Quale teatro? – Capitolo 9: La sua scrittura drammaturgica

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Di Pietro Seddio

Sembra quanto mai opportuno entrare ancor di più nell’idea nei confronti della scrittura che l’Autore seppe tenere presente ed anche sviluppare in modo quasi completo tanto da possedere, alla fine della sua vita, una poderosa opera letteraria che non tanti possono a lui equipararsi.

Quale teatro?
Secondo Luigi Pirandello

Per gentile concessione dell’ Autore

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Quale teatro? Secondo Pirandello. Capitolo 9
Pirandello dà istruzioni agli attori durante le prove di “La nuova colonia” – 20 marzo 1928

Quale teatro? Secondo Luigi Pirandello
Capitolo 9
La sua scrittura drammaturgica

L’argomento che si vuole trattare in questo capitolo è alquanto complesso in quanto si forma di alcuni concetti che si possono dividere in: teorici e pratici e come accade in simili circostanze il saggista deve impostare l’analisi secondo una sua personale logica ed interpretazione per non confondere i due piani e quindi nella prima parte si daranno tutti i ragguagli che s’intendono riferiti proprio alla tematica della scrittura drammaturgica per poi entrare nel mondo specifico pirandelliano per comprendere come questa “arte” sia stata utilizzata, al meglio, dallo scrittore siciliano che in questo è da considerare davvero un grande Maestro.

Il termine “drammaturgia”, deriva dal greco antico, ed è composto dalle parole “agire” e “opera”, quindi indica l’atto di scrivere per il teatro. Tuttavia, nel corso dei secoli, il termine ha assunto un significato più ampio, andando a comprendere l’insieme degli elementi che compongono lo spettacolo teatrale.

All’interno di questa analisi, andremo a trattare il tema della drammaturgia, nello specifico, in questo caso, cercheremo di mettere in luce le tecniche di scrittura proprie di questo stile.

Il drammaturgo, in base ai vari contesti in cui viene a trovarsi, può andare a ricoprire dei ruoli differenti. Esso, è legato molto spesso ad elementi di carattere prettamente tradizionalistici, derivanti dalla cultura delle diverse nazioni. Quindi, il drammaturgo sembrerebbe svolgere molteplici funzioni, che possono essenzialmente riassumersi in:

  • scrittura di un testo;
  • adattamento di un testo poetico, narrativo, cinematografico (o altro) per il teatro;
  • traduzione di un’opera straniera;
  • consulenza letteraria nei teatri.

Nella scrittura teatrale, ci sono elementi presi in considerazione, nella realizzazione delle storie, alcuni dei quali, si basano sulla concezione teatrale di Aristotele, e altri più moderni, sono stati ideati dal drammaturgo Dave Blandl. Gli elementi ideati da Aristotele sono: l’intreccio; i personaggi; il tema; il linguaggio; la musica.

Blandl nel ‘900 aggiunse altri componenti nella stesura di un’opera: l’adattabilità del testo alla scena; la commercializzazione dell’opera; il target audience; la presentazione del testo.

La drammaturgia confluisce in due forme di scrittura principali: il monologo e il dialogo. Queste sono differenti tra di loro, e si basano sempre su scelte personali dello scrittore. Il monologo è il tipo di scrittura più caratterizzante del teatro, ma è anche molto difficile da gestire.

Infatti, utilizzandola, il drammaturgo deve far conoscere il personaggio al pubblico al quale si rivolge, adottando anche l’espediente di fargli ripetere più volte le stesse cose, o gli stessi atteggiamenti, per mettere lo spettatore a “proprio agio”.

Nella maggior parte dei casi, la struttura del dialogo è quella che viene utilizzata con più frequenza nella scrittura. Esso si basa sul contesto teatrale all’interno della quale esso viene usato. Inoltre, risulta essere di fondamentale importanza, la comprensione della psicologia presente all’interno di ciascun personaggio, gli intrecci fondamentali della storia, le sue dinamiche. Nella dimensione divulgativa di un progetto di educazione alla drammaturgia quale è quello che ospita questi incontri seminariali, si vuole proporre una revisione della consuetudine diffusa in certi contesti didattici di riferirsi alla drammaturgia e alla scrittura narrativa pirandelliane come a settori distinti e lontani della produzione letteraria, invitando a riflettere sull’idea stessa che il teatro è narrazione. Nelle aule scolastiche, fra i banchi della formazione superiore e dell’Università, Pirandello è un classico; e il termine ‘classico’, è bene ricordarlo, deriva dal latino classis, ovvero il testo che di norma i ragazzi dell’epoca latina portavano nelle aule: una grammatica, un testo normativo, un volume o un autore paradigmatico, un Cicerone per la prosa, un Virgilio per la poesia, un Prisciano nella tarda latinità.

Classico è un testo, come direbbe Calvino, che “ha sempre qualcosa da dire”: e in questo senso il teatro di Pirandello è senza tema di smentita un classico. Ma la scrittura drammaturgica e la messa in scena di quelle istanze hanno rappresentato per l’intellettuale agrigentino insieme uno strumento e un metodo; il teatro è il dispositivo culturale con cui egli intende rompere le regole, squarciare il velo di carta e spezzare il vincolo delle norme nell’orizzonte letterario primo-novecentesco, procedendo ad uno smantellamento dell’ordine costituito, ad una programmatica alterazione dei concetti di bello e di ben fatto, invocando immediatamente il supporto anche di alcuni tra i principali fondamenti ideali e ideologici che caratterizzavano le discussioni filosofiche contemporanee (in particolare quelle di argomento estetico).

Che cosa è, dunque, il teatro per Pirandello?

Una domanda assai complessa pur nella sua semplicità sintattica e sulla quale si è affannata una ampia fetta della critica letteraria del secolo breve per rilevare i motivi che in essa si potevano di volta in volta evidenziare (politico, sociale, storico, criticoletterario, ideologico, filosofico).

La domanda trova una plausibile risposta in una lettera indirizzata alla sorella Lina (un nome altamente siciliano e profondamente significativo nelle dinamiche psicologiche del drammaturgo), scritta a Roma il 4 Dicembre 1887, dopo avere assistito ad una rappresentazione di Tommaso Salvini:

“Oh il teatro drammatico! Io lo conquisterò, io non posso penetrarvi senza provare una viva emozione, senza provare una sensazione strana, un eccitamento del sangue per tutte le vene, quell’aria pesante che vi si respira gravemente odorata di gas e di vernice mi ubriaca, e sempre a metà della rappresentazione mi sento preso dalla febbre e brucio, e la vecchia passione che mi trascina e non vi entro mai solo ma sempre accompagnato dai fantasmi della mia mente, persone che si agitano in un centro d’azione non ancora fermato, uomini e donne da dramma o da commedia ma viventi nel mio cervello che vorrebbero subito saltare sul palco scenico, spesso mi accade di non vedere di non ascoltare, quello che veramente si rappresenta, ma vedere e ascoltare le scene che sono nella mia mente, e una strana allucinazione che svanisce ad ogni scoppio di applausi che potrebbe farmi ammattire dietro uno scoppio di fischi”. 

La passione sfrenata per l’istituzione drammaturgica si riverbera sulla dichiarazione della coincidenza tra il teatro di Pirandello e lo spirito più recondito dell’intellettuale, e trasforma il soffio vitale dell’uomo e del letterato in un unico inscindibile afflato. Questo straordinario concorso è il luogo metaforico in cui Italo Svevo riteneva si concertasse la teatralizzazione della casualità e della originalità insondabile ed irripetibile della vita.

Da qui si originano in Pirandello, a parere dell’autore de La Coscienza di Zeno, i dialoghi serrati e le azioni sempre contrassegnate da un evento imprevisto, da un finale fortuito, da una trovata inaspettata che raffigura e riproduce sulla scena la imperscrutabilità del caso (e del Caos) e della stessa vita umana.

Assunta questa prospettiva straniante, il teatro di Pirandello può declinarsi come il teatro della vita.

I personaggi che vi agiscono appaiono continuamente angosciati da problemi interiori, da instabilità non solo psichiche; questa inesplorabile e sotterranea afflizione, che compare anche al di sotto di apparenti raffigurazioni felici, ha bisogno di una soluzione, e tale soluzione si dà nel ritrovamento del sé attraverso il superamento dei limiti della ragione. Nella dimensione ideativa di Pirandello, nell’atto stesso della prima intuizione e immaginazione drammaturgica si crea e si annida quell’angoscia cui solo alla ragione è dato trovare il passaggio, il varco delle occasioni per dirla con Montale.

Un primo passo per una corretta interpretazione della drammaturgia pirandelliana va posto nella definizione di una cronologia delle fasi del teatro, che seppur non innovativo come metodo critico-esegetico, garantisce, tuttavia, a quella successione di eventi un tono più realistico e veritiero in riferimento sia alla produzione sia alla poetica teatrale di Pirandello.

Si possono fissare le date dell’esordio nel 1892 con l’atto unico L’epilogo e nel 1897 con la novella La paura, sebbene le prime messe in scena di opere teatrali di Pirandello si ebbero nel 1910 al Teatro Minimo di Roma in risposta alle esortazioni dell’amico Nino Martoglio. In quell’anno furono portate sulle scene La Morsa (epilogo in un atto, risalente al novembre del 1892 e di cui nel 1918 venne allestita anche una versione in dialetto siciliano,’A morsa), un triangolo abusato tra lui, lei, l’altro con il suicidio dell’antagonista e Lumie di Sicilia, opera ancora legata a certi schemi drammaturgici ottocenteschi e di cui nel 1915 fu allestita una versione dialettale per la compagnia teatrale di Angelo Musco. Le due opere sono composte in italiano, ma nella loro scrittura e poi nella rappresentazione, Pirandello percepisce i limiti del teatro nella lingua nazionale, rimanendo forse attonito, basito come Andrea nel movimento finale de La Morsa (“resta perplesso, smarrito, dietro l’uscio, con le mani sulla faccia”).

La parentesi del dialetto si attesta tra il 1915 e il 1920 e si configura come un plurilinguismo culturale prima che un fattore meramente linguistico; il ritorno all’italiano sarà di necessità richiesto anche dalla statura europea che egli nel frattempo era riuscito ad assumere, sin già a partire dalla fine della prima guerra mondiale, e grazie anche agli stimoli intellettuali che gli garantivano la drammaturgia di Ibsen, di Checov, di Strindberg, di Maeterlinck.

Pirandello, dunque, si volge al dialetto, al vernacolo puro per ricreare nello strumento linguistico quel tentativo di recupero di una dimensione umana quasi mitica (non esente da certe suggestioni apparentemente veristiche come in Liolà, ricordando l’ammirazione per il narratore catanese che riteneva “il più antiletterario degli scrittori”) e sospesa nel tempo.

Quel dialetto, però, non è la lingua usata dalla borghesia, non di rado incline a certe uscite linguisticamente distoniche (‘umoristiche’) rispetto alla propria considerazione sociale, e per questo divertenti nel loro effetto di straniamento.

E’ la parlata che poteva assicurare una rinnovata freschezza espressiva, una giusta esuberanza nel tessuto linguistico-lessicale; ma il dialetto rappresentava soprattutto un tramite di eloquenza che si poneva quale alternativa alle forme abusate della tradizione teatrale (e in ciò allontanandosi dalle posizioni del Verismo), simboleggiate ancora dal modello attoriale del veneziano Gustavo Modena (1803-1861) interprete al suo debutto sulle scene addirittura del Saul di Vittorio Alfieri.

L’opzione dialettale permetteva, quindi, di operare surrettiziamente una precisa scelta di carattere intellettuale, spostando l’attenzione, la focalizzazione drammaturgica su uno strato sociale differente e più basso, e ricevendo una compiuta statura istituzionale di lingua, in tutto alternativa all’italiano. Come detto, si tratta del vernacolo puro, una lingua parlata appunto dalle classi non ‘contaminate’ dalla cultura e ignoranti nel senso originario di “persone che non sanno, che non conoscono”.

La parlata di Girgenti fa il suo esordio nella scrittura drammaturgica già nel 1916 all’altezza della composizione di Liolà (che verrà pubblicato l’anno seguente), un’opera nodale nella elaborazione del pensiero teatrale di Pirandello, esaltata anche da Antonio Gramsci come una felice rappresentazione di sentimenti genuini e primigeni:

“… c’è implicito in Liolà tutto il teatro di Pirandello, ma come sentimento più che come proposito, come teatralità episodica e comicità tenue più che come integra personalità ideale. […] Liolà è opera d’arte perché la purezza creativa deve essere serena, come un mondo che scaturisce tutto organicamente da un suo centro, e ha in sé la sua misura e il suo limite, non in un sterno criterio di verisimiglianza”. (Gobetti)

Esistette un forte legame che Pirandello ebbe con due figure centrali nella strutturazione della sua poetica teatrale, l’attore Angelo Musco (1871-1937) al quale affiderà la rappresentazione di una serie molto ampia di opere, e il poeta dialettale e giornalista Nino Martoglio (1870-1921).

Il dialetto siciliano, quindi, è una piacevole evasione da una situazione di per sé tragica che è quella della malattia mentale della moglie e della prigionia del figlio Stefano durante il primo conflitto mondiale; questa parlata, e la tragedia che porta contestualmente, si riversa nelle forme teatrali ascrivibili esteriormente al genere istituzionale della commedia.

Pensate direttamente in dialetto, Pensaci Giacuminu! e Liolà vengono rappresentate dalla compagnia di Angelo Musco a Roma al Teatro Argentina a partire dal 4 Novembre del 1916. Leonardo Sciascia riteneva che Pensaci Giacomino! fosse un’evasione e Liolà una commedia-vacanza, una villeggiatura che Pirandello ‘trascorse’ (è un eufemismo richiesto dalle metafore care a Leonardo Sciascia) a Roma nel 1916. Il drammaturgo si chiude in un mondo perfetto (idealizzato ma non trasognato) in mezzo alla sciagura della moglie, del figlio, della guerra, in cui un ruolo non marginale andrà riconosciuto a quello sguardo non disincantato che Pirandello gettò verso l’estetica teatrale che in quegli anni coincideva con il dettato futuristico.

Adriano Tilgher riteneva che “le esigenze del teatro sintetico futurista, hanno trovato la loro realizzazione più attraverso la scenografia ed i movimenti che dal 1916 in poi (grotteschi, Rosso, Bontempelli, Pirandello, ecc.) si sono succeduti sulle scene italiane che attraverso l’opera drammatica del fondatore del Futurismo”.

E nel “Futurismo” (così presente nelle pagine di questo volume ora manifestamente ora implicitamente), pur nella sua rapida fenomenologia letteraria, artistica e, soprattutto, teatrale, si dovrà riconoscere “la chiave indispensabile per intendere nella sua logica progressione storica il periodo della letteratura drammatica italiana comprendente il secondo e il terzo decennio del Novecento”.

E’ bene ricordare, studiando i vari saggi a tal proposito, che la breve stagione del teatro Grottesco fu inaugurata da Lugi Chiarelli con la rappresentazione nel 1916, della Maschera e il volto e trovò un consistente sviluppo nella drammaturgia di Rosso di San Secondo (Marionette che passione! 1917). Alcune opere di Pirandello, peraltro tra i potenziali ispiratori della tendenza, come Così è (se vi pare) e Il giuoco delle parti (1918-19), potrebbero rientrare nel genere, che appare già esaurito attorno alla metà degli anni Venti.

Quindi si capisce come non esista realmente né il mondo di Liolà, né quello di Pensaci Giacomino; né esiste per Pirandello impegnato e assorto nella scrittura di quelle opere il mondo della realtà, della moglie, del figlio, della guerra: ecco allora finalmente l’incontro con l’alterità della realtà, l’alterità delle commedie.

Pirandello non ha mai sottomesso la propria intuizione intellettuale e la vena drammaturgica ai bisogni o alle richieste della politica, per quanto non di rado sia stato tirato per la giacchetta da alcune fazioni; in Liolà si coglie l’esigenza dello scrittore di creare un teatro nazional-popolare, definito da lui stesso in questa forma, che non fosse solo ad uso esclusivo della borghesia, ma che potesse estendere la propria fruibilità anche al proletariato. Un’ispirazione nella quale iniziano a germinare e a mescolarsi gli elementi della scrittura narrativa, del romanzo più noto, Il fu Mattia Pascal (“si vede che capitato in mezzo a così tanta brava gente tutto il male lo avevo fatto io”) e de La Mosca, epopea di una famiglia numerosa e dei suoi molti figli in cui bisognava “cantare e lavorare. Tutto a regola d’arte”. Risalgono al 1904 queste due opere con le quali si concretizza il superamento di ogni residuo contatto con il verismo verghiano. 

“Trafelati, ansanti, per far più presto, quando furono sotto il borgo, su, di qua, coraggio! s’arrampicarono per la scabra ripa cretosa, ajutandosi anche con le mani forza! forza! poiché gli scarponi imbullettati Dio sacrato! scivolavano”.

L’incipit della novella non tradisce alcun indugio veristico. L’attraversamento della stagione verghiana si esplica in una prospettiva (un punto di vista) solo apparentemente prossima al verismo e non c’è neanche tanto naturalismo in altre opere che pure sono completamente siciliane, come La Giara del 1917 ma senza le complicazioni filosofiche del naturalismo, del positivismo di Verga, e soprattutto senza quel distacco borghese e narrativo della focalizzazione al grado zero.

Torniamo, per centrare meglio questa analisi, alla commedia Liolà che domina un mito solare, fatto di sentimenti genuini e di un’esuberante umanità felice; Simone vuole un erede per lasciare la sua roba (un tema senz’altro comune alla scrittura verghiana), ma, non consentendoglielo la sua sterilità, intende adottare il figlio di un’altra donna, prima di scoprire che sua moglie gli stia per dare l’agognato erede.

L’identificazione fra terra e uomo, fra roba e uomo ricalca la prospettiva verghiana ma senza verismo, poiché cadono le implicazioni antropologiche e filosofiche del ciclo dei Vinti, della fiumana che investiva ogni umanità. Gramsci riteneva che questa fosse una farsa scritta nei toni dei drammi satireschi della Grecia antica, collegata e generata cioè da una vita nei campi dominata dal furore.

L’opera piacque anche a Pietro Gobetti che vedeva in quella drammaturgia la coincidenza di popolo e poesia, riconoscendo nel teatro il luogo in cui la freschezza popolare si opponeva vittoriosa al convenzionalismo borghese. Ne sia testimonianza il discorso tra Liolà e zio Simone la cui profondità supera il confine della scrittura e della stessa rappresentazione per concentrarsi nelle pieghe delle similitudini terra-grembo e proprietà-vita:

Liolà: […] Ringrazii Dio, zio Simone, che ancora non lo spossessano.

Zio Simone: Mi dovrebbero anche spossessare?

Liolà: E come no? Anche questa legge possono mettere domani. Scusi. Qua c’è un pezzo di terra. Se lei la sta a guardare senza farci nulla, che le produce la terra? Nulla. Come una donna. Non le fa figli. Bene. Vengo io, in questo suo pezzo di terra: la zappo; la concimo; ci faccio un buco; vi butto il seme: spunta l’albero. A chi l’ha dato quest’albero la terra? A me!
Viene lei, e dice di no, che è suo. Perché suo? perché è sua la terra? Ma la terra, caro zio Simone, sa forse a chi appartiene? Dà il frutto a chi la lavora. Lei se lo piglia perché ci tiene il piede sopra, e perché la legge le dà spalla. Ma la legge domani può cambiare; e allora lei sarà buttato via con una manata; e resterà la terra, a cui getto il seme, e là: sfronza l’albero!” (Liolà, atto primo). 

Fra il febbraio del ’16 e il dicembre del ’17 Pirandello scrive tredici commedie; fra il dicembre del ’17 e il gennaio del ’18 traduce in italiano ’A patenti (La patente) pubblicata nel 1918 sulla “Rivista d’Italia”: una novella sceneggiata, un atto unico e insieme una novella che celebra il passaggio dai drammi siciliani ai drammi italiani. Discutendo con l’attore Angelo Musco sulla messinscena Pirandello adopera proprio il termine di novella sceneggiata, collocandosi a metà strada tra un testo narrativo ed uno teatrale.

La messinscena de La patente a Roma nel 1918 non riscosse un grande successo, e lasciò segni profondi nell’animo e nella riflessione intellettuale di Pirandello che si affacciava per la prima volta sulla scena della capitale, in una dimensione ormai europea e comunque nuova. Il passaggio dalla terra siciliana alla nazione italiana serve a Pirandello per un cambio, uno scarto di carattere sociologico passando dal proletariato, come sottolineava Gobetti, della prima fase delle opere in dialetto al collocamento della riflessione della piccola borghesia romana, rompendo col verismo, col naturalismo, ma anche con D’Annunzio. La patente istituzionalizza la problematica dell’opinione pubblica, del pensiero della collettività, dell’esteriorità. Dice Chiàrchiaro davanti al giudice invocando le proprie ragioni:

Chiàrchiaro: Che me ne farò? Ma dunque è proprio deficiente lei? Me lo metterò come titolo nei biglietti da visita! Ah, le par poco? La patente! Sarà la mia professione! Io sono stato assassinato, signor giudice! Sono un povero padre di famiglia. Lavoravo onestamente. Mi hanno cacciato via e buttato in mezzo a una strada, perché jettatore! In mezzo a una strada, con la moglie paralitica, da tre anni in un fondo di letto! e con due ragazze, che se lei le vede, signor giudice, le strappano il cuore dalla pena che le fanno: belline tutte e due; ma nessuno vorrà più saperne, perché figlie mie, capisce? E lo sa di che campiamo adesso tutt’e quattro? Del pane che si leva di bocca il mio figliuolo, che ha pure la sua famiglia, tre bambini! E le pare che possa fare ancora a lungo, povero figlio mio, questo sacrificio per me? Signor giudice, non mi resta altro che di mettermi a fare la professione di jettatore!

[…] 

D’Andrea: Io? Ma vi pare? 

Chiàrchiaro: Sissignore, lei! Perché s’ostina a non credere alla mia potenza! Ma per fortuna ci credono gli altri, sa? Tutti, ci credono! Questa è la mia fortuna! Ci sono tante case da giuoco nel nostro paese! Basterà che io mi presenti. Non ci sarà bisogno di dir niente. […]
… e chi vuole che entri più a comprare in quella bottega una gioja, o a guardare a quella vetrina? Verrà fuori il padrone, e mi metterà in mano tre, cinque lire per farmi scostare e impostare da sentinella davanti alla bottega del suo rivale. Capisce? Sarà una specie di tassa che io d’ora in poi mi metterò a esigere!

D’Andrea: La tassa dell’ignoranza!

Gli ignoranti coincidono con i ricchi; il denaro stesso è ignorante, esso non sa, non conosce e né porta alla conoscenza. Pertanto non sarà vero ciò che è vero, ma è vero solo ciò che ci viene fatto credere o è vero ciò che è i più credono, è vero ciò che dice la gente.

“La patente” segna una svolta nella fase del relativismo gnoseologico e suggerirà a Bontempelli le seguenti considerazioni: Il teatro di Pirandello è il tragico e altissimo documento e monumento della fatalità che parve, all’aprirsi del tempo nuovo, ruinare l’umana civiltà e tutte le sue conquiste di venticinque secoli, facendo dell’uomo uno scoiattolo che passa la vita a far girare vorticosamente la sua piccola prigione.

La vita delle persone pirandelliane è grottesca e terribile: sono esse le vittime, non più come in Sofocle, della crudeltà d’Olimpo che le saetta dalle nubi; non più, come in Shakespeare, della indomabilità delle loro stesse passioni; non più, come in Ibsen, d’una legge morale ch’essi non sanno considerare se non come convenzione sociale: sono le vittime della torbida e lucida persuasione d’un immane nulla tutt’intorno all’uomo, centro e insieme circolo estremo d’un universo di raggio infinito, vittime della sostituzione di un ‘così è (se vi pare)’ all’apprendimento e all’accettazione vitale d’una costruzione di leggi.

La sfasciata ed errabonda miseria di quegli eroi costituisce la precisa assillante moralità, attualità di questo che è uno dei pochi poeti del tempo tragico universale, come affermava Bontempelli in un suo interessante saggio.

Nel tempo nuovo che si apriva al Novecento, un tempo pirandelliano, un tempo culturale e filosofico, Bontempelli celebra il rito gnoseologico del così è (se vi pare) come una nuova forma intellettuale e umana prima ancora che letteraria. Il teatro vive nell’umanità, non nella scena rappresentata dell’umanità. 

Così è (se vi pare) è la trasposizione della novella La signora Frola e il signor Ponza suo genero e fu rappresentata per la prima volta nel 1917, successivamente sottoposta a significative modificazioni nel 1925.

Nel testo si descrive la contrapposizione tra l’umanità borghese ordinata e l’alterazione confusionaria del dolore e della pazzia, inquadrati nella dimensione della chiacchiera di paese, dell’opinione tutta esteriore della gente.

Il signor Ponza e la signora Frola si rimpallano l’accusa di pazzia in riferimento alla figlia e moglie Lina nel contesto del terremoto della Marsica del 1915. Il relativismo della parola ripete lo schema gnoseologico de La patente, ma in questo caso Pirandello si riserva il diritto di intervenire in qualche modo nell’intreccio, assumendo le vesti, la maschera del personaggio dell’intellettuale Lamberto Laudisi:

Laudisi: E allora non credete a nessuno dei due!

Sirelli: Tu vuoi scherzare. Mancano le prove, i dati di fatto; ma la verità, perdio, sarà da una parte o dall’altra!

Laudisi: I dati di fatto, già! Che vorresti desumerne?

Agazzi: Ma scusa! L’atto di morte della figliuola, per esempio, se la signora Frola è lei la pazza (purtroppo non si trova più, perché non si trova più nulla), ma doveva esserci; si potrebbe trovare domani; e allora trovato quest’atto è chiaro che avrebbe ragione lui, il genero.

Sirelli: Potresti negar l’evidenza, se domani quest’atto ti venisse presentato?

Laudisi: Io? Ma non nego nulla io! Me ne guardo bene! Voi, non io, avete bisogno dei dati di fatto, dei documenti, per affermare o negare! Io non so che farmene, perché per me la realtà non consiste in essi, ma nell’animo di quei due, in cui non posso figurarmi d’entrare, se non per quel tanto che essi me ne dicono.

Sirelli: Benissimo! E non dicono appunto che uno dei due è pazzo? O pazza lei, o pazzo lui: di qui non si scappa! Quale dei due? Agazzi. E’ qui la questione!

Laudisi: Prima di tutto, non è vero che lo dicano entrambi. Lo dice lui, il signor Ponza, di sua suocera. La signora Frola lo nega, non soltanto per sé, ma anche per lui. Se mai, lui dice fu un po’ alterato di mente per soverchio amore. Ma ora, sano, sanissimo. […] 

Sirelli: E allora pazzo nessuno dei due? Ma uno dev’essere, perdio!

Laudisi: E chi dei due? Non potete dirlo voi, come non può dirlo nessuno. E non già perché codesti dati di fatto, che andate cercando, siano stati annullati dispersi o distrutti da un accidente qualsiasi un incendio, un terremoto no; ma perché li hanno annullati essi in sé, nell’animo loro, volete capirlo? creando lei a lui, o lui a lei, un fantasma che ha la stessa consistenza della realtà, dov’essi vivono ormai in perfetto accordo, pacificati. E non potrà essere distrutta, questa loro realtà, da nessun documento, poiché essi ci respirano dentro, la vedono, la sentono, la toccano! Al più, per voi potrebbe servire il documento, per levarvi voi una sciocca curiosità. Vi manca, ed eccovi dannati al meraviglioso supplizio d’aver davanti, accanto, qua il fantasma e qua la realtà, e di non poter distinguere l’uno dall’altra!

(Così è (se vi pare), atto II, scena I)

L’alterità gnoseologica si traduce dunque nella cecità, nella incapacità di vedere e leggere la realtà per quella che è, o meglio per quella che appare; una visione della realtà che sta appunto nella metafisica, che travalica cioè il limite della stringente fisicità, e che distingue la fase del relativismo gnoseologico che arriva fino al 1922. Appartengono a questa fase Il piacere dell’onestà (1917), Il giuoco delle parti (1918), Ma non è una cosa seria (1918), e vi si può ascrivere anche l’Enrico IV del 1922 per la denuncia dei ruoli esistenziali, della tragedia che scaturisce dai panni che la vita assegna, e che per divenire degna di essere vissuta impone di scontare sulla propria pelle il dissidio tra pazzia e finzione.

La comprensione del teatro di Pirandello come lui stesso ebbe modo di confessare alla sorella Lina, non andrà ricercata da nessun’altra parte se non all’interno di Pirandello stesso, non assistendo passivamente alla rappresentazione in teatro, ma guardando alacremente all’interno dei personaggi agiti sulla scena. L’Enrico IV viene rappresentato nel febbraio del 1922 a Milano, dopo una gestazione di sole due settimane ed espressamente destinato all’attore Ruggero Ruggeri in una epistola al quale il drammaturgo spiega la natura profonda di quest’opera.

L’Enrico IV, suddivisa in tre atti, è per Pirandello una tragedia fatta di “cose veramente imprevedibili”, di accidenti fortuiti in cui la realtà coincide con la simulazione filosofica della pazzia, “per ridersi dentro di sé degli altri che lo credono pazzo e perché si piace in quella carnevalesca rappresentazione”; almeno fino a quando il “finto pazzo tra spaventosi brividi, crede per un momento di essere pazzo davvero e sta per scoprire la sua finzione, quando in un momento riesce a riprendersi”.

La ferocia dell’alternanza da una finta pazzia a quel ruolo esistenziale in cui Enrico IV ha paura di essere divenuto realmente pazzo regola il dramma dell’esistenza: è proprio grazie al tramite della pazzia che quella tragedia si trasforma in un’occasione per intervenire nel cielo di carta, per percepire una verità più pura (che si cela proprio nella pazzia). Il relativismo gnoseologico, il relativismo della parola si evolvono e trasformano con l’Enrico IV, che appare l’anello di congiunzione con la successiva fase del metateatro. Temi già analizzati nel corso della presente analisi nei capitoli che precedono.

Enrico IV: Codesto vostro sgomento, perché ora, di nuovo, vi sto sembrando pazzo! Eppure, perdio, lo sapete! Mi credete; lo avete creduto fino ad ora che sono pazzo! E’ vero o no? –  (Li guarda un po’, li vede atterriti). – Ma lo vedete? Lo sentite che può diventare anche terrore, codesto sgomento, come per qualche cosa che vi faccia mancare il terreno sotto i piedi e vi tolga l’aria da respirare? Per forza, signori miei! Perché trovarsi davanti a un pazzo, sapete che significa? Trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto, avete costruito in voi, attorno a voi, la logica, la logica di tutte le vostre costruzioni! Eh! che volete? Costruiscono senza logica, beati loro, i pazzi! O con una loro logica che vola come una piuma! Volubili! Volubili! Oggi così e domani chi sa come! Voi vi tenete forte, ed essi non si tengono più. Volubili! Volubili! Voi dite: ‘questo non può essere!’

e per loro può essere tutto. Ma voi dite che non è vero. E perché? Perché non par vero a te, a te, a te, indica tre di loro, a centomila altri. Eh, cari miei! Bisognerebbe vedere poi che cosa invece par vero a questi centomila altri che non sono detti pazzi, e che spettacolo danno dei loro accordi, fiori di logica! Io so che a me, bambino, appariva vera la luna nel pozzo. E quante cose mi parevano vere! E credevo a tutte quelle che mi dicevano gli altri, ed ero beato! Perché guai, guai se non vi tenete più forte a ciò che vi par vero oggi, a ciò che vi parrà vero domani, anche se sia l’opposto di ciò che vi pareva vero jeri! Guai se vi affondaste come me a considerare questa cosa orribile, che fa veramente impazzire: che se siete accanto a un altro, e gli guardate gli occhi come io guardavo un giorno certi occhi potete figurarvi come un mendico davanti a una porta in cui non potrà mai entrare: chi vi entra, non sarete mai voi, col vostro mondo dentro, come lo vedete e lo toccate; ma uno ignoto a voi, come quell’altro nel suo mondo impenetrabile vi vede e vi tocca…”.

Con alacrità filosofica, Pirandello smonta le costruzioni del bello e del ben fatto primo-novecentesche; all’altezza del 1922 (data di non poche suggestioni storiche e politiche per gli Italiani, seppure ancora al mese di febbraio), decreta la rottura dell’ordine costituito e reagisce alla vana esteriorità formale della borghesia che camminava imperialmente verso mete sciagurate, verso “quest’altra mascherata” fatta da “pagliacci involontari”.

Enrico IV si scuote l’abito che ha indosso, ne denuncia la maschera (“la caricatura, evidente e volontaria”) e accoglie, infine, come una liberazione la propria pazzia (“preferii restare pazzo e vivere con la più lucida coscienza la mia pazzia”):

“… quando senza saperlo ci mascheriamo di ciò che ci par d’essere l’abito, il loro abito, perdonateli, ancora non lo vedono come la loro stessa persona. Voltandosi di nuovo a Belcredi: Sai? Ci si assuefà facilmente. E si passeggia come niente, così, da tragico personaggio”. 

Questa appare anche una sofferta conquista in una vita che è “una fuga di illusioni”, per cui il personaggio si pone fuori dalla propria finzione, e assegna il ruolo di falsità a chi sta di fronte al sano: “sono guarito signori perché so perfettamente di fare il pazzo qua, e lo faccio quieto, il guaio è per voi che la vivete agitatamente, senza saperla e senza vederla la vostra pazzia”. Questo periodo drammaturgico si innerva nella trilogia dei Sei personaggi in cerca di autore (“si limita in realtà a mimare una rivoluzione scenica”) del ’21, Ciascuno a suo modo del ’24 e Questa sera si recita a soggetto del ’30.

E andrebbe forse aggiunta anche I giganti della montagna, opera incompiuta che Pirandello portò avanti sostanzialmente fino alla morte (1936).

Lo sfondo mimetico della trilogia meta-teatrale, i salotti della borghesia, le campagne, i cimiteri portano alla luce l’intrico di falsità su cui poggia la vita collettiva; ma in questo momento neanche la maschera è più in grado di celare tale nodoso e caotico viluppo.

Le maschere però non cadono, ma si strappano dai volti e questo gesto violento si traduce nei finali tragici de Il giuoco delle parti, di Enrico IV, di Vestire gli ignudi. Non si lacera solo la maschera, ma perfino la pelle reale del falso personaggio che si rappresenta: in siffatta brutalità si concentra la perfetta coincidenza tra vita e teatro. Ma tutto ciò non è ancora sufficiente: il superamento di questo stadio darà avvio alla stagione dei miti. Non basta più un teatro che sia altro da sé (lo specchio del teatro, la luna e lo specchio): il mito trasferisce la storia, gli argomenti e le ambientazioni in dimensioni e scenari favolosi, universali perché cade ogni contesto geografico, ogni limite temporale. A un mito sospeso appartengono i pescatori de La nuova colonia (1928) i quali, rifugiatisi su un’isola che è stata lasciata dai vecchi abitanti perché c’è il pericolo che possa sprofondare nel mare, accettano il rischio sperando nella fortuna; ma il mito non è più quello vagheggiato della buona sorte della impresa verghiana dei lupini, è il mito dell’amore inteso come innocente solidarietà umana.

Il teatro si apre alla sua maggiore evoluzione: l’incompiutezza de I Giganti della montagna quasi si staglia a testimoniare che sta per arrivare la scintilla di eternità anche per la scrittura drammaturgica. In Lazzaro (1929) compare, infatti, un Dio-medico che resuscita Diego Spina, il quale a sua volta ha ucciso se stesso nel sacrificio fatto per la famiglia, (il figlio investito viene resuscitato con una iniezione miracolosa da parte di un medico); e ancora a un miracolo di fede è attribuita anche la resurrezione della piccola Lia paralitica.

Le tre sezioni dell’opera I giganti della montagna rappresentano tre differenti umanità: scalognati, attori e giganti. Gli scalognati vivono relegati in una villa dove la fantasia prende corpo; gli attori in quella villa vogliono rappresentare un’opera, la favola del figlio cambiato; e infine i giganti, rappresentanti teatrali della rozzezza, della bestialità, si vedono negata l’arte da parte del mago degli scalognati. Inutile sottolineare l’esplicito ritorno al presente di questa dimensione mitica: la brutalità e la cieca violenza dei giganti hanno tratti troppo somiglianti alla muscolosità di una certa umanità degli Trenta, la cui rozzezza li rendeva duri di mente.

La conclusione mitica della drammaturgia pirandelliana, l’evoluzione del grottesco, la scomposizione del personaggio-uomo scisso tra realtà e apparenza, tra salute e follia (“che sia da sciocchi invanire per le proprie fattezze”) si confermano nella impossibilità di trovare una conclusione, di giungere ad una definizione finale (“io sono vivo e non concludo. La vita non conclude”); e perciò per trovare il rinnovamento, per recuperare un varco non resta che vivere:

“E l’aria è nuova. E tutto, attimo per attimo, è com’è, che s’avviva per apparire. Volto subito gli occhi per non vedere più nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Così soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni (Uno, nessuno e centomila)”. 

Sembra quanto mai opportuno entrare ancor di più nell’idea nei confronti della scrittura che l’Autore seppe tenere presente ed anche sviluppare in modo quasi completo tanto da possedere, alla fine della sua vita, una poderosa opera letteraria che non tanti possono a lui equipararsi.

La crisi dell’uomo contemporaneo trova nell’arte di Luigi Pirandello un testimone e un’interprete d’eccezione. L’attività più intensa del Pirandello si svolse in un momento particolarmente tormentato della nostra storia e cioè nel trentennio che va dal 1900 al 1930. Sono gli anni in cui si prepara la prima guerra mondiale: un periodo confuso non soltanto sotto l’aspetto politico e sociale, ma anche in quello letterario.

Già negli ultimi decenni dell’Ottocento, nella letteratura e particolarmente nel teatro, si cominciò ad avvertire un senso di stanchezza e di amara delusione, che rispecchiava la situazione psicologica in cui si trovava la società borghese post-risorgimentale.

Al Positivismo, che aveva esaltato l’intelletto umano come capace di costruire un nuovo mondo di felicità sociale e di grande progresso, subentra il Decadentismo con la sua ansia metafisica, col gusto dell’ignoto e dell’inconscio, con le sue incertezze e le sue contraddizioni.

Pirandello può considerarsi, insieme al Pascoli e al D’Annunzio, il maggiore interprete della sensibilità espressa dal Decadentismo in Italia, proteso com’è ad analizzare i sintomi della inquietudine che travaglia l’anima moderna, smarrita nel mistero che ci avvolge, incerta del suo divenire, presa nella morsa di leggi inesorabili regolate da una natura per lei incomprensibile. Il Decadentismo nella sua essenza più profonda era stato volto alla esplorazione ed alla rivalutazione del subcosciente considerato come la più vera e più gelosa realtà dell’individuo contro la realtà fisica mutevole ed ingannatrice: la concezione della vita in Pirandello è tutta impostata su questa intuizione decadentistica della condizione dell’uomo, da cui nasce il suo atteggiamento umoristico verso gli uomini, che non sanno comprendere questa realtà tutta nostra, una realtà che non ammette violenze dall’esterno e che invece è continuamente “offesa” dagli altri che la giudicano “ognuno a suo modo”.

In un mondo dove tutto è messo in discussione l’uomo si ritrova solo e deluso, senza fede e senza fiducia. Lo sbandamento delle coscienze si ripercuote anche nella letteratura. In questo clima spirituale nasce e si sviluppa l’opera di Pirandello, uno degli interpreti più espressivi dello squilibrio dello spirito contemporaneo e il maggior drammaturgo del nostro tempo. Evidenti, anche se esteriori soltanto, sono i legami dell’opera pirandelliana con l’esperienza verista. Nella prima produzione, e particolarmente nelle novelle, ritroviamo lo stesso ambiente piccolo-borghese, che richiama situazioni e modi del Verga, con una rappresentazione apparentemente impersonale di costumi e di personaggi, che vanno dai solfatari ai pescatori, dai contadini ai piccoli proprietari.

Anche i personaggi di Pirandello sono dei poveri derelitti, dei “vinti”, ma, a differenza di quelli verghiani, non sono dei rassegnati al loro destino, ma anime inquiete, tormentate, pronte alla ribellione, ossessionate dal desiderio di evadere non appena si accorgono di vivere una vita che non è la loro, perché essi sentono “la pena del vivere così”.

Il dato realistico rimane indubbiamente il punto di partenza, il primo momento in cui l’autore prende contatto con la realtà umana, osservata come essa è; dice infatti Pirandello: “scrivere per fare della letteratura, per gioco dello spirito, mi par cosa stranamente vana. Le parole non mi interessano, bensì le cose “.

E’ proprio dalla osservazione delle “cose” egli sviluppa una più attenta meditazione, che tende ad andare oltre le apparenze, per penetrare nella condizione intima della vita di tanti individui e cogliere i contrasti tra l’essere e il parere. Per questo il Pirandello sposta la sua attenzione e il suo studio dall’ambiente all’individuo, allontanandosi sempre più dal naturalismo e dal verismo, per accogliere le istanze e le inquietudini proprie del decadentismo.

La realtà gli appare come qualcosa di mutevole, di vario; nulla è certo, tutto è illusione, diversa da momento a momento e da individuo a individuo. L’uomo crede di essere uno, ma in realtà non è nessuno; per chi lo osserva è centomila, in quanto assume personalità diverse secondo il concetto degli altri.

La nostra vera personalità, il nostro “volto”:

“…rimangono soffocati sul nascere da una maschera che gli altri ci impongono dall’esterno e in base alla quale noi viviamo; la società ci coarta con i suoi pregiudizi e le sue consuetudini, che finiscono per inaridire lo slancio vitale o per fare di noi personalità schematizzate, senza volto. Così conformato l’uomo non ha neppure la possibilità di conoscere se stesso: spesso infatti si sente mosso nell’agire da forze misteriose, incontrollate, che provengono dal suo subcosciente: è la vita che pulsa e ribolle sotto la maschera nel tentativo di erompere”. 

Ciò che conosciamo di noi stessi scrive Pirandello non è che una parte di quello che noi siamo. E tante e tante cose, in certi momenti eccezionali, noi sorprendiamo in noi stessi, percezioni, ragionamenti, stati di coscienza che sono veramente oltre i limiti relativi della nostra esistenza normale e cosciente”.

E’ a questo punto che nasce il dramma dell’individuo, nel momento cioè in cui egli si rende conto di vivere una vita che non è la sua e passa dal semplice “vivere” al “vedersi vivere”.

Una vita simile è “una molto triste buffonata; perché abbiamo in noi, senza sapere né conoscere né perché né da chi, la necessità di ingannare di continuo noi stessi, con la spontanea creazione di una realtà la quale di tratto in tratto si scopre vana e illusoria. Chi ha capito il gioco non riesce più ad ingannarsi; ma chi non riesce più ad ingannarsi, non può più prendere né gusto né piacere alla vita”.

Da questa situazione tragica e dolorosa dell’individuo che inutilmente tenta di infrangere la “maschera” per scoprire il “volto” nascono le situazioni strane, assurde paradossali che si incontrano nell’opera del Pirandello e in particolare nel teatro. La impossibilità dunque dell’individuo e della società di fissare una verità assoluta, conduce l’uomo ad annaspare nel buio del mistero che l’avvolge, senza possibilità di raggiungere alcuna certezza.

In Pirandello è sempre viva l’amarezza di dover constatare l’incomunicabilità degli uomini fra di loro, questo dover vivere così, estranei e sconosciuti l’uno all’altro, soli nel mondo, in un continuo, inappagato ed irrealizzabile desiderio di approdo alla vita altrui, di attacco con gli altri, di comprensione ripudiata.

Nasce così l’incomprensione tra noi e coloro che ci stanno attorno, poiché ognuno parla un linguaggio diverso da quello degli altri, per cui è impossibile stabilire un colloquio. Incomunicabilità, solitudine, incomprensione, aridità sono i caratteri comuni a quasi tutti i personaggi dei drammi pirandelliani.

Questa posizione di disgusto e di disprezzo del mondo e della vita umana porterebbe irrimediabilmente alla follia e al suicidio, se l’uomo non tentasse in qualche modo di reagire, di trovare una soluzione agli inquietanti interrogativi che la vita gli pone.

Oltre alle correnti-madri (Decadentismo e Verismo) nell’opera pirandelliana confluiscono le esperienze più discusse di allora: la freudiana, la esistenzialistica, quella del teatro del grottesco.

L’insegnamento di Freud, fondatore della psicoanalisi, si veniva svolgendo proprio negli anni in cui si maturava la formazione culturale di Pirandello e successivamente veniva affermandosi la sua arte.

Secondo Freud i casi umani sono regolati da una logica sicura e matematica, ma in essi c’è sempre qualcosa che sfugge al dominio della volontà dell’uomo, ed è ciò che finisce quasi sempre col determinare gli avvenimenti.

Tuttavia mentre l’uomo freudiano soggiace agli istinti incontrollati, quello pirandelliano si ribella e lotta con tutte le sue forze contro di essi, anche se per un destino avverso è costretto a soggiacervi.

Il fatto è che l’opera pirandelliana si incontra con le teorie freudiane per il senso di indagine inquietante dei moti interiori e per l’acuto desiderio di spiegarseli, senza che Pirandello si fosse proprio dedicato ad uno studio sistematico ed approfondito dei problemi psicologici determinati da Freud: lo studioso viennese e il commediografo italiano operavano sullo stesso terreno, il primo da scienziato, il secondo da artista. Una filosofia alla quale si ispirava e si ispira ancora molta della cultura contemporanea, è quella del danese Kierkegaard detta dell’esistenzialismo, che si fonda sull’esperienza, la quale ci pone di fronte alla ineluttabilità del vivere, all’angoscia dell’esistenza, alla fatalità di una legge della storia e della natura che è sempre uguale per le generazioni degli uomini.

Non possiamo affermare in maniera categorica che Pirandello sia un’esistenzialista, nel senso che egli abbia aderito con tutta consapevolezza all’insegnamento del filosofo danese, ma è fuori dubbio che tanti elementi della sensibilità esistenzialistica abbiano coinciso con quell’amaro e nello stesso tempo segretamente speranzoso dialettizzare dello scrittore agrigentino.

Ad influenzare l’opera pirandelliana contribuì, infine, la diffusione del teatro del grottesco, che assunse a materia delle sue migliori produzioni il dramma umano. Il teatro del grottesco vuole cogliere una situazione burlesca, quella che nasce dall’incoerenza tra quel che si è dentro e quel che si appare e si vuole apparire di fuori.

Le opere narrative sono nella quasi totalità precedenti cronologicamente a quelle drammatiche ed in esse si pongono già tutti i motivi dell’arte e tutta quanta la concezione che Pirandello ebbe della vita.

Novelle e romanzi sono i germi da cui prende avvio e successivamente si amplia la produzione teatrale. Le novelle sono state messe ingiustamente in ombra dalla grande accoglienza fatta nel mondo al teatro pirandelliano, in quanto questo ha una maggiore capacità di penetrazione e di comprensione a qualsiasi livello ed una maggiore forza di espansione.

Uno degli aspetti peculiari dell’opera narrativa di Pirandello è la sicilianità, connaturata nell’amore aspro per la sua terra. Pirandello è animato da un bisogno sempre desto di dare carattere di simbolo alle figure che la realtà gli presenta, cosicché nella novella accade quasi sempre che realtà e simbolo convivano benissimo insieme, o meglio la realtà offra allo scrittore lo stimolo, lo spunto per rappresentare una “verità astratta”.

In Pirandello c’è in fondo una partecipazione alla vita dei suoi personaggi, una specie di “indiretta difesa dei vinti”, non c’è lo sguardo staccato ed indifferente come potrebbe sembrare a prima vista: Pirandello è uno di loro, amareggiato dalla vita e convinto di essere pervenuto alla scoperta del significato di essa, senza miti e senza illusioni, pur se il cuore ne soffre. E’ per questa scoperta che egli irride a quel mondo da cui proviene e da cui si è staccato, irride alle storte abitudini, ai preconcetti di questi poveracci rimasti indietro nel cammino e ne sferza il modo di concepire la vita quando essa si trincera dietro le forme, perché vuole che gli uomini, compagni nel cammino impervio del mondo, se ne liberino ed intraprendano quella via per la quale egli si è già incamminato. Le novelle di Pirandello sarebbero dovute essere 365, quanti sono i giorni dell’anno, donde il titolo di “Novelle per un anno”; ma il disegno rimase incompiuto per la sopravvenuta attività teatrale, perciò ne rimangono 246, raccolte dall’autore in 15 volumi, i cui titoli sono:

“Scialle nero”, “La vita nuda”, “La rallegrata”, “L’uomo solo”, “La mosca”, “In silenzio”, “Tutt’e tre”, “Dal naso al cielo”, “Donna Mimma”, “Il vecchio Dio”, “la giara”, “Il viaggio”, “Canderola”, “Berecche e la guerra”,” Una giornata”. 

La critica ha mostrato quasi sempre entusiasmo per Pirandello novelliere, ponendolo fra i più grandi cultori di questo genere letterario nella letteratura mondiale. Una così vasta produzione che nella sua varietà e complessità può ben definirsi una vera commedia umana appare un po’ frammentaria, spezzata, bozzettistica: il difetto era evidentemente connaturato alla origine decadentistica della formazione culturale di Pirandello e alla essenza stessa della sua concezione della vita, secondo la quale la realtà si sbriciola, si frantuma, si scompone continuamente, senza una legge fissa e determinata per tutti e quindi senza una vera e propria unità di stile e di temi.

Pirandello come romanziere vale indubbiamente meno del Pirandello novelliere: l’indole dell’uomo e dello scrittore era più incline al rapido articolarsi e sciogliersi degli avvenimenti nel corto respiro della novella, anziché nel loro lento e minuto intrecciarsi nell’elaborata trama del romanzo. I temi dei romanzi sono sempre quelli dei drammi e delle novelle: il primo fu “L’esclusa”, composto nel 1893-94.

Si tratta della storia drammatica di una donna cacciata, “esclusa” dalla vita dei familiari perché accusata ingiustamente di aver peccato; sarà riammessa a casa quando invece avrà veramente peccato all’insaputa di tutti. L’ambiente è l’ottocento verghiano, il caso è già tipicamente pirandelliano, sia per il contrasto tra quel che è e quel che appare, sia per il motivo dell’esclusione dalla società.

All’esclusa seguirono: “Il turno”, “Il fu Mattia Pascal”, “Suo marito”, “I vecchi e i giovani”,”Si gira”, “I quaderni di Serafino Gubbio operatore”, “Uno, nessuno e centomila”.

I romanzi pirandelliani non colgono figure rappresentative di tutta un’epoca o di un ambiente, ma si fondono su casi o avvenimenti singolari, perciò di quei romanzi non rimane nella fantasia del lettore nessun carattere, nessuna figura. 

Avviene così, com’è stato osservato dalla critica, che i romanzi di Pirandello non resistono ad una seconda lettura, perdendo d’interesse una volta conosciuta la trama della vicenda, come avviene con i romanzi gialli. Tuttavia notevole è la loro importanza dal punto di vista dello svolgimento dell’arte pirandelliana, in quanto essi segnano il più deciso allontanarsi dai modi del Verismo verso il Decadentismo, visibile nella tendenza di dare ai personaggi più rilievo simbolico che descrittivo, guardandoli più nel loro significato intimo, cioè in quello che essi vogliono e debbono rappresentare; inoltre nei romanzi appare per la prima volta il “monologo interiore”, quel discorrere che fa il personaggio fra sé e sé, polemizzando, obiettando, contraddicendosi e giudicandosi, spesso sdoppiandosi.

L’attività teatrale di Pirandello significò per il teatro italiano una svolta decisiva ed esemplare; e tra le numerose sue commedie alcune raggiunsero e conservano il livello di autentici capolavori. Lo stesso giunse al teatro per una profonda convinzione di ordine morale; era convinto cioè che attraverso la rappresentazione scenica potesse rivelare meglio agli uomini le verità alle quali egli era dolorosamente pervenuto; egli definì perciò “teatro dello specchio” tutta la sua opera, perché in essa si rappresenta la vita senza maschera, quale essa è nella sua sostanza e nella sua verità, lo spettatore, l’attore e il lettore vi si vedono come sono, come chi si guardi ad uno specchio, vi si osservano con ansia e con curiosità, spesso vi si vedono deformati dagli altri, appunto come un cattivo specchio deforma l’immagine fisica; allora si riconoscono diversi da come si erano sempre immaginati e ne restano amareggiati e preoccupati.

La fama di Pirandello drammaturgo venne a noi dagli stranieri. Per lungo tempo da noi non si comprese la carica innovatrice contenuta nel teatro pirandelliano, mentre dobbiamo riconoscere che fu quasi esclusivamente attraverso la sua opera di drammaturgo che l’arte di Pirandello, e con essa tutta la nostra letteratura, si inseriva finalmente con autorità nella grande letteratura europea e mondiale a noi contemporanea, come espressione di una civiltà umana grandissima.

Naturalmente la sua arte e produzione erano esposte a gravi rischi, ai quali egli non sempre riuscì a sottrarsi: il “cerebralismo”, l’artificiosa accentuazione di situazioni paradossali, il compiacimento di complicati sofismi addotti per smontare e distruggere valori e miti convenzionali.

Ma nelle sue opere più grandi egli sollevò alla luce della sua poesia la sua lucida e disperata ricerca di verità e insieme la sua amara cognizione della solitudine e dell’alienazione dell’uomo contemporaneo.

Pirandello fu il narratore più essenziale e concettuale, più schivo degli svolazzi e delle manifestazioni esibizionistiche e coreografiche, tutto inteso a rappresentare l’essenza delle cose, il “di dentro”, quel che non appare fuori.

Il suo è uno stile personalissimo, fatto di cose, orientato verso uno scopo preciso, senza scoperte ambizioni letterarie. Pirandello quando scrive lo fa con la naturalezza e la spontaneità di un colloquio fra amici. Non è raro il caso che egli tenda a trasferire e a piegare i termini della lingua dalla loro comune accezione ad un più intimo e nuovo significato, e cioè secondo la maniera degli scrittori e dei poeti contemporanei appartenenti al Decadentismo e volti all’analisi e alla interpretazione del subcosciente, intesi alla creazione di un linguaggio tutto proprio, capace di esprimere quasi singolari stati d’animo, che li caratterizzano.

Quella naturalezza e singolarità di linguaggio appaiono a volte asprezza, facilità un po’ grezza e frettolosa, specialmente quando il linguaggio si frantuma nella sottigliezza dell’analisi, scarnificandosi.

Evidentemente lo scrittore siciliano predilige la prosa virile, lucida, protesa verso l’essenziale di ciò che si deve dire, la parola non fine a se stessa, ma espressione di un animus, di un giudizio, il linguaggio pungente e realistico, senza indugi oziosi e blandi compiacimenti linguistici, un linguaggio che mentre da un lato rivela nell’autore la padronanza perfetta del mezzo espressivo, dall’altro ne sottolinea la trepida commozione con vibrazioni poetiche e umane.

Seppur il discorso pirandelliano è sempre concreto e muscoloso, tuttavia affiorano, in particolare nelle novelle, pagine poetiche e di abbandono fantastico. Ciò avviene soprattutto quando la vicenda è ambientata in Sicilia; in questi casi Pirandello è più loquace, più arioso, più divertito e il discorso si fa più sciolto, più immediato e non è raro il caso che egli, come Verga, trapassi e svari nel discorso indiretto conservando movenze e ritmi del discorso diretto.

In questo stile narrativo, espressivo e senza retorica la moderna prosa italiana trova un esempio da proporsi e si riscatta da gonfiezze e da paludamenti formali e inutili. C’è forse da osservare, soltanto, come a volte questa prosa sia un tantino trasandata, condotta quasi senza eccessivo impegno da parte del narratore, più intento forse a seguire l’intreccio dei fatti che la loro rappresentazione e il loro manifestarsi a tradursi in parola, con una sintassi del periodo a volte un po’ spezzata, più disposta alle rapide battute del dialogo che alla narrazione.

Nella prosa pirandelliana quelle vibrazioni poetiche e umane sono frequenti perché non c’è in lui la scarnita e spietata vivisezione dell’anima umana, ma la cordiale comprensione verso i suoi personaggi, creature doloranti e vive, incarnazione di una parte di se stesso, non simboli astratti.

Perfino l’umorismo e il sogghigno hanno un attimo di perplessità, come se l’autore si fermasse pensieroso e rattristato sul destino dei suoi personaggi, di tutti gli uomini e suo. Quel fondo raziocinante, umoristico e polemico, nelle sue opere migliori è percorso da un pathos umano, da una fraterna comprensione che innalza l’opera a poesia.

L’umanità di Pirandello e la sua pena per la condizione umana assumono un atteggiamento particolarissimo, chiuso, che stenta ad esprimersi, perché sono incapaci di liberarsi in canto, in catarsi lirica; si esprimono, invece, in un grido lacerante di denuncia e di condanna. Egli dissimula le sue lacrime con un sorriso triste, assai più accorato e accorante di qualsiasi pianto, la sua pietà si manifesta per il povero derelitto, l’uomo comune della vita di ogni giorno: gli eroi non hanno cittadinanza nella sua arte; il solo vivere la vita, così come la viviamo, è già di per sé atto di eroismo.

Un’arte così decisamente ancorata alla vita e così intensamente umana è per se stessa ricca di intrinseca moralità: essa tende cioè, in ogni sua espressione, a sferzare la vita perché la vuole migliorare.

I personaggi pirandelliani non sono né cinici, né perversi, ma hanno una loro nobiltà e trovano una loro forma di catarsi attraverso la sofferenza del vivere. In quest’arte spira un moralissimo desiderio di liberazione dai ceppi della finzione e dalle assurde costruzioni, in cui l’uomo ha imprigionato la sua anima: è necessario strappare la maschera che gli uomini si mettono, denunciare i loro travestimenti e ciò per il loro stesso bene, perché essi non sanno accorgersene; è una moralità intrinseca e non formalistica, posta aldilà di ogni apparenza, rivolta contro il fariseismo e l’ipocrisia che tiene alle apparenze.

La moralità di Pirandello non si identifica e non coincide con alcun credo morale di una qualsivoglia religione rivelata e tradizionale, proprio per la impossibilità connaturata al mondo pirandelliano di poter ammettere una soluzione al vivere, di poter fissarsi in una forma definita. Nel concetto di moralità si inserisce il concetto che Pirandello ebbe dell’amore, bellissimo e ricco di profonda spiritualità.

L’amore crea, trasforma, dà la vita, è il monismo in cui si dissolve il dualismo di Platone tra carne e spirito, per fondere due unità in una sola, due anime in una, due corpi in uno; ma una fusione in cui lo spirito domina e la carne soggiace ad essa e gli ubbidisce, perché nella gioia dell’amore trionfa l’infinito che è in noi, al di sopra di ogni bassezza, al di sopra di miserie, peccato, gelosie.

Di fronte alla constatazione di quello che è il vivere nel mondo Pirandello assume un atteggiamento di umana compassione verso gli uomini che sono sottoposti a questa inesorabile legge del loro destino e che inconsciamente si ingannano; ma avventa il suo feroce umorismo contro il destino che condanna l’uomo all’inganno e più ancora contro coloro che scioccamente si ingannano o mostrano di ingannarsi, accettando il giuoco e assumendo maschere, atteggiamenti falsi, insinceri, equivoci. Pirandello è convinto che la condizione umana è triste, pessima, ma gli uomini si illudono o ingannano se stessi e allora lo scrittore li deride, li sferza, li smonta, mostrando il contrasto tra quel che essi sono e quello che vogliono apparire.

Tutte le funzioni umane, tutte le creazioni del sentimento possono essere oggetto di umorismo, quando la riflessione, come un demonietto impertinente, smonta il congegno delle immagini e dei fantasmi creati dal sentimento e lo smonta per vedere com’è fatto, per scaricarne la molla e vedere tutto quanto il congegno stridere convulso e ridicolizzato. Pirandello si addolora del male che è nel mondo, ma non sa spargere su quel male una lacrima quasi temesse di scoprirsi debole e fragile come tutti gli altri, se ne mostra invece contrariato, offeso e deluso; la caratteristica dell’umorismo pirandelliano è forse la risata. Nessuno che abbia assistito ad una recita dei “Sei personaggi in cerca d’autore” dimenticherà mai quella sferzante risata alla figliastra, che scompare nella platea tra il pubblico, riassorbita dalla vita impietosa e cattiva, al cospetto delle larve evanescenti degli altri personaggi immersi nella penombra del teatro. Si pensi pure a quanto sia lacerante e risolutiva per Moscarda la risata di Dida in “Uno, nessuno e centomila”. 

Pirandello beffardo e mefistofelico irride ironico alla presunzione degli uomini di voler credere che la vita sia così o così, di voler credere in determinate idee, tradizioni e leggi fisse.

La risata si fa più crudele quando tende a smascherare posizioni preconcette e la finzione di coloro che non credono, ma mostrano di credere, che appaiono in un modo e sono in un altro. Pirandello si può forse considerare il più grande scrittore umorista della nostra letteratura.

I personaggi pirandelliani sono scelti con gusto polemico tra i casi limite che la vita di ogni giorno presenta; sono tipi introversi, polemici essi stessi, litigiosi, filosofeggianti, puntigliosi ed ostinati, tipi indubbiamente scelti con esagerazione o portati all’esagerazione: lo vuole l’aspra concezione della vita che era in Pirandello e la convinzione che il lettore deve essere scosso, destato dalla sua “distrazione” e dal suo chiuso disinteresse verso ciò che non lo riguarda direttamente per costringerlo a vedere, a constatare, a riflettere, a togliersi la maschera affinché in seguito non ricada nello stesso errore di egoismo e di ipocrisia e si faccia migliore. I personaggi-filosofi pirandelliani parlano sempre loro perché ormai hanno scoperto il “giuoco” della vita, sanno di potersi illudere, hanno tolto la maschera e guardano in faccia la verità.

La prima impressione è che Pirandello scelga i suoi personaggi in una dimensione per così dire astratta, fortemente tipizzata. Quelli pirandelliani sono personaggi “contemporanei” anche per il fatto che sembrano presi da una forma di reazione nevrotica, una reazione contro la impossibilità di risolvere i propri         mille problemi quotidiani, inseguendo il tempo; impossibilità di superare gli ostacoli che la vita ci pone contro, e reazione più intima contro i propri limiti, contro le infinite rinunce a cui siamo sottoposti a tutte le ore, contro la nostra umana impotenza. Pur nella loro emblematicità e nel loro universalismo i personaggi di Pirandello hanno una vetusta impronta di sicilianità e segni particolari che li distinguono, sono segnati nel corpo e segnati dentro di amarezza pronta ad esplodere. Pirandello è scrittore discusso e certo non facilmente accessibile. I rilievi che generalmente gli si muovono sono:

  • cerebralismo;
  • spietata distruzione di ogni certezza;
  • unilateralità della sua concezione;
  • stile trasandato e tendenzialmente pedagogico.

Nell’opera pirandelliana si guardò ai suoi aspetti esteriori e non a quelli artistici, la si vide intesa unicamente alla ricerca di effetti sugli spettatori e si giunse a dire che essa si fondava soltanto su invenzioni esteriori, su idee singolari, originali, cerebrali, sul sottilizzare, analizzare e filosofare per il solo gusto del ragionare. Ma l’accusa è certamente esagerata, anche se dobbiamo convenire che alcuni punti di un’opera così vasta appaiono incomprensibili, complicati di casi strani e difficili, con intrecci inverosimili, astratti e contorti, con trovate paradossali, appaiono impostati su problemi che sembrano veri e propri rompicapo, su personaggi capaci solo di analizzare e filosofare e incapaci di vivere nell’azione, nel farsi della vita.

Quello pirandelliano non era certamente teatro facile per tutti, ma la critica più avanzata e qualificata venne via via prendendo posizione a favore della rivoluzione operata da Pirandello, tanto in Europa e in America, quanto in Italia; ci si cominciò ad abituare alla nuova problematica posta dalla sua opera, a capire Pirandello, ad apprezzarlo.

Il cerebralismo fu considerato aspetto isolato in opere mancate o in punti determinati di qualche opera, senza più la pretesa di voler giudicare l’arte tutta quanta di Pirandello secondo quel metro.

Altra accusa che si muove a Pirandello è quella di aver voluto spietatamente determinare la distruzione di ogni certezza: attraverso un gelido umorismo ed una inesorabile disamina della psiche umana, egli condurrebbe in maniera aspra e decisiva allo sdoppiamento della personalità e alla distruzione di ogni fede, fondandosi su una concezione chiusa e pessimistica nei riguardi della condizione e del destino degli uomini. Egli stesso ribatteva a coloro che gli rimproveravano questa sua posizione, che distruggeva solo illusioni affinché gli uomini vivessero meglio e in maniera più responsabile questa loro breve avventura terrena. Che se poi si scopre che la vita è amara ed è una “triste commedia” la colpa non è davvero di chi scopre questa verità.

Egualmente insidiosa appare l’accusa di unilateralità che si muove al mondo pirandelliano e che lo investe nella sua globalità. Bisogna pur dire che Pirandello non ebbe di certo vastità di pensiero e molteplicità di idee, ma piuttosto una intuizione semplice e limitata della vita, dando l’impressione che l’autore non faccia altro che applicare e sviluppare costantemente con nuovi e strani esempi quella semplice intuizione originaria.

I rilievi sono veri in parte: basti pensare a come la tesi del male di vivere investa tutta quanta la vita e a come essa si sfaccetti nei mille aspetti sempre uguali e sempre diversi della vita stessa, per intendere che l’unilateralità del mondo pirandelliano è l’unilateralità stessa della vita, intesa nella sua unica radice di dolore dalle infinite manifestazioni. Si fa ancora carico a Pirandello di uno stile trasandato e tendenzialmente pedagogico. C’è in lui si dice uno stile poco curato, una lingua piuttosto incondita e senza finezze, una espressione generalmente uniforme, eguale, poco attenta, una specie di semplicismo frettoloso orientato all’unico fine di dimostrare la sua polemica verità. Perciò Pirandello tende a forzare le situazioni, a piegare i personaggi alla sua tesi, a scegliere casi limite, nello sforzo di convincere il lettore che ciò che egli dice è così e non potrebbe essere altrimenti.

Così facendo all’arte pirandelliana sarebbe precluso, secondo alcuni critici, un “senso universalmente umano” restando essa ristretta a situazioni particolari e a fatti curiosi, e Pirandello finirebbe con il darci non personaggi vivi, ma “maschere fisse”, forme precise. Non si esclude che Pirandello abbia di questi momenti, questi vuoti d’ispirazione, ma quale dei grandi ne è immune nella storia letteraria di tutti i paesi del mondo? Nonostante i rilievi mossi, Pirandello viene riconosciuto in tutto il mondo come “il più grande drammaturgo del secolo”. L’ammirazione universale di cui gode è dovuta al fatto che egli rimane l’interprete di un’ansia a tutti comune, caratteristica della spiritualità del nostro tempo. Nell’ammirazione per il drammaturgo c’è una specie di gratitudine per colui che ha diagnosticato e mostrato i mali del nostro tempo e ne ha espresso l’ansia di evasione. Fu questo carattere universale della sua opera che condusse Pirandello al più ambito premio letterario, il Nobel, per la ricerca incessante di una soluzione del problema del vivere e della verità. A questo punto della disamina sembra opportuno soffermare, con un preciso esempio tecnico, co-me Pirandello abbia utilizzato la scrittura drammaturgica e prenderemo ad esempio, per prima, l’opera: “L’uomo dal fiore in bocca”). Già sappiamo che l’atto unico è stata una delle forme predilette del teatro del Novecento. In un breve arco temporale, in questa specifica opera, la durata di una conversazione tra due occasionali interlocutori, si condensa non tanto un’a-zione drammatica quanto una situazione. Mentre il dramma classico propone una situazione iniziale la quale viene modificata dalle azioni dei personaggi, finché si giunge ad una nuova situazione, che si presenta come conclusiva, l’atto unico si pone di fronte a una situazione ormai non più possibile di evoluzione, ma in qualche modo già determinata. A tal punto ricorriamo ad una analisi fatta da un grande scrittore Petr Szondi, il quale scrive:

“Nell’atto unico la tensione non scaturisce più dall’accadere intersoggettivo, ma deve essere già insita nella situazione. (…) Per questo motivo l’atto unico, se non vuole rinunciare del tutto alla tensione, sceglie la situazione limite, la situazione che precedere immediatamente la catastrofe già prossima al levarsi del sipario, che ormai non può più essere sventata”. [1]

[1] Peter Szondi, Teoria del dramma moderno, Ed. Einaudi, pag. 76. 

Sono parole, quelle riportare, che si adattano alla perfezione al testo pirandelliano citato. La tensione che indubbiamente il lettore/spettatore avverte non deriva, è logico quanto chiaro, dal contrapporsi dei due personaggi: si potrebbe al limite sostenere che unico è il personaggio, “L’uomo dal fiore in bocca”, mentre il pacifico Avventore ha soltanto la funzione di far meglio risaltare, per contrasto, il dramma dello altro. Le poche battute di una qualche ampiezza pronunciate appunto dall’Avventore, nella parte iniziale dell’atto unico, nel loro descrivere le noie della vita comune, preparano a meglio intendere quanto forte possa essere l’attaccamento all’esistenza pur con le sue banalità, in chi si sappia condannato a perderla. Successivamente le batture dell’Avventore si riducono a un semplice interloquire, quasi superfluo, in quello che in realtà è tutto un monologo del vero protagonista. Anche il teatro classico conosce il monologo, ma con ben altra funzione; il personaggio, solo sulla scena, esprime pensieri, riflessioni, intenzioni che sono funzionali allo sviluppo dell’azione drammatica e che non potrebbe far conoscere in anticipo ad altri personaggi.

Nel nostro testo, invece, come in molte opere contemporanee drammatiche, il monologo avviene in presenza di altri personaggi, ma non per questo perde il carattere di soliloquio; e non è finalizzato all’azione bensì all’effusione, che possiamo definire “lirica”, degli stati d’animo del personaggi. Ed è per questo che si vuole ricordare come in molte opere teatrali di Pirandello ci si trova di fronte a questa problematica: monologo che altro non è un soliloquio così come per Ciampa, Laudisi, Enrico IV, e tante altre opere.

Esaminiamo, allora, come l’Autore riuscì a costruire questo Atto Unico.

La prima domanda è: chi sono i personaggi dialoganti e che funzione assume il pacifico Avventore.

Poi, ancora, su cosa si impernia l’atto unico? Ed ancora: lo svolgimento di una azione; l’analisi di una situazione; il contrasto tra due mentalità diverse. Si arriva a determinare una risposta che si ritiene il più pertinente possibile e per ritornare a quanto scritto da Szondi, si afferma che (sono parole sue) osservando l’atto unico, ha rilevato come il questo è da considerare il dramma dell’uomo non libero, perché essendo la catastrofe un dato di fatto avvenire “ciò che separa il personaggio dalla fine è il tempo vuoto, che non può essere più riempito da nessuna azione, e nel cui puro spazio, teso verso la catastrofe, egli è condannato a vivere”.

Possiamo concludere, pur nella sintesi espositiva, che questo atto unico è dunque stato finalizzato all’analisi di un personaggio, colto in una situazione che possiamo definire tragica, se per “tragico” vogliamo intendere il conflitto tra l’individuo ed un destino ineluttabile, che si compie indipendentemente dalla sua volontà.

Attraverso le parole del personaggio, Pirandello ci ha trasmesso il senso del suo, e del nostro, tenace attaccamento alla vita, senza mai cadere nel patetico e nel lacrimoso, affidandosi invece all’umorismo e all’ironia: quella ironia che induce il protagonista a demonizzare “fiore” il tumore maligno che lo condanna. E questa è una lezione di descrizione drammaturgica.

Pietro Seddio

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