Resti mortali – Audio lettura 3

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Legge Valter Zanardi
«Non lasciava giorno, senza che ne facesse una. E il bello si era che i fastidi che dava, i dispetti che faceva, per cui le budella ai nipoti, alle serve, si ritorcevano dentro come una fune, lui li chiamava servizi.»

Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 26 luglio 1924, poi in Donna Mimma, Bemporad, Firenze 1925.

Resti mortali
Immagine dal Web.

Resti mortali

Legge Valter Zanardi

Da Youtube

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             Disperazione dei nipoti, che pur gli dovevano volere un gran bene se, dopo che s’era spogliato per loro di tutto il suo, ancora avevano tanta sopportazione di lui, il signor Federico Biobin (zio Fifo, come lo chiamavano) si alzava col lume, e subito, zitto zitto, piccolino com’era di statura, col testoncino a pera che gli lustrava, calvo fino alla nuca, una ventina di duri peluzzi ritinti, dieci per parte drizzati sul musetto da topo, si metteva a frugolare per casa, sorsando, soffiando, dando smusatine, come per tenere in continuo esercizio d’esplorazione il naso puntuto, le labbra armate di quei venti spunzoncini; finché all’improvviso tutta la casa non sobbalzava dal sonno o per un rovinio di scodelle dalla piattaja in cucina o di casse che crollavano a catafascio nel ripostiglio. Accorrevano tutti, chi in camicia, chi in pijama, chi in sottana.

             –    Zio, che hai fatto? che è stato? Dava le risposte più inaspettate:

             –    Niente: sento puzza di mobili vecchi.

             Ma come se tutto quel fracasso non l’avesse fatto lui e non l’avesse nemmeno sentito, e placido e un po’ seccato parlasse ancora dal silenzio che c’era prima nella casa.

             Non lasciava giorno, senza che ne facesse una. E il bello si era che i fastidi che dava, i dispetti che faceva, per cui le budella ai nipoti, alle serve, si ritorcevano dentro come una fune, lui li chiamava servizi. Capace di stare giornate sane in cucina a ritagliare e tentar d’incollare striscioline di carta per medicare un vetro rotto della finestra a usciale che dava su una specie di ballatojo, dov’era puzzolentissimo il casottino del cesso. La cuoca si dannava.

             – Ma lei che sente la puzza dei mobili vecchi, o non la sente codesta del cesso?

             Non la sentiva, quella; e seguitava, sorsando, soffiando, smusando, a tentare d’incollare quelle striscioline di carta.

             E ora eccolo giù in giardino, infuriato contro un’ala del cancello che, interrata, non voleva più andare né avanti né indietro. Illividito dalla congestione e con le vene del cranio che gli scoppiavano, dava certe scrollate che le braccia, appena i ferri del cancello brandivano in contrasto, pareva gli si dovessero staccar nette dal busto. I nipoti gli gridavano dalle finestre:

             –    Smettila, zio! Non vedi che non s’apre?

             –    La smetto? O io l’apro, o ci crepo!

             Non l’apriva e non ci crepava: veniva su, tutto slogato, in un bagno di sudore, presentando le manine ridotte una pietà, perché gli fossero unte d’olio e fasciate.

             Quando poi era stanco di farne ai suoi di casa, usciva e si metteva a far dispetti alla gente per via: per esempio, certe giornate che pioveva a dirotto, andando a pigliarsi apposta sull’ombrello lo sgrondo di tutte le case, con un’aria così parlante di farlo per dispetto, che veniva la tentazione a chi gli passava accanto di strapparlo per un braccio accosto al muro. Il piacere maligno, che sotto sotto ne provava, gli faceva arricciare agli angoli il labbro con tutti quei suoi venti peluzzi irti, quasi in un digrignamento appena percettibile, di cagnolino bizzoso.

             L’ultimo fu quello della spolverina grigia d’alpagà, comperata per veste da camera, quando i nipoti, ridendo della compera, gli fecero notare ch’era una spolverina da viaggio, quella.

             –    Da viaggio? E allora parto!

             –    Parti? Dove vai?

             –    A Bergamo, da Ernesto, a salutarlo prima che vada a Genova a imbarcarsi per l’America.

             Non ci fu verso di rimuoverlo più da quel ticchio di partire lì per lì. Anzi, che la sua visita per quel povero Ernesto dovesse essere un gravissimo imbarazzo piuttosto che un piacere nei trambusto in cui doveva trovarsi alla vigilia di salpar per l’America: ragione di più. E che il medico gli avesse ordinato di star tranquillo e non strapazzarsi per la sclerosi cardiaca di cui era affetto: ragione di più, anche questa. Voleva morire! Ma come, a Bergamo? morire a Bergamo, mentre Ernesto vi spiantava la casa? Sissignori, morire a Bergamo, nella casa spiantata.

             Partì con quella spolverina grigia; e purtroppo la minaccia di quel pericolo che i nipoti di Roma, senza punto crederci, gli avevano fatto balenare per trattenerlo, s’avverò. La notizia fulminea della morte di zio Fifo lo stesso giorno che arrivò a Bergamo, lasciò quasi basiti i nipoti di Roma per il fatto che, pur senza crederci, l’avevano preveduta; e che, pur avendola preveduta, per quel non crederci, avessero lasciato partire lo zio.

             Di quest’ultimo dispetto ai nipoti lontani e dell’altro ancor più acerbo al nipote vicino, là a Bergamo, zio Fifo, in mezzo alla confusione della casa tutta sossopra per lo sgombero, stecchito sul lettino di ferro, con la sua brava spolverina grigia da cui spuntavano i due piedini giunti, più che soddisfatto, pareva ora felicissimo.

             Tra gli altri mobili della camera scostati dalle pareti e fuori di posto, comodissimo comodissimo ci stava lui, su quel lettino di ferro che nessuno, finché ci stava lui, avrebbe potuto toccare, coi quattro ceri accesi, due da capo, due da piedi; le manine intrecciate sul ventre che gli s’era un po’ gonfiato.

             Pareva proprio che sorridesse, sornione, con gli occhi chiusi e quei venti spunzoncini ancora drizzati sul musetto da topo.

             Difatti, il compito di venire a morire a Bergamo per maggior ristoro del nipote Ernesto in partenza per l’America, lui lo aveva assolto; ora toccava agli altri quello di rimuoverlo di lì, o per seppellirlo nel cimitero di Bergamo o per rispedirlo a Roma se lo volevano là nella tomba di famiglia.

             Stimò più sbrigativo il nipote Ernesto rispedirlo a Roma e lasciare ai cugini la cura e il resto delle spese per i funerali all’arrivo: aveva i minuti contati; sarebbe arrivato a Genova appena in tempo per imbarcarsi. Malauguratamente però, nel fare la spedizione, credette che l’uso della frase «resti mortali» invece della cruda parola «cadavere» fosse lecito, com’era certo più gentile e pietoso; e se ne volle servire, forse a compensare il povero zio di tutte le imprecazioni che gli aveva scagliate per esser venuto a buttarglisi morto tra i piedi in un frangente come quello.

             Ora ai nipoti di Roma venuti alla stazione a ricevere il feretro con molte corone di fiori e un magnifico carro funebre di prima classe a quattro cavalli e più d’un centinajo d’amici e conoscenti e rappresentanze di sodalizi con labari e bandiere e il parroco per la benedizione alla salma e due belle file di monache e chierici con le candele in mano; appunto per l’uso gentile e pietoso di quella frase, l’ufficiale di dogana presentò una bolletta gravata da una multa di parecchie migliaja di lire. – Multa? E perché?

             –    Falso in denunzia.

             –    Falso? Che falso?

             –    Ma credono lor signori, che si possa impunemente denunziare un feretro come resti mortali! I resti mortali sono un conto: un mucchietto d’ossa e di cenere in una cassettina di latta; e pagano per tali, secondo una loro tariffa. Un feretro è un altro conto. Per quanto piccolo, bisogna che paghi come feretro. Altra tariffa.

             Protestarono i nipoti che intenzione di frode nel cugino Ernesto non poteva esserci stata; ma, anche ammesso e non concesso che ci fosse stata, la multa, se mai, doveva pagarla chi aveva spedito e non chi riceveva. Erano pronti a pagare il di più della spesa, secondo la tariffa, trattandosi realmente di un feretro e non di resti mortali (benché la distinzione potesse parere a prima giunta sofistica); ma, a ogni modo, la multa no, no e no.

             Non avevano nessuna colpa, loro. Il cugino Ernesto era partito per l’America, e responsabile dello sbaglio (non diciamo frode, per carità!) restava allora l’ufficio di spedizione alla dogana di Bergamo che s’era ricevuto a occhi chiusi e aveva «inoltrato» come resti mortali un feretro intero. Per placare il capo-stazione chiamato a dare man forte all’ufficiale di dogana, i nipoti si mostrarono disposti a scusare, del resto, anche l’ufficio di spedizione della dogana di Bergamo, informando che il cugino Ernesto doveva aver spedito in quei giorni chi sa quanti colli, per cui sapendosi in città ch’egli era sul punto di lasciare l’Italia per sempre, quell’ufficiale di dogana, addetto alla spedizione, facilmente aveva potuto supporre che spedisse anche iresti mortali di qualche parente sepolto da tempo nel cimitero di Bergamo, per non lasciarli colà. La colpa, in questo caso, si riduceva soltanto a una mancata verifica. Gli volevano far pagare la multa per questo? Ecco, ma a lui sempre, la multa, se mai; mica a loro che non c’entravano né punto né poco.

             Mentre così si discuteva nell’ufficio di dogana, fuori nello spiazzale quelli ch’eran venuti per l’accompagnamento funebre vestiti di nero e in tubino, s’erano ritratti e impalati in fila, gomito a gomito, a ridosso al muro, per ripararsi da un terribile sole d’agosto, prossimo al meriggio. C’era a mala pena, lungo quel muro, un filo d’ombra che non arrivava a riparare fino alla punta neanche i piedi; e davanti, tutte le cose, a quella vampa di sole, abbarbagliavano. Così tutti impalati, con gli occhi fuori del capo, guardavano l’enorme carro funebre, rimasto in mezzo allo spiazzale, là, ferocemente nero e dorato, e pareva ne avessero un formidabile incubo, come di quelle monache che se ne stavano impassibili, a occhi bassi, così infagottate in quelle loro tonache di pesantissimo panno marrone, con quel cappuccetto nero a capanna in capo, tutte bene appettate sotto il modestino bianco insaldato, e le candele accese in mano. Dio, quelle candele, la cui fiamma nel sole non si vedeva, e se ne vedeva invece il fumighio tremolante! Ma che avveniva? Perché non portavano il feretro? Che s’aspettava? Alcuni, più impazienti, andarono a sentire; poi a poco a poco, tutti, tranne il cocchiere sul carro funebre, le monache, i chierici e i portatori dei labari e delle bandiere, entrarono nel fresco delizioso dell’ufficio della dogana, ch’era un alto e vasto magazzino ingombro tutt’intorno alle pareti di casse rammontate e di balle e di colli.

             Vi rintronavano i gridi della contesa tra i nipoti del morto da una parte, e il capo-stazione e gli ufficiali di dogana dall’altra. Gli animi s’erano accesi. Il capo-stazione era irremovibile: o pagare la multa, o niente feretro! Il maggiore dei nipoti, furibondo, minacciava che glielo avrebbero lasciato lì. Non era mica merce, un morto, che si potesse rivendere all’asta! Volevano vedere che cosa il capo-stazione se ne farebbe! E il capo-stazione sghignazzava e rispondeva che, chiestane licenza a chi di dovere, lo avrebbe mandato a seppellire con due facchini; e che poi a far pagare le spese e la tariffa e la multa ci avrebbero pensato con comodo gli uscieri. Un fremito d’indignazione accolse questa risposta e allora l’altro nipote, confortato dal consenso di tutti, lo diffidò dal farlo: avrebbe chiamato responsabile l’amministrazione dei danni morali e materiali, perché non era mica un cane il loro zio da esser mandato a seppellire in quel modo; c’erano là centinaja di persone venute a rendergli i meritati onori funebri, labari e bandiere di sodalizi, un carro di prima classe, un santo sacerdote, monache e chierici con più di quaranta candele!

             E i due nipoti, rossi come gamberi, con le camice bianche che, nello scompiglio dell’esagitazione, strabuzzavano loro dalle maniche nere e perfino di sotto il panciotto, tutti tremanti per lo sfogo violento e piangenti dalla rabbia, furono condotti via.

             Ora quell’incubo di carro funebre che se n’andava vuoto e traballante, diretto alla rimessa, e quelle monache e quei chierici che capovolgevano le candele per smorzarle in terra, diedero a tutti, anche ai nipoti, in quell’animazione insolita, un senso di leggerezza, come se zio Fifo, mandato a monte il funerale, non fosse più morto.

             Ma si poteva veramente dir morto zio Fifo, se seguitava a fare con tanta pervicacia ciò che aveva sempre fatto in vita: dispetti a tutti?

             So bene che non s’è mai dato il caso che un morto si sia staccate le mani dal petto per cacciarsi una mosca dal naso; ma per zio Fifo riparato dalla doppia cassa di zinco e di noce, là sotto gli occhi del capo-stazione rimasto solo nel magazzino della dogana a grattarsi la testa, mi par proprio lecito immaginare che se le sia staccate davvero, quelle sue gracili manine dal petto, per darsi contentone una bella stropicciatina.

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