Quale teatro? – Capitolo 8: Pirandello e le didascalie

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Di Pietro Seddio

La funzione che svolgono le didascalie è proprio quella di dare delle istruzioni, dei suggerimenti al regista sulla messinscena di un opera. L’autore del testo teatrale infatti non sempre può eseguire la preparazione e l’allestimento di una rappresentazione teatrale, anzi ciò accade raramente.

Quale teatro?
Secondo Luigi Pirandello

Per gentile concessione dell’ Autore

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Indice Tematiche

L italiano teatrale di pirandello
Ernesto Calindri, Pensaci, Giacomino!, 1992

Quale teatro? Secondo Luigi Pirandello
Capitolo 8
Pirandello e le didascalie

Quello delle “didascalie” è un tema che nel campo teatrale risulta essere importante anche se difficilmente se ne sente parlare, forse perché considerate meno incisive quando invece sono una delle strutture portante dell’intelaiatura che sorregge la trama. E Pirandello, in questo settore, è stato uno degli autori più autorevoli e interessanti in quanto la maggior parte delle opere teatrali sono piene zeppe di didascalie che indicano subito il percorso tematico della trama conglobando la caratterizzazione delle scenografie e della caratterizzazione dei personaggi.

Quindi un argomento importante del quale vale la pena soffermare la nostra analisi così per dare completezza a questo testo analitico che, nel caso specifico, interesse le opere citate ma questo non vieta di riferirci ad altre opere scritte da don Luigi.

E’ giusto subito sapere che un testo teatrale è formato da due elementi:

Le battute: Le battute di dialogo sono l’elemento portante del testo teatrale e ne costituiscono l’aspetto caratterizzante dal punto di vista della forma. Esse possono essere di diverso tipo. A seconda del numero di persone che le pronunciano e del modo in cui vengono pronunciate, esse si distinguono in:

Soliloquio: il personaggio è solo in scena e pensa. Per convenzione pensa a voce alta, in modo che il pubblico possa ascoltare;

Monologo: il personaggio non è solo in scena, ma riflette appartato. Anche qui, convenzionalmente, i pensieri vengono proferiti verso lo spettatore, mentre i discorsi degli altri personaggi si fanno improvvisamente “muti”;

Tirata: il personaggio chiede silenzioso, perché deve dire qualcosa di importante: può trattarsi del racconto di episodi accaduti fuori scena o di riflessioni a commento di determinati eventi o azioni;

Dialogo: è il tipo di battuta di gran lunga più frequente e più significativo e avviene tra due personaggi che si alternano a parlare. Spesso il termine viene usato per indicare genericamente anche lo scambio di battute tra più personaggi;

Duetto: botta e risposta, rapido ed essenziale, tra due personaggi, di solito portatori di tesi opposte su una determinata questione o su un certo episodio. Nel teatro greco antico il duetto si chiamava “sticomitìa”, ossia “un verso per uno”, perché ogni battuta occupava un verso; 

A parte: un personaggio, per un attimo, si estranea dal dialogo e proferisce per conto suo alcune frasi di commento sull’argomento trattato. Nel testo le frasi pronunciate “a parte” sono segnalate da una didascalia e di solito sono poste tra parentesi. Esse, proprio perché sono pronunciate “a parte”, come se gli altri personaggi non le sentissero e fossero indirizzate solo allo spettatore, rompono in un certo senso la funzione scenica;

Concertato: il dialogo si svolge almeno tra più di tre personaggi.

Del tutto particolare è il caso della voce “fuori campo”, cioè delle battute affidate a un personaggio che non partecipa direttamente all’azione scenica ma interviene da “fuori scena” per interloquire con i personaggi o per commentare un aspetto della vicenda.

Le didascalie: 

Il termine didascalia deriva dal verbo greco didàskein, “insegnare”. La funzione che svolgono le didascalie è proprio quella di dare delle istruzioni, dei suggerimenti al regista sulla messinscena di un opera. L’autore del testo teatrale infatti non sempre può eseguire la preparazione e l’allestimento di una rappresentazione teatrale, anzi ciò accade raramente.

L’unica possibilità che l’autore ha di indicare al regista gli atteggiamenti, le mosse, le espressioni degli attori e gli elementi della scenografia ed è anche quella di inserire nel testo delle descrizioni verbali che prendono appunto il nome di “didascalie”.

Il termine didascalia è anche usato nel cinema e nella televisione e indica una frase di commento o di spiegazione sovraimpressa al fotogramma.

Le didascalie sono le indicazioni, di solito succinte che l’autore descrive:

  • in ordine al luogo e all’epoca in cui si svolge la vicenda;
  • in ordine al luogo in cui è ambientata una singola scena;
  • in ordine al modo in cui i personaggi sono vestiti si muovono, entrano ed escono di scena;
  • in ordine al modo in cui i personaggi pronunciano determinate battute.

Le didascalie, che nel testo scritto per convenzione tipografica sono stampate in corsivo e poste tra parentesi quando sono inserite nel corpo delle battute, hanno una funzione informativa.

Non tutti gli autori inseriscono le didascalie, alcuni ne fanno un uso moderato, altri sono molto precisi e scrupolosi nelle loro indicazioni Goldoni, per esempio, dà solo qualche suggerimento, come si può notare nella Locandiera, relativo soprattutto all’atteggiamento che devono assumere i personaggi e al luogo in cui si svolge la vicenda nei vari atti. Se deve dare spiegazioni di qualche termine gergale preferisce metterlo in nota.

In Pirandello, come accennato, invece le didascalie sono minuziose e frequenti, in quanto l’autore voleva che gli attori si calassero nei personaggi nel modo in cui egli li aveva creati. Fin che visse infatti Pirandello seguì di persona l’allestimento dei suoi drammi nella prima rappresentazione, svolgendo anche la funzione di regista. L’uso del colore dalle novelle alle didascalie del teatro di Pirandello.

Lo studio delle varianti rileva come Pirandello, nelle riedizioni teatrali successive al 1925, introduca alcune didascalie che contengono notazioni sul colore. Tali inserimenti fanno trasparire nel tessuto drammatico immagini espressive che rappresentano un passaggio obbligato per l’analisi degli esiti più studiati della scrittura scenica di Pirandello, soprattutto per distinguere le soluzioni che sono da sempre nell’invenzione poetica pirandelliana da quelle determinate anche dall’attività di Capocomico.

Pirandello si dimostra fin dal 1884 pronto ad esasperare il descrittivismo tradizionale in narrativa con una scrittura che dimostra una “qualità spiccatamente coloristica e figurativa”. Nel teatro degli esordi, invece, assistiamo ad un ridimensionamento di questa tendenza, la quale torna a manifestarsi in maniera programmatica a partire solo dai ‘Sei personaggi’.

E’ noto come la scrittura narrativa pirandelliana, fin dagli inizi, lasci grande spazio ai tratti figurativi, con caratteristiche che si collocano in un ambito di trasformazioni anticipatrici di taluni impieghi espressionistici dell’immagine, del colore, dello spazi.

Il colore veicola tutti i sentimenti e gli stati d’animo che nella forma teatrale non possono essere resi esplicitamente attraverso le parole; interi nuclei descrittivi, sviscerati nelle didascalie, sono condensati nel colore che implicitamente li rappresenta in scena. Nel teatro pirandelliano il figurativo assume lo stesso peso delle parole e dell’azione: si pensi all’idea sulla creazione artistica ripresa più volte da Pirandello nei suoi scritti sul teatro, e in particolare ne L’azione parlata, che vuole:

“L’autore (…) immedesimato con la sua creatura fino a sentirla come essa si sente, a volerla com’essa si vuole”. Anche i colori, legati fortemente ad un personaggio o ad un’atmosfera, non possono non essere, come “la parola […] connaturata all’azione”, quelli “propri a quel dato personaggio in quella data situazione”. 

Infatti, nel saggio Sincerità e arte il colore viene nominato come uno degli aspetti utili a caratterizzare i personaggi nella loro autonoma vitalità, libera dall’interferenza manieristica dell’intenzione autoriale:

“A ciascuno m’ingegnerò di dar la sua voce, a ogni cosa il suo aspetto e il suo colore: la sua vita, non la mia maniera”.

Un utile antecedente per la presente ricerca è rappresentato da un’analisi del colore degli oggetti di scena e del loro ruolo nelle azioni dei personaggi della prima produzione teatrale pirandelliana. Gli oggetti ivi analizzati occupano, con il proprio colore, anche diverse pagine narrative di Pirandello: a partire dalla nota coperta di lana.

Un sondaggio effettuato sui primi testi della produzione teatrale pirandelliana, e in particolare sulle varianti presenti nelle varie edizioni approntate da Pirandello, ha rilevato infatti che, in alcuni casi, le didascalie aggiunte in un secondo momento, contengono proprio le notazioni sul colore.

Pirandello inoltre, da Capocomico, scrive le didascalie di pari passo con la stesura dei bozzetti per la rappresentazione: si veda in particolare La nuova colonia, pensata e ideata proprio a Napoli (dove nell’autunno del 1927 si trovava la Compagnia del Teatro d’Arte), che ripropone i disegni della scenografia di Virgilio Marchi, il quale scrive nei suoi ricordi: 

“Il mito de ‘La nuova colonia’ nasceva dalla mediterraneità vulcanica della terra dove ci trovavamo”.

La letteratura italiana (e le arti) la quale evoca la Natura come una via di fuga dalla realtà sul palcoscenico de Il dovere del medico (già presente nella novella Il gancio del 1902 dalla quale è tratto il dramma, e che ricompare nelle pagine finali del romanzo Uno, nessuno e centomila).

Una lampada dal mattino verde è presente, invece, in diversi testi dello scrittore, dalla narrativa al teatro, in particolare all’interno di alcune scene che vedono i protagonisti principali relazionarsi con la figura del padre, o con un ricordo di esso: dal romanzo l’Esclusa, alla novella Berecche e la guerra, al teatro con La ragione degli altri (dove l’argomento della commedia è riconosciuto ormai come autobiografico, soprattutto in riferimento alla relazione extraconiugale del padre dello scrittore, Stefano Pirandello, con una cugina).

La lampada verde è raffigurata, curiosamente, anche nel ritratto di Luigi Pirandello dipinto dal figlio Fausto nel 1933. Proprio tale ripresa ha consentito alcune digressioni: sia sul rapporto generazionale fra padri e figli dentro e fuori la scena teatrale, in relazione ai repentini progressi, a volte traumatici, susseguitisi a cavallo fra Ottocento e Novecento; sia sulla percezione rigenerante del verde della Natura, la quale ha prodotto riflessioni affini nel figlio pittore e nel padre scrittore, e che Pirandello, a partire dall’oggetto della coperta di lana verde, ha trasmesso a tanti suoi personaggi, sino ad adottare il verde della campagna come uno scenario consueto del teatro, al punto di rappresentare nella sua poetica un vero e proprio luogo di rinascita. Per la narrativa pirandelliana, qualche critico rileva un linguaggio che: “… invoca come complementi essenziali il segno, il colore, l’immagine”, i quali vengono ad integrare e talvolta a sostituire le parole.

Questa caratteristica vale anche per la scrittura teatrale, non solo per il notevole apporto dell’impostazione narrativa nella costruzione delle didascalie drammaturgiche, ma anche per il modo in cui alcuni nuclei narrativi si presentano già come potenziali didascalie, a testimonianza di una comunicatività naturale fra i due generi.

L’uso del colore è predominante, però, solo a partire dalla produzione che risale agli anni del Teatro d’Arte (1925-1928), in opere quali i Sei personaggio la Sagra del Signore della Nave, e in tutte le opere successive sino al Teatro dei Miti, quando la scrittura pirandelliana si arricchisce di notazioni che riguardano l’illuminotecnica, e delle nuove esperienze maturate da Capocomico. Eppure, il Pirandello narratore, secondo l’indagine di Corsinovi, si dimostra fin dal 1884 pronto ad esasperare il descrittivismo tradizionale, con una scrittura che dimostra una “qualità spiccatamente coloristica e figurativa del linguaggio”.

Per il teatro agli esordi, invece, la scrittura pirandelliana presenta un ridimensionamento della tendenza figurativa, la quale torna a manifestarsi in maniera programmatica a partire solo dalla revisione dei testi già editi, svolta fra il 1924 e il 1926, in occasione della pubblicazione delle Maschere Nude.

Una posizione particolare in questo processo è occupata dall’edizione del 1925 dei Sei personaggi, l’elemento cromatico e luminoso concorre scenograficamente alla diversificazione psicologica ed esistenziale dei personaggi.

L’aspetto che Pirandello si preoccupa di indicare con precisione nel 1925 riguarda la natura dei Personaggi:

“I Personaggi non dovranno infatti apparire come fantasmi, ma come realtà create, costruzioni della fantasia immutabili: e dunque più reali e consistenti della volubile naturalità degli Attori”.

L’indicazione didascalica del 1921 raccomanda già di fare in modo che la sensazione fantastica che scaturisce naturalmente da essi, non diminuisca la loro realtà fatta di “forme” ed “espressioni”: (…) dove già al loro apparire, una strana tenuissima luce, appena percettibile, si sarà fatta attorno a loro, come irradiata da essi: lieve respiro della realtà fantastica.

Questo soffio di luce sparirà quand’essi si faranno avanti per entrare in relazione con gli attori. Serberanno tuttavia come una certa loro naturale lievità di sogno, in cui son quasi sospesi, ma che pure non toglierà nulla all’essenziale realtà delle loro forme e delle loro espressioni. Tale sensazione, però, è data visivamente nella didascalia solo dalla “strana tenuissima luce che irradia da essi”; luce che scompare poco dopo nel confronto con il mondo reale, facendo cadere l’unico elemento di differenziazione forte, previsto da Pirandello, per separare i Personaggi dal gruppo degli attori.

Nel 1925, l’autore punta ad accentuare la diversificazione visiva mediante “l’uso di speciali maschere per i Personaggi”, e “una diversa colorazione luminosa per mezzo d’appositi riflettori” (le cronache raccontano che, per l’allestimento dello spettacolo a Torino del 22 dicembre 1925, questo gioco di luci è dato dal colore rosso per i Personaggi, e dal bianco per gli Attori).

Un altro esempio del lavoro svolto da Pirandello nella revisione del 1925, finalizzato ad accentuare la natura fantastica dei Personaggi mediante l’uso del colore, è dato dall’apparizione di Madama Pace. Nel 1921 il personaggio è rappresentato come una di quelle signore umoristiche, presenti spesso anche nella produzione teatrale di quegli anni: Madama Pace, grassa megera dai boffici capelli ossigenati, tutta ritinta, vestita con goffa eleganza, di seta nera e con una lunga catena d’argento attorno alla vita, da cui pende un pajo di forbici.

L’effetto di quest’apparizione non ha nulla a che vedere con l’espressività esasperata che il drammaturgo le attribuisce nel 1925, costruita tramite il colore rosso assunto a simbolo di sfrontataggine e impudenza: Madama Pace, megera d’enorme grassezza, con una pomposa parrucca di lana color carota e una rosa fiammante da un lato, alla spagnola; tutta ritinta vestita con goffa eleganza, di seta rossa sgargiante, un ventaglio di piume in una mano e l’altra mano levata a sorreggere tra due dita la sigaretta accesa.

Si passa dal nero, e dalla convenzionalità originaria, aspetto più consono al primo abbozzo del personaggio, “una certa signora Pace” presente nei Foglietti sparsi di Pirandello (editi postumi da Corrado Alvaro), al rosso fiammante della figura del 1925. Il personaggio diventa, grazie a questo mutamento, una figura fantastica e completamente slegata dalla prima idea che Pirandello ne aveva avuto, conservandone tuttavia il nome.

Si svela così, attraverso questo ripensamento cromatico, a cavallo fra le edizioni del 1921 e del 1925, il “piccolo mistero” che lasciava perplesso Leonardo Sciascia, sul perché Pirandello trasportando il personaggio dagli appunti alla commedia, “in quella apparizione cromaticamente e linguisticamente insopportabile, diventata da signora madama”, continui ad assegnarle il nome di una signora borghese: Pace, appunto.

Un caso esemplare, per il rapporto fra narrativa e dramma, è dato dall’atto unico All’uscita, l’apparizione della Donna uccisa non è preceduta da nessuna didascalia perché sopraggiunge nel continuum del dialogo, come se non fosse una creatura dell’autore, ma dell’Uomo grasso, il quale la evoca con le sue parole. Il dialogo presenta, perciò, tutte le tracce sceniche utili per l’azione, e tutti gli elementi che costituiscono la didascalia inesistente di questo personaggio, al punto di rendere superflua ogni altra indicazione.

Dalle parole dell’Uomo grasso cogliamo la descrizione del modo di ridere della Donna uccisa:

“Ma io già gliela sento gorgogliare nelle viscere convulse la tremenda risata, che alla fine proromperà in faccia a lui da quella sua feroce bocca rossa tra il taglio dei lucidi denti. Ride come una pazza. […] Le scatta dalle viscere come una frenetica rabbia di distruzione. E’ terribile, terribile quella risata su lo spasimo di chi la sente”. 

Mentre le battute che seguono subito dopo descrivono le azioni e l’aspetto del personaggio, che appare finalmente in scena:

“Forse l’ha già uccisa. Tra poco la vedremo uscire di là. Eccola! eccola! Oh Dio, vedete? eccola: balla, gira come una trottola. E’ lei! Ride, ride! Tutta scarmigliata! E sulla mammella manca, vedete? il sangue! Lo spruzza tutt’intorno! Qua, qua! Vieni qua! Non girare più così! Siedi qua!”. 

Anche se il corpo delle didascalie è rivisto nel 1926, con sistemazioni e aggiunte che mirano a ridurre il carattere narrativo, e a rendere più espressive e drammatiche le azioni, la loro funzione nell’economia del testo non è ancora centrale. Quello che differenzia questo testo teatrale dalla produzione successiva è proprio lo spazio non rivendicato dalla didascalia per l’apparizione della Donna uccisa.

Altre apparizioni, come quella già citata di Madama Pace nei Sei personaggi, o di Maria Maddalena nei Giganti della montagna, non potranno fare a meno di rendere la loro forza espressiva e drammatica primariamente nell’immagine affidata alla didascalia:

“Appare sul ponte Maria Maddalena, illuminata di rosso da una lampadina che tiene in mano. E’ giovine, fulva di capelli, di carne dorata. Veste di rosso, alla paesana: e appare come una fiamma”. 

Immagini di apparizioni non a caso costruite sempre attraverso il colore rosso.

Nell’atto unico All’uscita, in un’atmosfera che si presenta in bianco e nero, il rosso è il solo colore che si accende sulla scena: il rosso del sangue della ferita; quello della “bocca rossa tra il taglio dei lucidi denti”; quello della melagrana del bimbo.

Il rosso è il colore dominante, almeno fino all’arrivo dei “massicci aspetti della vita”, i contadini, la bambina, l’asino con il grosso fascio d’erba, che apportano sulla scena il loro colore di esseri vivi.

Pirandello nelle didascalie di All’uscita non ha pensato di inserire espedienti scenici per differenziare visivamente le Apparenze dagli Aspetti della vita, come invece fa nel 1925 per distinguere i Personaggi dagli Attori della compagnia, mediante la prescrizione delle maschere e l’inserimento di alcune nuove didascalie riguardanti l’aspetto degli attori, con il fine di accentuarne la connotazione stereotipata: “il Macchinista in camiciotto turchino e sacca appesa alla cintola”, e ancora “Sarà bene che tanto le Attrici quanto gli Attori siano vestiti d’abiti piuttosto chiari e gaj”, e infine la didascalia per la prima attrice “E’ tutta vestita di bianco, con un cappellone spavaldo in capo”. 

I colori dei costumi dei Personaggi, invece, sono già definiti nel 1921, mentre solo la notazione per l’abbigliamento del Figlio risale alla revisione del 1925: “porterà un soprabito viola e una lunga sciarpa verde girata attorno al collo”. Illiano-critico sente nel viola “l’alternarsi di due significati attigui e in parte affini: il senso liturgico della penitenza e la tendenza mistico-idealistica del personaggio”.

Nel teatro pirandelliano, sin dal 1918, un altro personaggio maschile si aggira sul palcoscenico con un aspetto che lo rende diverso dagli altri, contrassegnato visivamente dal colore viola della giacca, vale a dire Lamberto Laudisi in Così è (se vi pare).

Anche in questa commedia si contrappongono visivamente due gruppi: da un lato si ha quello composto alternativamente ora dalla Signora Frola (“una vecchina linda, modesta”), e ora dal Signor Ponza (“Tozzo bruno, dall’aspetto quasi truce, tutto vestito di nero, capelli neri (…) grossi baffi neri”); mentre dall’altro si ha quello dei signori borghesi, maliziosi, grassocci, che ostentano esageratamente la loro “sovraccarica eleganza provinciale”.

Il viola dell’abito di Laudisi oltre a distinguerlo sul piano visivo, rappresenta la sua volontà di differenziarsi dalla realtà che lo circonda, e designa la natura intellettuale e provocatoria del personaggio, che stempera l’irritazione provocatagli dagli altri con l’arma della risata. 

Il viola lo separa dalla mediocrità della realtà borghese, ma allo stesso tempo anche dal dramma dei tre personaggi, non diversamente da ciò che tale tinta fa con il Figlio nei Sei personaggi.

Il colore voluto da Pirandello per connotare il personaggio del Figlio, allora, può ben rappresentare la “espressione del proprio sentimento fondamentale, (…) lo sdegno”, nutrito per le colpe, le vergogne, e i peccati che macchiano i suoi genitori; così come può raffigurare il suo rifiuto ad incarnare il dramma che lo lega agli altri personaggi: “Non c’entro, e non voglio entrarci perché sai bene che non son fatto per figurare qua in mezzo a voi!”.

Il legame con il dramma “da fare” è dovuto ad una forza misteriosa che gli impedisce di allontanarsi dal gruppo ogni qual volta ci provi:

“Il Figlio resterà proteso verso la scaletta, ma, come legato da un potere occulto, non potrà scenderne gli scalini; (…) La Figliastra, che lo avrà seguito con gli occhi in atteggiamento di sfida, scoppierà a ridere.

Non può, vede? non può! Deve restar qui, per forza, legato alla catena, indissolubilmente”. 

In questa scena, la sciarpa verde girata intorno al collo del personaggio rafforza l’immagine della catena che lega il Figlio all’inevitabilità del dramma, scaturito proprio a causa del suo contegno. E’ interessante l’analisi che fa Illiano per l’abbigliamento del Padre e del Figlio: il critico vede nel vestiario del primo (“calzoni chiari e giacca scura”) “il gusto proprio del conformismo borghese”, mentre nell’altro “la sua indole sprezzante e polemica con un abbinamento cromatico soprabito viola e sciarpa verde che spicca e stride in un insieme di tinte in cui enfaticamente predomina il nero”.

Il nero è quello dei personaggi vestiti a lutto, la Madre, la Figliastra e il Giovanetto, mentre la bambina veste di bianco con fascia nera alla vita.

Si anticipa una prima applicazione, in riferimento al costume del Figlio e ai ben noti valori semantici attribuiti ai colori della liturgia cristiana, di una lettura critica sicuramente da contestualizzare in un discorso più ampio, ancora da sviluppare. Nella codificazione liturgica dei paramenti sacri, sopra la stola (la fascia posta intorno al collo, simbolo dell’istituzione religiosa e dell’innocenza originaria persa attraverso il peccato dei progenitori), deve essere indossata la casula (veste liturgica simbolo della carità).

Leggere l’abbigliamento del Figlio in chiave liturgica non deve però, ovviamente, fare del personaggio un semplice prete travestito, il quale, distanziandosi dalla norma, sovrapponga alla carità (il soprabito) l’autorevolezza della legge morale (la sciarpa).

Per salvarci dal rischio di quell’allegorismo tanto temuto da Pirandello, sarà meglio piuttosto evocare, per spiegare il procedimento meta teatrale in atto in questo “gioco” (come spesso viene detto nella commedia), nell’accezione di rappresentazione, ciò che accadeva anticamente durante la festa dei Santi Innocenti. Secondo una tradizione medievale, diffusa anche nel Meridione, in questo giorno era concesso a giovani ministranti di vestire le insegne sacerdotali e di officiare il vespro.

Lo ricorda anche una fonte vicina a Pirandello, il folclorista siciliano Giuseppe Pitrè nel volume Spettacoli e feste popolari siciliane, in un capitolo dedicato alle sacre rappresentazioni drammatiche:

“Ma il più curioso tra tutti questi riti o contraffazioni di riti drammatici è quello che prendea nome di Piscopello o Vescovello. La funzione non era solo nella Sicilia; anzi perché comune a molte chiese d’Italia e di Europa venne proibita dal Concilio di Basilea nel 1435. A’ 27 dicembre d’ogni anno uno de’ chierici rossi del Duomo di Palermo detti russuliddi, vestito di tutto punto vescovo con mitra, crocetta e bacolo, e assistito dai suoi compagni, teneva pontificale nel Duomo stesso. Seduto in soglio assisteva a’ vespri di S. Giovanni; indi salito sul pergamo recitava la sua pastorale e finiva impartendo l’apostolica benedizione alla folla di curiosi che pendea dalle sue labbra. 

Nè qui la scena avea fine. Sceso dal pergamo e rimesso in mezzo a’ chierici, percorrea trionfalmente l’antico Cassaro e benedicendo a destra e a sinistra il popolo che per desio di vederlo gli facea ressa d’intorno. Questo spettacolo durò sino alla metà del cinquecento in Palermo; poi dovette cessare per le ripetute proibizioni che se ne fecero. (…) Nella diocesi di Catania la rappresentazione del Piscopello formò argomento del sinodo tenuto nel 1668 in quella città (…) Nel comune di Troina (…) l’uso durò sino al 1726 (…)”. 

Alla commemorazione di un dramma si accompagnava l’allestimento di una commedia, insomma “un misto di tragico e di comico”. Tale pratica fu infatti ostacolata dalle autorità ecclesiastiche: “ne permittant in vesperis Innocentum pueros clericos in dui vestibus sacris et agere ridicula”. Il Missale romanum riformato da Pio X, e promulgato da Benedetto XV nel 1920, prevede di indossare il paramento liturgico di colore viola nel giorno che commemora la strage degli Innocenti perseguiti da Erode.

Se si legge poi l’Orazione del 28 dicembre: Deus, cujus hodierna die præcónium Innocéntes Mártyres non loquéndo, sed moriéndo conféssi sunt: ómnia in nobisvitiórum mala mortífica; ut fidem tuam, quam lingua nostra lóquitur, étiam móribus vita fateátur; si nota che la “parola” è anche la cifra che differenzia i Sei personaggi fra di loro, a partire dai due piccoli innocenti che non parlano, per passare alla parola morale del Padre che non corrisponde, nei fatti, alle sue azioni, per giungere, infine, al rifiuto della parola e dell’azione espresso dal Figlio.

La scena finale dei Sei personaggi ideata nel 1925, con “un riflettore verde, che proietterà, grandi e spiccate, le ombre dei Personaggi, meno il Giovinetto e la Bambina”, sottolinea infine cromaticamente il legame che unisce in modo indissolubile il Figlio al dramma degli altri personaggi, così come il colore dalla sua sciarpa lo aveva visivamente preannunciato durante lo svolgimento dei tre atti.

Passato il tempo della strage e quello della passione, si ritorna al colore del tempo ordinario, il verde, in un ciclico ripetersi del dramma scandito dalle diverse colorazioni.

Nel 1925 Pirandello opera anche la revisione della commedia Pensaci, Giacomino!

Questa edizione, importante sotto l’aspetto linguistico, perché dimostra la volontà di abbandonare gli stilemi tipici del dialogo dialettale, presenta, per l’aspetto qui trattato, una specificazione puntigliosa del colore di alcuni costumi di scena (notazioni che non sono presenti, nella maggior parte dei casi, nelle edizioni precedenti del 1917 e 1918, e neppure nella versione originale bilingue). 

Cinquemani, vecchio bidello, passeggia per il corridoio, col berretto gallonato e uno scialle grigio peloso sulle spalle.

Cinquemani (…) si legherà attorno alla fronte un gran fazzoletto rosso, dì cotone, a fiorami; (…) e indosserà un lungo camice turchino (…).

Entrano, serii e impettiti, Cinquemani e la moglie Marianna, senza salutare. Il primo con un’antica mezzatuba grigia, proprio per la quale, e una mazza col manico di corno; Marianna con un gran velo da Maria Addolorata sui capelli e una goffa sottana pieghettata, a quadretti verdi e neri, che puzza di naftalina lontano un miglio.

Tali indicazioni non suggeriscono alcuna implicazione semantica, pur trovandoci cronologicamente in linea con gli esiti cromatici dei Sei personaggi. La precisione di queste didascalie si deve probabilmente al fatto che Pirandello, da Capocomico, rivede il testo per la rappresentazione della commedia. Si noti, poi, come nelle edizioni precedenti manchi addirittura la descrizione del personaggio principale, il Professor Toti, la cui didascalia è pensata e scritta solo nel 1925, Pensaci, Giacomino!

Scritta in siciliano, tra la fine di febbraio e i primi di marzo del 1916 per Angelo Musco. Una novella omonima, del 1910, presenta la vicenda con delle differenze sostanziali. La commedia nella stesura originale bilingue non fu mai data alle stampe da Pirandello, il quale pubblicò invece una versione interamente italiana nel 1917, che si modellava fin troppo sul dettato dialettale. Una stesura senza gli stampi linguistici dialettali fu approntata nell’edizione Bemporad del 1925, utilizzata per la messinscena della commedia, nella stagione 1926-1927, dalla Compagnia del Teatro d’Arte.

Pensaci, Giacomino!, dove l’edizione del 1917 prevede “uno scialle di lana sulle spalle”; mentre l’apografo bilingue: “uno scialle di lana con lunga frangia”. La didascalia del 1917 riporta: “un gran fazzoletto a fiorami, (…) un lungo camice”. Nell’ed. 1917 si legge: “Cinquemani con un vecchio cappellaccio in capo e la mazza; Marianna con un velo nero sui capelli e un’ampia, antica veste a quadretti neri”; nella prima versione dialettale, invece: “un’ampia veste verde a quadretti neri”.

Toti (venendo fuori dal Gabinetto. “E’ un vecchietto di settant’anni, che si regge a stento sulle gambe. Porta ai piedi un pajo di scarpe di panno; in capo una papalina di velluto nero, e rigirata attorno al collo una lunga sciarpa verde che gli pende coi pèneri neri davanti e dietro)”.

La notazione potrebbe considerarsi ancora realistica, ma a differenza delle precedenti, e soprattutto per il verde della sciarpa, non è riconducibile a situazioni reali, come, ad esempio, il colore turchino del camice (divisa da lavoro usuale del bidello); o i colori degli abiti dei coniugi Cinquemani, che rappresentano un cliché per il loro provincialismo. La sciarpa verde, introdotta nel 1925, rimanda a quella del Figlio nei Sei personaggi. Illiano per il personaggio del Figlio, legge il verde, in contrasto con il viola del soprabito, come un segno della “capacità di adattamento” e della “disponibilità alla comprensione”: tali caratteristiche sono forse più facilmente riscontrabili nel vecchietto Toti, il quale, nella vicenda che lo lega a Lillina e Giacomino, dimostra oltre ogni modo di essere disposto a comprendere e ad adattarsi.

Si può aggiungere che il verde è testimone della vita grama alla quale il personaggio si era accomodato sino ad allora, rinunciando alla compagnia di una moglie a causa del misero stipendio. E’ noto come il motore della vicenda sia il denaro, a partire dal proposito caritatevole meditato dal professore (apparso in scena con la sciarpa verde girata intorno al collo) di sposare una sedicenne per beneficarla, sino al ricatto economico nel finale.

Tale motivo, espresso apertamente da Pirandello nella novella, è coperto nel dramma dalla motivazione più sentimentale del bambino, tuttavia alcune sottolineature cromatiche e sonore lo ribadiscono: pensiamo al gesto del professore che fa risuonare i denari per tranquillizzare il piccolo Ninì (“Cava dal taschino del panciotto una borsetta di seta rossa a maglia, con anellini d’acciajo, piena di monetine”); e a quando Toti minaccia di togliere il lavoro al padre del bambino, attraverso il refrain “Pensaci, Giacomino!”.

Nel finale si ritroverà quindi, oltre al trionfo sacro della famiglia al di là di ogni convenzione morale (forzatamente evidenziato dall’inveire del professore contro il prete: “Vade retro! Distruttore delle famiglie! Vade retro! (…) Lei neanche a Cristo crede!”, pure la necessità di conservare uno stato, o un dramma, dal quale non ci si può più sciogliere; come dirà Giacomino alla sorella: “Non posso più sciogliermi, Rosaria! Lasciami andare!”. Dunque, anche in questa commedia, sin dal primo atto, il verde della sciarpa anticipa il legame che unisce i personaggi alla loro tragedia. Il colore verde è utilizzato dal 1919 anche in Ma non è una cosa seria, associato però ad un personaggio femminile.

Un verde patetico, che segna lo stato d’afflizione in cui vive la protagonista ventisettenne, la quale si sente una vecchia (“ma per me, come ne avessi sessanta”):

“Sala da pranzo della Pensione Torretta (…). Nella parete di fondo, due usci con tende verdi a frange giallo d’uovo; (…) Nella parete di sinistra, divano di juta verde, anch’esso con frange giallo d’uovo, poltrone, un tavolinetto per fumare, un altro per riviste e giornali; un uscio con tenda come sopra (…) Entra dalla comune Gasparina Torretta (…) E’ una donnina fina fina, un po’ sciupata, trasandata; sarebbe vivacissima, se i patimenti, le angustie, la tristezza che glien’è derivata, non smorzassero tutti i moti del suo animo e della sua personcina, e non le dessero un’umiltà sorridente e rassegnata. Veste poveramente, con un vecchio cappellino da vecchia, annodato sotto il mento e una lunga mantella verde scolorita, orlata di pelo di gatto”. 

Queste ultime due commedie hanno in comune, oltre alla qualità ordinaria del verde associato ai personaggi principali, l’espediente del matrimonio che non deve essere consumato; inoltre i personaggi Toti e Gasparina vivono entrambi, per merito di qul’evento, un rinnovamento fisico. Il “vecchietto di settant’anni, che si regge a stento sulle gambe”, si sente un bambino quando gioca con il piccolo Ninì; la metamorfosi di Gasparina è, invece, sapientemente svolta all’interno delle didascalie dei tre atti, con indicazioni che ne segnano man mano il progressivo rifiorire (al punto che Marta Abba nel 1926, nell’impersonarla, si fece fotografare in tre differenti pose, corrispondenti ai tre diversi aspetti che il personaggio assume nella commedia). Gasparina trasferitasi in campagna rinasce, ma la presenza delle vecchie tende verdi e del divano, riporta alla mente dello spettatore l’immagine afflitta della protagonista in contrasto con quella presente ora in scena: 

“Un’allegra stanza piena d’aria e di sole, nella villetta rustica di Gasparina, dopo circa tre mesi dal secondo atto. Due ampie finestre in fondo aperte, da cui si scorge la campagna. (…) A sinistra, un altro uscio. Vi sono appese le tende verdi a frange giallo d’uovo dell’antica Pensione smessa, ed anche il divano e le poltroncine di là…”. 

Il verde degli oggetti, apparentemente diverso da quello della campagna che si scorge dalla finestra, porta in sé il seme della rifioritura della donna, la quale ritorna alla vita come il troncone gobbo di pesco che si ricopre di fiori, descritto poco prima dalla protagonista. Concludendo queste prime analisi, ancora da approfondire, l’uso del colore nelle didascalie, come tratto affatto accessorio ma indispensabile, è determinato da esigenze che non sono esclusivamente quelle della messinscena: ha attinenza con la “techne, il fare artistico” di Pirandello. Per non cedere, però, alla tentazione di considerare il linguaggio pirandelliano del colore come meccanica applicazione di un’arte simbolica, aspetto inconciliabile con l’ideologia poetica di Pirandello, basta ricordare quanto affermato dall’autore nella prefazione ai Sei personaggi:

“Odio l’arte simbolica, in cui la rappresentazione perde ogni movimento spontaneo per diventar macchina, allegoria; sforzo vano e malinteso”. 

Si tratta piuttosto, di un linguaggio polisemantico, dove lo stesso colore può essere usato con significati anche antitetici, o comunque con un ampio margine d’accezioni. Un sistema di segni il quale spesso trasmigra dalla narrativa al teatro, ma che è pensato anche ex novo per le scene, in un contesto più esteso di riscrittura intertestuale nel quale l’uso del colore sembra dunque poter rivendicare un’attenzione nuova e particolare.

Pietro Seddio

Quale teatro?
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Quale Teatro? – Indice
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