Di Corrado Donati.
La critica è stata ingenerosa con le novelle pirandelliane; dei fiumi d’inchiostro che si sono riversati nel corso di un secolo sull’opera dell’agrigentino, ai suoi racconti è riservata solo una parte minore, e sovente minore anche per la qualità degli interventi.
Rileggere Pirandello
da Bollettino ‘900
2002, n. 1-2 – I e II Semestre
Leggi e ascolta. Voce di Giuseppe Tizza.
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Sollecitato a scrivere un breve intervento sulle novelle di Pirandello, mi trovo a fare i conti con un presentimento che, in una certa misura, è anche un “sentimento del contrario” verso il mio stesso lavoro critico precedente. Intendo dire: ho la sensazione, forse indimostrabile con dati di fatto, che l’opera di Pirandello abbia appena concluso quel periodo di decantazione e di invecchiamento oltre il quale si riconosce ciò che veramente è destinato a durare nel tempo, al di là delle mode, dei gusti e di ogni tipo di considerazione troppo legato ad una contemporaneità stricto sensu.
Può sembrare impertinente verso uno dei massimi autori del nostro Novecento chiedersi cosa resti, oggi, di Pirandello; ma al di là della sua grandezza ormai accertata e di tutte le valutazioni che si possono fare in sede critica sulla sua poetica, quali sono le opere cui un lettore (o uno spettatore) del secondo millennio può accostarsi senza avvertire che il tempo trascorso ha messo in evidenza le piccole scorie (sbavature stilistiche, squilibri compositivi, forzature, manierismi…) che segnalano la differenza tra ciò che appartiene ormai alla storia letteraria e i veri capolavori?
Senza rifletterci troppo risponderei: quattro o cinque opere teatrali (Il berretto a sonagli, Il gioco delle parti, Così è (se vi pare), Sei personaggi, Enrico IV e I Giganti della montagna); un solo grande romanzo, Il fu Mattia Pascal, che non si finisce mai di rileggere e (qui sta il punto!) l’intero corpus delle Novelle per un anno.
La critica è stata ingenerosa con le novelle pirandelliane; dei fiumi d’inchiostro che si sono riversati nel corso di un secolo sull’opera dell’agrigentino, ai suoi racconti è riservata solo una parte minore, e sovente minore anche per la qualità degli interventi. Il che è dovuto, a mio avviso, a due principali fraintendimenti. Il primo, che ha gravato a lungo sull’opinione dei critici, è che le novelle costituiscano in Pirandello una sorta di terreno di coltura per temi, situazioni e personaggi destinati poi ad essere riversati nelle opere teatrali (di qui l’idea diffusa che la prosa pirandelliana avesse già in sé una vocazione per la dinamica drammaturgia). Il secondo, di ordine più generale, è che in fondo la novella sia un genere minore. Dunque, se non sono mancate autorevoli rivendicazioni critiche dell’autonomia e specificità delle Novelle per un anno, queste non sono bastate a far convergere su di esse l’attenzione che meritano. Tant’è che le persone di media cultura, che magari hanno seguito a teatro le innumerevoli messe in scena che si sono succedute nel tempo, o che hanno letto più di un romanzo di Pirandello, spesso conoscono solo poche novelle, sempre le stesse e, direi, non necessariamente le più riuscite quanto quelle che illustrano in maniera più esplicita la concezione umoristica (il caso della Patente o della Carriola) e che per questo sono riportate in quasi tutti i testi antologici.
Sembra persino banale ricordare che, in mancanza di una vera tradizione italiana del genere romanzesco, ne abbiamo una di grandi novellieri, dal Novellino e da Boccaccio in poi, che per le caratteristiche che assume (ampiezza delle raccolte e loro organicità; varietà dei temi narrativi; realismo descrittivo; funzioni e psicologia dei personaggi, ecc.) si avvicina più che in altre culture alla dimensione rappresentativa (per dirla con Bachtin, alla plurivocità e polifonia) del romanzo vero e proprio. In questa tradizione Pirandello si inserisce, dopo i veristi, come un grande innovatore del genere, riprendendo proprio quella ambizione ad una ampiezza descrittiva totalizzante che fa delle sue Novelle per un anno, come già il Decameron boccaccesco, un sistema rappresentativo di un’intera società nel suo rapporto con la storia, e nello stesso tempo rivoluzionando la struttura del racconto, lo stile, i temi, la scrittura, per adeguarli al modo di sentire dell’uomo contemporaneo.
Ecco: il modo di sentire dell’uomo contemporaneo. Cos’hanno in comune le novelle pirandelliane con le altre opere che ho citato come capolavori sopravvissuti all’usura di un secolo di storia? Hanno in comune il fatto che la rappresentazione realistica della condizione umana, dell’angoscia, della solitudine, dell’incomunicabilità… sfuma quasi inavvertitamente nell’assurdo, con perfetta misura espressiva, senza sbavature né forzature, senza intenti dimostrativi né manierismi, e di qui, ancora, in un’aura metafisica in cui la deiezione dell’uomo, l’etica del dubbio, sembrano invocare, senza ancora trovarla, una nuova spiritualità.
Oggi, dopo il crollo delle ideologie, la condizione umana è paradossalmente più vicina a quella che Pirandello ha raffigurato, soprattutto nelle novelle, quasi cent’anni fa. Orfani di ogni sistema razionale che tenda a dare una spiegazione del mondo, dei rapporti interumani, del senso della vita, gli individui sembrano più che mai sospesi tra realtà e assurdo, in cerca di una qualche spiritualità che riscatti il loro cieco (e vuoto) esistere nell’universo globalizzato e sempre più convenzionale dei consumi, della disinformazione mass-mediatica e, per finire, del crescente rifiuto della cultura umanistica.
Nelle Novelle per un anno, come nelle opere migliori del teatro, c’è un vastissimo campionario di umanità che, mutato lo sfondo storico-sociale, sembra adattarsi ancora perfettamente a questo passaggio di millennio, proprio in quanto i casi soggettivi sono mirabilmente ritratti in una condizione sospesa tra il quotidiano, il nulla e l’attesa di un segno rivelatore (la valenza epifanica del fischio di un treno, Il treno ha fischiato, la speranza di un pretesto per ridare forza a un eros rimosso, Pena di vivere così, la sospensione tra la vita e la morte come spazio di una fuga nella felicità, Il viaggio, sono solo alcuni esempi).
Ma per capire questo universo sembra tristemente invecchiata e inadeguata anche tanta critica pirandelliana; quella che ha costruito il Pirandello pessimista, il fascista e il mistificatore borghese, come il progressista o lo psicanalista o il cattolico inconsapevole. Di tanti libri solo quattro o cinque restano attuali (e tra questi metterei quelli di Debenedetti e Macchia). Ma soprattutto resta… il bisogno di una pausa di silenzio, prima di ricominciare a leggere, magari partendo proprio dalle novelle.
Corrado Donati
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