Legge Giusi Buccheri.
«Non capiva ancora in che potesse consistere il pensiero che un uomo può fare su una donna. Turbata con gli occhi bassi, provava un irritante ribrezzo, raffigurandosi nell’incertezza, senza volerlo, qualche intimo segreto del suo corpo, come se lo conosceva.»
Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 11 aprile 1926, poi in Terzetti, Treves, Milano 1912.
Pubertà
Voce di Giusi Buccheri
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L’abitino alla marinara non era più per lei: la nonna avrebbe dovuto capirlo.
Certo, trovare un modo grazioso di vestirla, che non fosse più da ragazzina e non ancora da grande, non era facile. Aveva visto jeri la Gianchi: che orrore, poverina! Impastojata in un sottanone grigio peloso lungo fin quasi alla noce del piede, non sapeva più come muoverci dentro le gambe.
Anche lei però, con tutto quel seno in quella giubbetta da bimba!
Sbuffava e scoteva con stizza la testa.
L’avvertimento della fragrante esuberanza del suo corpo, in certe ore, la congestionava. L’odore dei suoi capelli densi, neri, un po’ ricciuti e aridi, quando se li scioglieva per lavarseli; l’odore che le esalava da sotto le braccia nude, quando le alzava per sollevare il soffocante volume di quei capelli; l’odore della cipria intrisa di sudore, le davano smanie più di nausea che d’ebbrezza: per le tante cose segrete e ingombranti che quell’improvvisa e violenta crescenza le aveva d’un tratto rivelate.
Cose che, certe sere mentre si spogliava per andare a letto, se ci fissava appena il pensiero o un’immagine le balzava davanti, dalla rabbia e dallo schifo che n’aveva, avrebbe scaraventato le scarpette contro l’armadio laccato bianco a tre luci, dirimpetto, dove si vedeva tutta, così mezza nuda, con una gamba tirata un po’ sconciamente sull’altra. Si sarebbe presa a morsi, graffiata, o messa a piangere da non finir più. Poi le veniva da ridere, convulsa, tra le lagrime; e se pensava d’asciugarsi quelle lagrime, ecco che si buttava a piangere di nuovo. Forse era una sciocca. Chi sa perché, una cosa così naturale, le doveva parer tanto curiosa?
Già con quella prontezza che hanno le donne a capire da uno sguardo che s’è fatto un pensiero su loro, se un uomo la guardava per via, abbassava subito gli occhi.
Non capiva ancora in che potesse consistere il pensiero che un uomo può fare su una donna. Turbata con gli occhi bassi, provava un irritante ribrezzo, raffigurandosi nell’incertezza, senza volerlo, qualche intimo segreto del suo corpo, come se lo conosceva.
Senza più guardare, si sentiva guardata.
E si struggeva d’indovinare che cosa guardassero gli uomini a preferenza in una donna. Ma questo, forse, l’aveva già indovinato.
Appena sola, in casa, si lasciava cader di mano i libri di scuola o i guanti, apposta per chinarsi a raccattarli. Chinandosi, dalla scollatura si sbirciava il seno. Non aveva però finito d’intravvederselo e d’avvertirne appena il peso, che s’acchiappava il grosso nodo del fazzoletto nero di seta sotto il bavero della giubbetta alla marinara e se lo strappava subito in su, in su, fino agli occhi, disgustatissima.
Un momento dopo, raccoglieva con l’una e con l’altra mano da ambo le parti la stoffa di quella giubbetta; se la stirava in giù, perché le aderisse al busto eretto; andava davanti allo specchio; si compiaceva anche della promettente curva dei fianchi:
– Seducentissima signorina! E scoppiava a ridere.
Sentì la vocetta bizzosa della nonna,, che la chiamava giù, dall’hall del villino, per la lezione d’inglese.
La nonna, per farla stizzire, la chiamava al solito Dreina e non Dreetta come lei voleva esser chiamata. Bene: sarebbe discesa, quando finalmente alla nonna sarebbe venuto in mente di chiamarla Dreetta e non Dreina.
– Dreetta! Dreetta!
– Eccomi, nonna.
– Eh, santo Dio. Fai aspettare il professore.
– Scusami. Ho sentito ora.
D’estate, nel pomeriggio, per ordine della nonna tutte le finestre del villino erano tenute ermeticamente chiuse. Dreetta, s’intende, le avrebbe volute tutte spalancate. Le piaceva tanto, perciò, che il sole prepotentissimo, in quell’ombra voluta, ch’era quasi bujo, trovasse pur modo di penetrare.
Erano fremiti e guizzi di luce per tutte le stanze, come scoppiettìi di riso infantile nella severità d’un silenzio comandato.
Anche lei, Dreetta, era spesso così tutta fremiti e guizzi, e tante volte come abbagliata, avvolta e rapita da veri lampi di follia. Subito dopo s’oscurava per il sospetto segreto che le venissero dalla madre ch’ella non aveva mai conosciuta e di cui mai nessuno le aveva parlato. Del padre sapeva soltanto che era morto giovane; non sapeva come. C’era un mistero e forse laido e truce, nella sua nascita e nella fine immatura dei suoi genitori. Bastava guardare la nonna per intenderlo: la nonna, in quel suo viso di cartilagine e in quegli occhi torbidi, su cui le grosse palpebre pareva pesassero, una più e l’altra meno. Sempre vestita di nero, aggobbita, se lo teneva stretto con tutt’e due le braccia dentro il petto, quel mistero: le mani sotto la gola: l’una, a pugno chiuso; l’altra, deformata dall’artrite, su quel pugno. Ma Dreetta non voleva conoscerlo. Già le pareva di saperlo, dal modo con cui tanti la guardavano sentendola nominare, e dallo sguardo che poi si scambiavano tra loro, esclamando quasi senza volerlo – Ah, è la figlia di… –. E non aggiungevano altro. Fingeva di non udire. Del resto, c’era adesso per lei lo zio Zeno, con la zia e le cuginette che venivano a prendersela quasi ogni giorno e le procuravano ogni sorta di svaghi. Lo zio avrebbe voluto averla in casa con sé, visto che zia Tilla, sua moglie, le voleva bene quasi quanto alle sue figliuole; ma finché la nonna era in vita, bisognava se ne stesse con lei.
Dreetta era sicura che la nonna, sempre con quel pugno sotto la gola, non sarebbe mai morta. E questa era una delle cose che più spesso le accendevano quei lampi di follia.
Avevano un bel mostrarle le cuginette la camera che le era già destinata, e come gliel’avrebbero adornata, e inventar la vita come insieme sempre tutt’e quattro la avrebbero allora vissuta; se ne compiaceva, diceva a tutto di sì, si buttava a inventare anche lei; ma in fondo non si faceva neppure la più lontana illusione che quel sogno si potesse avverare.
Se mai le fosse avvenuto di potersi liberare, la liberazione doveva aspettarsela da un caso imprevedibile lì per lì: un incontro per via, per esempio. Ragion per cui, andando a passeggio con lo zio e le cuginette, o recandosi a scuola o ritornandone, era sempre accesa e come ebbra, in un’ansia fremente che non le faceva prestare orecchio a quel che le dicevano, intesa a guardare di qua e di là, con gli occhi lampeggianti e un sorriso nervoso sulle labbra, come se veramente si sentisse esposta a quel caso imprevedibile che doveva coglierla e rapirsela all’improvviso. Era pronta. Nessun vecchio signore inglese o americano s’invaghiva di lei fino al punto di venire a chiedere allo zio
– la sua mano?
– no! che!
la concessione d’adottarla per portarsela via, via lontano dall’incubo di quella nonna, dalla benevolenza così ostentatamente pietosa della zia; a Londra, in America, per poi sposarla colà a un nipote o al figlio d’un amico?
Questa stramberia del vecchio signore inglese o americano le era entrata nella testa per non ammettere che, almeno subito, la liberazione le potesse venire da un matrimonio. Da quelle torbide sensazioni che le ingombravano impetuosamente l’animo di vergogna e di dispetto per le precoci esuberanze del suo corpo, e anche da come gli uomini la guardavano per via, glien’era già nata l’idea, come d’una cosa possibile, ma da arrossirne: eh via, sì! sposare, alla sua età! Per non arrossirne, ci metteva di mezzo, come a riparo, l’inverosimiglianza di quel caso d’adozione da parte d’un vecchio signore inglese o americano; inglese o americano perché, dovendo sposare – ah questo sì, sul serio – non avrebbe sposato che un inglese o un americano, lavato a sette acque e con un po’ di cielo, con un po’ di cielo almeno negli occhi.
Studiava l’inglese per questo.
Curioso che, tenendo così lontana l’idea del matrimonio per non arrossirne, non avesse finora veduto nella persona di Mr. Walston, suo professore, vicinissimo l’inglese che avrebbe potuto sposarla.
Subito diventò di bragia, come se Mr. Walston le stesse lì davanti per questo; e si sentì raccapricciare da capo a piedi notando che anche lui, a sua volta, arrossiva. Eppure sapeva bene che il signor Walston per sua natura arrossiva di nulla: ne aveva tanto riso come di cosa ridicolissima in un uomo di così potente corporatura, quantunque veramente dall’aria bambinesca.
Pareva più enorme, lì in piedi, presso il gracile tavolinetto dorato del salotto, davanti la finestra, dove di solito le impartiva la lezione. Tutto vestito estivamente di grigio chiaro: la camicia celeste, le scarpe gialle. E sorrideva d’un sorriso vano, scoprendo nell’apertura della larga bocca i pochi denti che per un’infermità delle gengive gli restavano. Sorrideva, senza neppur sapere d’avere arrossito nell’alzarsi all’entrata della sua piccola alunna, lontanissimo com’era dal pensiero che questa aveva fatto su lui. Invitato a sedere, prese dal tavolino la grammatica inglese, guardò di sopra le lenti con gli occhi azzurri inteneriti l’alunna come a raccomandarsi di non essere interrotto nella lettura dai soliti irrefrenabili scatti di riso alla pronunzia di certe parole; e si mise a leggere, accavalciando una gamba sull’altra.
Ora avvenne che, così grosso com’era, nell’accavalciare la gamba scoprì sopra la calza bianca di filo quasi tutto il polpaccio, con l’elastico tirato della vecchia giarrettiera color di rosa. Dreetta lo intravide e subito ne provò schifo: quello schifo che pure attira a guardare. Notò che la pelle di quel polpaccio era d’un bianco smorto e che su quella pelle s’arricciolava qua e là qualche metallico peluzzo rossiccio. Nella penombra tutto il salotto pareva in un’immobile attesa, come per fare avvertire di più in più a Dreetta il contrasto tra la sua strana ansia esasperata da quello schifo, quasi da un contatto scottante di vergogna, e la placidità estranea e pensante di quel grosso inglese che leggeva, col polpaccio scoperto, come un qualunque marito già sordo a tutte le sensibilità della moglie.
– Present Time: I do not go, io non vado; thou dost not go, tu non vai; he does not go, egli non va.
Tutt’a un tratto, Mr. Walston si sentì intronare le orecchie da un grido e, sollevando gli occhi dal libro, vide stolzare la sua alunna, come se qualche cosa le fosse passata per le carni all’improvviso, e precipitarsi fuori del salotto urlando frenetica col viso nascosto tra le braccia. Stonato, col volto in fiamme, si guardava ancora attorno per raccapezzarsi, quando si vide davanti la vecchia nonna che quasi ballava, convulsa dallo sdegno, gridando parole incomprensibili. Tutto poteva immaginarsi il pover’uomo tranne che il sorriso vano, di smarrimento, nel suo faccione affocato, potesse in quel momento esser preso come un sorriso d’impudenza.
Si vide afferrare per il petto da un cameriere accorso alle grida e cacciare a spintoni fuori della porta, nel giardino. Ebbe appena il tempo d’alzare il capo a uno strillo che veniva dall’alto:
– Professore, mi prenda!
Intravide un corpo penzolante dal cornicione del villino: Dreetta scarmigliata, con gli occhi lampeggianti di follia, che serrava i denti, per terrore, e s’agitava come per riprendersi, pentita: poi, un riso lacerante, che rimaneva un attimo nell’aria, scia dell’orribile tonfo di quel corpo che s’abbatteva sfragellandosi ai suoi piedi.
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