Requiem aeternam dona eis, Domine! – Audio lettura 2

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Legge Giuseppe Tizza
«Il lastricato delle strade aveva schizzato faville tutto il giorno al cupo fracasso dei loro scarponi imbullettati, di cuojo grezzo, massicci e scivolosi.»

Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 16 febbraio 1913, poi in La trappola, Treves, Milano 1915.

Requiem aeternam dona eis, Domine!
Vincent Van Gogh, Contadini che seminano patate, 1884

«Requiem aeternam dona eis, Domine!»

Voce di Giuseppe Tizza

******

             Erano dodici. Dieci uomini e due donne, in commissione. Col prete che li conduceva, tredici.

             Nell’anticamera, ingombra d’altra gente in attesa, non avevano trovato posto da sedere tutti quanti. Sette erano rimasti in piedi, addossati alla parete, dietro i sei seduti, tra i quali il prete in mezzo alle due donne.

             Queste piangevano, con la mantellina di panno nero tirata fin sugli occhi. E gli occhi dei dieci uomini, anche quelli del prete, s’invetravano di lagrime, appena il pianto delle donne, sommesso, accennava di farsi più affannoso per l’urgere improvviso di pensieri, che facilmente essi indovinavano.

             – Buone… buone… – le esortava allora il prete, sotto sotto, anche lui con la voce gonfia di commozione.

             Quelle levavano il capo, appena, e scoprivano gli occhi bruciati dal pianto, volgendo intorno un rapido sguardo pieno d’ansietà torbida e schiva.

             Esalavano tutti, compreso il prete, un lezzo caprino, misto a un sentor grasso di concime, così forte, che gli altri aspettanti o storcevano la faccia, disgustati, o arricciavano il naso; qualcuno anche gonfiava le gote e sbuffava.

             Ma essi non se ne davano per intesi. Quello era il loro odore, e non l’avvertivano; l’odore della loro vita, tra le bestie da pascolo e da lavoro, nelle lontane campagne arse dal sole e senza un filo d’acqua. Per non morir di sete, dovevano ogni mattina andare con le mule per miglia e miglia a una gora limacciosa in fondo alla vallata. Figurarsi dunque, se potevano sprecarne per la pulizia. Erano poi sudati per il gran correre; e l’esasperazione, a cui erano in preda, faceva sbomicare dai loro corpi una certa acredine d’aglio, ch’era come il segno della loro ferinità.

             Se pur s’accorgevano di quei versacci, li attribuivano alla nimicizia che, in quel momento, credevano d’avere da parte di tutti i signori, congiurati al loro danno.

             Venivano dalle alture rocciose del feudo di Màrgari; ed erano in giro dal giorno avanti; il prete, fiero, tra le due donne, in testa; gli altri dieci, dietro, a branco.

             Il lastricato delle strade aveva schizzato faville tutto il giorno al cupo fracasso dei loro scarponi imbullettati, di cuojo grezzo, massicci e scivolosi.

             Nelle dure facce contadinesche, irte d’una barba non rifatta da parecchi giorni, negli occhi lupigni, fissi in un’intensa doglia tetra, avevano un’espressione truce, di rabbia a stento contenuta. Parevano cacciati dall’urgenza d’una necessità crudele, da cui temessero di non trovar più scampo che nella pazzia.

             Erano stati dal sindaco e da tutti gli assessori e consiglieri comunali; ora, per la seconda volta, tornavano alla Prefettura.

             Il signor prefetto, il giorno avanti, non aveva voluto riceverli; ma essi, a coro, tra pianti e urli e gesti furiosi d’implorazione e di minaccia avevano già esposto il loro reclamo contro il proprietario del feudo al consigliere delegato, il quale invano s’era scalmanato a dimostrare che né il sindaco, né lui, né il signor prefetto, né sua eccellenza il ministro e neppure sua maestà il re avevano il potere di contentarli in quello che chiedevano; alla fine, per disperato, aveva dovuto promettere che avrebbero avuto udienza dal signor prefetto, quella mattina, alle undici, presente anche il proprietario del feudo, barone di Màrgari.

             Le undici eran già passate da un pezzo, stava per sonare mezzogiorno, e il barone non si vedeva ancora.

             Intanto l’uscio della sala, ove il prefetto dava udienza, rimaneva chiuso anche agli altri aspettanti.

             – C’è gente, – rispondevano gli uscieri.

             Alla fine l’uscio s’aprì e venne fuori dalla sala, dopo uno scambio di cerimonie, proprio lui, il barone di Màrgari, col faccione in fiamme e un fazzoletto in mano; tozzo, panciuto, le scarpe sgrigiolanti, insieme col consigliere delegato.

             I  sei seduti balzarono in piedi; le due donne levarono acute le strida, e il prete fiero si fece avanti, gridando con enfasi, sbalordito:

             –    Ma questo… questo è un tradimento!

             –    Padre Sarso! – chiamò forte un usciere dall’uscio della sala rimasto aperto.

             II consigliere delegato si rivolse al prete:

             – Ecco, siete chiamato per la risposta. Entrate, voi solo. Calma, signori miei, calma!

             Il prete, agitato, sconvolto, rimase perplesso se accorrere o no alla chiamata, mentre i suoi uomini, non meno agitati e sconvolti di lui, domandavano, piangendo di rabbia per una ingiustizia, che sembrava loro patente:

             – E noi? e noi? Ma come? Che risposta?

             Poi, tutti insieme, in gran confusione, presero a vociare:

             – Noi vogliamo il camposanto! – Siamo carne battezzata! – In groppa a una mula, signor Prefetto, i nostri morti! – Come bestie macellate! – Il riposo dei morti, signor Prefetto! – Vogliamo le nostre fosse! – Un palmo di terra, dove gettare le nostre ossa!

             E le donne, tra un diluvio di lagrime:

             – Per nostro padre che muore! Per nostro padre che vuol sapere, prima di chiudere gli occhi per sempre, che dormirà nella fossa che s’è fatta scavare! sotto l’erbuccia della nostra terra!

             E il prete, più forte di tutti, con le braccia levate, innanzi all’uscio del prefetto:

             – È l’implorazione suprema dei fedeli: Requiem aeternam dona eis, Domine! Accorsero, a quel pandemonio, da ogni parte uscieri, guardie, impiegati che, a un comando gridato dal prefetto dalla soglia, sgombrarono violentemente l’anticamera, cacciando via tutti per la scala, anche quelli che non c’entravano.

             Su la strada maestra, al precipitarsi di tutti quegli uomini urlanti dal palazzo della Prefettura, si raccolse subito una gran folla; e allora padre Sarso, al colmo dell’indignazione e dell’esaltazione, pressato dalle domande che gli piovevano da tutte le parti, si mise ad agitar le braccia come un naufrago e a far cenni col capo, con le mani di voler rispondere a tutti, or ora… ecco, sì… piano, un po’ di largo… cacciato dall’autorità… ecco, sì… al popolo, al popolo…

             E prese ad arringare:

             –    Parlo in nome di Dio, o cristiani, che sta sopra ogni legge che altri possa vantare, ed è padrone di tutti e di tutta la terra! Noi non siamo qua per vivere soltanto, o cristiani! Siamo qua per vivere e per morire! Se una legge umana, iniqua, nega al povero in vita il diritto d’un palmo di terra, su cui, posando il piede possa dire: «Questo è mio!» non può negargli, in morte, il diritto della fossa! O cristiani, questa gente è qua, in nome di altri quattrocento infelici, per reclamare il diritto della sepoltura! Vogliono le loro fosse! Per sé e per i loro morti !

             –    Il camposanto! il camposanto! – urlarono di nuovo tutti insieme, con le braccia per aria e gli occhi pieni di lagrime, i dodici margaritani.

             E il prete, prendendo nuovo ardire dallo sbalordimento della folla, cercando di sollevarsi quanto più poteva su la punta dei piedi per dominarla tutta.

             – Ecco, ecco, guardate, o cristiani: a queste due donne qua… dove siete? mostratevi! ecco: a queste due donne qua sta per morire il padre, che è il padre di tutti noi, il nostro capo, il fondatore della nostra borgata! Or son più di sessantanni, quest’uomo, ora moribondo, salì alle terre di Màrgari e sul dorso roccioso della montagna levò con le sue mani la prima casa di canne e creta. Ora le case lassù sono più di centocinquanta; più di quattrocento gli abitanti. Il paese più vicino, o cristiani, è a circa sette miglia di distanza. Ognuno di questi uomini, a cui muore il padre o la madre, la moglie o il figlio, il fratello o la sorella, deve patir lo strazio di vedere il cadavere del parente issato, o cristiani, sul dorso d’una mula, per essere trasportato, sguazzante nella bara, per miglia e miglia di ripido cammino tra le rocce! E più volte s’è dato il caso che la mula è scivolata e la bara s’è spaccata e il morto è balzato tra i sassi e il fango del letto dei torrenti! Questo è accaduto, o cristiani, perché il signor barone di Màrgari ci nega barbaramente il permesso di seppellire in un cantuccio sotto la nostra borgatella i nostri morti, da poterli avere sotto gli occhi e custodire! Abbiamo finora sopportato lo strazio, senza gridare, contentandoci di pregare, di scongiurare a mani giunte questo barbaro signore! Ma ora che muore il padre di tutti noi, o cristiani, il vecchio nostro, con la brama di sapersi seppellito là, dove in tante case ora arde il fuoco da lui acceso per la prima volta, noi siamo venuti qua a reclamare, non un diritto propriamente legale, ma d’u… che? che c’è?… dico d’umanità, d’u…

             Non poté seguitare. Un folto manipolo di guardie e di carabinieri irruppe nella folla e, dopo molto scompiglio, tra urla e fischi e applausi, riuscì a disperderla. Padre Sarso fu preso per le braccia da un delegato e tradotto insieme con gli altri dodici margaritani al commissariato di polizia.

             Intanto, il barone di Màrgari, che finora se ne era stato discosto, tra un crocchio di conoscenti, stronfiando come se si sentisse a mano a mano soffocare e schiacciare sotto il peso dello scandalo pubblico per l’oltracotante predica di quel prete, e più volte aveva cercato di divincolarsi dalle braccia che lo trattenevano per lanciarsi addosso all’arringatore; ora che la folla si disperdeva, si mosse, attorniato da gente sempre in maggior numero, e, terreo, ansimante, come se fosse or ora uscito da una rissa mortale, si mise a raccontare che lui e, prima di lui, suo padre don Raimondo Màrgari, rappresentati da quella gente là e da quel prete ciarlatano come barbari spietati che negavano loro il diritto della sepoltura, erano invece da sessant’anni vittime d’una usurpazione inaudita, da parte del padre di quelle due donne là, uomo terribile, soperchiatore e abisso d’ogni malizia. Disse che da anni e anni egli non era più padrone d’andare nelle sue terre, dove coloro avevano edificato le loro case e quel prete la sua chiesa, senza pagare né censo, né fitto, senza neanche chiedergli il permesso d’invadere così la sua proprietà. Egli poteva mandare i suoi campieri a cacciarli via tutti, come tanti cani, e a diroccar le loro case; non lo aveva fatto; non lo faceva; li lasciava vivere e moltiplicare, peggio dei conigli: ognuna di quelle donne metteva al mondo una ventina di figliuoli; tanto che, in meno di sessant’anni, era cresciuta lassù una popolazione. Ma non bastava, ecco, non erano contenti: quel prete avvocato, che viveva alle loro spalle, che aveva imposto a tutti una tassa per il mantenimento della sua chiesa, li metteva su, ed eccoli qua: non solo volevano stare nelle sue terre da vivi, ci volevano stare anche da morti. Ebbene, no! questo, no! questo, mai! Li sopportava da vivi; ma la soperchieria di averli anche morti nelle sue terre, mai! Anche perché l’usurpazione loro non si radicasse sottoterra coi loro morti! Il prefetto gli aveva dato ragione; gli aveva anzi promesso di mandare lassù guardie e carabinieri per impedire ogni violenza: perché il vecchio, da un mese moribondo per idropisia, era uomo da farsi seppellire vivo nella fossa che già s’era fatta scavare nel posto ove sognava che dovesse sorgere il cimitero, appena le due figliuole e quel prete gli annunzierebbero il rifiuto.

             Quando, di fatti, nel pomeriggio, padre Sarso e la sua ciurma furono rimessi in libertà e si avviarono al fondaco, ove il giorno avanti avevano lasciato le mule, vi trovarono in buon numero guardie e carabinieri a cavallo, incaricati di scortarli fino alle alture di Màrgari, alla borgata.

             – Ancora? – fremette padre Sarso, vedendoli. – Ancora? Perché? Siamo forse gente di mal affare, da essere scortati così dalla forza? Ma già… meglio, sì… anzi, se ci volete ammanettare! Su, su, andiamo! a cavallo! a cavallo!

             Pareva che avesse affrontato e sofferto il martirio. Gonfio di quanto aveva fatto, non gli pareva l’ora d’arrivare alla borgata con quella scorta, che avrebbe attestato a tutti lassù, con quanto fervore, con quale violenza egli si fosse adoperato a ottenere al vecchio la sepoltura.

             S’era già fatto tardi, e si sapevano aspettati con impazienza fin dalla sera avanti. Chi sa se il vecchio era ancora in vita! Tutti si auguravano in cuore che fosse morto.

             – O padruccio… o padruccio… – piagnucolavano le due donne.

             Ma sì, meglio morto, nell’incertezza, con la speranza almeno, che essi fossero riusciti a strappare al barone la concessione del camposanto!

             Su, via, via… Calava l’ombra della sera, e quanto più lungo si faceva il ritardo del loro ritorno, tanto più forse si radicava e cresceva nel cuore di tutti lassù quella speranza. E tanto più grave sarebbe stata allora la disillusione.

             Gesù, Gesù! Che strepito di cavalcature! Pareva una marcia di guerra. Chi sa come sarebbero restati a Màrgari, vedendoli ritornare accompagnati così, da tanta forza!

             Il vecchio se ne sarebbe subito accorto.

             Moriva all’aperto, in mezzo ai suoi, seduto innanzi alla porta della sua casa terrena, non potendo più stare a letto, soffocato com’era dalla tumefazione enorme dell’idropisia. Stava anche di notte lì seduto, boccheggiante, con gli occhi alle stelle, assistito da tutta la borgata, che da un mese non si stancava di vegliarlo.

             Se fosse almeno possibile impedirgli la vista di tutte quelle guardie…

             Padre Sarso si rivolse al maresciallo, che gli cavalcava a fianco:

             – Non potrebbero restare un po’ indietro? – gli domandò. – Tenersi Un poco discosti? Se si potesse far credere pietosamente a quel povero vecchio, che abbiamo ottenuto la concessione!

             Il maresciallo tardò un pezzo a rispondere. Diffidava di quel prete; temeva di compromettersi acconsentendo. Alla fine disse:

             – Vedremo, padre; vedremo sul posto.

             Ma quando, dopo molte ore d’affannoso cammino, cominciò la salita della montagna, s’intravidero da lontano, non ostante il bujo già fitto, tali cose straordinarie, che nessuno pensò più di poter fare al vecchio quell’inganno pietoso.

             Era su l’alta costa rocciosa come un formicolio di lumi. Fasci di paglia ardevano qua e là, da cui salivano alle stelle spire dense di fumo infiammato, come nella novena di Natale. E cantavano lassù, cantavano, sì, proprio come nella novena di Natale, al lume di quelle fiammate.

             Che era avvenuto? Su, di carriera! di carriera!

             Tutta la borgata lassù si era raccolta quasi a celebrare un selvaggio rito funebre.

             Il vecchio, non sapendo più reggere all’impazienza dell’attesa, sperando requie alle smanie della soffocazione, s’era fatto trasportare su una seggiola al posto dove sarebbe sorto il camposanto, innanzi alla sua fossa.

             Lavato, pettinato e parato da morto, aveva accanto alla seggiola, su cui stava posato come un’enorme balla ansimante, la sua cassa d’abete, già pronta da parecchi giorni. Eran preparati sul coperchio di quella cassa una papalina di seta nera, un pajo di pantofole di panno e un fazzoletto, anch’esso di seta nera, ripiegato a fascia che, appena morto passato sotto il mento e legato sul capo, doveva servire a tenergli chiusa la bocca. Insomma tutto l’occorrente per l’ultima vestizione.

             Attorno, coi lumi, era tutta la gente della borgata, che cantava al vecchio le litanie.

             – Sanata Dei Genitrix,

             – Ora prò nobis!

             – Sancta Virgo Virginum,

             – Ora prò nobis!

             E al formicolio di tutti quei lumi rispondeva dalla cupola immensa del cielo il fitto sfavillio delle stelle.

             Sul capo del vecchio tremolavano alla brezzolina notturna i radi capelli, ancora umidi e tesi per l’insolita pettinatura. Movendo appena le mani enfiate, una sul dorso dell’altra, gemeva tra il grasso rantolo, come per confortarsi e averne refrigerio:

             –         L’erbuccia!… l’erbuccia…

             Quella che sarebbe schiumata dalla sua terra, tra poco, là, su la sua fossa. E verso di essa allungava i piedi deformati dal gonfiore, ridotti come due vesciche entro le grosse calze di cotone turchino.

             Appena attorno a lui la sua gente levò le grida, vedendo accorrere tra strepito di sciabole su per l’erta una così grossa frotta di cavalcature, provò a rizzarsi in piedi; udì il pianto e le risposte affannose dei sopravvenuti; e, comprendendo, tentò di gettarsi a capofitto giù nella fossa. Fu trattenuto; tutti gli si strinsero attorno, come a proteggerlo dalla forza; ma il maresciallo riuscì a rompere la calca e ordinò che subito quel moribondo fosse trasportato a casa e che tutti sgombrassero di là.

             Su la seggiola, come un santone su la bara, il vecchio fu sollevato, e i margaritani, reggendo alti i lumi, gridando e piangendo, s’avviarono verso le loro casupole, che biancheggiavano in alto, sparse su la roccia.

             La scorta rimase al bujo, sotto le stelle a guardia della fossa vuota e della cassa d’abete, lasciata lì, con quella papalina e quel fazzoletto e quelle pantofole posate sul coperchio.

«Requiem aeternam dona eis, Domine!» – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
«Requiem aeternam dona eis, Domine!» – Audio lettura 2 – Legge Giuseppe Tizza

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