se per loro, morti, non c’è «il mondo della verità», se non c’è possibilità di un incontro e di un dialogo nella «verità»? Guardate quel morto in battaglia: «Io fui il primo frutto della battaglia di Missionary Ridge. Quando sentii la pallottola entrarmi nel cuore – mi augurai di esser rimasto a casa e finito in prigione – per quel furto dei porci di Curl Trenary, invece di fuggire e arruolarmi. Mille volte meglio il penitenziario – che avere addosso questa statua di marmo alata, e il piedistallo di granito – con le parole «Pro Patria». – Tanto, che vogliono dire?». È, direbbe Pirandello, un pensionato della memoria, un povero insofferente pensionato della memoria nazionale. Ma nella tomba accanto, una donna afferma: no, Knowlt Hoheimer non andò in guerra per quel furto di porci; andò perchè si accorse che più non lo amavo. Un eroe; un ladro; un deluso d’amore. Knowlt Hoheimer sembra gridare la verità: ma non è che la «sua» verità; non più forte di quella di Lydia Puckett che gli giace accanto e di quella che gli pesa addosso con la statua di marmo alata. Così è per tutti i morti che si allineano nel cimitero di Spoon River – e per tutti i vivi. E c’è l’uomo che intese in senso pirandelliano «il dovere del medico» e che la società condannò; e c’è l’ubriacone che si trova ad avere una degna tomba e invita i prudenti a tener conto «delle controcorrenti nel mondo», cioè delle «verità» rivali; e c’è l’uomo che ha una sua «verità» sulla vita, la più vera di tutte, quella che Pirandello fissò in una novella da cui mosse l’interpretazione tilgheriana: La trappola. «Alla fine ci siete – ma si sente un passo: – l’orco, la Vita, è entrato – (stava aspettando e ha udito la molla scattare) – per guardarvi mordicchiare il formaggio stupendo, – e fissarvi coi suoi occhi ardenti. – e accigliarsi e ridere, beffarvi e ingiuriarvi, – mentre correte su e giù per la trappola. – Finché la vostra angoscia lo secca».
Ma non è qui luogo per tentare un più minuzioso accostamento. Abbiamo solo voluto dire che la tragica visione pirandelliana andava già generandosi come un presentimento, anticipando una realtà che la guerra doveva tragicamente evidenziare nella coscienza di ognuno [1].
[1] Se inforcassimo gli occhiali di Tilgher, del «pirandellismo» allo stato puro troveremmo in tante altre operedi scrittori tra loro lontanissimi, nate negli anni intorno alla prima guerra mondiale: e, tra l’altro, nell’opera di Proust. Si veda, per esempio, in Albertine disparue.
Non sembrerà dunque strana l’indifferenza che circondò l’opera pirandelliana prima della guerra; nè strano il fatto che molti critici abbian dovuto ritornare sul loro giudizio, modificandolo in parte o totalmente. Incidentalmente, diciamo che c’è ancora un fatto di «simpatia» tra la Spoon River Anthology e l’opera di Pirandello; il punto da cui entrambe scaturiscono, l’ispirazione prima: la vita di un paese con le sue atroci maldicenze, i suoi pettegolezzi, la pena di una vita vissuta dentro l’occhio sempre aperto e implacabile degli «altri».
Come Sherwood Anderson intitolò il suo più bel libro Winesburg, Ohio, tutta l’opera di Pirandello potremmo intitolare Girgenti, Sicilia: e tanto Spoon River quanto Girgenti sono, per il vigore del sentimento e dell’intelligenza che le assunsero nel mondo della poesia, il «nostro» paese, Our town (e giocando coi titoli, siamo giunti alla famosa commedia di Wilder che in Italia, chi sa perché, abbiam conosciuta col titolo di Piccola città e che felicemente testimonia di influssi pirandelliani e mastersiani, assimilati da un temperamento artistico raffinatamente composito in cui il fondo più autentico è dato da una serenità spinoziana).
Per circa un quarto di secolo, Pirandello sfuggì dunque alla comprensione della critica. Nel dopoguerra, ecco la scoperta: frenetica entusiastica appassionata. Senza il teatro, forse il nostro scrittore non avrebbe registrato punte così alte e così agitate di successo: ma forse oggi saremmo in grado di scoprirlo veramente, di serenamente rivalutarlo. Croce e i crociani, non mutarono, è vero, il loro parere: e forse l’eccessivo clamore impedì loro una più tranquilla disamina. Era difficile, tra le turbate acque della nostra letteratura, conservare il robusto buon senso di un Cajumi, uomo non legato alla professione di canoni estetici irrigiditi.
Temperamento meno irruento ed esclusivo, Silvio D’Amico era stato più prudente nel suo primo giudizio su Pirandello. Più violento era stato, come abbiamo visto, Tilgher; il quale, quando cominciò a intravedere nell’opera pirandelliana, realizzata in fantasmi d’arte, quell’inquieta filosofia che andava perseguendo, con eguale violenza si lanciò in un’appassionata esaltazione dell’opera.
Ne nacque un caso e un equivoco, degno di essere attentamente seguito. Tilgher aveva della genialità, una lucida forza espositiva, un’acutissima capacità di estrarre sintesi concettuali e formule indubbiamente suggestive da qualsiasi opera gli capitasse tra mano. E genialmente intuì come nell’opera di Pirandello si realizzasse il luogo geometrico di tutta l’inquietudine dell’ora, il dramma dell’uomo d’occidente. Gli bastò riconosce «uno stato d’animo essenzialmente cerebrale» e cogliere qualche considerazione sulla vita, la morte e la società per fissare una costellazione da far risplendere sul nuovo teatro, per stabilirne con sicurezza la rotta.
Crommelynck e Sarment, e qualche altro che oggi appare dovesse piuttosto far da zavorra che da dioscuro, entrarono nella barca del nuovo teatro. Fu una splendida navigazione; una bella avventura della critica drammatica (quella specificatamente letteraria non fu di spiriti così avventurosi): Ma per giudicarla tale, occorre un po’ guardarla con un metodo, ne conveniamo, inconsueto alla critica letteraria: guardarla cioè come si guardano certi momenti della storia che, nella loro apparente serenità e linearità e perfezione di vita, nascondono gli errori e le storture di domani – e vanno guardati per quel che allora apparivano, e non per quel che impercettibilmente nascondevano e che poi perniciosamente esplose. Così facendo, riconosciamo senz’altro a Tilgher il merito di avere «aperto le finestre», di aver portato nel nostro teatro quell’entusiasmo, quella intelligenza un po’ euforica, quell’avvertitissimo senso del nuovo che, dopo una greve parentesi di anni in cui scioccamente si pretese anche per il teatro una produzione autarchica nazionale, abbiamo visto risvegliarsi nel 1945, e fino ad oggi mirabilmente continuare.
Ma la brillante avventura tilgheriana doveva presto concludersi, dopo aver consegnato ai pubblici europei ed americani un Pirandello inchiodato ad una formula – e un Pirandello che faceva del pirandellismo.
II.
Adriano Tilgher ebbe del critico un’immagine vaticinante solenne demiurgica. «Il critico, dunque, pone o propone all’artista dei problemi da risolvere. Meglio: si attende dall’artista che li risolva, e, attendendolo, glieli espone. Glieli espone perché la vita li ha posti a lui ed egli crede che debba porli e li abbia posti all’artista degno di questo nome. Quei problemi non sono, dunque, esteriori all’intimità dell’autore come il tema del maestro lo è all’intimità del discepolo. Essi sono posti o imposti dalla vita stessa all’autore e al critico. È la Vita stessa che nell’una e nell’altro li pone a sé medesima, che nell’uno e nell’altro si atteggia come problema. L’artista non ha certo bisogno di aspettare che il critico glieli formuli, quei problemi, per conoscerli: se è un vero artista, li sperimenta e se li formula da sè. Ciò non esclude che un critico acuto possa illuminare un autore in cerca di se stesso su quello che è il suo vero problema e contribuire a precisargliene i termini, chiarendogli ciò che confuso e inespresso gli si agita dentro, suscitando e sprigionando le energie latenti in lui… Il critico non è l’uccello di Minerva che spiega le ali a sera quando il lavoro della giornata è finito e la gente è andata a letto: è il gabbiano che vola sulle ali del vento e annuncia la tempesta che sale all’orizzonte». Aggiungeva: «Non si nega il pericolo insito nella critica così compresa: che, cioè, possa cristallizzarsi in formule precise e in base a queste esaltare o stroncare. Ma quali cose umane non sono esposte al pericolo della degenerazione? I critici dei critici vi porranno riparo». La cristallizzazione in formule precise (precise per come apoditticamente vennero annunciate; riguardo all’opera interpretata, invece, piuttosto approssimative) fu proprio quel che gli accadde con Pirandello: e il pericolo fu tutto, come vedremo, dalla parte di Pirandello. E un’altra cosa non pensò Tilgher, enunciando la sua teoria sulla critica: al pericolo che un giorno il critico fosse il politico, che la Vita, invece che parlare con la bocca del critico comunemente inteso, parlasse con quella dell’uomo politico. L’uomo politico, e lo sappiamo bene, può ad un momento costituirsi critico, nel senso più rigoroso e legittimo. In un determinato sistema politico, quando un uomo solo presume di poter dar Forma alla Vita che si agita confusa ed informe, quando un uomo solo ritiene di poter risolvere per tutti il problema che la Vita pone, quale migliore maggior critico di costui?
Con Pirandello, intanto, Tilgher trovava il suo «caso». Ecco come, nel 1940, egli fa il punto dei suoi rapporti, rapporti da critico ad autore, con Pirandello: «La formula oggi, a diciotto anni di distanza dalla pubblicazione del mio saggio, è diventata ormai una formulata, che si ripete da tutti dimenticando, o fingendo di dimenticare, colui che la formulò per primo. A leggere certi critici di Pirandello, verrebbe fatto di credere che quella formula si trovi ad apertura di pagina nelle opere di Pirandello, che basti sfogliarle per darci di naso sopra. Eh no! Quella formula non si trova affatto nelle opere di Pirandello anteriori al mio saggio (1922), e ad inventarla in quei termini fui proprio e solo io. Naturalmente non la cavai dal nulla; se l’inventai in quei termini, adattando al mondo di Pirandello la terminologia filosofica di Georg Simmel, fu perché mi parve (come mi pare) che quei termini fossero eccellenti a caratterizzare in modo sintetico e perspicuo il centro del mondo pirandelliano; me ne diedero l’addentellato alcune frasi pirandelliane sparse qua e là (nelle novelle La trappola, La carriola, Pena di vivere così ecc.) ma, insomma, la formula come tale è mia e non è per niente affatto di Pirandello, e mio il merito, o demerito, di avere in essa additato il centro, il perno, l’asse della intuizione pirandelliana della vita. Quella formula, Pirandello l’adottò «e la fece sua».
Ecco come la teoria tilgheriana della critica incontrò il «caso» tipico. O forse la teoria nacque in Tilgher dall’avere incontrato quel caso? Il fatto è che le premesse teoriche del Tilgher si realizzarono in pieno, e a spese dell’autore. Ma è meglio lasciar parlare ancora Tilgher:
«Pirandello era un grandissimo scrittore ed io un modestissimo critico, tuttavia io avevo la pretesa di valere per me e non pel riflesso che della gloria di Pirandello potesse cadere su me. Perciò non intervenni mai per protestare o correggere o rettificare le infinite volte in cui si stampò o si disse o si fece dire a Pirandello che egli non accettava l’interpretazione che io avevo data della sua opera, la rifiutava, la rinnegava. Qui, mi limito a constatare che, qualunque cosa Pirandello pensasse della mia interpretazione, è un fatto che nelle innumerevoli conferenze con cui preludiava alla recita delle sue opere e nelle sue opere stesse successive alla pubblicazione del mio saggio, egli espose la sua intuizione della vita e del mondo con le stesse precise parole e formule del mio saggio. Si dica quel che si vuole: è un fatto che senza quel mio saggio Pirandello non sarebbe mai giunto a tanta chiarezza sul suo mondo interiore ; è un fatto che senza quel mio saggio, Pirandello non avrebbe mai scritto Diana e la Tuda.
Ma dopo questo innocente sfogo permesso alla mia vanità, sono il primo a riconoscere, e l’ho già riconosciuto nella terza edizione dei miei Studi sul teatro contemporaneo del 1928 (p. 252) che per Pirandello sarebbe stato molto meglio che quel mio saggio egli non l’avesse mai letto. Non è mai troppo bene per un autore acquistare coscienza troppo chiara di quello che è il suo mondo interiore. Ora, quel mio saggio fissava in termini così chiari e (almeno a tutt’oggi) così definitivi il mondo pirandelliano, che Pirandello dové sentircisi come imprigionato dentro, donde le sue proteste di essere un artista e non un filosofo (e chi aveva mai detto altrimenti? io mi ero limitato a dire che per capire la sua arte bisognava rendersi conto esatto della sua intuizione della vita e del mondo, della sua filosofia) e i suoi tentativi di evasione. Ma più cercava di evadere dalle caselle critiche in cui io lo avevo collocato e più ci si serrava dentro. Duello drammatico cui io assistevo in silenzio e da lontano, astenendomi dal vederlo, dal frequentarlo, dal parlargli, dal parlarne, dallo scrivergli e (dopo il 1928) dallo scriverne. Rispettavo così il giusto orgoglio del grande scrittore senza rinnegare di un punto le mie convinzioni di critico».
In verità la storia non è così lineare come Tilgher la espone; né il «caso» è soltanto letterario. Nel saggio da cui abbiamo tratto le affermazioni essenziali (Le estetiche di Luigi Pirandello, nel mensile Raccolta del gennaio 1940), Tilgher dice che ancora non riteneva opportuno «narrare la storia veridica e rigorosamente documentata» dei suoi rapporti con Pirandello. C’è quindi qualcosa che tace e che, nonostante il nostro tentativo di metter le mani in quella documentazione che prometteva, non crediamo si riuscirà pienamente ad illuminare.
III.
Chi scorre la biografia del Nardelli, vedrà Pirandello come un modesto e timido uomo, alieno da ogni mondano rumore, riservato e senza ambizioni, spregiante la ricchezza e il successo. È, senz’altro, una immagine falsa. Nell’Almanacco Bompiani 1938 troverete la riproduzione di un foglietto sul quale Pirandello scrisse una cinquantina di volte la parola «pagliacciate», a macchina; e sullo stesso foglietto il figlio Stefano annotò: «Oggi 9 novembre 1934 mio padre scriveva a macchina su questo foglietto mentre i fotografi e i cinematografisti lo riprendevano in posa (data del conferimento del premio) Nobel)». Nasce nel lettore una immediata considerazione: perché ha accettato il premio? Mentre i fotografi lo riprendevano «in posa», egli sceglieva un’altra posa battendo sui tasti quella parola, una posa che riteneva più coerente a quel suo mondo espresso in opere d’inchiostro.
È stato detto che di fronte alle tante parole che D’Annunzio disse, sta esemplare il silenzio del Verga. Ora, di questo silenzio verghiano, Pirandello non è proprio l’ideale consegnatario e prolungatore, come comunemente si può credere.
Muore Verga, e D’Annunzio parla ancora (e quello che dice!). E comincia a parlare anche Pirandello. Parla di sé, della sua opera; fornisce o corregge interpretazioni; e, quel che è peggio, entra con un gesto clamoroso, teatrale, da scena madre, nel politico vortice che nel 1924 sommuove e intorbida le acque della storia d’Italia. E continua a parlare: e molte cose dice che mai avremmo voluto sentire da lui; cose di cui le ossa di Vittorio Alfieri certamente fremettero.
Il tempo, questo politico tempo di risentimenti e di odi, potrebbe far apparire stonato o equivoco quel che noi diciamo. Ma se abbiamo interrogato qualche fascicolo di vecchie lettere, se qualche centinaio di ingialliti fogli di giornali è passato sotto i nostri occhi, soltanto una serena intenzione di capire ci ha spinto. Le domande che a Pirandello abbiamo rivolte attraverso queste vecchie carte, non sono, direbbe Sainte-Beuve, «le più estranee alla natura dei suoi scritti».
Il punto in cui cominciamo ad avere delle curiosità sulla vita di Pirandello, è quello che nella biografia del Nardelli vien liquidato in tre righe, pagina 259, capitolo Tra la metafisica e una villa. «Il fascismo attraversava una tragica ora; un tempo di defezioni e di fuggi fuggi. Fu proprio allora che Pirandello si iscrisse al partito». È bene avvertire, una volta per tutte, che Pirandello ha «parlato» anche col Nardelli, che la biografia di costui è cioè direttamente ispirata dal biografato. Ora, se Pirandello ha voluto contrarre in tre righe un tale momento della sua vita, una ragione ci deve essere. Non fosse per le dichiarazioni rese al Cremieux («On a écrit quelque fois que j’étais un des precurseurs du fascisme. Dans la mesure où le fascisme a été le refus de tante doctrine préconçue, la volonté de s’adapter à la réalité, de modifier son action à mesure que cette réalité se modifie, je crois qu’on peut dire que j’en ai été un des précurseurs… Il faut des Césars et des Octaves pour qu’il puisse exister des Vergiles»: Le journal, Parigi 1 dic. 1934), diremmo che già allora (1932) Pirandello si preparava a morire «nudo».
«Al ritorno dagli Stati Uniti», scrive Nardelli, «Luigi trovò la patria in subbuglio». In questo caos Pirandello non ha esitazioni; manda un telegramma a Mussolini e chiede l’iscrizione al Partito Nazionale Fascista. Telesio Interlandi, redattore de L’ impero, corre a intervistarlo (23 settembre 1924): ne cava un buon corsivo, buonissimo per i tempi che corrono. «Chiunque abbia avuto dimestichezza con il grande commediografo sa che egli è, per natura, un antidemocratico, un nemico dichiarato d’ogni ideologia intessuta di immortali principi… Pirandello ha spiegato il suo atto con una sola parola: Matteotti… atto che aveva sconcertato gli avversari del Fascismo, in ispecial modo quelli che cianciano di una presunta incompatibilità tra Fascismo e Intelligenza». Pirandello ha parole di disprezzo per l’opposizione e suoi capi, non perdona a Mussolini l’aver dato loro molta importanza, l’averli, in effetti, «creati». Interlandi finisce giocando con la formula «Vita-Forma» per spiegare come «il grande commediografo sia lo spirito più adatto a intendere e amare l’essenza attivistica del Fascismo». Le parole di Pirandello contro, l’opposizione, toccarono direttamente Giovanni Amendola, che rispose su Il mondo (25 settembre) con un violento corsivo (non firmò: e, a quanto pare, nella polemica che seguì, il corsivo venne attributo ad Alberto Cianea): Un uomo volgare. Dice, lo Amendola, come Pirandello aspirasse alla nomina a senatore e, non essendo riuscito ad entrare nella senatoriale infornata che proprio in quei giorni si pubblicava, avesse mascherato la sua delusione e mostrato indifferenza e disinteresse tributando fede al fascismo. E non può, Amendola, trattenersi dal vibrare un colpo proibito e, in un certo senso, sbagliato: «È così questo povero autore, che peregrinò vent’anni in cerca di fama – come uno dei suoi personaggi… in cerca di autore e che finalmente trovò il suo autore e l’inventore della sua più generosa valutazione non troppo lontano dal bersaglio odierno dei suoi strali sine ictu…». Il colpo, ripetiamo, è sbagliato: intendendo nominare Adriano Tilgher, critico drammatico del suo giornale, Amendola commetteva due errori: primo, ritenendo che un autore debba bruciare al suo critico, e sia pure questo critico l’unico che abbia ben compreso la sua opera, un inesauribile incenso di gratitudine, e su tutte le are; secondo, implicitamente offendendo Tilgher attribuendogli una valutazione «generosa». Ma forse intendeva dire, invece che generosa, sbagliata: e Tilgher spiegherà poi che sempre Amendola ha giudicato Pirandello «infinitamente inferiore alla sua fama».
Per la prima volta, dunque, Tilgher viene, considerato l’inventore, l’autore della fama di Pirandello; e abbiamo già visto come poi Tilgher si considerò qualcosa di più: addirittura il creatore di Pirandello, del Pirandello che viene dopo la sua interpretazione.
Il corsivo di Amendola suscitava una protesta, promossa da Antonio Beltramelli, Massimo Bontempelli, Alfredo Casella, Silvio D’Amico, Cipriano Efisio Oppo: i quali si ribellarono «alla torva manifestazione di parte» che dall’adesione di Pirandello al fascismo ha tratto occasione per «vilipendere la pura figura morale dell’uomo insigne». La protesta (ingenuità o provocazione?) viene inviata a Tilgher per una firma di adesione: e su Il Mondo (28 settembre) Tilgher risponde: «Non l’adesione al fascismo, sic et simpliciter, ma l’attacco violento che egli ha sferrato contro l’opposizione e, specificatamente, contro il capo dell’opposizione costituzionale, alle idee del quale Il Mondo si ispira, ha attirato a Luigi Pirandello gli attacchi da voi deplorati, e che vanno evidentemente diretti non al Pirandello commediografo puro e semplice, ma al Pirandello uomo politico… Perciò, mentre qualunque iniziativa diretta ad onorare Luigi Pirandello artista mi ha, e mi avrà sempre, toto corde partecipe, sono obbligato ad astenermi dall’aderire alla vostra iniziativa che, nella più favorevole delle ipotesi, non distingue abbastanza l’artista Pirandello da Pirandello uomo di parte, e di una parte che non è la mia, e che, anche pei nomi dei proponenti, mi ha tutta l’aria di una manifestazione più politica che artistica. Voi potrete cancellare questa impressione che in me, e non in me solo, ha suscitato la vostra iniziativa associando a Luigi Pirandello, Roberto Bracco e Sem Benelli, che anch’essi videro, e precisamente da giornali di parte fascista, dimenticato l’onore e il rispetto penosamente conseguito il giorno in cui, all’infuori del loro lavoro di artisti e di studiosi, si permisero di manifestare la loro fede politica. E né Bracco né Benelli avevano mai prima violentemente attaccato gli uomini dell’altra parte».
Quello che ci sorprende in questa risposta di Tilgher è l’affermazione che l’attacco di Amendola è stato tutto rivolto all’uomo di parte e non all’artista. Da un uomo così moralmente rigido e preciso ci saremmo aspettata una risposta più franca. Ma forse il fatto è che qualche dubbio sulla propria «generosità» cominciava a insinuarsi nella sua coscienza critica.
Quel gentiluomo inglese che, abbonato al Times, leggeva ordinatamente il suo giornale col ritardo di qualche anno, sapeva quel che faceva. Lontana, ormai conclusa e dimenticata, la polemica che dalla nota di Amendola si allarga in concentriche onde – dai grandi giornali ai giornali di provincia e poi ai giornali esteri ci appare oggi, serenamente guardata, ricca di un qualche significato durevole. Ecco il Corriere d’Italia di Roma (26 settembre): l’anonimo corsivista non vuol guastarsi con nessuno, si stupisce e dell’adesione di Pirandello al fascismo e dell’attacco del Mondo allo scrittore, e conclude: «Adriano Tilgher ha scoperto, in un certo senso, Luigi Pirandello agli italiani e, dicono i maligni, a Pirandello stesso, il quale continuava a ripetersi ancora, di fronte alla creazione del critico: Ma sono io o sono Tilgher?; quando la fanfara fascista lo ha distratto dall’angoscioso problema…».
Questa piccola dose di veleno nascosta nella coda, ci dice oggi molto di più di quanto potesse allora dire al lettore del Corriere d’Italia. Ma non tutti i giornali furono capaci di assumere questo tono garbato e insieme maligno. I più si lanciarono violentemente nella mischia. D’Amico, Bontempelli, Ojetti, Alvaro: il piccolo caso diventa, nei titoli giornalistici, prima un «carnevaletto» e poi un «affaire». E il Sancio Pancia, foglio umoristico romano, commenta: «d’altro non si discute e si discorre, – per ogni dubbio torre, – su chi mai nacque prima: – se Tilgher (uovo) o Pirandello (gallina)…». Finalmente, il 3 ottobre, Pirandello si fa vivo [2]: dice che, a saperlo, avrebbe sconsigliato agli amici la pubblica protesta, li ringrazia e conclude: «Chi mi conosce sa che non sono un uomo volgare».
[2] Il 24 settembre. Pirandello aveva però inviata a Interlandi una lettera di chiarimento relativamente al suo punto di vista, espresso nell’intervista, sulla soppressione della stampa avversaria (v. Almanacco Bompiani. 1938).
Ma ormai gli echi della polemica vanno accendendo i fogli di provincia e Sicilia eroica malinconicamente ricorda una dichiarazione di Pirandello a Villaroel, pubblicata dal Giornale d’Italia: «Sono apolitico: mi sento soltanto uomo sulla terra. E, come tale, molto semplice e parco; se vuole, potrei aggiungere casto…» [3].
[3] Che la cosiddetta ideologia pirandelliana non avesse niente a che fare con la cosiddetta ideologia fascista, Pirandello stesso certamente riconobbe negli anni che seguirono. Ma fu un uomo troppo debole per rischiare qualcosa contro il regime: scrisse la novella Qualcuno ride, che gli fu perdonata, ma sempre, e l’abbiamo visto nelle dichiarazioni a Crémieux del ’34, professò fede fascista. La rappresentazione della sua Favola del figlio cambiato, musicata da Gian Francesco Malipiero (Roma, Teatro dell’opera, 24 marzo 1934), con l’aperta ostilità dei fascisti che provocò, fu per Pirandello (e lo ricorda Malipiero) un colpo gravissimo. Ma il più grande atto di protesta contro il fascismo, Pirandello lo fece da morto.
«Quell’uomo nel punto supremo del suo destino terreno, affermò di poter essere libero finalmente nella morte. Fu una cosa che tutti sentirono, anche se non se ne spiegarono il valore profondo di riparazione a ogni possibile errore o debolezza».
(Corrado Alvaro, sul Corriere della sera del 22 dic. 1946).
Ciò che ha attirato la nostra attenzione su questa polemica è quel suo carattere che vorremmo dire «strabico». È vero che molto spesso coloro che polemizzano finiscono con l’allontanarsi dal centro d’origine della loro discussione; ma in questo caso lo strabismo polemico è molto più evidente e curioso. Non è l’adesione al fascismo, i consigli da «3 gennaio» di Pirandello e il conseguente attacco di Amendola che restano al centro dell’interesse generale, ma il rapporto Pirandello-Tilgher, l’inconsueta forma che per loro, per entrambi, ha assunto il rapporto tra autore e critico. Scherzando, il Sancio Pancia ha colto benissimo; e, malignando, benissimo ha colto Il Corriere d’Italia. In questo senso: che il Pirandello vulgato, quello che avrà la popolarità di cui abbiamo già detto, e il Pirandello secondo, quello delle opere successive al saggio di Tilgher, cominciano già ad apparire creazioni tilgheriane. E abbiamo visto come questa convinzione è già maturata nella coscienza del Tilgher, nelle conclusioni del 1940.
Adriano Tilgher ebbe un carattere duro intransigente bilioso. I suoi amici, che pur l’amarono, ne sanno qualcosa. Egli aveva foggiato un Pirandello a sua immagine e somiglianza: perciò l’adesione di Pirandello al fascismo dovette sconvolgerlo. Dichiarò di esser sempre disposto a distinguere l’uomo dall’artista, e di esser sempre pronto ad onorare l’artista. Ma è troppo chiedergli che, negli anni che seguono, egli faccia fede a questa sua dichiarazione del ’24. Nel 1927 sulla rivista Humor che si pubblicava a Roma, Tilgher teneva una rubrica, anonima, di frecciate letterarie. Ecco nel numero del 1° giugno una nota su Diana e la Tuda:
«L’ultima tragedia di Luigi Pirandello, Diana e la Tuda, rappresentava la lotta della Forma con la Vita, con sconfitta della Forma (Sirio) presa alla gola dalla Vita (Giuntano) e strangolata. Sappiamo che l’illustre scrittore ha sul telaio altre tragedie:
in una è la Forma che strangola la Vita;
in un’altra Forma e Vita si strangolano a vicenda;
in una terza Forma, Vita e Autore sono strangolati dal pubblico, ecc. ecc.».
E qui, poco male: in forma paradossale e umoristica traduce quel che è stato il suo giudizio di critico drammatico. Ma segue un’altra frecciata, meno legittima e più acre:
«E un’altra tragedia ho sul telaio, signore! – ci confidò all’orecchio Luigi Pirandello. – Un’altra tragedia, la più tragica di tutte, la tragedia delle tragedie! Tragedia originalissima e vera, signore, vera più della stessa verità. Immaginatevi, signore, un uomo avido di vivere, di godere, di amare, e che dalla sorte iniqua è condannato a passare i giorni facendo il professore con uno stipendio di fame. Il suo talento di artista è misconosciuto, le sue novelle o non trovano editore o non trovano lettori, la sua sete di vivere e di godere non ha di che saziarsi, la giovinezza amabile tra cui vive non ha occhio per l’uomo, non vede in lui che il professore pedante e barboglio. Quest’uomo, condannato a una vita miserabile e tapina, si rode dentro, si cava l’anima come una talpa, e giunge a una concezione pessimista degli uomini, a una visione tragica della vita. Egli scrive romanzi e drammi in cui si esprime questo suo nuovo senso della vita, ed essi hanno un successo enorme e grandioso. A lui ormai sulla soglia della vecchiezza, piovono di colpo a diluvio, a grandinate, onori, ricchezza, fama. Le belle donne mostrano finalmente di accorgersi di lui, lo guardano, gli sorridono, gli si offrono. E nell’anima attristata di lui scende finalmente un raggio di luce. La vita gli par bella, amabile, degna di esser vissuta. Egli vorrebbe cantare la gioia, l’amore, la vita. E no, non lo può. Egli è onorato, celebrato e pagato perché faccia il pessimista, l’uccello di malaugurio, e canti l’orrore e la malinconia di vivere. Egli ha così bene cantato la fame e la sete, che tutti si sono commossi, gli han portato da mangiare, e lo hanno impinzato a scoppiare. Ora che ha la pancia gonfia come un tamburo vorrebbe cantare per una volta le delizie del chilo, e no, non può. Sazio deve cantare lo strazio del digiuno. Naturalmente, lo canta contro genio e lo canta male. E allora tutti lo chiamano esagerato, esaurito, limone spremuto. I suoi libri non si vendono più, le sue commedie fanno dei forni. Le belle donne non lo guardano più in faccia e ne dicono corna. Ed egli si vede minacciato di tornare a digiunare perché, sazio, non sa più cantare lo strazio del digiuno. Ditemi, signore, ditemi, conoscete voi una tragedia più tragedia di questa, la tragedia dell’uomo che quando è digiuno, digiuna perchè è digiuno, e quando è sazio è minacciato di tornare a digiunare perchè non sa cantare lo strazio del digiuno?
Scusi, Maestro, l’indiscrezione, ma che, per combinazione, scusi, sa, fosse, questa, una tragedia autobiografica?».
Qui è Tilgher che ha bisogno di essere compreso e giustificato: perché il colpo è basso, uno di quei colpi che tutte le buone regole danno per proibito. E non si tratta, come il titolo della rivista che lo ospita dovrebbe far pensare, di uno scherzo: è una cosa terribilmente seria, livida. Se nel 1940 Tilgher dice che Pirandello è un grande, grandissimo scrittore, per credergli dovremmo dimenticare questa feroce nota che fa di Pirandello un piccolo, piccolissimo scrittore; oltre che un infimo uomo. Un uomo la cui tragica visione dell’esistenza, la cui opera travagliata e dolorante nasce dalla inattività dello stomaco e di altri più o meno innominabili organi, da tutti i desideri che la vita e la società rifiutano di appagargli, è un povero uomo e un piccolo scrittore. Bisogna, dicevano, trovare delle giustificazioni per Tilgher, per questo suo irrazionale movimento; e trovarle in quel silenzio che intorno a lui andava chiudendosi, nelle umane e politiche limitazioni che gli si assiepavano, intorno: e Pirandello era dall’altra parte, ed aveva anche (si veda nelle lettere riportate in appendice), qualche volta, il cattivo gusto di ricordarglielo, di ricordare a lui, Tilgher, quel che in Italia accadeva, larvatamente esprimendogli il desiderio di averlo con sé, dall’altra parte. In queste condizioni, a Tilgher non restò che l’acre piacere di registrare defezioni e viltà, il ridicolo e le storture degli altri. E proprio quando Antonio Gramsci cominciava nel carcere a guardare serenamente nell’opera pirandelliana, Tilgher perdeva la propria serenità, la misura del proprio giudizio.
E Pirandello cominciò a voler dimenticare Tilgher; volle smentirlo o tacerne. Più dello scrittore erano interessati a smentirlo o dimenticarlo gli altri critici. Non era facile: né per loro né per Pirandello. Quando Silvio D’Amico scrive che nel «dissolversi del principio d’identità, in questo variare della personalità umana (e del mondo ch’essa pensa) in una mutevole fantasmagoria d’ombre vane, si scopriva il nucleo ideale dell’arte di Pirandello», non si discosta di un pollice dalla interpretazione di Tilgher: che cosa sono infatti le ombre vane se non vane Forme, se non Vita folgorata e incenerita in Forme? Non importa che D’Amico, come dice, sia giunto a trovare «il bandolo della matassa» un anno prima che Tilgher varasse la sua interpretazione: è Tilgher che, anche per D’Amico, riesce a svolgere tutta la matassa. La tirata centrale del Padre nei Sei personaggi, perno dell’interpretazione di D’Amico, entra senza residui nella formula tilgheriana. Il gioco degli specchi è appunto il gioco delle Forme, l’ossessionante dissolversi in Forme del principio d’identità. Nessuno fu più capace, insomma, di leggere Pirandello senza quei filosofici occhiali che Tilgher lasciò sull’opera, a comporre una simbolica e anticrociana natura morta. A distanza di anni, ne fu tentato persino Giacomo Debenedetti, critico che, ripetiamo, ha scritto su Pirandello pagine tra le più penetranti e persuasive. Muovendo dal discorso di Bontempelli, stupendo e vivo discorso, Debenedetti ad un punto non fa che sostituire al binomio Vita-Forma quello Creatura-Personaggio. «A somiglianza di una celebre definizione che fa dell’universo kantiano una catena di causalità sospesa a un atto di libertà, si potrebbe riassumere L’universo pirandelliano come un diuturno servaggio in un mondo senza musica, sospeso ad una infinita possibilità musicale: all’intatta e appagata musica dell’uomo solo». La musicale possibilità della creatura, il musicale e libero fluire della Vita; e il diuturno servaggio della creatura che ha voluto individuarsi personaggio, cioè Forma. Ma bisogna leggere il saggio per vedere quale mirabile articolazione critica, quale vigore e passione assume, quale positivo «antagonismo», l’affiorare della pericolosissima formula. «Chi dicesse che Pirandello fu, e rimane, un grande frainteso, passerebbe per uno stravagante, o per uno scandalista a buon mercato. Eppure avrebbe per sé una grossa percentuale di ragione. Senza dubbio Pirandello ottenne, con l’opera sua, quello che si dice tutto… Ma se apparve un grande, se per lui si potè spendere la parola di genio, se egli fu – per dirla con lui – qualcuno, non abbastanza si seppe vedere che quella grandezza era di artista, che il qualcuno era qualcuno perché poeta. Salvo eccezioni, non lo si inseguì nella profonda, originale zona dell’anima che si concreta nella parola: cioè là dove vanno esplorati i poeti. Pure di rado si diede, come per Pirandello, il caso dello scrittore rivelato e portato all’universale riconoscimento dalla critica. Critica ancella, però: critica, nel miglior senso, complice. La quale, di fronte all’artista di apparentemente difficile accesso, sentì il bisogno di chiarire più che di capire e con le sue lanterne cieche corse e si ravvolse dietro Pirandello per gli speciosi labirinti di Pirandello… Mancò insomma la critica vera, che è sempre antagonistica: che tenta guardare, come sa e come può, dietro le astuzie della Provvidenza». Nel bilancio della critica su Pirandello pesa perciò un enorme passivo. L’attivo è rappresentato da Bontempelli, Debenedetti, Gramsci e da qualche luminosa nota di Cajumi, Savinio e Alvaro.
IV.
Tilgher scoprì, nel pubblicistico senso della parola, Pirandello. E, quel che è peggio, scoprì Pirandello a se stesso. Lo chiuse in una formula lucida e perentoria, lo costrinse a pan processo di involuzione, ad una spirale filosofica in cui la fantasia dello scrittore, che veramente fu grande, si consumò. Critico e autore si accorsero troppo tardi di quel che accadeva: la loro «complicità» era giunta ad un punto tale per cui il distacco diventava impossibile: e il pubblico, il grosso pubblico, la cementò, la rese più durevole e, in un certo senso, più penosa e drammatica. La tragedia, se così si può dire, di Pirandello non fu quella che Tilgher crudelmente deride in quella noticina che abbiamo riportata dalla rivista Humor, la tragedia dell’uomo sazio che deve cantare il digiuno, dell’uomo divenuto ottimista che deve continuare a sembrare pessimista: fu quella dello scrittore ormai inchiodato dalla sua critica e dal suo pubblico ad una immagine di sé, ad un modo e ad una forma (e qui la parola cade nel senso pirandelliano e tilgheriano: cristallizzazione e morte della fluidità e libertà creatrice) di essere, definitivamente. Questa condizione maturò nello scrittore per intima soggezione, per la troppo chiara certezza di vedere nel proprio mondo interiore, o per quella più esteriore e volgare soggezione di perdere il proprio pubblico, di tradirne le esigenze e le aspettative? Forse per le due cose assieme; e più per la seconda che per la prima. Ne abbiamo una prova nelle Novelle per un anno, dove Pirandello, libero della immediata preoccupazione del suo pubblico, si svolge con una autonomia, una libertà fantastica e inventiva da farci pensare che il cammino vero dello scrittore bisogna appunto seguirlo nelle novelle. Già prima della guerra la sua opera è compiuta, nel senso che in essa è già nettamente specchiata la personalità dello scrittore, il suo mondo: ma mentre nelle successive opere teatrali vedremo Pirandello involgersi e impigliarsi nel pirandellismo, rifare e un po’ parodiare se stesso, nelle novelle scorgeremo invece un inesauribile arricchimento. Le novelle sono la sua segreta riserva, cui attinge a piene mani per il teatro; la segreta copertura aurea di quella circolazione cartacea che è ad un punto suo teatro. Una scaltrita tecnica teatrale, un innato senso del dialogo, ed ogni novella potenzialmente pronta ad essere trasformata e articolata nell’atto unico o addirittura nei tre atti, rendono praticamente inesausta la sua dedizione al teatro. Ma gli accade quel che in proporzioni più modeste accade al Verga: Cavalleria rusticana e La lupa preferiremmo Verga non le avesse mai trasportate sulle scene. Con una eccezione grandissima: Così è (se vi pare), che nei tre atti teatrali ha assunto un vigore di fantasia, una felicità di creazione che tra le novelle non rivelava.
Nelle novelle, tra l’altro, è particolarmente notevole lo sforzo che Pirandello tentava per «scriver bene». Senza dubbio la sua pagina, tutta nell’impeto del «parlato», non è un modello di stile. I suoi autografi non riveleranno certamente nessun travaglio in tal senso. I suoi appunti da taccuino che egli intitolava Per scriver bene non rivelano nessuna arcana alchimia, non scoprono segrete e preziose distillazioni. Vi si trovano registrate frasi come queste: «Son cosacce pur che siano checché tu une dica»; «Non ha per nulla estimativa»; «Non me la faccio certa, ma insomma…»; «Uno scherzo che passa la parte»; «Sbottonarsi la sottana da fianco». Sono piuttosto appunti per un dialogo da film neorealista. Ma nelle novelle, e specialmente nelle ultime, gli accadde di «scriver bene»: i suoi mezzi espressivi si affinavano, la sua prosa si faceva più sensibile, più aerea, più «scritta». Uno scrittore come Cecchi dovette seriamente impressionarlo (e lo dimostra l’aver dettato, appunto per le Corse al trotto di Cecchi, un giudizio entusiastico ed ammirativo). Tirando ad indovinare, diciamo che sarà possibile trovare più tormentati gli autografi delle sue ultime novelle, a provare il più acuto senso della parola trasfiguratrice che lo scrittore veniva acquistando.
Liberandosi dunque dalle preoccupazioni «filosofiche», dall’angustia della formula, lo scrittore mostrava il suo volto vero, si abbandonava ad un estro creativo rigoglioso e nativo: e ciò lo portava anche a riflettere sul suo mezzo espressivo, lo inclinava alla suggestione della prosa d’arte. Nella prefazione ai suoi Quarantanove racconti, Hemingway dice: «Mi piacerebbe vivere tanto da poter scrivere altri tre romanzi e venticinque racconti. Ne so di quelli buoni». Ebbene, lasciamo stare i romanzi [4] e, sopratutto, le commedie: ma Pirandello avrebbe ancora dovuto vivere tanto da completare la raccolta delle Novelle per un anno, trecentosessantacinque, per ogni giorno una: davvero ne sapeva di buone: e in esse avremmo ritrovata, nel suo fluire più limpido, quella sorgiva e imprevedibile fantasia scorrere fino alla sua foce – che non era quella (vi prego di credere, direbbe il nostro scrittore) segnata nella mappa tilgheriana.
[4] Tra i romanzi di Pirandello quello che, a parer nostro, si salva è Giustino Roncella nato Boggiòlo: romanzo per tanti aspetti mancato, ma in cui Pirandello fu, più che in ogni altro, vicino alla perfezione. Poteva ben essere, e felicemente, il romanzo del chisciottismo letterario, e a momenti il lettore ne ha il presentimento: con quel Sancio pieno di contabile buon senso che è Giustino, che infine ci si attende bruci al fuoco della «letteratura», entri nel puro gioco, dimentichi i conti e la pubblicità; appunto come Sancio nell’avventura eroica.
Lasciando da parte Il turno, che è piuttosto una novella lunga; I vecchi e i giovani (che incredibilmente P. Puliatti e E. Bottino, in Lineamenti sull’arte di L. P., Catania, 1911, pongono al centro dell’arte pirandelliana), romanzo mancato in pieno, da non paragonarsi alla perfetta, se pur limitata narrazione ciclica de I vicerè (v. il giudizio di Cesare Pavese, a pag. 58 de Il mestiere di vivere); lo stesso Fu Mattia Pascal è ben lontano del raggiungere la vitalità fantastica che ebbe il Pirandello delle novelle migliori: in certe parti, appesantito e «filosoficamente» balbettato; in certe altre leggero ed ilare, con movimenti da opera buffa, e sono le parti migliori.
A questo punto, crediamo venuto il momento di citare Gramsci, e di rifarci al suo punto di vista. Bisogna tener conto che egli scrive in carcere, non ha a soccorrerlo che pochi libri e la sua limpida e certa memoria: e in quel silenzio fisico che lo circonda, che porterebbe altri alla fiacchezza e alla disperazione, egli miracolosamente diviene, idealmente accanto a Benedetto Croce, l’uomo più libero che sia possibile trovare nell’Italia dei fascismo. Non diciamo libero nel pensare politico soltanto, ma nella più ampia e sconfinata libertà intellettuale. Ed ecco Pirandello «liberamente» visto: «In realtà, non pare si possa attribuire al Pirandello una concezione del mondo coerente, non pare si possa estrarre dal suo teatro una filosofia e quindi non si può dire che il teatro pirandelliano sia filosofico. È certo però che nel Pirandello ci sono punti di vista che possono riallacciarsi genericamente a una concezione del mondo, che all’ingrosso può essere identificata con quella soggettivistica. Ma il problema è questo: 1) questi punti di vista sono presentati in modo filosofico, oppure i personaggi vivono questi punti di vista come individuale modo di pensare? Cioè, la filosofia implicita è esplicitamente solo cultura ed eticità individuale, cioè esiste, entro certi gradi almeno, un processo di trasfigurazione artistica nel teatro pirandelliano? E ancora si tratta di un riflesso sempre uguale, di carattere logico, o invece le posizioni sono sempre diverse, cioè di carattere fantastico?; 2) questi punti cil vista sono necessariamente di origine libresca, dotta, presi dai sistemi filosofici individuali, o non sono invece esistenti nella vita stessa, nella cultura del tempo e persino nella cultura popolare di grado infimo, nel folclore?
Questo secondo punto mi pare fondamentale ed esso può essere risolto con un esame comparativo dei diversi drammi, quelli concepiti in dialetto e dove si rappresenta una vita paesana, dialettale e quelli concepiti in lingua letteraria e dove si rappresenta una vita superdialettale, di intellettuali borghesi di tipo nazionale e anche cosmopolita. Ora, pare che, nel teatro dialettale, il pirandellismo sia giustificato da modi di pensare storicamente popolari e popolareschi, dialettali; che non si tratti cioè di intellettuali travestiti da popolani, di popolani che pensano da intellettuali, ma di reali, storicamente, regionalmente, popolani siciliani, che pensano e operano così, proprio, perché sono popolani e siciliani. Che non siano cattolici, tomisti, aristotelici non vuol dire che non siano popolani e siciliani; che non possano conoscere la filosofia soggettivistica dell’idealismo moderno non vuol dire che nella tradizione popolare non possano esistere filoni di carattere dialettico e immanentistico. Se questo si dimostrasse, tutto il castello del pirandellismo, cioè dell’intellettualismo astratto del teatro pirandelliano crollerebbe, come pare debba crollare».
Pagina di mirabile intuizione. Con fulminea chiarezza Gramsci giunge al centro vivo e palpitante dell’opera pirandelliana: ha capito (e così l’avesse capito Croce!) che i personaggi di Pirandello, fantasticamente trasfigurati, provenivano da una realtà storicamente viva, localizzata nel tempo e nello spazio; erano persone e non dei fantocci.
E capisce che più di un Verga, di un De Roberto, di un Capuana stesso, Pirandello entra nel «credo» realistico, al punto da divenire un «dialettale», un artista cioè che riesce a concepire la vita paesana in termini dialettali (non diremmo, col Gramsci, folcloristici: ma nel senso più strenuo della parola, realistici, essendo provata, nella nostra letteratura, l’impotenza degli italiani a fare del realismo se non nei termini della dialettalità), che riesce a scendere «nella cultura popolare di grado infimo». Dentro tale cultura, l’artista scopre quella vena di carattere dialettico e immanentistico che scorre sotto la cattolica superficie del siciliano. E scopre, per dirla col Janner, quella passione che muove e condiziona e domina tutte le altre passioni: quell’amor proprio che La Rochefoucauld acutamente definì, ma che qui va però intesa in un senso un po’ più meschino e istrionesco. Passione che al Verga sfuggì, diciamo al Verga delle realistiche illusioni di scuola. Nello sviluppo logico, necessario, delle passioni, di cui dice in una dedicatoria a Salvatore Farina (L’amante di Gramigna), Verga non vide questo primo anello della catena. Come ben vide il Lawrence, i personaggi di Verga sono «oggettivi». Rovesciate l’«oggettività» di Alfio, risalite dalla «catastrofe» (quella catastrofe che Verga si illudeva di sacrificare) allo sviluppo logico delle passioni: e avrete il «soggettivo», tortuoso, sofistico protagonista del Berretto a sonagli. E prendete Ieli, il pastore di Verga e La verità di Pirandello: nel primo racconto, a Ieli già la gente «beccava la faccia», rivelava direttamente o per grosse allusioni la relazione amorosa tra sua moglie e don Alfonso; e Ieli non capisce, né il suo sangue né la sua ragione sentono il significato di quel che gli cantano; il suo furore divampa improvviso e incontenibile quando davanti ai suoi occhi è l’immagine di quel tradimento. Nel racconto di Pirandello, la catastrofe è già consumata, una piccola e feroce catastrofe rurale, e Tararà si sente in dovere, quasi compreso della retorica solennità del tribunale, di raccontare la verità. Sì, sapeva del tradimento della moglie, se ne era accorto, ma se ne stava buono: di fronte agli altri, egli figurava ignaro. Ma dal momento che qualcuno si era preoccupato di informarlo di quel che gli combinava la moglie, eh no, non poteva più fingere, doveva agire per come una simile circostanza vuole che si agisca.
Verga ha della tragedia il senso che ne avevano i greci antichi: vede le passioni scattare stupendamente, con veramente tragica e fatale irruenza, con un vigore imponderabile; è ancora una questione di grandi gesti, di grandi parole e il corrusco cielo della fatalità. Pirandello scopre che quei grandi gesti, quelle grandi parole hanno un nascosto meccanismo, e lo smonta. Scopre nel grandioso gesto dell’«onore» la piccola carica di «amor proprio»: e costringe i personaggi a frugarsi dentro, a ragionare lucidi e’ spietati, sul meccanismo che li muove. Quel sentimento della propria anima di cui i personaggi di Verga, «oggettivi» come i greci antichi, non sono tanto sciocchi da lasciarsi opprimere (Lawrence), diventa per i personaggi di Pirandello un gioco continuo fisso allucinato. E così Pirandello scopre anche che tra la catastrofe e la causa, tra la passione suscitatrice e il gesto che più o meno sanguinosamente la suggella, c’è una sproporzione ironica; che tra «le ragioni della realtà» e le illusioni eroiche (cioè tragiche) c’è quella sproporzione da cui si genera l’umorismo, che è appunto il sentimento del contrario. Il cammino dei grandi ideali si trascina dietro piccole ombre grottesche, e il rapporto tra causa ed effetto ricreato in termini fantastici, da una fantasia che non ha a condizionarla alcun ideale attivo.
Il Lawrence, profeta di una religio solare e tellurica, si lascia ad un certo punto sfuggire un’affermazione più brillante che vera: «Al sole si è oggettivi, nella nebbia e sotto la neve si è soggettivi». I personaggi di Pirandello, secondo Lawrence, non avrebbero dunque diritto di cittadinanza nelle, terre del sole. Il fatto è che egli conobbe, e non sempre oggettivamente, quella parte della Sicilia adagiata nell’arco della riviera jonica, la parte estrema della Sicilia orientale; e non i paesi dell’interno, quelli che di greco hanno i ruderi rovesciati sull’erba stenta, e non l’anima. Paesi chiusi, solitari; come isole dentro un mare invalicabile; e ciascun uomo disperata e chiusa isola in sé. E chi affermò che intorno a Catania il bandito Giuliano non avrebbe potuto resistere più di un mese, mentre intorno a Palermo si mosse agevolmente, e sanguinosamente, per anni, muoveva da una conoscenza della Sicilia profondamente vera. Tra Palermo e Agrigento il silenzio degli uomini è duro, feroce; tanto meno si parla, tanto più uomini si è; tanto più si basta a se stessi, tanto più degnamente si vive. E, paradossalmente, questi uomini, che sono negati ad ogni forma di concreta comunità, sia di beni che di sentimenti, vivono e si torturano per «gli altri». Di ciò il Lawrence ha avuto una singolare intuizione: «E presi uno per uno, anche gli uomini (i siciliani) hanno qualcosa della particolarità noncurante e ardita dei greci antichi. È nello stare insieme come cittadini che diventano gretti». Gretti: e forse intende dire che acquistano quel deteriore (deteriore per lui, grande romantico di antiromantiche illusioni) sentimento della propria anima che i greci non erano tanto sciocchi da lasciare che in loro si insinuasse. Perché è la vita nei paesi, il sentirsi costantemente riflesso e giudicato negli altri, che dà al siciliano quella spietata voglia di frugarsi dentro, di ridurre la propria anima a un solitario, morboso e diabolico «passatempo»: il gioco di carte della solitudine, compiacimento disperato di sfuggire agli altri, di far per gli altri carte false pur conoscendo spietatamente le vere. Questo perché sa che gli altri sono come lui: il suo modo di amare il prossimo (il prossimo della cinta daziaria) è quello di odiarlo come se stesso.
Trapiantate il siciliano in un ambiente in cui gli altri non sono, o egli si illude non siano, come lui: avrete un uomo alacre, fiducioso, atto a porsi e a risolvere i problemi di una comunità. In Sicilia è difficile la nascita di una società commerciale (io ruberei, ruberà anche il mio socio); un’amicizia tra famiglie (a me piace la moglie del mio amico, al mio amico potrebbe anche piacere mia moglie); qualsiasi rapporto umano che poggia su basi di una reciproca e totale fiducia. Bisogna riconoscere che, da qualche anno a questa parte, le cose sembrano in apparenza cambiare: ma il Brancati, che di questo mondo è l’arguto cronista e un po’ il moralista, di nuovo non trova che elementi francamente comici dentro la casistica drammatica pirandelliana.
V.
«Perciò appunto», scrive il Gramsci, «è da accertare e fissare che l’ideologia pirandelliana non ha origini libresche e filosofiche, ma è connessa a esperienze storico-culturali vissute con apporto minimo di carattere libresco [5].
[5] Di origine libresca, e per il precedente pirandelliano, è invece parte del teatro di Eduardo De Filippo (Questi fantasmi, La grande magia). De Filippo sa magistralmente giocare con le formule che la critica teorizzatrice cavò dall’opera pirandelliana. È un notevole epigono del «pirandellismo»: e spesso, paradossalmente, con effetti più autentici di quelli raggiunti dal Pirandello secondo.
Non è escluso che le idee del Tilgher abbiano reagito sul Pirandello, che cioè il Pirandello abbia, accettando le giustificazioni critiche del Tilgher finito col conformarvisi e perciò occorrerà distinguere tra il Pirandello prima dell’ermeneutica tilgheriana e quello successivo». Non solo: bisogna liberare Pirandello da tutte le incrostazioni filosofiche e pseudofilosofiche, da tutte le etichette concettuali, in una parola dal pirandellismo. Restituire in sede critica all’opera pirandelliana quella varietà e libertà, quella effervescenza fantastica, che oggettivamente possiede. Né Georg Simmel né Gorgia da Lentini.
Ci troviamo di fronte a un corpus di opere fantastiche, di poesia, nate da uno «stupore» del mondo tanto immediato ed «incauto» e lontano da una sia pur larvale sistemazione logica quanto quello del Leopardi lirico. Il «candore» di cui dice Bontempelli è la chiave migliore per intendere Pirandello. «La prima qualità delle anime candide, è la incapacità di accettare i giudizi altrui e farli propri. L’anima candida affacciandosi al mondo lo vede subito a suo modo: la impressione e il giudizio degli altri, anche di tutti gli altri, di tutto il mondo, che si affretta ad andarle incontro e cerca insegnarle tante cose, tanti giudizi fatti, questo non la scuote, ella può tutt’al più meravigliarsene. Spesso non li capisce neppure, i giudizi altrui; li sente come parole complicate. Invece lei ha un linguaggio proprio, semplificato ed elementare. E l’effetto immediato del candore è la sincerità. L’anima candida non fa concessioni». E per esemplificare, Bontempelli farà un nome, il nome di un antico poeta, di un «candido» poeta romano: Lucrezio. Anche Lucrezio mostra nella facciata della sua opera una «filosofia»: ma anche la sua filosofia è come un materiale isolante che gli permette di maneggiare il fuoco bianco del suo stupore, del suo tragico e bruciante stupore del mondo.
Pirandello si affaccia sul mondo, scopre la vita come un teatro: «totus mundus agit histrionem», la teatralità della vita, che è appunto una scoperta da anima candida. E, anche questa è un’astuzia della Provvidenza, Pirandello nasce dove la vita sociale è più che altrove finzione, in un luogo dove ogni giorno, giorno dopo giorno, gli uomini si affannano ad apparire quello che non sono, e ogni sera, nel silenzio delle loro case grigie, depongono una maschera, lasciano cadere gli orpelli di scena, rilassano i loro muscoli che per una intera giornata hanno sostenuto l’istrionesco sforzo di dare agli altri una immagine di sè diversa dalla vera, così come gli attori si tolgono il trucco, riposano il corpo affaticato dalla «parte».
Girgenti, Sicilia. Per Pirandello chiamiamola col suo nome di ieri, quello degli arabi, quello del regno dei Borboni e di Umberto I: così ancora la chiamano quelli dei paesi della provincia, le donne che coi loro scialli e i loro fagotti vi si recano per i settimanali colloqui al carcere di Santo Vito, per la «causa» che si discute in tribunale, per il passaporto di emigrante in questura. Girgenti: angusta, ristretta, tortuosamente chiusa in sé; araba nella struttura, nella sua chiusa essenza di «casbah», nella sua sofistica tortuosità ascensionale fino alla Cattedrale alta, col suo san Gerlando vescovo, lo scheletro rannicchiato di Brandimarte paladino (divenne poi san Felice, vi spiegano), le travature del soffitto dipinte, che vi fanno pensare ai carretti: e che la cattedrale sia come un grande, vecchio carretto, e si muoverà cigolando, nonostante le sue colonne nuove e fredde, verso il sole della valle aperta e verde, verso il tempio di calda arenaria che san Gerlando salvò dalla distruzione. Ma occorre dimenticare i templi solari nella, valle viva, dimenticare Agrigento, quella dei greci e quella della Sagra del mandorlo. La Bibbirria, la porta dei venti, si apre ad un vento che riempie la città di un murmure di conchiglia, un vasto segreto mormorio che sveglia le’ strade fossili, e dalle finestre socchiuse entra dentro stanze stinte piene di fotografie ingrandite, di cuscini pirografati, di vecchi orologi, di polverose porcellane. E un vento d’alba che schiude appena le imposte: c’è come quel senso di attesa, quel brivido di emozione che scorre in un teatro prima che il velario si apra. E ciascuno, dentro quelle stanze grigie, tra quelle buone cose di pessimo gusto, prepara il suo volto, ripassa la sua parte, e rifà le battute che toccano agli altri per esser sicuro di non incrinare il ritmo con le sue. Eccoli pronti, ora: si aprono le finestre prima cautamente spiragliate, si animano le strade a chiocciola, gli angiporti, le altane. Ma guai a sbagliare una battuta: tutta la rappresentazione crollerebbe. Non si può recitare a soggetto. Può capitare quel che capitò a Vitangelo Moscarda un certo giorno, che da una battuta «a soggetto» pronunciata dalla moglie si sentì di colpo precipitare in un disperato averno di specchi e di ombre.
«Che fai? – mia moglie mi domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio.
– Niente, – le risposi, mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo… avverto un certo dolorino.
Mia moglie sorrise e disse:
– Credevo ti guardassi da che parte pende.
Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda:
– Mi pende? A me? Il naso?
E mia moglie, placidamente:
Ma sì, caro. Guardatelo bene: ti pende verso destra».
Un secolo prima, Nicola Gogol avvertiva: «Non è colpa dello specchio se i vostri nasi sono storti». E invece sì, è colpa dello specchio: Nicola Gogol non lo sapeva, non poteva saperlo; non sapeva di Girgenti, lui. La colpa è di quello specchio che sono gli altri, non dell’innocente specchio davanti al quale sta innocentemente indugiato Vitangelo Moscarda. Poi anche lo specchio, quello del comò, quello del barbiere, quello del caffè, diventerà complice degli «altri». E lo saprà bene Vitangelo Moscarda.
Una battuta sbagliata dunque può perdervi. Perché tu puoi per tanti anni portarti appiccicato in faccia un naso storto, come Moscarda; ma puoi anche, invece del naso storto, portarti appiccicato qualcosa altro – e non sarà sullo specchio del comò che potrai controllarlo. Eh sì: le corna. E ti può capitare quel che capitò a Martino Lori, al consigliere di stato Martino Lori, che un giorno, per una «entrata» sbagliata si trovò a cogliere, detta da quella che aveva sempre creduto sua figlia, una battuta che secondo le buone regole, secondo la sociale convenzione scenica, mai avrebbe dovuto sentire: e tutta la realtà gli si rivoltò come un guanto, e si trovò di colpo balestrato nell’orrore di rifare col pensiero il corso della sua vita e di vedersi come per gli altri era stato. E allora, giunti ad un tal punto, quale sarà la soluzione? Certo, non ne faremo una tragedia. Negozianti, funzionari di prefettura e membri del consiglio di stato, nessuno di loro ha la stoffa di un eroe da tragedia. Basterà, come nel montaggio di un film, sforbiciare quella battuta fuori posto, eliminare quella «entrata». Una commedia, questo sì: e tutti a recitarla, tutti, se non vogliono far le spese della tragedia che incombe. Chi si rifiuta alla commedia, muore: ma non della morte di un personaggio tragico, in ogni caso.
La tragedia è nel vivere, per questi uomini, non nel morire. È nel vivere giorno per giorno nell’occhio della gente. L’occhio del mondo, come a Girgenti si dice. Un immenso occhio vitreo, senza la carità delle ciglia, aperto, avido: e l’immagine che entra dentro quest’occhio si scompone, trova un delirante gioco di specchi, un mostruoso gioco di deformazioni e di fughe. E dentro «l’occhio del mondo» entrano le cerimonie nuziali e funebri, i battesimi, le vedovanze, le rendite, le cambiali, i vestiti, le cronache del tribunale e quelle delle alcove. «Lo faccio per l’occhio del mondo»; «Fallo almeno per l’occhio del mondo». Scegliti il ruolo, attento alla parte: l’implacabile occhio del mondo è fisso su te; non credere che riuscirai a farla franca, ad evadere dal suo campo visivo. Riuscì una volta a Vitangelo Moscarda, quello del naso storto; ma non riprovarci. E riuscì a Mattia Pascal. Ma non sempre riesce, non sempre: e quel pazzo che si credeva Enrico IV di Germania, saggio o pazzo che fosse, volle ingannare il mondo, cambiare parte, scegliersene una più comoda… No, non si può.
Il poeta guarda il teatro del mondo. E fin quando non c’è la battuta «sbagliata», l’inciampo di una rivelazione, un grido fuori scena, il fischio di un treno; fin quando il ritmo è continuo e la convenzione rispettata, tutto va bene. C’è anzi addirittura del comico: guardate quel che è capitato a Pepè Alletto: una vicenda che sembra portata su da un’onda musicale rossiniana; e quel che capita a Zi’ Dima, laggiù tra gli olivi di don Lollò Zirafa. La campagna è stupenda, tra la città arroccata e il mare aperto. Bisogna saper esseri soli, uomini soli, creature in Dio o nella natura: sotto un ulivo saraceno, guardare la campagna intorno, il mare, la città lassù con i suoi poveri piccoli. uomini feroci. Sì, un vecchio nodoso ulivo saraceno.
«C’è un olivo saraceno, grande, in mezza alla scena: con cui ho risolto tutto». Intendeva dire, Pirandello, di aver trovato una soluzione scenografica per I giganti della montagna. Stava per morire: e nei suoi occhi c’era un vecchio e grande olivo saraceno. «Con cui ho risolto tutto». E ci piace dare alle sue parole un diverso significato, fare di quell’olivo un simbolo, un suggello da imprimere sull’opera. Un’immagine invece di una formula: ed è il modo migliore per cominciare ad intendere un poeta.
APPENDICE
Lettere inedite di Pirandello a Tilgher
Roma, 29.VIII.1921
Via Pietralta 23
Caro Tilgher,
grazie di quanto mi dice. Vorrei che leggesse “Uno, nessuno e centomila” , prima di rimettersi a parlare di me. Tante e tante cose vi sono nativamente contenute, che ho letto anche di recente nei Suoi studi, di cui sono attento ammiratore.
M’è sfuggito quel numero della “Stampa” ..in cui Ella riparlava dei “Sei personaggi” e Le sarei gratissimo se, senza suo troppo incomodo, me lo facesse avere. Ho speranza che, riassistendo alla rappresentazione, e rileggendo adesso il lavoro, Le sia apparso chiaro che “Capocomico” non rappresenta lo “spirito coordinatore”; e che appunto in questo consiste anzi la vera tragedia dei personaggi, cioè nel non trovarlo questo spirito coordinatore e nel trovare invece un capocomico qualunque, che vuole soltanto la così detta esigenza del teatro e vorrebbe sacrificare in loro quella vita, che in un primo tempo essi ebbero infusa da un autore, il quale non volle poi far la commedia o il dramma. La tragedia, dunque, della vita infusa ma non espressa ancora, non ancora “costruita”, che vorrebbe vivere e non può, poiché le fu negato da chi forse sente la vanità di ogni espressione.
Le mando, com’Ella desidera, l’ultima ristampa del “Fu Mattia Pascal” con l’appendice sugli “scrupoli della fantasia”. Creda a quello che è detto in principio del brano che La riguarda, perché è la verità: cioè che io Le sono, caro Tilgher, molto grato.
Con i più cordiali saluti.
Roma, 20-11-1923
Mio caro Tilgher,
potete immaginare come e quanto sia lieto della traduzione in francese dello studio mirabile che nel vostro Libro avete dedicato a me e all’opera mia. Non avrei nessunissima difficoltà a dichiarare pubblicamente tutta la riconoscenza che vi debbo per il bene inestimabile e indimenticabile che mi avete fatto: quello di chiarire, in una maniera che si può dir perfetta, davanti al pubblico e alla critica che mi osteggiavano in tutti i modi, non solo l’essenza e i caratteri del mio teatro, ma tutto quanto il travaglio che non ha fine, del mio spirito.
Valetevi di questa mia dichiarazione, se può in qualche modo giovarvi, se cioè non vi sembra che, potendo parere interessata ogni lode sincerissima ch’io facessi del vostro meraviglioso acume, della vastissima comprensione, della chiarezza della vostra analisi, e della vostra dottrina, perderebbe perciò stesso di valore. Da un canto sarebbe forse troppa presunzione ritenere che nessuno potrebbe credere ch’io lodassi senza interesse; e dall’altro, bisognerebbe forse credere gli uomini un po’ migliori di quel che in realtà non siano.
Non credo che vi debba riuscire difficile trovare l’editore per la pubblicazione. C’è intanto lo Stock che ha annunziato la pubblicazione delle due commedie mie rappresentate a Parigi “Il piacere dell’onestà” e i “Sei personaggi” e d’un volume di novelle, “Il libretto rosso”. Io non lo conosco, nè sono in diretta relazione con lui; ma lo conosce bene il Crémieux, a cui mi rivolgerò ora stesso perché subito vi venga in aiuto. Egli è l’unico che possa mettersi in relazione con editori e direttori di riviste e giornali: conosce tutti, è ben visto da tutti, e nostro amico vero. Mi parlò di voi a Parigi con molta ammirazione, sono sicurissimo che vi vedrà con molto piacere e che sarà felicissimo di fare per voi tutto ciò che è in suo potere. Abita, come saprete, al 29, Passage des Favorites, e ha ufficio di segretario al Ministero degli Esteri, Quai d’Orseye.
Vi unisco qui un biglietto per Mme Louise Weiss, che dirige la rivista “L’Europe Nouvelle”,58 Rue de Chateaudun.
F. S. – Nel caso vi bisognasse qualche mio ritratto (io non ne ho) potreste trovarlo o dal fotografo Manuel o da Rejan}in, in Rue S. Florentin.
Coi miei più caldi auguri, caro Tilgher; abbiatevi il saluto affettuosissimo del vostro
Luigi Pirandello
Roma, 31-VIII-1923
Mio caro Tilgher,
oggi stesso scriverò, non allo Stock, che non conosco (mi pare di avervelo già detto) ma al Crémieux, da cui ho ricevuto, giorni or sono, una lunga lettera piena di ammirazione per voi. Crémieux sarà anche lui interessato a che esca presto in Francia il vostro mirabile studio, perché son sue le traduzioni dei nuovi lavori che saranno rappresentati nella prossima stagione a Parigi. Egli conosce bene lo Stock, col quale ha trattato per la pubblicazione del volumetto delle novelle, già alla luce, Le livret rouge, nella collezione “Les Contemporains”,e per quella dei “ Sei personaggi” che verrà fuori, appena terminata la pubblicazione sulla rivista dell’Hebertot. E nel caso che lo Stok non potesse, penserà a collocare presso qualche altro editore la traduzione: ne son certo!
Abbiatevi, insieme con la vostra gentili.ssima Signora, i più cordiali saluti
Roma, 17 ottobre 1924
Via Pietralta 23
Caro Tilgher,
sapete anche voi che dirigerò quest’anno un nuovo teatro, nel quale mi propongo di rappresentare le opere più significative del teatro moderno di tutti i paesi. Vorrei naturalmente parlarne a lungo con voi, prima di fissare definitivamente il programma. Ditemi se per l’immutato affetto e l’immutata stima che vi porto, potrei avere il piacere di avervi qualche sera in casa mia, o se no fissatemi voi un appuntamento.
Vi prego di salutarmi la vostra gentile Signora, e credetemi sempre
Roma, 19-11-1925
Mio caro Tilgher,
viene a voi, accompagnato da questo mio biglietto, il signor Giorgio Kroll, russo, uomo colto e di spirito nuovo, che mi propone la fondazione di una scuola accanto al mio “Teatro d’Arte”. Io gli ho risposto che accetterei la proposta solo se avessi voi con me per questa impresa.
Prestategli ascolto, e poi, dopo avervi pensato, datemi una risposta.
Vostro, sempre, cordialissimamente
Roma, 6 Aprile 1925
Caro Tilgher,
so che a Voi come a me sono molto a cuore le sorti del “Teatro d’Arte di Roma. Ho bisogno dell’aiuto di tutti i miei amici, di tutti gli amici dell’arte, per sostenere questa mia bella e disinteressata impresa. Bisogna scuotere l’apatia e l’indifferenza di questo pubblico romano, dandogli un po’ di contraveleno per immunizzarlo dallo scetticismo, ((alle facili ironie con cui lo smontano i troppi che ci danno guerra, dandogli fiducia nella bellezza di questa opera con l’autorità di un giudizio che gode il maggior credito presso il pubblico italiano. Con l’ajutarmi in questo mio nuovo, e, ripeto, disinteressantissimo tentativo, Voi, mio caro Tilgher, non fareste se non continuare quella coraggiosissima battaglia che avete sempre mosso contro la stupidità e l’ignoranza, a favore dell’arte genuina. E per questo io vi chiedo liberamente di fare per il teatro nostro quanto più potrete: ajuto preziosissimo, data l’inimicizia, le ostilità volgarmente interessate e l’astiosa indifferenza sotto la quale si tenta di soffocare la nascita di questo primo teatro d’arte italiano.
Vi ringrazio di cuore e Vi saluto affettuosamente
(Senza data:)
Caro e illustre amico,
la vostra lettera leale e affettuosa mi ha riempito di gioja, e anch’io ringrazio con tutto il cuore il felice incontro con la vostra nobilissima Signora, che ha dato modo a me e a voi di chiarire un malinteso, che tanti fin qui s’erano affannati perfidamente a fare più torbido e profondo.
Non ho bisogno di riavvicinarmi a Voi, perché il mio animo non si è mai veramente allontanato da Voi: Silvio D’Amico ve ne può fare testimonianza.
Ricordo che una sera, uscendo insieme dalla casa di Fausto Maria Martini, Voi, quasi presago di quanto purtroppo è avvenuto, mi raccomandaste di star sempre uniti, perché troppi avrebbero goduto d’un nostro dissenso e d’una nostra separazione, come troppi temevano e invidiavano e insidiavano la nostra unione. Ebbene, mio caro Tilgher, per quanto le tempestose vicende della vita politica italiana da quella sera a ora ci abbiano tenuti lontani, il mio animo, ripeto, non si è mai diviso da Voi, dall’affetto riconoscente che Vi porto, dalla stima, non solo del Vostro altissimo ingegno, ma anche dell’esemplare dirittura del Vostro carattere.
Un uomo come Voi, mio caro Tilgher, non può e non deve rimanere escluso dalla vita nazionale: Voi che intendete tutto così profondamente, non potete non intendere le necessità storiche che hanno condotto l’Italia al presente stato di cose, ancora in penoso e forzoso rivolgimento, per tante e tante ragioni che molti s’ostinano a non voler capire, ma che voi certo da un pezzo avete capito benissimo È inutile che io Vi dica che sono e sarò tutto per Voi, per quanto io possa.
Non temete deviazioni per la mia arte. Voi che mi conoscete, sapete benissimo che non ho concesso molto per venire in fama. Come oggi non godo di averla, non mi affliggerei domani, se dovessi perderla. Vorrei che lo sapessero tutti quelli che mi sono nemici per invidia. Cerco una cosa sola: esprimere ciò che sento. Sento perché penso. Penso perché sento. E non mi sono mai curato di tutte le miserie della così detta letteratura militante e dei gusti e degli umori del pubblico.
Ho tanto desiderio di conversare con Voi! Ci rivedremo a Roma, presto. Ho tante cose da dirvi!
Abbiatevi per ora, mio caro Tilgher, una stretta di mano fraterna dal vostro
LUIGI PIRANDELLO
STAMPATO PER CONTO DELL’EDITORE SCIASCIA
NELLO STAB. D’ARTI GRAFICHE A. CAPPUGI
& FIGLI DI PALERMO NEL FEBBRAIO DEL 1953
Leonardo Sciascia Leonardo Sciascia nasce l’8 gennaio 1921 a Racalmuto, in provincia di Agrigento, da Pasquale Sciascia e Genoveffa Martorelli. La madre proviene da una famiglia di artigiani, il padre è contabile in una miniera di zolfo. È il maggiore di tre figli. Nel 1923 nasce il fratello Giuseppe e nel 1926 la sorella Anna. Nel 1935 s’iscrive all’Istituto Magistrale “IX maggio” di Caltanissetta, lo stesso dove insegnava lo scrittore Vitaliano Brancati. Nel 1941 Sciascia consegue il diploma di maestro elementare; sempre nel ’41 ottiene un impiego presso il consorzio agrario di Racalmuto, in qualità di addetto all’ammasso del grano. Qualche anno più tardi si avvicina agli ambienti del Partito comunista, ma senza aderire del tutto alla linea di partito. Anche la sua avventura universitaria, alla Facoltà di Magistero di Messina, si conclude dopo poco tempo. Nel 1944 sposa Maria Andronico, una collega maestra originaria di Catania. Dalla loro unione nasceranno due figlie, Laura e Anna Maria. Al 1948 risale invece la dolorosa perdita del fratello Giuseppe, impiegato in una miniera ad Assoro, morto suicida a soli venticinque anni. Nel 1949 Sciascia comincia a insegnare nelle scuole elementari di Racalmuto. Senza una particolare vocazione, ma animato da un interesse umano per i suoi studenti, lo scrittore trarrà da questa esperienza un insegnamento «forse maggiore di quello che ne hanno avuto da me i miei alunni». Ecco cosa si legge in uno dei tanti registri vergati da Sciascia: «Per come previsto, stante l’anticipata riapertura della scuola, il numero degli alunni presente alle lezioni non permette un lavoro sistematico. Ci sono giornate in cui sono presenti sei o sette ragazzi. I lavori della campagna, ancora in corso, impediscono alle famiglie il ritorno in paese e i ragazzi volentieri si attardano in campagna…». Sembra quasi un preludio alle Cronache scolastiche, amaro affresco di una scuola siciliana di provincia, fra povertà e abbandono, consegnato alle Parrocchie di Regalpetra (1956). Nel frattempo, inizia la collaborazione dello scrittore con l’editore nisseno Salvatore Sciascia, erede spirituale degli scomparsi Sandron e Giannotta. Attorno alla libreria di Caltanissetta, dove si riuniva in civili conversazioni un cenacolo di intellettuali, nasce la rivista «Galleria – Rivista bimestrale di cultura» (1949), che conta fra i suoi più illustri collaboratori Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia, Mario Praz, Emilio Cecchi, Enrico Falqui, Roberto Longhi, Carlo Ludovico Ragghianti, Cesare Brandi, Giulio Carlo Argan, Federico Zeri. Nel primo numero è già presente un racconto di Sciascia, Paese con figure, e una sua recensione al romanzo di Truman Capote Altre voci altre stanze. Nel 1950, presso l’editore romano Bardi, Sciascia dà alle stampe le Favole della dittatura e, sempre presso Bardi, pubblica due anni dopo la sua unica silloge in versi, La Sicilia, il suo cuore, arricchita dai disegni di Emilio Greco. Dalla collaborazione con Pier Paolo Pasolini, legata alla direzione sciasciana della rivista «Galleria», nasce nel 1952 l’antologia Il fiore della poesia romanesca, presso le Edizioni Salvatore Sciascia di Caltanissetta. Del 1953 è il saggio Pirandello e il pirandellismo, e degli stessi anni è la collaborazione di Sciascia a numerose riviste come la «Gazzetta di Parma», «L’Ora», «Letteratura», «Nuova Corrente». Al 1956 risale l’uscita, presso l’editore Laterza, de Le parrocchie di Regalpetra, che si aggiudica il premio Crotone. L’anno successivo Sciascia presenta i racconti La zia d’America e II quarantotto, sotto il titolo Due storie italiane, al concorso “Libera Stampa” di Lugano, vincendo il premio per il 1957. L’avvicinamento alla scrittura coincide col graduale allontanamento dalla scuola. Prima Sciascia ottiene il distaccamento al Ministero della Pubblica Istruzione di Roma, poi al patronato scolastico di Caltanissetta. Nella collana einaudiana dei “Gettoni”, diretta da Elio Vittorini, escono nell’autunno del 1958 i tre racconti della prima edizione de Gli zii di Sicilia: La zia d’America, II quarantotto, La morte di Stalin, cui si aggiungerà, nella riedizione del ’60, L’antimonio. Del 1961 è il saggio Pirandello e la Sicilia, così come il fortunato romanzo “giallo” II giorno della civetta, da cui sarà tratto, nel 1968, un celebre film di Damiano Damiani. Nel 1963, per Einaudi, esce l’atipico romanzo storico II Consiglio d’Egitto, ambientato nella Palermo di fine Settecento. L’anno dopo, presso Laterza, esce il racconto-inchiesta Morte dell’inquisitore, fondato su documenti d’archivio relativi alla figura del diacono racalmutese Diego La Matina, condannato dall’Inquisizione spagnola come eretico. Sempre del ’64 è l’avvicinamento di Sciascia al teatro con I mafiosi, riscrittura in italiano della commedia dialettale di Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca I mafiusi di la Vicaria (1863), che l’autore prende a pretesto per ribaltarne il significato filomafioso. Del 1965 è la pièce teatrale L’Onorevole, e del ’69 la Recitazione della controversia liparitana dedicata ad A.D.; al 1966 risale invece la pubblicazione del romanzo poliziesco A ciascuno il suo, dedicato a una «mafia urbana e totalmente politicizzata». Del 1967 è la traduzione del dialogo La velada en Benicarló di Manuel Azaña, il presidente della Repubblica spagnola sconfitto dal dittatore Francisco Franco. Nel 1970 Sciascia va in pensione e pubblica la raccolta di saggi La corda pazza, dedicata a scrittori e artisti isolani – da Verga a Brancati, da Emilio Greco a Bruno Caruso – accomunati dalla cosiddetta «sicilitudine». Negli anni ’70 inizia a collaborare al «Corriere della Sera» e «La Stampa». Nel 1971 esce il romanzo II contesto, amaro apologo in forma di parodia destinato a suscitare violente polemiche, soprattutto da parte degli ambienti vicini al Partito comunista (nel 1976 Francesco Rosi ne trarrà il film Cadaveri eccellenti). Contemporanei al Contesto sono gli Atti relativi alla morte di Raymond Roussel (1971), altra inchiesta storico-letteraria su documenti d’archivio, e la silloge di racconti, editi primamente in rivista, Il mare colore del vino (1973). Il 1974 è l’anno dell’inquietante romanzo Todo modo, adattato per il cinema due anni dopo dal regista Elio Petri. Nel 1975, nonostante i dissidi con i critici di fede comunista, Sciascia è candidato come indipendente nelle liste del PCI. In quello stesso anno dà alle stampe La scomparsa di Majorana, dedicato alla misteriosa fine del fisico catanese Ettore Majorana. L’uscita del libro accenderà una polemica col fisico Edoardo Amaldi. Nel 1977 lo scrittore si dimette da consigliere comunale, amareggiato dalla vita politica. Nel 1976 Sciascia pubblica I pugnalatori, dedicato a una congiura palermitana del 1862 – che diventa il pretesto per una riflessione morale sulla contemporanea “strategia della tensione” – mentre nel 1977 vede la luce il romanzo Candido ovvero Un sogno fatto in Sicilia, abile ‘riscrittura’ del capolavoro di Voltaire. Il 1978 è l’anno del pamphlet L’affaire Moro, dettato dal tragico rapimento del politico democristiano Aldo Moro. L’anno successivo vedono la luce Nero su nero, ironico e disincantato “diario in pubblico”, La Sicilia come metafora, conversazione con la giornalista francese Marcelle Padovani, Dalle parti degli infedeli, lucido racconto-inchiesta sul clero siciliano. Nel 1979, presentatosi nelle liste del Partito Radicale, Sciascia viene eletto al Parlamento europeo e alla Camera dei Deputati. Negli anni del suo mandato parlamentare, durato sino al giugno 1983, Sciascia si dedica all’elaborazione di una nutrita serie di volumi, appartenenti a diversi generi: II teatro della memoria (1981), incentrato sulla misteriosa vicenda dello smemorato di Collegno; La sentenza memorabile (1982), sull’analogo caso del francese Martin Guerre; Cruciverba (1983), raccolta di saggi e divagazioni; Stendhal e la Sicilia (1984), scritto in coincidenza col bicentenario della nascita dello scrittore francese; Occhio di capra (1984), versione ampliata del precedente Kermesse; Cronachette (1985), che vince il premio Bagutta; Per un ritratto dello scrittore da giovane (1985), omaggio a Giuseppe Antonio Borgese; La strega e il capitano (1986), composto per il bicentenario della nascita di Manzoni; 1912+1 (1986), incentrato su un caso giudiziario dei primi del Novecento. Nel frattempo s’infittisce il suo impegno con Sellerio – la casa editrice palermitana cui collabora attivamente dalla fine degli anni ’70 alla metà degli anni ’80 – con la curatela dei quattro volumi Delle cose di Sicilia (1982-1986), originale ed inconsueta «biblioteca storica e letteraria di Sicilia». Nel 1987 Sciascia pubblica Porte aperte, romanzo contro la pena di morte liberamente ispirato alla storia del magistrato racalmutese Salvatore Petrone, rifiutatosi in pieno regime fascista d’infliggere la massima condanna ad un reo confesso. L’anno successivo, a cura della casa editrice Pungitopo, esce la raccolta di articoli Ore di Spagna, con le fotografie di Ferdinando Scianna e una nota di Natale Tedesco. Nel 1988, già sofferente, lo scrittore compone il suo testamento laico, il romanzo Il cavaliere e la morte. |
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