I «Quaderni di Serafino Gubbio operatore», pubblicati nel 1915 col titolo «Si gira», mostrano la sensibilità dello scrittore ai nuovi linguaggi, non soltanto il teatro, ma ormai anche e soprattutto il cinema. La sensibilità e anche la resistenza. Gli attori, secondo questo Pirandello sempre più intellettuale e affascinato dalla teoria, dinanzi alla cinepresa si trovano separati dal pubblico e dall’azione viva del palcoscenico, condannati all’esilio. |
Approfondimenti nel sito
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Luca Gritti – Pirandello, l’ultimo uomo in un mondo di automi
RigelGrace – Viva la macchina! – Analisi dei «Quaderni di Serafino Gubbio operatore»
Angela Diana Di Francesca – L’ “ibrido gioco” – La violenza dell’immagine nei “Quaderni di Serafino Gubbio operatore”
Giancarlo Mazzacurati – Il doppio mondo di Serafino Gubbio
Tesi – Jana Bartošová – Uomo-macchina nel romanzo di Luigi Pirandello “Quaderni di Serafino Gubbio operatore”
Roberto Bernardini – L’assenza della parola nei “Quaderni di Serafino Gubbio Operatore”
Marcella Strazzuso – La macchina e la maschera: gli inganni della modernità nei “Quaderni di Serafino Gubbio operatore”
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Opere letterarie del 900 Italiano – Quaderni di Serafino Gubbio, operatore: Romanzo
La Frusta Letteraria – Luigi Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore
La ragione del cuore , Blog di Giovanni Fighera – Luigi Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore
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Quaderni di Serafino Gubbio operatore – Indice
Introduzione |
Introduzione
I Quaderni di Serafino Gubbio operatore, nella sterminata biblioteca di Pirandello, sono sempre rimasti sullo sfondo della sua fortuna, e tuttavia costituiscono un’opera di rilevante interesse storico-culturale. Pubblicati nel 1915 a puntate sulla «Nuova Antologia» e l’anno successivo in volume da Treves col titolo Si gira…, presentano la caratteristica eccezionale di proporre una nuova forma di romanzo quando l’autore si sta cimentando con la realtà del teatro contemporaneo, mentre questo è ormai insidiato dalla rivoluzione dell’industria cinematografica. In una fase di mutamenti epocali, agli inizi della Grande Guerra, immaginando i prossimi scenari della letteratura e del gusto nella società della comunicazione, succede così che egli esprima la sua diffidenza per il cinema che incalza mette in crisi il teatro, quando anche nei confronti di quest’ultimo la sua perplessità è tutt’altro che superata. Si può supporre che senza l’incalzare del cinema, senza la concorrenza da questo esercitata, sarebbe venuta meno una decisiva sollecitazione alle ragioni e quasi alla necessità dell’avanguardia, e alla creazione di quel nuovo teatro di marchio pirandelliano che è il teatro nel teatro.
Diffidenza di benèfici effetti, che presuppone comunque una sensibilità spiccata al fenomeno; per capire la quale bisogna tener presenti da una parte la formazione intellettuale di Pirandello, dall’altra le condizioni del panorama nazionale e internazionale, le cronache degli strepitosi successi che vengono dagli Stati Uniti, e ormai da Hollywood, salutata come Mecca del cinema, e di quelli italiani, che suscitano crescente curiosità ed entusiasmo. Tra questi basti ricordare le regie di Giovanni Pastrone: il kolossal Cabiria del 1914, di sceneggiatura dannunziana, Il Fuoco del 1915, Tigre reale del 1916. D’Annunzio, Verga: l’olimpo degli scrittori, per una fama destinata al divismo. D’Annunzio del Fuoco che esaspera e divulga gli amori con la più grande attrice del tempo, la Duse; e il Verga non a caso di Tigre reale. Gli scrittori tradizionali perdono il ruolo e il carisma, e si mettono in fila presso le case cinematografiche, aspirando a un contratto remunerativo di soggettisti e di scenografi, se non di veri e propri autori. C’è un business in atto, evidente nell’apertura di tante sale. In questa situazione profondamente modificata, che fare?
Ecco, Pirandello si posiziona e, già mentre si posiziona, si sposta inevitabilmente in avanti, influenzato dalla nuova tendenza. La sua controfigura questa volta è Serafino Gubbio, un passaporto per la letizia dell’indifferenza, un operatore delle nuove macchine. Proviene, addirittura, da un ospizio, premessa di nudità; il suo requisito fondamentale è, o dovrebbe essere, quello dell’impassibilità. Deve girare la manovella, e nient’altro: quale che sia lo spettacolo, anche indecoroso, che gli si rappresenta dinanzi agli occhi. Questo dell’ impassibilità è il mito del verismo, riesumato, per evitare compromissioni con un corso di eventi che si disapprova e ci supera. Pirandello formula per tal via la sua critica, da umanista, alla macchina e alla civiltà delle macchine, sentita come alternativa alla civiltà dell’arte. Per la cultura umanistica l’arte è genio, individualità irripetibile. La fotografia ha permesso la riproduzione dell’immagine, ma statica. Il cinema dà movimento a quella riproduzione, e la moltiplica potenzialmente all’infinito. Fine di un’era.
La tecnologia influenza prepotentemente i processi culturali. La macchina procura enormi guadagni e, per rimanere nelle competenze del settore, porta a un vasto pubblico opere sempre nuove, riprodotte serialmente. Riempie le sale cinematografiche e svuota i teatri. Gli attori, adesso, recitano non davanti a spettatori presenti, in un’azione viva, nella mozione degli affetti, coinvolgendoli all’applauso o ai fischi, ma in assenza, e anzi, in esilio, dal pubblico e da se stessi. Non sono loro, in carne e ossa, ma appunto in immagine, «giuoco d’illusione su uno squallido pezzo di tela». La rappresentazione delle loro passioni è pellicola. Pirandello, nella sua nostalgia di quest’aura dell’unicità, non sembra, per assuefazione, preoccuparsi della ripetizione della performance, propria della recita teatrale.
Bisogna affannarsi a rappresentare non secondo le esigenze superiori dell’arte, ma in quanto merce, in base al profitto economico, al gusto dominante, al “gusto inglese”. Si avvia una polemica, sin dalle prime righe del romanzo, sul ritmo convulso della modernità, sull’americanismo, che procura malessere e alienazione. Di fronte a questa decadenza gli scrittori sono impotenti e mortificati, schiavi anch’essi della diabolica macchinetta, proni alle regole del successo. E converrà, anche, non dimenticare la frustrazione dello stesso Pirandello per i suoi tentativi falliti.
La Kosmograph è questa casa cinematografica che confeziona una quantità di prodotti, esotici ed eccessivi: e dentro questo set cinematografico, e nei dintorni di esso, si svolge il romanzo in questione. I Quaderni di Serafino Gubbio operatore documentano con tempestività per l’Italia la nascita di questo mondo, le nuove mitologie sociali, gli intrighi da cronaca giornalistica e da pettegolezzo mondano. Pirandello si colloca in posizione viziata, da escluso che esclude, con uno sguardo lucidissimo e impietoso, che non rinuncia in nulla alla sua richiesta assoluta. Per questo è pronto a cogliere i limiti della nuova arte, i pericoli portati dall’omologazione, ma non riesce ad apprezzare il salto di qualità, implicito nel nuovo strumento, che pure profondamente lo affascina. Persino il senatore Zeme, l’insigne astronomo, non esita a mettere a disposizione la sua scienza e a portare all’ammirazione universale le Meraviglie dei cieli, ma Pirandello in questa disponibilità coglie soltanto l’attitudine vanitosa del personaggio e la sua volontà di sfruttamento, e non anche la risonanza sociale e democratica di quell’operazione divulgativa.
La storia, certo, non va nella direzione auspicata da Serafino Gubbio operatore. Ma quanto le pagine pirandelliane registrino con autorevolezza il passaggio di un’epoca, nel nostro Paese, e costituiscano una testimonianza preziosa e insostituibile, basterebbe a dimostrarlo la ripresa, divaricata, di un autore come Walter Benjamin nella decisiva riflessione su L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Benjamin, segnato dal marxismo e dalla scuola sociologica di Francoforte, va in direzione opposta a Pirandello, e negli anni Trenta vede proprio nel principio della riproduzione tecnica l’avvento di una nuova fase storica, e di una diversa concezione dell’arte, in chiave democratica, in coincidenza con la perdita della sacralità dell’autore, sin qui garantita dall’unicità dell’atto creativo; e si rifà proprio al Pirandello di Si gira… per spiegare la crisi irreversibile dell’autore e dell’attore teatrale.
Presunto impassibile, il protagonista di questo romanzo si pone a osservare lo spettacolo della vita, come se fosse esterno e riservato sempre agli altri, quando in realtà è interno alla coscienza. L’operatore Serafino Gubbio è dunque un’ulteriore controfigura dello scrittore: «Come puoi saper tu, che le hai dentro, in qual maniera tutte queste cose si rappresentano fuori! Chi vive, quando vive, non si vede: vive… Veder come si vive sarebbe uno spettacolo ben buffo! Ah se fosse destinata a questo solamente la mia professione! Al solo intento di presentare agli uomini il buffo spettacolo dei loro atti impensati, la vista immediata delle loro passioni, della loro vita così com’è. Di questa vita, senza requie, che non conclude».
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