Ricordi di Sicilia nella biblioteca di Luigi Pirandello

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Di Francesca Tomassini

Nello studio di Luigi Pirandello in Via Bosio a Roma, oggi sede dell’Istituto di Studi pirandelliani sono ospitati i volumi rimasti della biblioteca dell’autore: circa 2.200 pubblicazioni, oltre a carte manoscritte e varia corrispondenza.

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biblioteca di Luigi Pirandello
Casa Museo di Luigi Pirandello, Roma, Via Antonio Bosio, 15. Immagine dal Web.

Ricordi di Sicilia nella biblioteca di Luigi Pirandello.

Per una ricostruzione della sua formazione drammaturgica

da Associazione degli Italianisti

L’intervento vuole analizzare il rapporto tra Pirandello e gli autori siciliani attraverso i testi presenti nella sua biblioteca, conservata nella sede dell’Istituto di studi pirandelliani di Via Bosio, a Roma, già casa dell’autore. Allargando il più possibile il campo d’indagine anche ad autori minori, senza tralasciare la ben nota influenza che scrittori come Capuana e Verga hanno esercitato sull’opera pirandelliana, intendo avviare un’attenta analisi del materiale siciliano conservato, soprattutto risalente al momento della formazione drammaturgica di Pirandello. Le evidenti lacune che permangono su questo aspetto degli studi pirandelliani hanno, fino ad oggi, nociuto ad una corretta filologia dell’opera dell’autore.
Lo studio intende anche sottolineare come la vocazione drammaturgica dell’autore di Girgenti sia precoce e immediata, anche se troverà piena soddisfazione solo negli anni della maturità artistica.

Nato all’interno della più ampia ricerca dipartimentale dal titolo “La Biblioteca di Luigi Pirandello” (coordinata dalla Professoressa Simona Costa dell’Università di Roma Tre) il mio lavoro si configura come un tassello importante per la ricostruzione documentaria della formazione teatrale di Pirandello e per la sua giusta collocazione in una precisa temperie drammaturgica.

Sulla parete di fronte alla porta, un dipinto del figlio Fausto […] sotto, sullo scaffale, c’erano alcuni ritratti di amici; nel mezzo della stanza, lunga una decina di metri, c’era il vaso greco figurato su una colonnina, unico ricordo della sua Sicilia. [1]

[1] C A. BARBINA, La biblioteca di Luigi Pirandello, Roma, Bulzoni, 1980, 12.

Così Corrado Alvaro rievoca lo studio di Luigi Pirandello in Via Bosio a Roma, oggi sede dell’Istituto di Studi pirandelliani che ospita i volumi rimasti della biblioteca dell’autore: circa 2.200 pubblicazioni, oltre a carte manoscritte e varia corrispondenza. La ricognizione in atto del fondo comprende la disamina dei singoli testi chiosati dallo stesso autore, ma anche delle carte manoscritte e degli epistolari, al fine di condurre una raccolta più ordinata dei libri che accompagnano la formazione teatrale di Luigi Pirandello.

Nella mia ricerca mi sono soffermata sulla consultazione di volumi presenti nella biblioteca editi fino al 1920, anno in cui il teatro pirandelliano comincia a virare verso la grande rivoluzione che lo porterà alla teorizzazione del teatro nel teatro.

Per tentare  una  ricostruzione  della  formazione,  bisogna  anzitutto  partire  dalle  lettere giovanili scritte dall’autore durante i suoi soggiorni di studio tra Palermo e Roma e infine, quelle redatte negli anni di intenso studio a Bonn (1889-91). Grazie alla pubblicazione, nel 1984, delle lettere da Bonn, a cura di Elio Providenti, è stata sfatata, una volta per tutte, la leggenda del Pirandello romanziere e novelliere, che scopre solo in età matura la vocazione per il teatro. Dall’epistolario emergono, infatti, circa quattrocento lettere, firmate dal giovane autore, in cui è possibile cogliere indizi e notizie sulle sue prime sperimentazioni teatrali, operate tra i venti e trent’anni, periodo in cui Pirandello scrive numerosi testi per la scena. È, infatti, durante, e non dopo, la sua maturazione artistica che il giovane autore inizia a subire il fascino del teatro che lo invoglia a cimentarsi nei primi tentativi drammaturgici. Nella lunga e variegata  parabola artistica di Pirandello, il rapporto tra l’autore e la scena subirà un’unica battuta di arresto, nel primo decennio del Novecento. A questi anni, infatti, risale la pubblicazione del saggio dal titolo Illustratori, attori e traduttori (1907), in cui l’autore affronta la questione della messa in scena arrivando a condannare il teatro non riconoscendolo come forma d’arte poiché «costituisce unicamente una degradazione dell’opera concepita e scritta dall’autore,  di  cui  fornisce,  sulle tavole del palcoscenico, una riproduzione falsa e approssimativa». [2]

[2] C. VICENTINI, Il problema del teatro nell’opera di Pirandello, in A. Tinterri (a cura di), Il teatro italiano dal naturalismo a Pirandello, Bologna, Il Mulino, 1990, 151.

Ma  facciamo  qualche  passo  indietro  e  torniamo  a  parlare  dei  primi  esperimenti  teatrali pirandelliani. Il primo accenno alla stesura di una commedia risale all’autunno del 1886 con Gli uccelli dell’alto, [3] testo andato perduto, di cui Luigi parla nelle sue lettere indirizzate alle sorelle, fornendoci qualche notizia in più a riguardo, tanto che è possibile individuare alcune caratteristiche come «l’impostazione scenica originale perché il giovane autore trasporta l’azione dal palcoscenico all’orchestra». [4]

[3] Lettera da Palermo, novembre 1886, c L. PIRANDELLO, Lettere da Bonn. 1889-1891, E. Providenti (a cura di), Roma, Bulzoni, 1984, 19.

[4] E. PROVIDENTI, Introduzione, in Ivi.

Sono questi anni di importanti studi e di intense letture che interessano anche il teatro.

Dopo aver assistito alla messa in scena della Mandragola al Teatro Bellini di Palermo, ad opera della Compagnia Pietriboni, [5] nel febbraio del 1887, Luigi scrive in una missiva ai familiari che si trovano a Porto Empedocle:

Ho avuto ed ho ed avrò molto, molto da fare. Oltre agli studi universitari, che sono pesantissimi, mi occupo della lettura dei commediografi latini Plauto e Terenzio, per fare un serio confronto con la commedia nostra del Cinquecento […]. Ho fatto sentire i miei uccelli dell’alto a un attore della Compagnia Pietriboni, e gli è piaciuta moltissimo. Il brillante signor Parrini e il capocomico signor Pietriboni vollero conoscermi. Spero che la andrà bene. Jeri sera con moltissimo mio piacere, sono stato a sentire al Bellini la Mandragola di Niccolò Machiavelli, decor nostro! Mi sentivo trasportato in pieno secolo XVI, secolo d’oro della nostra letteratura. [6]

[5] La compagnia Pietriboni si trattenne a Palermo per circa un mese e mise in scena, tra gli altri, I nostri buoni villici di Sardou, La locandiera di Goldoni, La cavalleria rusticana di Verga. C A. D’AMICO, Cronologia 1875-1917, in L. Pirandello, Maschere Nude, Milano, Mondadori, 1986, I, XXX.

[6] PIRANDELLO, Epistolario familiare giovanile (1886-1898), E. Providenti (a cura di), Firenze, Le Monnier, 13.

Anche dalle successive lettere che scrive da Roma, dove si è trasferito dopo aver deciso definitivamente di dedicarsi agli studi filologici, si evince il suo vivo interesse per il teatro che si accompagna alla passione poetica. [7]

 [7] Nel 1889 pubblica la sua prima raccolta lirica dal titolo Mal giocondo, intrisa di richiami all’opera dei grandi poeti otto/novecenteschi, «implicando su vari livelli Leopardi, Carducci, Graf, i conterranei Rapisardi, Costanzo, Cesareo, e, di là dal ponte, i cosiddetti crepuscolari»: c L. PIRANDELLO, Mal giocondo, F. Miliucci (a cura di), Roma, Ensable, 2015, 6.

Nella Capitale entra in contatto con Enrico Dominici, siciliano, figlio d’arte, capocomico aperto ai giovani e alle novità, che si impegna affinché Luigi possa veder recitato Fatti che or son parole, commedia progettata e scritta dall’autore dopo aver visto a Palermo un’interpretazione della Duse nella Signora delle camelie (1887). [8] Il lavoro, suddiviso in sette scene, viene citato da Pirandello anche nelle lettere da  Bonn  in  cui  sono presenti alcuni episodi definiti dall’autore stesso scene siciliane, ma sappiamo che lo spettacolo non andrà mai in scena.

[8] «Ho scritto in tre giorni una Comedia volgare, in sette scene: se fra cinque o sei giorni, rileggendola mi piacerà ancora, la darò alla Duse per la rappresentazione». C PIRANDELLO, Epistolario familiare…, 15.

Gli anni di Bonn sono fecondi soprattutto per l’attività lirica di Pirandello che nel 1891 pubblicherà la sua seconda raccolta di versi, Pasqua di Gea. Nel 1894 è la volta della raccolta di novelle Amori senza amori, in cui si cominciano a notare anomalie e differenze rispetto alla narrativa dei maestri veristi: quelle pirandelliane sono novelle senza paese, senza importanti riferimenti alla sua Sicilia in contrasto con i racconti di Verga e Capuana che nascono ben inquadrati in paesi e città dell’isola natia: «lo scrittore cosmopolita è già presente in coteste novellette giovanili: più tardi egli, ritornerà a idoleggiare la sua Sicilia, ma è un idoleggiamento di riflesso, dovuto in gran parte all’influenza del Capuana, conosciuto a Roma». [9] La narrativa pirandelliana, quindi, non è segnata da un esordio prettamente provinciale, il provincialismo in lui equivarrà ad una tendenza di ritorno, ad un richiamo, ad un ricordo che busserà alla porta qualche anno dopo.

[9] RUSSO, Il noviziato letterario di Luigi Pirandello, Pisa, Edizioni di Paesaggio, 1947, 7.

In questi anni di formazione, che possiamo fissare tra il 1886 e il 1907, Pirandello propone i suoi scritti teatrali (tra cui citiamo l’atto unico Perché? del 1892 e Il nido del 1895 che andrà in scena modificato nel 1915 con il titolo La ragione degli altri) a diverse compagnie di attori, soprattutto romane, senza però riuscire ad attirare l’attenzione sul suo lavoro drammaturgico.

Alessandro d’Amico, curando l’edizione del quarto volume delle Maschere nude nel 2007, ha così ricostruito l’elenco dei primi tentativi teatrali dal 1886 al 1892: Gli uccelli dell’alto (1886), Fatti che or son parole (1887), La gente allegra (1887), Le popolane (1888, destinato alla compagnia di Cesare Rossi), Provando la commedia (1891, probabilmente di nuova pensata e destinata alla Duse); La Signorina (1892), Perché (1892), L’Epilogo (1892, quest’ultimo destinato sempre alla compagnia di Cesare Rossi, poi, a quella di Teresa Mariani, ed ancora a quella di Flavio  Andò  e  Tina  di Lorenzo), Le vittime (1892).

La maggior parte di questi tentativi drammaturgici sono andati perduti, mentre possiamo fissare la data in cui prende forma il primo vero testo teatrale pirandelliano al 1892, anno in cui il drammaturgo redige l’atto unico intitolato L’epilogo, messo in scena successivamente con il ben più noto titolo La morsa. [10]

[10] L’epilogo è pubblicato su «Ariel» nel marzo del 1898 e rappresenta un frammento della primissima drammaturgia pirandelliana,  scritto  a  Roma  non  appena  tornato  da  Bonn.  Il  settimanale  letterario «Ariel», fondato dallo stesso Pirandello insieme a Italo Falbo e Ugo Fleres, ospita anche diverse recensioni pirandelliane di spettacoli teatrali tra cui anche La città morta, tragedia di Gabriele d’Annunzio, opera che Pirandello non esitò a stroncare. Cfr. A. BARBINA, Ariel. Storia di una  rivista  pirandelliana,  Roma-Bari, Laterza,  1991.

L’opera rappresenta

la punta di un iceberg, è uno spuntone di roccia emergente di un contenitore scomparso, quello appunto della produzione teatrale pirandelliana fra i venti e i quarant’anni. È anzi, propriamente […] il primo testo (cronologicamente parlando) rimasto dell’esordiente drammaturgico Luigi Pirandello. [11]

[11] R. ALONGE, Introduzione, in L. Pirandello, Maschere nude I, Milano, Oscar Mondadori, 2010, V

A questo seguiranno, oltre ad ulteriori testi perduti, a prove minori e al dramma Il nido, altri due atti unici, Lumie di Sicilia (1910) e Il dovere del medico (1911), con cui va a formare quello che è considerato il trittico iniziale della formazione  drammaturgica  pirandelliana.  Di  tale  trittico,  i primi due testi andranno in scena al Teatro Metastasio di Roma nel 1910, mentre il terzo sarà rappresentato alla Sala Umberto nel 1913, ma sarà il più debole e il meno fortunato dei tre.

Nei suoi primi tentativi  teatrali  Pirandello  si  concentra  sulla  materia  siciliana, rappresentando spesso nelle sue commedie un’inversione rispetto alle tradizioni e ai costumi del profondo Sud. È possibile rintracciare già in questi testi una sorta di invenzione, di nuovo teatro, generato dalla mente di un autore che

non conosce la convenzione tecnica ed espressiva del teatro vero e proprio e inventa, cioè nel senso più proprio trova, il teatro nella vita, nell’indistinto impetuoso scorrere di “tragedia e “commedia”. [12]

[12] SCIASCIA, Pirandello e la Sicilia, Milano, Adelphi, 1996, 24.

Si stava cominciando a tracciare, con una certa chiarezza, una nuova via nelle tendenze letterarie siciliane, soprattutto grazie all’opera di autori come Pirandello, Rosso di San Secondo, Nino Savarese, Francesco Lanza in cui vengono tralasciate le descrizioni a sfondo regionalistico degli usi e dei costumi meridionali dell’epoca. Rimane tuttavia l’originale e autentica matrice siciliana propria alle opere di questi autori che manterranno

ben vive le loro radici insulari, fatte anche di pietà per le condizioni di crescente proletarizzazione, in cui sembravano avviarsi, dopo l’Unità, i pastori e i mezzadri, i carusi e gli stessi proprietari spossessati. [13]

[13] M. GUGLIELMINETTI, Pirandello, Roma, Salerno, 2006, 15.

L’affermazione e il ritrovato entusiasmo pirandelliano nei confronti del teatro si deve, in particolare, alla vivace attività di Nino Martoglio e  Angelo  Musco,  grazie  ai  quali  Pirandello riesce a portare il suo teatro siciliano su importanti palcoscenici italiani. Il teatro siciliano pirandelliano cesserà definitivamente con la tragica morte  prematura  di  Nino  Martoglio  nel 1921, data in cui del resto Pirandello vira definitivamente verso un nuovo teatro con la messa in scena dei Sei personaggi in cerca d’autore.

Abbiamo quindi ricondotto i primi esperimenti teatrali pirandelliani agli anni a cavallo tra i due secoli, in un momento di passaggio, di cambiamento, di svolta per la società italiana e di crescita personale per Pirandello. In questi testi, Pirandello fotografa personaggi siciliani sul punto di trapasso fra due universi, due mondi che vengono a contatto nella breve durata di un atto unico il cui finale scioglie ogni dubbio sulla possibilità della sintesi tra i due. Le contrapposizioni rintracciabili sono i classici binomi tra città e campagna, mentalità urbana e paesana, ma Pirandello carica questa polarità di un senso più forte:

sono i valori morali, sociali, della tradizione e della cultura arcaica e feudale del Sud di contro all’immoralità e al cinismo della civiltà del capitale, delle merci, dell’industria dello spettacolo, del dominio del denaro. [14]

[14] ALONGE, Introduzione…, XII.

Nel raccontare i piccoli e grandi drammi dell’italica borghesia nascente siciliana, Pirandello riserva il ruolo cardine dell’intera vicenda ai personaggi femminili: sono donne ancora prima di essere mogli, madri, adultere che rispondono al bisogno  di  una  carnalità  che  chiede  amore, figure che conservano una  cultura  tardo  romantica,  una  mitologia  passional-sentimentale  che era già emersa nella Sicilia raccontata da Verga e da Capuana. Basti pensare alle opere verghiane di carattere tardo romantico come Una peccatrice, Eva, Tigre reale, e Eros, tutte opere in cui l’autore esamina le drammatiche conseguenze dell’incontro con l’altro mondo che, espresso simbolicamente dalla pericolosa bellezza delle donne che lo abitano, minaccia l’integrità morale dell’uomo muovendo l’intera azione narrativa. E ancora ricordiamo la ben nota attenzione con cui Luigi  Capuana si dedica allo studio della psicologia femminile nella sua attività narrativa, drammaturgica e saggistica. Così anche le figure femminili pirandelliane sono donne del Sud che non si accontentano di un affetto spirituale e vengono per questo fatalmente marchiate di immoralità: la sessualità della donna non può infatti essere perdonata e diventa così motore dell’azione scenica. È il caso, per esempio, di Giulia, ne La morsa, e della Sina di Lumie di Sicilia.

Questi primissimi testi teatrali, messi in scena nel 1910, risentono fortemente delle tendenze dettate dal teatro verista teorizzato dai maestri Verga e Capuana, nonostante Pirandello abbia sempre tentato di intraprendere e di sperimentare con la sua narrativa un verismo originale che sapesse ribadire la sua autonomia e le sue peculiarità che si affermano soprattutto nella caratterizzazione dei personaggi e nello spirito con cui interpretare il mondo raccontato. [15]

[15] «Fin dal suo noviziato, lo scrittore investiva il suo mondo fantastico con uno spirito contraddittorio e tormentato, quale non si riscontrava in genere negli altri provinciali, che erano ricchi di pathos ma anche assai disciplinati nei loro affetti, a quale non si riscontrava Verga, in cui il cordoglio per i poveri diavoli era contenuto e come pietrificato, ma non mai stranamente complicato e straziato. Il Pirandello fin d’allora non conobbe l’abbandono ingenuo e passionale alla vita; il controllo sui suoi sentimenti era assiduo inesorabile ed aspro»: RUSSO, Il noviziato letterario…, 31-32.

Il teatro verista aveva da sempre cercato di allontanare due elementi fondamentali che però rischiavano di diventare sempre più invadenti: l’autore e il pubblico. Nel rispettare il concetto di impersonalità, anche l’opera teatrale doveva essere concepita e interpretata come prodotto della natura in cui rimane invisibile la mano dell’autore. Pirandello si avvicinò a questo mondo per poi trasformarlo e abbandonarlo definitivamente.

Vedrà sempre più chiaramente, con le sue vittorie e le sue sconfitte, un continuo processo dialettico tra l’autore e il pubblico […]. È certamente avverso alla tradizione teatrale melodrammatica in cui tutta la convenzione non fa che servire il pubblico (dalla bellezza di un gesto alla musica di una frase). Ma non ha mai preteso dall’altra parte di concorrere alla grande illusione verista: credere che il pubblico non esista. [16]

[16] G. MACCHIA, Premessa, in Pirandello, Maschere nude…, XX.

Negli scaffali della Biblioteca conservata nella sede di Via Bosio, i volumi dedicati alle opere teatrali di Verga e di Capuana sono effettivamente reperibili. Il Teatro di Giovanni Verga si presenta ora mutilo e frammentato, in quanto manca il primo sedicesimo e il frontespizio, rendendo impossibile la ricognizione dell’anno di edizione. Le pagine che rimangono non presentano alcun segno autografo dell’autore né alcuna sottolineatura. Quindi, per quel che riguarda il teatro di Verga, non abbiamo indizi che ci aiutano ad orientarci sulla più che probabile lettura pirandelliana di questi testi.

Per quanto riguarda Capuana, sono conservati i volumi di teatro dialettale siciliano che raccolgono le seguente opere: Malia, Lu Cavaleri Pidagna; Lu Paraninfu; Don Ramunno; Quacquarà; Prima di li minni.

Ricordiamo che dopo il filone considerato veristico, Pirandello si dedica al teatro dialettale elaborando dei testi, sempre di materia siciliana, riadattati e in  alcuni  casi  proprio  tradotti  in dialetto siciliano. Stiamo parlando di opere come: Liolà (1916), ’A Giarra (1917); A biritta cu’i ciancianeddi (1917); ’A Patenti (1918).

Con questi testi Pirandello comincia ad allontanarsi dal verismo siciliano, cercando soluzioni differenti rispetto a quelle adottate dal melodramma e dal verismo, nel tentativo di non assecondare eccessivamente «il gusto del drammone di amore e di morte, di passione e di vendetta, caro al pubblico isolano». [17]

[17] GUGLIELMINETTI, Pirandello…, 184.

Tornando ai testi teatrali dialettali di Capuana presenti nella biblioteca, possiamo trovare diverse annotazioni sul volume I  del teatro dialettale di Luigi Capuana, risalente al 1911 e contenente le opere Malia e Lu Cavaleri Pidagna: la calligrafia però non corrisponde a quella dell’autore, ma sulla prima pagina compare in rosso la scritta note  accluse ed effettivamente l’intero testo è costellato di numeri che corrispondono a richiami di nota. Le note accluse non sono però reperibili. Sembra quindi che il testo sia stato prestato da Pirandello e studiato da qualcuno che volesse metterlo in scena o che stesse lavorando sul testo, soprattutto riflettendo sulle scelte registiche da adottare nell’ipotetica messa in scena.

Oltre  ai  maestri  Verga  e  Capuana,  citiamo  la  presenza  nella  biblioteca  dell’altra determinante figura nella realizzazione del teatro pirandelliano: Nino Martoglio. Qui troviamo, infatti, diversi volumi del suo teatro dialettale tra cui il volume II, serie prima e serie seconda, editi nel 1913 che portano le seguenti dediche: «A Luigi Pirandello affetuosamente. N. Martoglio» e «A Luigi Pirandello con simpatia e affetto. Nino Martoglio».

Parlando di importanti figure della scena italiana del primo Novecento che hanno influenzato l’attività pirandelliana, segnaliamo la presenza, inspiegabilmente limitata a due soli volumi, dell’opera di Rosso di San Secondo, nonostante la nota amicizia e reciproca stima tra i due.

Sfogliando il catalogo, disponibile anche sul sito dell’Istituto di Studi Pirandelliani di Via Bosio, è possibile anche intercettare un cospicuo numero di volumi di drammaturghi siciliani minori come: La Teofania di Ugo Fleres, 1902, poeta, giornalista, critico letterario e autore teatrale messinese trapiantato a Roma, dove stringe amicizia con Capuana, Verga e Pirandello. [18] Il testo di Fleres conservato nella biblioteca pirandelliana, riporta una dedica che effettivamente denota una certa confidenza e un rapporto di intima amicizia tra i due, in quanto recita: «Finalmente! A Luigi, Ugo.», accompagnata dalla data 15-07-1902.

[18] Sarà proprio nel cenacolo di Ugo Fleres che Pirandello conobbe Luigi Capuana, intorno al 1892.

Ancora, tra i siciliani cosiddetti minori, troviamo il volumetto di Cesareo, Teatro mediterraneo, contenente i testi de La Mafia e La morta, con allegato un biglietto dell’editore siciliano Niccolò Giannotta che, inviando il testo, chiede a Pirandello di recensirlo:

Mi pregio inviarle in omaggio l’unita mia recente pubblicazione e affidandola allo spassionato suo esame mi permetto pregarla fin da ora volersene occupare in uno dei tanti periodici nei quali collabora.

Si nota anche il nutrito numero di volumi di Cesareo, molti dei quali contrassegnati da dediche in cui l’autore non manca mai di rinnovare la stima per il drammaturgo di Girgenti.

Oltre ai testi teatrali, ricordiamo inoltre la presenza di una serie di volumi riguardanti i costumi, le usanze, le arti e le scienze in Sicilia tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo.

Segnaliamo la presenza del lavoro di Giuseppe Pitrè, Le lettere, le scienze e le arti in Sicilia negli anni   1870-1871,   edito nel 1872, su cui è riportata la dedica indirizzata allo zio di Luigi:

«All’egregio amico Sig. Rocco Ricci Gramitto, ricordo affettuoso di Giuseppe Pitrè»;  e  il  testo Costumi e usanze dei contadini di Sicilia di Salvatore Salomone Marino, del 1879, in cui invece non compare alcuna dedica. Sembrerebbe, quindi, che questi volumi  siano  stati  reperiti  da  Luigi stesso per interesse personale nei confronti delle usanze siciliane, per approfondire  la  cultura siciliana da rappresentare. Rispetto a  questa  tipologia  di  letture  Barbina, [19]  per  esempio, presuppone che per I vecchi e i giovani Pirandello abbia tenuto presente, per la descrizione delle vicende di cui furono protagonisti i Fasci siciliani alla fine del secolo, il volume di Adolfo Rossi, L’agitazione in Sicilia, a proposito delle ultime condanne (1894).

[19] C BARBINA, La biblioteca di Pirandello

Con  la  mia  ricerca  ho  potuto  costatare  che  degli  autori  siciliani,  sicuramente  letti  da Pirandello, non rimangono tracce importanti e rilevanti nei volumi presenti negli scaffali della biblioteca conservata: appena tre i testi di Verga e tre di De Roberto (manca, per esempio, il volume Spasimo recensito da Pirandello sulla Rassegna Settimanale Universale, l’8 agosto 1897, sotto lo pseudonimo di Giulian Dorpelli), mentre più massiccia è la presenza del teatro e dell’opera di Nino Martoglio, con ben 12 volumi e di Capuana con 15 esemplari.

Cosa resta allora in questa biblioteca della Sicilia? La Sicilia era quella che lo scrittore portava con sé, mista ad un sentimento di nostalgia per quel dialetto così poetico e dirompente che permane in tutto il teatro pirandelliano, questa forma d’arte con cui Pirandello stabilisce un rapporto precoce, costante, multiforme e fruttuoso.

Francesca Tomassini

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