Di Pietro Seddio.
Il problema che Pirandello sollevò, (come già riferito) rivolgendosi soprattutto al pubblico, fu quello di spezzare le barriere artificiose della comunicazione teatrale (la cosiddetta “quarta parete”) per coinvolgere il pubblico e restituire al teatro il senso della rappresentazione, “mettendo in scena” la vita e i suoi multiformi aspetti.
Quale teatro?
Secondo Luigi Pirandello
Per gentile concessione dell’ Autore
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Quale teatro? Secondo Luigi Pirandello
Capitolo 5
La Quarta Parete
Un altro elemento di cui spesso si sente parlare è quello relativo alla “quarta parete” che in Pirandello si afferma come base di partenza per il concepimento e la creazione del suo teatro funzionale per tutti gli attori che dovranno rappresentare opere teatrali. Possiamo già dire che si tratta di una vera rivoluzione ed allora è giusto parlare di quest’altra indicazione pirandelliana per avere un quadro completo e giacché trattasi di analisi non si può non parlarne, fermo restando che anche su questo specifico argomento, nel tempo, molte sono state le interpretazioni scritte come sempre da autorevoli critici.
Con il termine quarta parete si indica un “muro immaginario” posto di fronte al palco di un teatro, attraverso il quale il pubblico osserva l’azione che si svolge nel mondo dell’opera rappresentata.
L’idea che un attore possa immaginare un muro che lo divide dagli spettatori si trova così formulata nel saggio De la poésie dramatique (1758) di Denis Diderot (notissimo uomo di teatro che ancora oggi viene ricordato) e serve a far capire la necessità di una recitazione più realistica che presupponga che gli attori in scena dimentichino la presenza degli spettatori. Niente ci vieta di andare indietro nel tempo quando già gli antichi Romani avevano il concetto di quarta parete, tanto che alcuni autori di commedie del III e II secolo a. C., come ad esempio Plauto, furono i primi ad attuare la “rottura della quarta parete”, tecnica stilistica che prevede l’inserimento del pubblico nello spettacolo, il che era molto apprezzato dal pubblico popolare. Altri autori per lo più successivi come Terenzio preferirono invece ripristinare l’utilizzo di tale tecnica.
Il concetto di quarta parete verrà poi ampiamente usato nel XIX e XX secolo nel teatro dell’assurdo da autori importanti come Bertolt Brecht e Eugène Ionesco. Anche se nasce in teatro, dove il palco convenzionale chiuso da tre lati fornisce una “quarta parete” più letterale, il termine è stato adottato da altre forme artistiche, come il cinema e la letteratura, per indicare più genericamente il confine tra il mondo della finzione e il pubblico.
La quarta parete fa parte della sospensione del dubbio esistente tra un’opera di finzione e lo spettatore. Il pubblico di solito accetta implicitamente la quarta parete senza tenerla direttamente in considerazione, potendo così godere della finzione della rappresentazione come se stesse osservando eventi reali. La presenza della quarta parete è una delle convenzioni più affermate della finzione, e in quanto tale ha spinto alcuni artisti ad attirare l’attenzione diretta su di essa per ottenere un effetto drammatico.
Ad esempio in Il quarto muro di A. R. Gurney, un quartetto di personaggi ha a che fare con l’ossessione della casalinga Peggy nei confronti di un muro bianco della sua casa e viene lentamente trascinato in una serie di cliché teatrali, mentre la scenografia e l’azione sul palco vengono sempre più rivolti verso questo presunto muro.
Generalmente si usa il termine “rompere la quarta parete” e questo termine specifico viene usato nel cinema, nel teatro, nella televisione, nei videogiochi e nelle opere letterarie, prendendo origine dalla teoria di Bertolt Brecht del “teatro epico”, sviluppata partendo da (e in contrasto con) la teoria del dramma di Konstantin Stanislavski.
Tale proposizione fa riferimento a un personaggio che si rivolge direttamente al pubblico, o che riconosce attivamente (tramite un personaggio di rottura o tramite il dialogo) che i personaggi e l’azione non sono reali. Questo produce l’effetto di ricordare agli spettatori che quello che stanno vedendo è finzione, producendo così un effetto stridente.
Diversi artisti hanno usato questo effetto per dare importanza, poiché costringe il pubblico a vedere la finzione sotto una nuova luce e a guardare meno passivamente.
Bertolt Brecht fu famoso per rompere deliberatamente la quarta parete, per incoraggiare il suo pubblico a pensare in modo più critico su ciò che stava guardando: il cosiddetto effetto di alienazione (Verfremdungseffekt). Tale tecnica fu adottata in ambito italiano da Luigi Pirandello in molte delle sue opere.
Tra queste spicca per importanza Sei personaggi in cerca d’autore, in cui addirittura i personaggi si muovono anche al di fuori dello spazio delimitato dal palcoscenico e recitano anche in mezzo al pubblico passando per la platea.
L’improvvisa rottura della quarta parete viene spesso impiegata per ottenere un effetto comico, come sorta di non-sequitur visuale, in quanto l’inattesa rottura delle normali convenzioni della finzione narrativa sorprende il pubblico e crea umorismo.
Alcuni considerano la rottura improvvisa della quarta parete così stridente che in realtà danneggia l’umorismo della storia.
Comunque, quando viene impiegato coerentemente per tutta la storia, come effetto narrativo, viene solitamente (e, si potrebbe dire, paradossalmente) incorporato nella normale sospensione del dubbio del pubblico. Questo sfruttamento della familiarità degli spettatori con le convenzioni della finzione è un elemento chiave in molte opere definite come post-moderne, che decostruiscono le regole consolidate della finzione.
Le opere che infrangono o fanno riferimento diretto alla quarta parete utilizzano spesso altri strumenti post-moderni come il meta-riferimento o il personaggio di rottura.
Un compromesso con tale concetto si ha spesso nel teatro di improvvisazione, nel quale al pubblico viene chiesto di interagire in qualche modo con gli attori, ad esempio votando sulla risoluzione di un mistero. In quel caso, i membri del pubblico vengono trattati come se fossero testimoni dell’azione messa in scena, divenendo effettivamente “attori”, anziché essere un vero “quarto muro”.
Nessuno più di Pirandello ha indagato, fino all’estrema conseguenza, sui mali inguaribili della coscienza moderna, e nessuno più di lui ha compreso e patito le responsabilità della storia (prima guerra mondiale, il fascismo).
La posizione di Pirandello nel teatro del ‘900 è grande ed autorevole e il suo maggiore apporto consiste nell’abbattimento della quarta parete, o creazione del teatro aperto o problematico. In precedenza il teatro tradizionale specie quello verista e naturalista, voleva che tra il mondo rappresentato e il mondo della rappresentazione non ci fosse nessun contatto.
Il mondo rappresentato doveva svolgersi autonomamente secondo il criterio dell’impersonalità.
Si intendeva, dunque, che il palcoscenico fosse una scatola chiusa, cioè una stanza a quattro pareti dove la quarta parete è quella trasparente che separa il palcoscenico della platea, il mondo rappresentato del mondo della rappresentazione.
Pirandello propose di abbattere tale quarta parete e con essa ogni divisionario tra il mondo rappresentato e quello della rappresentazione. Un’esigenza che trova la sua giustificazione nel concetto di Pirandello della vita come “un’enorme pupazzata”.
Se tutto il mondo è palcoscenico, che senso ha isolare il palcoscenico dal teatro?
Questo spiega anche le altre due denominazioni: teatro aperto, in quanto coinvolge nell’azione anche gli spettatori, e teatro problematico, poiché tale coinvolgimento avviene mediante la proposta dei problemi lasciati insoluti dall’autore e che ciascuno spettatore deve risolvere da solo.
La caratteristica essenziale del teatro di Pirandello è quella di essere polisemico: (che è cioè portatore di più significati; anche, di ideogramma e segno di alcune scritture non alfabetiche, che può essere letto in più modi). L’opera è una, ma se la sua azione, oltre che i personaggi sulla scena, coinvolge anche quelli in platea, sollecitandoci non solo a partecipare, ma anche a fornire risposte ideologiche e culturali tali da integrare il dramma, allora essa diventa mille, diecimila, centomila opere … cioè quanti sono i fruitori (il pubblico): si arriva così al concetto del “teatro nel teatro” o “meta-teatro”.
Se il mondo è di per sé un’enorme pupazzata, quindi già teatro, dare una rappresentazione significa fare teatro nel teatro.
Quest’ultimo concetto è spiegato da Pirandello con l’introduzione del doppio palcoscenico. Lo spettatore che va a teatro per assistere a Sei personaggi in cerca d’autore, Ciascuno a suo modo, Questa sera si recita a soggetto, al levarsi del sipario ha la sorpresa di trovarsi di fronte ad un altro palcoscenico, con un altro sipario.
Sul palcoscenico ci sono attori che recitano di recitare, altri che recitano la parte dei registi e altri altre parti ancora. Si ripropone il “paradosso del mentitore” della filosofia sofistica: se si sa che un uomo mente, cioè dice bugie quando parla, si conclude che non bisogna credergli.
Ma se una volta il mentitore ammette di mentire, va creduto o no?
Entrambe le risposte sono possibili perché sono mezze verità e, quindi, discutibili. Così avviene nel teatro: nell’opinione comune il teatro mente, perché è finzione. L’attore, recitando la sua parte, finge pensieri, sentimenti, situazioni che di fatto non sono vere. Se il teatro si mostra nella sua realtà, cioè l’attore recita di recitare, quello che ne viene fuori è menzogna o verità?
E’ qui che subentra lo spettatore che ha la facoltà di dare o non dare il suo assenso e il significato finale si moltiplica come in una sala degli specchi dove un solo soggetto può produrre numerose immagini. In tal modo drammaturgo e spettatore sono sul medesimo piano: il primo propone un caso, ma non sa come va a finire, il secondo riceve la proposta, ma poi la sviluppa a suo modo. Tale concezione appare per la prima volta nel dramma del 1917, con l’opera come già evidenziato, “Così è (se vi pare)”.
C’è un passaggio importante in questa prospettiva ed è fissato dal momento in cui ci si guarda allo specchio, come fa Laudisi quando cerca di confrontarsi con la sua immagine riflessa. Ed allora si capisce che l’idea è quella di vedere, guardando lo schermo, i personaggi, la loro vita fittizia, le loro vicende. Ti stai appassionando a quei canovacci che molto spesso sono prevedibili e ti piacciono per quello, perché rassicuranti, o forse al contrario cerchi di venirne stupito. Ti immergi in un altro mondo.
E poi, dall’altra parte dello schermo, qualcuno si gira. Guarda la telecamera come se sapesse che là dietro ci sei tu. E a volte ti parla. Si chiama rottura della quarta parete, dove per quarta parete si intende la divisione tra il mondo fittizio e la realtà.
Ed è una grossa tentazione per un autore, e assieme un’arma a doppio taglio. Fare “metafiction”, inserire nella tua storia degli strappi alla sospensione dell’incredulità, rendere i personaggi consapevoli di essere dei personaggi, farli rivolgere all’audience, allo spettatore, all’autore.
O fare entrare l’autore nella storia stessa. Sono strumenti che, se possono aggiungere intelligenza alla storia, rischiano anche parecchio: se non gestiti bene possono farla apparire inutilmente pretenziosa, fredda, e distogliere il coinvolgimento dello spettatore per un tentativo sballato di apparire intelligenti.
Sono strumenti come tutti quelli della narrazione, in fondo che van saputi usare bene. Ma quando vengono usati bene hanno effetti molto interessanti, per esempio di commento. O possono essere estremamente divertenti.
Deadpool per esempio è il beniamino della rottura della quarta parete, un personaggio consapevole di esserlo e capace di riflettere sulla natura delle scatole gialle in cui sono scritti i suoi pensieri. Però non è stato il primo nell’universo Marvel: lo precede l’adesso meno conosciuta She Hulk, che dalla gestione di John Byrne (1989) in poi si mette a parlare con l’autore, di solito litigandoci o minacciando di licenziarlo dalla gestione del proprio stesso personaggio. Tanto che in Marvel Vs. Capcom la verde avvocatessa e il mercenario in rosso possono combattere tra di loro, e se Dedpool viene sconfitto da She-Hulk come ultimo nemico lei lo sbeffeggerà dicendo che “se fossimo nel 1991 ti picchierei IO con una barra della salute”: da notare che la barra della salute per picchiare l’avversario è esattamente la mossa finale del rosso. Considerato che nel ‘91 Deadpool era appena stato creato, capiamo le ragioni della rivalità.
L’autore che entra nella propria opera: un altro piatto che scotta, e non è detto che possa essere usato solo a fini comici. Per esempio Stephen King, “Il Re in persona”, si auto-inserisce nella sua saga epica della Torre Nera, anche se in modo peculiare (in quel mondo, Roland Deschain e compagni esistono davvero anche se King ne scrive le avventure.)
Mentre nella sua gestione di Animal Man, il nostro amato scozzese diabolico Grant Morrison appare per davvero in un’accorata discussione con Buddy, l’eroe colpito da troppe tragedie, cercando di giustificarsi col fatto che più il protagonista soffre più può riscuotere successo di pubblico. La riflessione metanarrativa può andare lontano, colpire gli stessi limiti del tuo mezzo espressivo e andare oltre le risate.
Opere nate come parodia/omaggio, o comunque fortemente referenziali e citazioniste, possono ricorrere a questo mezzo. Pensiamo a Rat-man, a quando si mette a parlare col lettore o ad essere consapevole della propria natura di personaggio, o alle apparizioni dello stesso Leo Ortolani.
O ad un altro piccolo capolavoro come Order of the Stick, la parodia del classico gruppo di avventurieri da Dungeons & Dragons che in modo simile al ratto sa destreggiarsi tra battute assassine e personaggi indimenticabili, che a volte soffrono come (e a volte in modo più credibile) delle loro controparti ‘vere’. Mai smettendo però di ricordare che sono personaggi, in uno stranissimo equilibrio tra sospensione dell’incredulità e riflessioni meta-teatrali.
Tanto che uno degli antagonisti di Oots ha proprio l’obiettivo di mantenere la storia ‘perfetta’: ha deciso chi degli eroi è il protagonista, quali dinamiche narrative lo devono colpire e quindi cercherà di eliminare chiunque esca fuori dal canovaccio.
Oppure può essere un rimando al teatro, dove i personaggi monologano spesso rivolgendosi al pubblico. La nuova serie TV House of Cards per esempio, piuttosto shakesperiana nella sua storia di un politico pronto a tutto per l’ascesa al potere, vede Kevin Spacey nella parte da protagonista rivolgersi spesso alla telecamera come se solo noi dall’altra parte dello schermo, incapaci di intervenire, abbiamo il diritto di saperne i segreti. E’ una serie di espedienti, insomma, molto meno unicamente Nerd di quanto non sembri.
E potremmo andare avanti per ore a nominare opere che infrangono il quarto muro.
Il problema che Pirandello sollevò, rivolgendosi soprattutto al pubblico, fu quello di spezzare le barriere artificiose della comunicazione teatrale (la cosiddetta “quarta parete”) per coinvolgere il pubblico e restituire al teatro il senso della rappresentazione, “mettendo in scena” la vita e i suoi multiformi aspetti. Pirandello si affaccia nel panorama letterario italiano scrivendo poesie, saggi, romanzi e novelle. E’ sotto l’influenza del Verismo che egli matura i temi propri della sua produzione narrativa. Quegli stessi temi che si incontrano nelle sue novelle, nelle quali, però, si riscontrano anche elementi che assumono già valore simbolico particolare.
Si assiste, infatti, in questo periodo, ad un contrasto dei personaggi che generalmente vivono esperienze contraddittorie tra realtà esterna ed interiorità, così come ha scritto Roberto Alonge (altro importante critico, studioso di Pirandello) nel suo: “Pirandello dalla narrativa al Teatro”.
Le ambientazioni, poi, di certe novelle vengono decisamente rivissute dai personaggi in chiave psicologica, come, ad esempio, in Ciaula scopre la luna, dove il paesaggio esprime un’angoscia esistenziale di valenza universale.
Parallelamente a questa produzione narrativa, Pirandello comincia a porsi degli interrogativi sull’arte e sulle tecniche di esecuzione dei moduli artistici, narrativi o teatrali che siano.
Già nel saggio “L’azione parlata”, (della quale si è già parlato nel primo capitolo) l’autore agrigentino riconosce la specifica differenza tra narrazione e azione scenica.
Pirandello, in questa fase, pur intuendo (ma non definendo) una teoria del teatro, è già consapevole dei limiti degli autori di teatro che, a quel tempo, concepivano la scena in termini romantici.
Da qui ha origine il suo atteggiamento polemico nei confronti della “letteratura” nel teatro, di cui era caratteristica quella unità di linguaggio tra i vari personaggi che smentiva l’azione parlata, cioè il dialogo/contrasto tra situazioni, sentimenti e caratteri diversi e persino opposti.
Parlando dell’arte, Pirandello la identifica con la vita: “Non il dramma fa le persone, ma le persone il dramma”.
Chiara è la polemica nei confronti del teatro di D’Annunzio, costruito come una finzione, laddove i personaggi sono trasportati dall’opera narrativa nella dimensione del teatro, perdendo in questo modo la loro “identità drammatica”.
Pirandello trova l’identità artistica dei personaggi fuori da ogni retorica precostruita. Successivamente, solo attraverso le esperienze teatrali, svilupperà il concetto della dicotomia personaggio/attore, mostrando, però, di avere scelto definitivamente il teatro come forma d’arte necessaria alla verifica di quella che era stata soltanto un’impostazione teorica. Attraverso la prassi teatrale, avrebbe cercato di risolvere anche il problema dell’interpretazione del dramma da parte degli attori.
Nel saggio del 1908, dal titolo “Illustratori, attori e traduttori” (lo si trova descritto nel capitolo precedente) lo scrittore manifesta la sua disapprovazione nei confronti della figura dell’attore, appunto, il quale opera una mediazione necessaria, ma “illecita”, tra autore e pubblico.
L’attore viene definito come “una soggezione inovviabile”: “Sempre, purtroppo, tra l’autore drammatico e la sua creatura, nella materialità della rappresentazione, si introduce necessariamente un terzo elemento imprescindibile: l’attore”.
L’attore, secondo Pirandello, non potrebbe giudicare veramente l’opera che interpreta e non riuscirebbe, poi, a dare piena vita al suo personaggio; dovrebbe, infatti, spogliarsi della propria individualità e sentire il personaggio come l’autore lo ha sentito, l’autore che, già, di per sé, ha dovuto compiere uno sforzo per immedesimarsi nel personaggio da lui creato. Pirandello, in sostanza, vorrebbe che non l’attore fosse il protagonista del dramma, ma il personaggio variamente interpretato, che, in questo modo, potrebbe vivere di una sua multiforme vita, secondo le diverse situazioni ed “emozioni”.
Egli ritornerà sull’argomento nel 1922, nella conferenza dal titolo “Teatro nuovo e teatro vecchio”, (citato nel terzo capitolo) tenuta a Venezia. Citando l’esempio di Goldoni, ribadisce il concetto della perenne attualità del teatro, quando esso si richiami alle mutevolezze e all’umanità perenne della vita. Goldoni, appunto, allontanandosi dai moduli delle maschere della commedia dell’arte, ancorava i personaggi strettamente ai caratteri umani e alle loro vicende, mostrando di fare “teatro nuovo, analisi questa già trattata nei capitoli precedenti che si ripropone per dare senso compiuto alla trattazione.
Egli continuerà, da questo momento, a proporre e riproporre, in modo a volte martellante e ossessivo, la problematica riguardante l’identità/opposizione tra personaggio e attore: identità/opposizione che poi è rimasta irrisolta.
A proposito di tale contraddittorio rapporto tra autore ed interpreti, il Nostro introduce, nel saggio sopra citato, l’idea della tecnica come parte vitale del processo creativo. Soltanto con la tecnica gli attori possono avvicinarsi al livello dei personaggi.
Pirandello traspose le sue teorie sulla recitazione della produzione teatrale, specialmente nei Sei personaggi in cerca d’autore, in Ciascuno a suo modo e in Questa sera si recita a soggetto, opere queste che rappresentano la trilogia del “teatro nel teatro”.
Attraverso le numerose didascalie, poste a commento dei vari intermezzi e atti teatrali, “suggeriva” ai possibili registi (ovvero “capocomici”, come si chiamavano in quel tempo) il modo concreto migliore per resuscitare il testo scritto e rivitalizzare il dramma che in esso era racchiuso. Se il teatro è dinamismo e contraddizione.
Il testo scritto dell’autore (testo che ormai risultava essere un fatto compiuto) non poteva essere riprodotto sulla scena senza quei necessari cambiamenti di natura tecnico-scenica ed interpretativa che avrebbero dovuto consegnare il dramma alla dimensione propria del teatro, alla vita.
Il problema che Pirandello sollevò, (come già riferito) rivolgendosi soprattutto al pubblico, fu quello di spezzare le barriere artificiose della comunicazione teatrale (la cosiddetta “quarta parete”) per coinvolgere il pubblico e restituire al teatro il senso della rappresentazione, “mettendo in scena” la vita e i suoi multiformi aspetti.
L’attore, così facendo, si viene a trovare in una condizione di inferiorità nei confronti del personaggio, come appare chiaramente in Sei personaggi, finisce con l’essere esso stesso un personaggio, come avviene in Questa sera si recita a soggetto.
Così assistiamo ad una vera e propria sopraffazione operata sugli attori, i quali si trovano coinvolti in mezzo a due forze dispotiche: i fantasmi dei personaggi che pretendono di impadronirsi di loro e il regista che li invita ad essere aperti e ricettivi.
E’ nel “personaggio” che Pirandello mostra di ricercare la chiave di volta del suo sistema di simbolizzazione della vita. Dichiarandosi contrario al concetto di “arte simbolica”, intesa come rappresentazione allegorica e quindi “favola che non ha per se stessa alcuna verità né fantastica, né effettiva”, Pirandello intende liberare caparbiamente il personaggio dalla struttura realistica, cioè dalla vita=finzione, che è una condanna esistenziale e, perciò, limita resistenza piena del personaggio.
In questo modo, (si ripete il concetto) cioè, la “vita” rappresenta un ostacolo all’esplicitarsi della “forma del personaggio” come piena e compiuta realizzazione della “fantasia dell’autore”.
E’ chiaro che siamo di fronte ad un vero e proprio annientamento della funzione teatrale intesa come rappresentazione mimetica del personaggio: egli, lungi dall’essere manipolato o reinventato dalle tecniche teatrali dell’attore, è, invece, restituito integralmente alla sua forma artistica, alla fantasia che lo ha creato rendendolo autonomo da ogni azione predeterminata, da ogni «movimento» imposto.
Nella distinzione tra personaggio e autore c’è, comunque, l’implicita dissoluzione del ruolo dell’attore, tradizionalmente utilizzato come intermediario tra personaggio e autore. E’, quindi, logico pensare che non c’è più posto per l’attore, in una situazione di questo tipo, se non nel caso in cui esso diventi personaggio, cioè annienti se stesso, il suo ruolo, per dissolversi nel personaggio.
Questo è, in fondo, ciò che Pirandello vuole significare quando nella prima scena, gli Attori della Compagnia col Direttore Capocomico, col suggeritore e i macchinisti, vengono allontanati dalla scena, traendosi in disparte.
I Sei Personaggi, lo si sottolinea per ché importante, non debbono essere confusi con gli Attori della Compagnia.
Nelle didascalie, introdotte dall’autore nella commedia, si precisa, infatti, che la disposizione degli uni e degli altri dovrà essere indicata “come una diversa colorazione luminosa per mezzo di appositi riflettori”. Ma il mezzo più efficace ed idoneo, che qui si suggerisce, sarà l’uso di speciali maschere per i Personaggi; maschere espressamente costruite d’una materia che per il sudore non s’afflosci e non pertanto sia lieve agli Attori che dovranno portarle… s’interpreterà, così, anche il senso profondo della commedia.
I personaggi non dovranno, infatti, apparire come fantasmi, ma come realtà create, costruzioni immutabili: e dunque “più reali e consistenti della volubile naturalità degli Attori”.
E’ interessante, soprattutto, la figura del Capocomico che, secondo Pirandello, non deve essere più considerato come un capo degli attori, ma un intermediario tra l’autore e gli attori stessi: in questo caso, egli tiene a sottolineare l’assoluta fedeltà che richiede la parte, soprattutto per quanto riguarda i suggerimenti didascalici dell’autore.
Mentre gli Attori sono, in fondo, degli automi (anche se ambiscono ad interpretare la loro parte, in un certo modo, ma sostanzialmente condizionati dalle loro stesse vocazioni drammatiche, o addirittura dai loro limiti artistici), il Capocomico è l’elemento della coscienza artistica, o quanto meno della intelligenza del testo, in quanto, di fronte alle banali prevaricazioni degli Attori, e alla loro sostanziale inscienza del testo, egli si preoccupa di individuare ciò che è vivo liberandolo da ciò che è ripetitivo e, quindi, privo di ogni vitalità.
Da ciò emerge chiaramente il fatto che Pirandello ha inteso privilegiare e “rappresentare” la psicologia dei personaggi, a scapito della figura dell’attore. In seguito, però, come ho accennato prima, l’autore agrigentino ripenserà al ruolo dell’attore e lo individuerà nella pratica del suo teatro, ritrovando l’attore, appunto, come personaggio vivo e autonomo (autonomo persino dal suo autore).
Piace a questo punto citare quanto ha detto un grande regista italiano, Giorgio Strehler, parlando appunto di questo problema: “Le prove non saranno più tabù per i ‘non addetti ai lavori’. Non si entrerà in una cripta ove si celebrano arcani misteri, ma si assisterà a un ‘momento’ di un lavoro collettivo”.
Solo così l’attore può rientrare con piena legittimità nel suo ruolo: diventa personaggio, cioè inventa se stesso di fronte alle stesse macchinazioni fisse e irripetibili dell’autore.
La cosiddetta trilogia pirandelliana del “teatro nel teatro”, già citata, è imperniata su questo concetto dell’attore/personaggio e del teatro/vita. E’ giusto soffermarci un po’ sull’opera teatrale che, più delle altre, nella Trilogia, sottolinea tale interessante scoperta, operata da Pirandello, sul ruolo dell’attore nel suo teatro. Ci si riferisce a Questa sera si recita a soggetto, del 1930. La rappresentazione prende origine da un pretesto scenico (l’asserita anonimità dell’autore della commedia), dal quale si sviluppa un dialogo, piuttosto vivace, tra il Capocomico e il pubblico. Dopo avere precisato il senso vero del “recitare a soggetto” e formulato il concetto di “fissità artistica”, il Capocomico introduce l’esile trama dell’opera, nella quale si assiste alla rappresentazione di un sacrificio doloroso e ineluttabile.
Si tratta, infatti, del sacrificio e del martirio cui sono condannati i personaggi di Pirandello, i quali hanno tutti bisogno di un luogo chiuso, di prova, in cui essere giudicati e, sovente, massacrati.
Concetto, questo, espresso da Giovanni Macchia (altro autorevole critico e saggista) nel suo testo: “Il personaggio sequestrato in ‘Pirandello’”.
Gli attori, dunque, recitando a soggetto e, verso la fine della rappresentazione, senza più neanche servirsi delle direttive del Capocomico, vivono realmente il dramma dei personaggi da essi interpretati, fino a sentirlo come il proprio dramma, quasi fino a morirne (vedi la “Prima Attrice”, nel ruolo di Mommina). Attraverso la rappresentazione del tema della gelosia e dell’onore intaccato, la scena finale del dramma, si sviluppa come in un tribunale, perché il vero teatro, come dice Giovanni Macchia, è un tribunale dove si ascolta e poi si giudica. Pirandello riesce, inoltre, mirabilmente ad eliminare lo “spazio” ed il “luogo” propri del teatro, annientando i ruoli e dilatando lo spazio teatrale fino al coinvolgimento del pubblico (“rappresentazione simultanea nel ridotto del teatro e sul palcoscenico”).
L’azione viva e vitale degli attori e del pubblico, che con essi interagisce, contrasta, così, con l’azione formale del teatro. Si assiste, in definitiva, a questa nuova possibilità scenica per l’attore che, da un lato, rappresenta se stesso e, dall’altro, rimuove l’opera d’arte dalla fissità artistica, sciogliendone la forma in movimenti vitali e dandole una vita diversa e varia a seconda della rappresentazione e dell’attore stesso.
La vita del teatro è, per Pirandello, la vita stessa dei personaggi rigenerati nell’azione teatrale.
Il vecchio teatro, in Questa sera si recita a soggetto, è risaputo, ne esce a pezzi.
La finzione, che era tutto, si frantuma sul volto di un attore che simula la morte, mentre prova una gran voglia di ridere. “Il teatro appare per quello che è: un luogo dove recitare una parte”. Che questa problematica pirandelliana sia, ancora oggi, fertile di sviluppi sul piano tecnico e rappresentativo lo dimostra il fatto che diversi registi del nuovo teatro novecentesco (da Reinhardt a De Lullo, da Castri a Patroni Griffi) hanno ben inteso il suggerimento di Pirandello reinventando la vita del suo teatro, o modificando alcune parti dello stesso testo per scoprirne invenzioni e situazioni nuove, per sottrarre i drammi dall’archivio della memoria, prolungandone l’esistenza attraverso l’esperienza diretta della vita.
Non si vuole essere elementari se si cita la favola di Biancaneve dove è presente la regina cattiva Grimilde che quotidianamente si specchia per sapere se continua ad essere la più bella del reame: “Specchio, servo delle mie brame, chi è la più bella del reame?”. Ebbene, se a questa domanda lo specchio si fosse limitato a rispondere ogni volta “Signora, voi siete la più bella di tutte!”, la storia, così come noi la conosciamo, non avrebbe mai avuto luogo e l’austera Signora avrebbe continuato a condurre la sua vita serenamente tra le mura del suo solitario castello.
E invece lo specchio, un bel giorno, pone la perfida Regina di fronte ad un’atroce verità rivelandole che “al mondo una fanciulla c’è, vestita sol di stracci, poverina, ma ahimè, assai più bella di te!”. E’ appunto questa “atroce verità”, la verità dell’esistenza d’altri con cui non si può non fare i conti, a scardinare ogni precedente certezza e ad innescare il corto circuito della “drammatica” vicenda. Grimilde è così costretta a trasfigurarsi, ad assumere le orribili sembianze di una vecchia al fine di rendersi irriconoscibile, ad uscire fuori dal suo castello, simbolo di pietra di un “sé” cristallizzato in quanto impermeabile ad un qualsiasi confronto con l’altro, alla disperata ricerca di colei che getta in frantumi la sua identità di “più bella del reame”, con l’intento preciso di eliminarla.
Gli altri, secondo quanto ci insegna la storia di Grimilde, sono dunque metafora di uno specchio che riflette la nostra più sordida e sotterranea immagine, sono il detonatore che fa deflagrare la maschera dietro cui si cela la scomoda, inconfessabile verità di noi stessi portandola allo scoperto.
Ed è appunto questo che accade nel teatro di Pirandello. Il congegno drammaturgico posto in essere dallo scrittore siciliano si risolve, il più delle volte, in un continuo gioco di specchi cui danno vita i suoi personaggi, in un processo di reciproca scarnificazione delle coscienze che mette a nudo gli esseri umani nelle loro debolezze, meschinità e ipocrisie.
Un “teatro dello specchio”, dunque, secondo la felice definizione di Adriano Tilgher, (si conferma che si tratta di uno dei più interessanti critici di quel tempo) e quindi giustamente considerato tra i massimi interpreti novecenteschi dell’opera pirandelliana, che mette in scena il dramma del “vedersi vivere”. Ecco cosa ha scritto nel suo famoso testo: “Studi sul teatro contemporaneo”, del 1928:
“Tra vivere e vedersi vivere v’ha, secondo Pirandello, opposizione radicale. Chi vive, quando vive, non si vede, vive puramente e semplicemente. Chi, invece, vede la propria vita, è segno che non la vive più, ma la subisce, la trascina come un peso. Vedere la propria vita è, per ciò stesso, uscirne fuori, morire ad essa in quanto quella determinata vita.
[…] Il dramma pirandelliano è il dramma di gente che ha vissuto la sua vita così e così determinata, poi, di colpo, un bel giorno – un brutto giorno – si trova come dinanzi a uno specchio in cui contempla l’immagine della propria vita: di colpo, cioè, dalla vita pura e semplice passa al vedersi vivere, alla coscienza riflessa della sua vita”.
Come ormai si può affermare la rivoluzione effettuata da Pirandello, nel corso della sua produzione letteraria, relativa in modo particolare al teatro, ha assunto un ruolo decisivo, importante e si può anche aggiungere che molti registi, di chiara fama, pur con sfumature diverse, a questo genio siculo si sono ispirati e non si sbaglia se si aggiunge che non solo nel teatro si è operata questa rivoluzione, ma in altri campi quali ad esempio la cinematografia, la pittura ed anche la scultura, seppur in queste due discipline con minore evidenza.
Ma anche per questa peculiarità si dovrà ancora leggere altri saggi che saranno stampati e che molti lettori, quelli che dovranno ancora arrivare, riusciranno a leggere per migliorare e rafforzare la loro cultura teatrale, ma soprattutto umanistica.
Pietro Seddio
Quale teatro?
Secondo Luigi Pirandello
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