Prudenza – Audio lettura 2

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Legge Valter Zanardi
«Fin dall’infanzia (potete bene immaginarlo) non ebbi mai amicizia coi bar­bieri. Credo anzi che questi mi dovessero tutti, e con ragione, odiare. Per la qual cosa, uscendo la mattina di quel memorabile 12 aprile, già deliberato al sacrifizio, mi parve di andarmi a rendere a discrezione d’un nemico»

Prime pubblicazioni: Il Marzocco, 17 marzo 1901, poi nella raccolta nel volume Quand’ero matto…, Streglio, Torino, 1902.

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Prudenza

Legge Valter Zanardi

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             Data memorabile per me il 12 aprile del 1891.

             Avevo compito da circa un mese trentaquattro anni. Da un pezzo mi notavo nel volto, e precisamente alla coda degli occhi e su la fronte, certi lievi solchi che mi pareva non si potessero ancora chiamar propriamente rughe. Credevo almeno che il numero degli anni miei potesse tuttavia permettermi di non chiamarli tali. Momentanei increspamenti de la pelle, che – sotto l’azione del pensiero, del riso, dell’abituale atteggiarsi della fisonomia – erano divenuti stabili. Ma rughe, no.

             Scorgevo inoltre da un pezzo nella barba e per entro alla folta e fluente capi­gliatura poetica (povera poesia, perduta coi capelli, come la forza di Sansone!) qualche… sì, peli bianchi, insomma… più d’uno. E m’assoggettavo ogni mat­tina, davanti allo specchio dell’armadio, a un supplizio in uso non ricordo bene presso quali popoli civili dell’antichità o dell’evo medio: al supplizio della depilazione.

             Quante volte, ahimè, insieme con qualche pelo bianco della barba non mi strappai dagli occhi lagrime sincere di fitto acutissimo dolore!

             Inferocivo contro me stesso.

             Il pelo, profondamente radicato, mi sfuggiva dalle dita crudeli, resisteva allo strappo due o tre volte. Mi asciugavo le lagrime sul volto contratto dallo spa­simo, e lì, daccapo, a tentare con maggior violenza per la quarta volta.

             Ma più ne strappavo, e più me ne scoprivo di giorno in giorno. – Oh mia magnifica barba, un tempo orgoglio, ora tortura per me!

             Ero ormai giunto al bivio. Quel supplizio giornaliero non era più a lungo sopportabile. Tra parer vecchio o parer brutto, a una determinazione dovevo pur venire alla fine, non volendo assolutamente ricorrere alla scappatoja, del resto inutile e sudicia, della tintura.

             Debbo aggiungere che alla vanità si unì, in quei giorni, la prudenza, cioè la più cordialmente antipatica, la più tabaccosa, la più vigliacca tra le tante e tante virtù che vessano il genere umano. Già, a sentir certi moralisti, altro che virtù! è la moderatrice delle virtù, ordinatrice degli spiriti, maestra dei costumi. E le hanno dato tre occhi in testa: figuratevi come dev’essere carina! [1]

 [1] Per dirne una. Non vi par bello il bambino, quando il padre gli accende innanzi a gli occhi un fiammifero?
Come agita le manine! freme tutto, con gli occhi che gli fervono dal desiderio d’afferrarlo…
Ma sopravviene cauta la Prudenza – pah! spegne il fiammifero…

             Di che cuore, se avesse un corpo, oggi le darei un calcio a quella virtù! Ma allora, pur troppo, fui così sciocco da darle ascolto. Incontratala sul mio cam­mino, mi ammogliai con lei e diventai subito il padre di me stesso: cominciai a darmi consigli e ammonimenti e a chiamarmi: Figlio mio.

             Vivevo da circa tre anni in compagnia, oltre che delle nove muse, d’una donna, la quale non si stancava di ripetermi che le piacevo tanto tanto con quei capelli lunghi e con quel barbone. Gusti! [2] A me, lei, però non piaceva più da parecchio tempo, in nessuna maniera. E non sapevo come liberarmene.

[2] Ma ero bello davvero!

             Un benefattore mi aveva promesso un discreto collocamento, a patto però ch’io troncassi quella relazione, pretesto a tante ciarle, e mi tagliassi almeno i capelli, poiché la zazzera non conveniva punto – diceva – alla qualità dell’ im­piego procuratomi.

             E allora io, reso già padre da quella virtù su lodata, e non sospettando neppur lontanamente che quel benefattore avesse premeditato il disegno di darmi in isposa sua figlia, magnifico mostro in gonnella:

             – Cosimo, figlio mio, che fai? I versi hai visto? non son arte da guadagnare. Hai già trentaquattro anni. Quella donna ti secca mortalmente e ti danneggia. L’impiego è buono: dignitoso e lucroso. Su, su, figlio mio! Via questi capellacci, e via anche il barbone, se proprio proprio non te la senti di portartelo a spasso tutto bianco: precocemente, come tu credi.

             Fin dall’infanzia (potete bene immaginarlo) non ebbi mai amicizia coi bar­bieri. Credo anzi che questi mi dovessero tutti, e con ragione, odiare. Per la qual cosa, uscendo la mattina di quel memorabile 12 aprile, già deliberato al sacrifizio, mi parve di andarmi a rendere a discrezione d’un nemico. Che ne avrebbe egli fatto di me? Non sapevo assolutamente concepirmi sbarbato e coi capelli corti. E, via facendo, mi lisciavo, mi carezzavo per l’ultima volta la mia bella barba moribonda.

             Non so quanto gironzassi, sospeso nella scelta del boja. Non una Barbieria in città: tutti Saloni, tutti, anche il più umile e angusto bugigattolo! e per ogni presuntuoso Parrucchiere, anacronismo vestito e calzato, per lo meno cento Coìffeurs, cento Hair Cutting’s.

             «Imbecilli! Depauperatori della nostra lingua! »

             Mi fermavo un tantino, sì e no, innanzi a gli usci a vetri, a spiar trepidante attraverso le tendine.

             «No: troppo lusso! troppi specchi! Questo è un salone per damerini… Al­trove! altrove!»

             Mi sentivo io stesso avvilito della suggezione che, non solo quei cani, ma anche i loro clienti m’incutevano: sentivo che, con quella mia zazzera, io do­vevo esser per loro oggetto di derisione. Stanco morto, alla fine, e al colmo dell’esasperazione, scoperta (miracolo!) una modesta insegna di Barbiere in una piazzetta fuorimano, mi cacciai senz’altro, aggrondato, feroce, entro la botteguccia.

             Il vecchio barbiere, il suo commesso e i due clienti allora sotto il ferro si vol­tarono tutt’e quattro a un tempo a guardare, come se fosse entrato un selvag­gio. Dopo avermi ben bene osservato da capo a piedi, il vecchio mi disse:

             – Abbia pazienza un momentino, signore. Ecco, s’accomodi.

             E m’indicò un logoro divanuccio sotto uno specchio a muro graziosamente dalle mosche punteggiato d’una miriade di nerellini.

             Notai la signorile disinvoltura, la familiarità, con cui quegli scorticatori trat­tano i loro clienti. «Anch’io sarò trattato così, tra breve», pensavo, commise­randomi amaramente. «Sì, ma intanto che dirò? Se dicessi che torno da un lungo viaggio?»

             Di tratto in tratto il giovine mi volgeva un’occhiata glaciale, sforbiciando per aria, come per non far perdere l’appetito al suo strumento di tortura.

             Venne finalmente la mia volta.

             – Il signore vorrebbe accorciati un tantino i capelli?

             Guardai fiso negli occhi quel giovine per fargli intender bene che non ero uomo da farmi canzonare da lui, e risposi pigiando su le parole:

             – Li voglio tagliati, non accorciati. E voglio anche rasa la barba.

             A quest’ordine perentorio, il giovine si turbò alquanto e, come per prender consiglio, rivolse uno sguardo al padrone il quale, avendo felicemente allestita la sua vittima, si disponeva ad andar via fregandosi le mani. Certo a colui era passato per la mente il sospetto ch’io fossi un uomo di mal’affare, e che vo­lessi, dopo qualche marachella, alterare i miei connotati.

             – Interamente rasa? – mi domandò perplesso.

             – Ma si può forse radere a metà? – gli feci io stizzito.

             – Ubbidisci ai comandi del signore, – tagliò corto il vecchio barbiere, ma più per ammansar me, che per redarguire il giovine. E se ne andò via.

             Quegli allora, senza aggiungere altro, m’avvolse con poco garbo nell’accappatojo; versò dal bricco l’acqua tepida nel bacile; prese una forbice e… zac! mi portò via mezza barba.

             – Che fate: – gli gridai. – V’ho detto rasa! rasa!

             – Sissignore, – mi rispose, guardandomi con una certa meraviglia mista di commiserazione. – Ma capirà! se prima non si taglia…

             E seguitò a tagliare. Io non ebbi il coraggio di guardarmi nello specchio. Quegli prese a insaponarmi sbadatamente, stropicciandomi insieme col pen­nello tutte le dita su la faccia. Questa prima operazione, che mi parve troppo confidenziale, durò circa un quarto d’ora. Come se nel mentre il mal’animo gli fosse sbollito, posando il pennello, il giovine mi domandò:

             – Non se l’era rasa da parecchi anni, è vero?

             – Mai! – gli risposi. – Questa è la prima volta.

             – E si vede, sa! Eh, bisognerà lasciarla rammorbidire un bel pezzo col sa­pone. Io intanto affilo il rasojo. Ne affilo anzi due.

             Quando vidi posarmi il barbino su l’omero, chiusi gli occhi e sospirai. Ma poi fu più forte la curiosità. Dovevo sì o no far la nuova conoscenza di me stesso? E mi guardai nello specchio che mi stava davanti, con tutta l’anima sospesa.

             – Ah Dio, – gemetti, quando già mezza faccia era rasa. – Dio, come son brutto… No no… perbacco! Troppo brutto… E come faccio?

             Il giovine cercò di confortarmi, che a poco a poco ci avrei fatto l’occhio.

             – Impossibile! No!

             Ma, poiché non c’era più rimedio, richiusi gli occhi e non volli più saperne di me; mi abbandonai al destino.

             – Ecco fatto! – annunziò quegli alla fine.

             Il primo sacrifizio era dunque compiuto. Provai a sbirciarmi nello specchio: ci vidi un povero imbecille addogliato, che non volli riconoscere.

             – Veniamo ai capelli, – riprese il barbiere. – Come li vuole?

             – Finitemi come che sia, – risposi. – Non me n’importa più nulla.

             – Li facciamo «alla Guglielmo», come usano adesso?

             – Fateli «alla Guglielmo», ma presto.

             Quando la prima ciocca recisa mi cadde su l’accappatojo, volli guardarla e dirle addio, senza levar gli occhi allo specchio. Poveri capelli miei! addio, gioventù! addio, poesia!

             Quel boja intanto credeva che io dormissi. Più d’una volta sospese l’eserci­zio della sua funzione per guardarsi… non so, il naso o la punta della lingua nello specchio. Lo lasciavo fare. A una pausa più lunga però mi riscossi per domandargli:

             – Ebbene?

             – Ecco, – mi rispose con aria confusa e un risolino nervoso tremante su le labbra, – ho dato… sì, ho dato… mi scusi, un… come si chiama?… un colpetto di forbice un po’ arrischiato… e, e m’accorgo che «alla Guglielmo» non pos­sono più venire… Vogliamo tagliarli a spazzola?

             – Come che sia, vi ho detto. Purché facciate presto!

             – Prestissimo, non dubiti. E una pettinatura più spiccia. Più spiccia e più seria.

             Dalli e dalli! Quella dannata forbice non si dava requie un momento, e m’in­tronava gli orecchi. A compir l’opera, si rovesciò come un’ira di Dio, su la piazzetta, una compagnia di saltimbanchi con una crudelissima tromba stonata e una grancassa fragorosa. Il giovine non seppe contenersi più. Allungava il collo di qua e di là, si rizzava su la punta dei piedi. Indovinavo con gli occhi chiusi quei movimenti di curiosità; ma, nello stato d’abbattimento in cui ero caduto, non trovavo più la forza di richiamarlo al dovere.

             A un certo punto sentii posar le forbici e, subito dopo, mi sentii rullar sul capo non so che cosa d’ispido, che mi fece saltar su la seggiola. Era uno spaz­zolone nero, girante.

             – Finito? – domandai.

             – Eh, no, signore: volevo vedere… Perché, sa? da questa parte… Lo guardai in faccia:

             – Avete forse dato qualche altro colpetto di forbice arrischiato?

             – No, signore – s’affrettò a rispondermi. – Conseguenza del primo, sa? Cre­devo di poter rimediare… Ma vedo… vedo con dispiacere che non ce la fac­ciamo più neanche a spazzola, sa!

             – E allora come? – feci io, frenando a stento la rabbia, per paura che quegli non si mettesse a ridere vedendomi la faccia che già a quell’ora aveva dovuto combinarmi.

             – Possiamo provare… ecco, sì; a punta di forbice… Tanto l’estate è ormai vi­cina… Le sarà comodo, vedrà… Vuole?

             – Voglia o non voglia, – gli risposi sbuffando, – non potete mica riattaccarmi i capelli che mi avete già portati via. Sbrigatevi piuttosto, senza stare a guar­dar fuori.

             – Ma che! Si figuri… Un momento, e avremo finito.

             Zac, zac, zazàc. Questa volta mi addormentai davvero. Quanto si protrasse ancora la mia tortura? Non saprei dirlo. Forse ore e ore: un’eternità! So che a un certo punto mi destai di soprassalto, al rumore d’un pajo di forbici scara­ventate sul pavimento, e vidi il barbiere che si buttava sul divanuccio con la faccia tra le mani.

             – Che è stato? – gli urlai. Quegli scoprì il volto lacrimoso:

             – Signore! Io non so… non mi è mai capitata una cosa simile… Ho la jettatura addosso, oggi… Mi perdoni, mi compatisca… Non so dov’abbia il capo… cioè, lo so benissimo: ho la moglie malata a casa… soprapparto…

             Io mi portai istintivamente le mani alla testa… Nuda! Scorticata!

             – E che m’avete fatto? – gridai, e mi guardai le mani.

             – Nulla! nulla! – gemette quello. – Non tema! Ma non ci resta più che da radere, signore… Mi perdoni!

             Scattai in piedi, furibondo; me gli avventai contro, sul divanuccio, con un pugno levato:

             – Miserabile! Ti sei preso giuoco di me?

             Ma, in quella, mi scoprii nell’altro specchio punteggiato dalle mosche, e re­stai pietrificato, col pugno sospeso e quell’ accappatojo bianco che mi rappre­sentava a me stesso come una fantasima d’assassinato.

             – Pietà… pietà… – gemeva quello dal divanuccio, tutto tremante.

             Mi strappai d’addosso l’accappatojo; afferrai il cappello e scappai via, im­precando. Il cappello mi sprofondò su la nuca. Mi parve un’offesa mortale. Fui per rientrare nella botteguccia, feroce dalla rabbia. Ma mi cacciai in una vettura, per non commettere un delitto, e via a casa.

             Manco a dirlo! La mia amante, guardando dalla spia, non mi volle aprire.

             – Grazie, cara! – le gridai. – Hai ragione: non son più io! Ti saluto per sempre, cara!

             E ridiscesi a precipizio la scala, esplodendo non so più quanti sternuti di fila.

Prudenza – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
Prudenza – Audio lettura 2 – Legge Valter Zanardi
Prudenza – Audio lettura 3 – Legge Giuseppe Tizza

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