Di Pietro Seddio.
Spiega, l’Autore, sapientemente, che un comico fa ridere perché all’apparenza mostra al pubblico il contrario di quello che dovrebbe essere e qui è netta la differenza tra comicità ed umorismo perché l’umorista, per contro, spinge l’uomo a riflettere sul motivo del contrario passando ad un sentimento di avversione, ad un sentimento quasi di compassione.
Quale teatro?
Secondo Luigi Pirandello
Per gentile concessione dell’ Autore
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Quale teatro? Secondo Luigi Pirandello
Capitolo 10
Pirandello e la sua tematica
Oggettivamente parlando, pur conoscendo il trascorso umano e letterario di Pirandello non si può prescindere dal continuare l’analisi esaminando e proponendo la sua tematica sulla quale (anche per questo così particolare aspetto) sono stati scritti moltissimi testi nei quali ogni autore ha cercato, soggettivamente, di dare comunque delle interpretazioni con lo scopo di fare comprendere al lettore tutte le varie problematiche che l’opera dello scrittore siciliano presenta nel suo complesso.
Si è parlato di dodecaedro, ed è giusto quindi pensare che ogni faccia abbia la sua storia, una sua problematica, una sua interpretazione. E lui avendo usato per il suo teatro e per la sua narrativa in genere, lo specchio (tanti specchi) come punto di riferimento che riflette la propria immagine e converte il pensiero dell’uno nell’altro riflesso, ha scardinato la razionalità del pensare uniforme in quanto ogni personaggio e quindi ogni uomo non è uno, ma nessuno e centomila.
Ritorna il concetto base di tutto quel pensiero che si è poi infarcito di tutte le altre problematiche che sono proprie dell’uomo, ed è per questo che Leonardo Sciascia scrive:
“Il teatro è per Pirandello il luogo della metamorfosi che, toccato appena, consuma la trasformazione delle creature in personaggi”. [1]
[1] Leonardo Sciascia, Op. Cit., pag. 33
Questo ci porta a riparlare delle teoria della disgregazione dell’io sulla quale l’autore diede una sua spiegazione e volle anche proporre l’altro tema a lui caro e cioè quello relativo alla interiorità della introspezione. Alla fine, per continuare il concetto, l’analisi di tutto quello che una persona con coscienza o meno fa.
Sublimato da una tale tesi arrivò a parlare del contrasto (anche profondo) tra la Vita e la Forma (concetto espresso soprattutto in Diana e la Tuda) affermando che la Vita è un flusso continuo mantenuta chiusa dentro una Forma da un destino burlone (anche malefico ad onore del vero).
Dice il Maestro che le forme sono modellate da concetti e dagli stessi ideali che ogni essere crea con l’intento di fermare questo flusso; purtroppo molto spesso tale flusso riesce a far crollare le barriere create per arginarlo ed arrestarlo.
Avvertiamo di essere chiusi in una forma allorquando ci osserviamo allo specchio. Come pensiero non c’è niente da obiettare, ma il dunque (e il dubbio) emerge quando si tenta di dare una giusta (per noi) interpretazione dell’assunto che ci pone delle domande perché è indubbio che da questo contrasto tra Vita e Forma ci si trova a dovere fare i conti con il relativismo psicologico altro argomento complesso assai presente nel pensiero dello scrittore.
Analizzando una serie di interpretazioni la più rispondente all’intendimento che pone le basi all’analisi di quel mondo femminile, è quella che riesce a parlare di due sensi: uno orizzontale e uno verticale. Parlando del primo emerge il rapporto che una persona ha con gli altri, il secondo evidenzia il rapporto che una persona ha con se stesso.
Allora parlando del primo senso l’autore intese affermare che gli uomini nascono liberi ma il caso li ha voluti chiudere dentro ad una forma ed è per questo che si nasce in una società precostituita dove ogni individuo ha assegnata una parte e di conseguenza si comporterà con quegli schemi già precostituiti dalla società, la quale a sua volta ci impone le regole e il ruolo obbligando ciascuno a seguirli nonostante il nostro io (la razionalità interiore ed intellettuale) aspirerebbe ad un ruolo diverso. In tale specifica situazione (di apparente ribellione) potrebbe entrare in un’altra e semmai si volesse ritornare alla precedente non si può.
Il motivo? Perché il tempo è già trascorso. Tale senso orizzontale lo si trova ampiamente documentato nel romanzo Il fu Mattia Pascal.
Il secondo senso (verticale) ci porta a considerare come sia del tutto impossibile uscire dalla forma e l’uomo intuisce che non è in grado di capire né gli altri né tanto meno se stesso essendo fermamente consapevole di non possedere una propria personalità precisa e delineata.
Si accorge che la forma in cui è costretto a vivere è simile ad una maschera in cui dentro vanno agitandosi una moltitudine di personalità diverse e sconosciute del tutto o in parte all’uomo.
Tale senso è ampiamente presente in Uno, nessuno e centomila per le seguenti ragioni: uno, perché ogni persona crede di essere un individuo unico con caratteristiche particolari; nessuno, perché se possediamo centomila personalità allora non si ha niente perché nel cambiare non si è capaci di fermarsi al vero “io”; centomila, in quanto si possiedono tante personalità quante sono le persone che ci giudicano e quindi dietro la maschera saranno presenti centomila personalità. Altro punto di forza della tematica pirandelliana è l’umorismo, meglio definito come sentimento del contrario perché ogni uomo che viene a godere di tale sentimento arriva a stimolare in se stesso una sorta di “specchio riflesso” (lo specchio sempre presente!) quindi una immagine distorta, e dà agli altri una sembianza inversa di quella che dovrebbe essere normalmente (e qui si ritorna al discorso che Laudisi fa dinanzi allo specchio).
Per l’autore a far emergere l’umorismo è la riflessione e tale argomento, con altri, è presente proprio in maniera dettagliata nel libro L’Umorismo che, come detto, fu oggetto di tante critiche (alcune feroci) contrastanti.
Spiega, l’Autore, sapientemente, che un comico fa ridere perché all’apparenza mostra al pubblico il contrario di quello che dovrebbe essere e qui è netta la differenza tra comicità ed umorismo perché l’umorista, per contro, spinge l’uomo a riflettere sul motivo del contrario passando ad un sentimento di avversione, atto a spingere il pubblico a ridere, ad un sentimento quasi di compassione e quindi non più una risata divertita, ma semplicemente un sorriso di comprensione.
Non si può non riflettere su questa osservazione che dà il senso appropriato delle due determinazioni umorismo e comicità spesso confuse, sovrapposte, interpretate con senso diverso ed intendi opposti.
Non si può dimenticare l’altro grande tema, la pazzia, sulla quale l’autore creò opere importanti quali Il berretto a sonagli ed Enrico IV, esorcizzandola perché visse a stretto contatto, subendone le negative conseguenze per lunghissimi anni. Singolare la ricetta da lui indicata: dire sempre la verità, nuda e cruda e tagliente verità, infischiandosene dei riguardi e delle maniere, delle ipocrisie e delle convinzioni sociali; porterà presto all’isolamento e, agli occhi degli altri, alla pazzia.
E quanti furono in effetti che considerarono il Maestro pazzo? Glielo gridarono in faccia ogni qual volta una sua opera veniva contestata e molti critici lo screditarono facendo leva su quella “malattia” che per molti era ereditaria per non dire che qualcuno lo accusò apertamente perché diretto responsabile della moglie costretta a subite i tanti suoi tradimenti (veri o presunti) dell’allora professore sempre circondato da studentesse pronte ad accoglierlo sia perché innamorate (infatuate) sia per ottenere, magari (ma non c’è alcuna testimonianza diretta su tale argomento) qualche favore al momento degli esami.
Ma al di là di questa connotazione Pirandello fu vittima sacrificale da qualunque angolazione si voglia esaminare la questione.
Altra caratteristica che è presente e che investe tutta la produzione è data dalla identificazione nelle opere teatrali sapendo a priori che a questa forma d’arte arrivò tardi nonostante alcuni tentativi giovanili e poi interessandosi a quella dialettale. Questa particolare forma di attività che potremmo definire “il fiore all’occhiello” da parte dell’autore si può dividere in due periodi e fasi e che testimoniano anche la sua inarrestabile maturità suffragata dalle tante esperienze che lo coinvolsero fino alla fine.
Alla prima fase appartiene il teatro siciliano con opere quali La giara, Pensaci Giacomino!, Il berretto a sonagli, Lumie di Sicilia, ecc. Caratteristica predominante di queste opere il fatto che siano state scritte in dialetto considerato dall’autore più vivo della lingua italiana riuscendo ad esprimere di più l’aderenza della realtà.
Alla seconda fase quella umoristica con opere quali Così è (se vi pare), Il piacere dell’onestà, Ma non è una cosa seria, Il gioco delle parti, L’uomo, la bestia e la virtù, ecc.
Mano a mano che l’autore si allontana dal verismo avvicinandosi al decadentismo si viene a proporre l’inizio del teatro umoristico con numerosi paradossi. Infatti l’autore presenta personaggi capaci di spezzare le certezze del mondo borghese introducendo la versione relativista della realtà in cui lui intende trovare la dimensione autentica della vita al di là della maschera. Suo precipuo compito, in questa visione e in tale contesto, quello di “denudare le maschere”. Verrà definito anche “teatro dello specchio”, perché rappresenta la vita nuda (da qui: Teatro delle Maschere Nude) con le sue realtà dove ci si riflette con una maschera che nasconde l’ipocrisia e tutti gli aspetti delle persone. Esiste, poi, secondo una interpretazione di alcuni studiosi, una terza fase considerata il “teatro nel teatro”, [2] sottolineando che le cose cambiano radicalmente perché per l’autore il teatro deve parlare anche agli occhi e non solo alle orecchie e per questo sarà indispensabile ripristinare (cosa che il Maestro fece) una tecnica teatrale voluta da Shakespeare, ossia il palcoscenico “multiplo” in cui si può per esempio trovarsi una casa divisa dentro la quale si vedono varie scene in diverse stanze contemporaneamente.
[2] Pietro Seddio, Il teatro nel teatro, analisi critica, Ed. Simple, Macerata
Altra caratteristica quella che nel teatro si può osservare il mondo trasformarsi sul palcoscenico. Spinto da questa esigenza (che non è solo tecnica) il Nostro abolisce la “quarta parete” ossia quella trasparente che si trova tra attori e pubblico. In questa fase l’autore tende a coinvolgere il pubblico che da passivo verrà a rispecchiare la propria vita in quella viva che è propria degli attori in scena.
Possiamo dire che siamo agli albori di quelle nuove concezioni che porteranno al teatro moderno con tutte le implicazioni. Opere di questa fase sono Sei personaggi in cerca d’autore, Enrico IV, Vestire gli ignudi, L’uomo dal fiore in bocca, La vita che ti diedi, Trovarsi, Come tu mi vuoi, ecc.
E poi arriviamo al teatro dei miti [3] con Lazzaro, La nuova colonia, I Giganti della montagna. Siamo ormai all’apice della globale visione della funzione teatrale intesa dall’autore che volle dare un indirizzo preciso stigmatizzando, alla fine, il nucleo centrale di tutta la sua tematica che ha compreso anche le altre produzioni come i romanzi scritti, solo sette.
[3] Pietro Seddio, Il teatro dei miti, analisi critica, Ed. Simple, Macerata
Parlando della complessa tematica si deve fare riferimento alle Novelle considerate le opere più durature seppur ci sono stati pareri contrari allorquando si è voluto fare un riferimento con quelle teatrali non volendo dimenticare che alcune novelle sono state tramutate dallo stesso autore in opere teatrali come ad esempio Così è (se vi pare), tratta da Si gira…, o La nuova colonia, tratta da Suo marito, ecc.
Un pensiero corrente nella critica afferma che analizzando le novelle sembra che manchi una linea tematica (ossia una “cornice”); è per questo che all’interno delle stesse sono presenti un “crogiolo” di personaggi ed eventi.
Partendo dalla convinzione (non tutti sono d’accordo) che Pirandello fu un antipositivista quindi irrazionale anche le sue novelle per riflesso, sono state catalogate in maniera illogica.
Tra l’altro è da sottolineare che il tempo in cui le stesse sono state ambientate non è definito ed infatti alcune appartengono all’epoca umbertina, altre giolittiane e del dopo Giolitti mentre per quelle definite “siciliane” nelle quali il tempo non è fissato (essendo un tempo antico) rivelano una società ancorata alle proprie radici e quindi intenzionata a non cambiare perché rimane ferma.
Quella immobilità tipica del siculo che altri autori hanno, poi, continuato a trattare. Come sono varie le novelle, parimenti si può dire dei personaggi; è ovvio che per quelle di ispirazione siciliana emerge il tipico personaggio rurale seppur di tanto in tanto viene evidenziato il contrasto generazionale che si è evoluto dopo l’unità d’Italia. Diverso, assai diverso, è l’ambiente delle novelle che sono ambientate nella Roma umbertina e giolittiana.
Tema predominante che investe i personaggi è il loro approccio con il male di vivere, con il destino e la morte. Tra l’altro sono i temi chiave di tutta la produzione letteraria. All’interno delle tante storie non si trovano grandi personaggi della borghesia ma uomini comuni, i cosiddetti vicini della porta accanto il cui destino è quasi sempre violentato, brutalizzato dalla sorte e dalla famiglia.
Pirandello ci presenta i personaggi “nudi e crudi” come ci appaiono ed è difficile riscontrare una analisi psicologica tant’è che le loro fisionomie appaiono molto spesso eccentriche, per l’innato sentimento del contrario ed allora balza evidente il loro carattere opposto da come si presentano.
Certamente parlano e ragionano, ma si trovano ad essere sempre in preda al caso, al fato che inevitabilmente li fa cambiare. Tutte le novelle sono state raccolte in volumi con il titolo Novelle per un anno, ma in effetti le stesse non sono 365, ma soltanto 241 in quanto l’autore, nonostante l’impegno, tante riuscì alla fine a scriverne. Altro breve accenno alla produzione poetica che la critica ha sempre lasciato in ombra perché la stessa non si lascia inserire in nessun movimento letterario di quel tempo. In sintesi rappresentano dei moduli espressivi e forme metriche tradizionali. In alcune l’autore sembra avvicinarsi a Pascoli, in altri affiorano i temi umoristici e di purità dell’io. Un pensiero di Nella Zoia pensiamo riesce a sintetizzare l’aspetto poetico del Maestro che, al di là del suo intrinseco valore sotto il profilo squisitamente “poetico” consente di dare una visione d’assieme che serve ad approfondire meglio la tematica, nel suo complesso, di questo grande (a volte enigmatico) autore.
“La poesia di Pirandello comincia dunque con un movimento nostalgico per cose perdute; o mai possedute? Dice, “folle”, di aver sperato; “folle” di aver avuto fede. Era follia, follia certo; ma dolce”. Ora che sa tutto è inganno. Ma le cose che danno gli inganni, esistono; ma le nostalgie si patiscono; e più, si patiscono, quanto più è desolante dover riconoscere che la loro dolcezza si dissolve, vana, per questa nostra fatica di vivere”. [4]
[4] Nella Zoia, Pirandello, Ed. Morcelliana, pag. 10
Forse non tutti sanno che Pirandello fu molto vicino al mondo del cinema e che scrisse anche dei soggetti, qualcuno realizzato come Acciaio del 1933 per la regia di Walter Ruttman. Vogliamo aggiungere che alcune opere dello scrittore furono portate (anche di recente) sullo schermo da famosi registi e interpretati da notissimi attori anche di fama internazionale, basti ricordare Greta Garbo.
Occorre dire subito che l’autore in più occasioni espresse parere negativo (come aveva fatto per il teatro d’altro canto: quasi un vizio o un mettere le mani davanti… lo diceva anche Ciampa parlando del padre) perché lo reputava un mezzo meccanico in antitesi con il teatro e considerato il momento storico si può dire che la sua visione fu alquanto errata in quanto non tenne conto del processo evolutivo.
Lui era abituato al contatto diretto, quasi carnale, con il pubblico attraverso il palcoscenico, la visibilità degli attori, e quindi mal digeriva quel mezzo tanto che quando scrisse (ultimandolo nel 1925) Quaderni di Serafino Gubbio operatore volle esprimere il concetto secondo il quale era la macchina che usava l’uomo e non viceversa.
Con il tempo l’atteggiamento del Nostro nei confronti del cinema divenne molto più conciliante fino ad arrivare ad una vera e propria collaborazione. Riuscì addirittura a registrare come evento positivo la presenza del cinematografo capace di affrontare la nuova forma di spettacolo sotto il profilo della validità dell’arte.
Alcune di queste pellicole ormai, girate durante l’esistenza dell’Autore, sembra che siano sparite, altre sono state ripristinate e comunque vogliamo ricordare quelle più recenti a partire da Enrico IV con la regia di Marco Bellocchio, Kaos dei fratelli Taviani, Liolà di Gabriele Lavia, Il viaggio di Vittorio De Sica.
Sull’aspetto di questo così importante settore ricordiamo al lettore la numerosa e specifica bibliografia che attentamente ha analizzato il rapporto intercorso tra il Maestro e il cinema evidenziando gli aspetti, anche quelli ritenuti meno interessanti, così da arricchire e valutare meglio il patrimonio letterario dell’autore che per alcuni versi si è prestato al cinema e con buoni risultati non dimenticando che la sua vera attività fu letteraria e quindi non propensa ad avere uno stretto rapporto con il cinema che si può dire muoveva ancora i primi passi.
A completamento di questa analisi e nello specifico del rapporto con il cinema da parte di Pirandello, citiamo un pensiero autorevole di Dorothea Stewens, nel suo Pirandello, letteratura e scena pubblicato dal Centro Nazionale di Studi Pirandelliani di Agrigento perché l’autrice ha vinto, nel 1981, il Premio Pirandello.
“Si avverte perciò che Pirandello non solo “imparò l’arte e la tecnica scenica attraverso le trasformazioni delle sue novelle in commedie”, ma che la trasformazione di testi narrativi in testi teatrali è un procedimento adoperato da Pirandello fino alla fine della sua vita per trovare nuove forme della comunicazione letteraria mescolando e straniando i generi tradizionali; è un procedimento che viene arricchito verso la fine degli anni venti dall’introduzione di nuove tecniche narrative, prese dal cinema nel testo teatrale”. [5]
[5] Dorothea Stewens, Op. Cit., pag. 68
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