Prefazione a “Novelle per un anno”, di Corrado Alvaro

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La prima volta che vidi Pirandello fu in un villino intorno alla via Nomentana (non quello dove terminò la sua vita e che aveva già prima abitato passandovi anni di grande lavoro, e dove era tornato nel 1932). Pirandello tornava dai successi d’America e aveva comperato un grande tappeto di Smirne.

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Novelle per un anno - Prefazione
Corrado Alvaro

Corrado Alvaro
Prefazione a “Novelle per un anno”

Da «I classici contemporanei italiani», vol.1 e 2 delle «Opere di Luigi Pirandello», Mondadori, 1957.

Biografia di Corrado Alvaro

Che la salute di Pirandello andasse declinando, cominciammo ad accorgercene noi suoi amici quando egli ci lesse, come era consuetudine della sua generazione, una delle ultime sue commedie, Non si sa come. Gli ballava il foglio davanti agli occhi, e la sua direzione di attore esperto non era più quella; ma confusa e senza la virtù che gli conoscevamo.La rappresentazione di quella commedia, davanti a un pubblico non convinto ma reverente, ricordo mi diede un malessere. Gli spettatori credettero di doversi scuotere al pezzo che descrive una lucertola, che è un bel pezzo di prosa e di bravura, e profittarono per fargli un grande applauso. Ero in un palco di proscenio e ricordo le prime file delle poltrone col pubblico attento ma come a una cerimonia.
Credo sia triste per uno scrittore quando termina l’età della lotta, e il pubblico lo festeggia là dove un tempo avrebbe dato torto. Non so se Pirandello lo avvertisse. Ma in quei giorni era inquieto. Pensava di trasferirsi a Milano. Invece si ammalò. Lo vidi proprio quel giorno di novembre del 1936 che tornava dall’avere assistito in un teatro di posa alla ripresa d’un film tratto da un suo romanzo: aveva i brividi, camminava su e giù per lo studio, impaziente come tutte le volte che subiva un contrattempo. Gli stavano preparando il letto. In quel letto pochi giorni dopo moriva.

     Non ero andato neppure a trovarlo durante la sua malattia, che fu breve, perché mi dicevano che scherzava, si burlava del medico, si burlava delle medicine. Una mattina, quella mattina, m’ero levato presto e sentimmo con mia moglie uno schianto in casa, come un mobile che si spacca pel caldo; cercammo dappertutto, non si era rotto niente, non era caduto niente. Qualche minuto dopo, una voce piangente al telefono ci diceva che Pirandello era morto qualche momento prima. Fummo sicuri che quello schianto era stato un suo avviso, come se avesse picchiato forte chissà a quale porta. Chi telefonava era la sua nuora Olinda, con la voce del pianto che non si conosce mai nelle persone; ci diceva di telefonare a un prete nostro amico e letterato perché corresse, e che corressimo anche noi.

     Non avevo l’idea di che cosa fosse la morte di un grande uomo. Ma devo dire che è una cosa crudele, è forse l’ultima crudeltà che tocca subire alla grandezza. Forse è crudele come la morte del ricco, ma di più, assai di più. Perché se il grande uomo lascia i viventi, non lo lasciano le sue opere, una parte di lui rimane su questa terra, anzi rimane la parte migliore, quella che si voleva da lui, che è più importante in lui, quella per cui la più misteriosa delle combinazioni ha presieduto alla sua nascita. Noi entrammo in quel suo studio, ed era pieno di gente, ma di gente agitata, in piedi, convulsa, curiosa, che fumava, si chiamava, parlava ad alta voce, come se il padrone di casa l’avesse invitata a un ricevimento e tardasse a entrare. C’era lo scaffale dove egli non s’era mai curato di mettere ordine e di raccogliere le sue opere, con venti copie di una, nessuna copia di dieci altre. I suoi libri non morivano. Erano là coi loro titoli. Era difficile tenere a mente che egli non era più, quando la costola del libro ripeteva immutabilmente dieci volte, venti volte « Pensaci, Giacomino », « Così è se vi pare ». C’era una costernazione in molti, ma come se egli fosse fuggito. Tutti fumavano febbrilmente. Era veramente assurdo. Entrai nella camera dove egli giaceva. Era come abbandonata, c’era quel silenzio sterminato sul lenzuolo che lo copriva delineando quel corpo di « povero cristo » (mi venne a mente questa frase che era tanto solita in lui), poi ci si accorgeva che da una parte due suore pregavano in ginocchio, e il prete che avevamo avvertito lo assolveva. E di là, nello studio, quel chiacchiericcio da ricevimento, come aspettando che egli apparisse. Mi stampai nella mente quel suo viso sotto il lenzuolo che non riusciva a cancellare la sua fronte e il mento aguzzo per la barba, e tutto il profilo del suo corpo che tante volte mi aveva suggerito l’immagine di quell’anfora greca che egli amava, che aveva sempre davanti agli occhi quando tornava a Roma, in cui oggi riposano le sue ceneri al museo di Agrigento.

     Tornato di là, fra la gente sempre più fitta e curiosa, il figlio Stefano mi mostrò mezzo foglio di una carta da lettere che conteneva le ultime volontà di lui. La scrittura, per chi la conosceva, era di qualche anno prima, la carta appassita e risecchita. Conteneva quelle volontà senza consolazione, senza rapporti, senza rimedio, di andarsene sul carro dei poveri, di non essere accompagnato da nessuno, di essere disperso al vento con le sue ceneri, o di riposare in quella sua casetta del Caso, o del Caos come egli diceva, presso Agrigento. Se ne andava solo come era sempre stato. Arrivò il rappresentante del Governo e lesse sbalordito quel mezzo foglio in cui la scrittura era sicura come forse era stata sicura soltanto nei suoi manoscritti giovanili, sicura, perentoria, compiuta. Che ne fosse sconcertato il sacerdote, si capiva. Costui si dibatteva nella sua perplessità: solo Dio poteva avere misericordia dell’uomo che disponeva di essere bruciato e disperso; il povero prete non sapeva, non chiudeva nessuna porta, ma non poteva aprirne nessuna. Ne era afflitto, si chiedeva perché, come se colui potesse rispondere, e anche noi eravamo sbigottiti, quelli che lo amavamo, quasi gli avessimo tutti fatto del male per il solo fatto d’essere uomini. Sapevamo che egli si poteva offendere facilmente, ma sapevamo pure come egli sapesse perdonare con un bacio su tutte e due le guance, che non era soltanto un suo modo siciliano, ma qualcosa di umile.

     Ma quello che era fuori di sé e per tutt’altre ragioni, era il rappresentante del Governo. Lesse e rilesse quel foglio, se lo copiò, e si domandava come avrebbe fatto a presentarlo al Duce. Un grande uomo, un uomo celebre che va via in quel modo, chiudendosi la porta alle spalle, senza un saluto, senza un pensiero, senza un omaggio sovratutto, chiedendo di essere coperto appena di un lenzuolo ma da nessuna uniforme, da nessuna camicia nera come era di rito, andare via come un povero, senza commemorazioni, senza feste. Il rappresentante del Governo era un bravo tipo e umano, ma doveva risponderne al suo capo, e il capo non poteva raggiungere un uomo nella morte; almeno la morte era cosa tutta privata; la sola, allora. Disse: « Se n’è andato sbattendo la porta ». Di fronte alla perplessità di quel funzionario, c’era da misurare una condizione umana, e veniva fatto di invidiare colui che era dileguato a quel modo con la sua morte, rifiutando quegli onori per cui gli artisti vanitosi si compiacciono di contemplarsi perfino nella morte, e senza paura delle vendette che si potevano fare sulla sua memoria. E fu istruttivo, in quelle ventiquattr’ore, sapere che sul tavolo del più potente tra i cittadini si battevano indignati i pugni, che ufficialmente era negato allo scomparso un discorso maggiore di quello consentito a un fatto di cronaca, che uno, autore di un racconto col titolo C’è qualcuno che ride, annunciava il nulla a tutta la gloria e a tutta la potenza, ed era lui che rideva. Pirandello, nel punto supremo del suo destino terreno, affermava di essere libero e solo. Affermò di essere libero soltanto nella morte. Fu un fatto che tutti sentirono, anche se non se ne spiegarono il valore di riparazione di ogni possibile errore o debolezza.

     Il giorno seguente, la nebbia infradiciava gli ultimi fiori secchi di quel giardinetto dietro a quel cancello di via Antonio Bosio. Un povero cavallo attaccato al carro dei poveri era fermo sulla strada bagnata, tutto puntato in avanti per non scivolare. Veniva fatto di scorgere ogni cosa come il caro maestro l’avrebbe veduta. La bara di abete tinto da poco con una mano di terra bruna, fu collocata sul carro, e i pochi amici rimasero fermi davanti al cancello a vederla partire verso gli alberi brumosi in fondo al viale. Uno accanto a me si mise a lacrimare confusamente come un bambino. Aveva i capelli grigi. Il carro scomparve all’angolo, colla sua rozza che tirava di traverso. Tornammo per la città coi suoi rumori attutiti dalla nebbia e pareva di udirla in uno stato di stordimento. Nell’autobus, un individuo sedette davanti a noi. Non si accorgeva di avere sulla spalla destra una striscia di terra bruna, da cui lo riconoscemmo per uno dei portatori. Lo guardammo scendere, perdersi tra la folla di un quartiere popolare dopo il primo guadagno della giornata.

     Il 28 dicembre del 1937, gli eredi di Luigi Pirandello firmarono l’atto di donazione al demanio dei mobili e dei libri appartenuti a Pirandello e rimasti nell’appartamento che egli occupò a Roma negli ultimi anni della sua vita, in via Antonio Bosio, nella stessa casa dove egli un tempo aveva abitato, dove tornò ad abitare e dove trapassò. La casa, cioè i muri, che Pirandello aveva in affitto, era già stata acquistata dallo Stato, e accanto a quello studio con camera, bagno, ingresso e terrazza, è aperto un ufficio di Pesi e Misure. L’abitazione di Pirandello è all’ultimo piano, la porta a destra. Io da allora non ci sono più stato, ci potrei tornare. Dovrei rivolgermi al custode. Sul pianerottolo della scala esterna, forse è rimasto sulla pianta spoglia, e non più che un grumo umidiccio, qualche fiore della pianta di gaggìa, con un lontano profumo arso di giovane chioma e d’estate. Ritrovavo questa pianta andando da Pirandello, e mi riparlava del sud, per quanto fosse una pianta tenue al confronto dei grandi alberi di gaggìa di laggiù.

All’ultimo piano, la porta a destra si apriva facilmente; c’era la chiave nella toppa. A volte usciva ad aprire, da una stanzetta accanto, il cameriere di Pirandello, che era anche il suo autista, e che aveva finito col comperarsi anche lui una macchina da scrivere e a comporre drammi. Difatti egli veniva fuori con l’aria astratta e lesa di chi ha lasciato una pietanza sul fuoco o una pagina sul tavolino. Era stato prima a servire da un cardinale e ne aveva preso il fare pacato di chi ha tempo a tutto. Guidava l’auto alla velocità d’una diligenza. Me lo ricordo una volta che tornavamo da Ostia. Non c’era macchina che non ci passasse avanti. Pirandello cominciò a spazientirsi. Quello accelerava, ma di poco. Pirandello andò su tutte le furie. Quello attaccò i cento chilometri, e Pirandello si chetò come ci si cheta tesi al filo della velocità. Pirandello aveva negli ultimi anni una cicatrice sul naso, presso la narice. Fu per un incidente d’auto. Viaggiava con una signora. L’auto andò a cozzare contro un altro che frenava bruscamente. Mentre il vetro del parabrezza andava in frantumi, Pirandello fece scudo al viso della signora col suo viso, e prese su di sé quel segno.

     Preferisco non tornare in quello studio e affidarmi alla memoria. So che hanno applicato un cartellino col numero a ogni mobile e oggetto; al cannello della penna, al calamaio, alla sedia, ai libri, a tutto. Come avranno fatto con quel cassetto dove c’era un mucchio di foglietti di appunti alla rinfusa, come in un sacco, e il manoscritto diligente dell’Enrico IV? C’è la sua vecchia valigia di cuoio, con una chiusura a sacco, presso il tavolino; una macchina da scrivere nuova che gli regalarono in America, mai usata, su uno scaffale. Sulla parete di fronte alla porta, un dipinto del figlio Fausto, una Crocifissione (Pirandello non era religioso, ma l’immagine della Passione era la sua immagine familiare, e quando parlava di un uomo o di un personaggio sofferente lo chiamava « povero cristo »), sotto, sullo scaffale, c’erano alcuni ritratti di amici; nel mezzo della stanza, lunga una diecina di metri, c’era il vaso greco figurato, su una colonnina, unico ricordo della sua Sicilia. Al soffitto, nel mezzo, un vecchio lampadario di Murano, grande e magnifico. Il tavolino nell’angolo a destra, era quello cui egli s’era sempre seduto dall’età delle prime ambizioni letterarie, della fattura classicheggiante di quel tempo; un tavolino di falso Cinquecento, come gli scaffali, come la sedia, come le due o tre scranne di quello stile che chiamano Savonarola, e queste portavano incisa l’immagine del domenicano nello schienale. Questa era la preistoria di Pirandello, la sua figura giovanile: c’era dentro il classicismo carducciano, di cui egli aveva subìto l’influenza; ma non la ventata rinascimentale dannunziana. Egli diceva di non aver mai letto d’Annunzio. Egli si ridusse, presso codesti mobili sopravvissuti, a un tavolino basso con una piccola macchina da scrivere e uno sgabello imbottito. Grigio, diligente, scriveva con un dito sulla macchina come se stesse sempre imparando, e stranamente la sua fatica pareva uno scherzo. Lasciava infilato nella macchina il foglio cominciato, senza ombra di difesa o di segreto. Ve lo poteva anche leggere, perché era di quelli che leggono le proprie cose e poi stava a sentire i vostri commenti come se gli leggeste la mano o le carte. Della facoltà critica, che prese tanto sviluppo nella generazione seguente alla sua, e che finì col farsi un linguaggio astruso, gli mancava ogni elemento. C’era forse una certa timidezza, in lui, di fronte a questo raziocinare della nuova generazione, ma pure una segreta convinta superiorità, se è vero che egli non lasciò inedita una sola pagina, che di suo raccolse ogni cosa, rimandando a un’opera tra le più intricate, in cui, a conti fatti, non s’è trovato un critico che si sia cacciato in esplorazione.

     Nel mezzo dello studio c’era un divano con le spalle a una grande vetrata che dava, a destra, in un giardino. Il giardino era uno scenario vicino di lauri e di cipressi. Ma oltre a questo verde perenne e grave, che appena imbiondiva al sole di primavera, ci doveva essere qualche grande albero che perdeva le foglie, un platano o una magnolia; ricordo bene a certe stagioni quel fruscio, come uno scartabellare, che fanno gli uccelli tra le foglie cadute, e poi i merli apparire con quel giallo del becco, come un chicco di granturco che non riescano a inghiottire. È strano che questo fruscio faccia parte dei miei ricordi su quello studio, e questo sfogliare sia trasferito in un parco anziché fra le carte del letterato. Ma forse questo è dovuto al fatto che la carta fra quelle quattro mura in cui dominava il turchino del tappeto grande e soffice, non aveva l’importanza che ha solitamente là dove è il suo regno. I mezzi fogli e i quarti di foglio a quadretti su cui Pirandello scriveva, non avevano nulla da fare con l’epoca della carta filigranata e di straccio che, come tanti altri modi del tempo, è finita nell’uso comune, fra gli attributi della distinzione. Fra gli elementi di suggestione che accompagnano il cammino dello scrittore nel viaggio intorno alla propria camera e al proprio tavolino, si trova la carta, la sua consistenza, quel suo ingiallire e risecchirsi, prendere un colore umano e di vita, una grana di epidermide col trapasso degli anni. Il senso di officina, o di fucina, come dicevano gli scrittori artieri, nello studio di Pirandello non c’era. Non c’era l’ebrezza del buon inchiostro odoroso, e della scrittura che rende prezioso il foglio di carta, come dice quel sonetto di Michelangelo, e che è come un disegno uscito dalle mani dello scrittore. So che questo sentimento può accompagnare la fatica di chi scrive, renderne dilettosa la strada, dare, come le linee d’un sismografo, l’oscillazione di un umore, imporre di per sé una disciplina. A nessuno sfuggirà, in una pagina del Petrarca, per citare il prototipo d’una pagina composta anche nella sua esteriorità, o in una di Leopardi, per ricordarne una in cui si trova una diligenza di allievo, l’incanto d’un’opera manuale, la bellezza da disegno, da ricamo, opera dell’industria umana. Ma è raro che degli scrittori noi vediamo la pagina sudata; bensì l’ultimo foglio, quello in cui essi ci si presentano col sorriso con cui in ogni arte si nasconde la fatica, quello che chiamerei il sorriso della ballerina, in cui le sole labbra ridono, mentre gli occhi attoniti nascondono l’affanno. La noncuranza di Pirandello verso tali forme, fu piuttosto delle sue ultime pagine. Certi quadernetti giovanili, le copie manoscritte di certe sue opere, avevano una loro estetica e diligenza da allievo. Pirandello, nel forte del suo lavoro, aveva cercato le scorciatoie proprie di quando il pensiero è troppo rapido, grande la fatica, quando la testimonianza dei tentennamenti della penna e della stessa macchina da scrivere sgomentano, e si vorrebbe perdere il senso del mezzo di cui ci si serve, mentre tutto fa grumo, e l’inchiostro, e la carta, il pensiero, la espressione. In un certo tempo, Massimo Bontempelli escogitava qualche mezzo per rendere meno grave questa fatica dell’uomo piegato in tre su una sedia, davanti al vuoto del foglio bianco, nel lavoro che è l’unico innaturale, anzi antinaturale, di chi scrive. Scrivere stando accovacciati, mezzo sdraiati, bocconi, a letto, in una cuccia, in una poltrona con una tavoletta sulle ginocchia: tutti mezzi per illudere la fatica. Vi si provò anche Pirandello, e si fece anch’egli un’asse come quelle dei disegnatori, escogitata da Bontempelli, per scrivere stando in poltrona. Ma Pirandello era arrivato a vivere così strettamente con quello che aveva da dire, che non aveva più bisogno di un raccoglimento esteriore. Lo disse a sazietà, che la vita si vive o si scrive.

     Il suo appartamento, come egli se lo mobiliò negli ultimi anni, diceva qualche cosa della sua vita esteriore, nulla di quella intima. Gli oggetti da cui era attorniato non fornivano nessun indizio intorno alla sua personalità; non c’era in lui affezione verso nessuna forma, se non verso quel vaso greco. Se mai, la sua stanza poteva ricordare qualche sala d’albergo, come ne aveva vedute e abitate negli ultimi vent’anni suoi; i vecchi mobili della sua pazienza giovanile erano là dentro come in una custodia; i libri, saccheggiati da chiunque, alla rinfusa: ci si poteva trovare una storia di Venezia in più tomi, e non si capiva che ci stesse a fare, e un minuscolo Boccaccio. Non possedeva neppure tutte le sue opere. Era inutile cercarvi i segni di un’abitudine o di una preferenza. Tutto vi era casuale, e tutto gli era estraneo. Quando volle abbellire la sua cameretta là accanto, vi fece ancora una stanzetta d’albergo: un letto di ottone, e certo lampasse turchino alle pareti. Non lo sentii mai parlare di mobili, di oggetti di decorazione, ma molto di uomini, dal fondo di tutte le città che aveva vedute, e come seguitando ad aver da fare con essi, contrastarvi, accordarsi, inveire. Il giudizio che dava sugli uomini glielo dettava il momento, la circostanza, l’umore; e non era mai definitivo. A un giorno di distanza diceva l’opposto, ed erano a volte giudizi fantastici, immaginazioni.
Lasciava parlare e ascoltava. Di solito era scontento e inquieto. Dava un senso di solitudine; nessuno gli poteva far compagnia veramente, ma piuttosto distrarlo, incuriosirlo. Ricordo una sera, c’era la luna, e una spalliera di rose a Porta Pinciana faceva l’ombra di un balcone amoroso. Noi giovani, ognuno con la sua donna accanto, si scherzava, si faceva il chiasso, era così bello che pareva già di ricordarsene. Pirandello camminava solo in disparte, col suo passo dai malleoli ravvicinati, il cappello largo, le mani in tasca: aveva lo stesso profilo del suo vaso greco; mormorava qualcosa, solo. Sono passati anni. L’aria era dolce, c’era un odore di rose greve come un sonno nella notte. Un altro tratto di lui era l’attesa come era capace di aspettare ansiosamente un amico, un libro, una visita. La chiave dello studio era nella toppa. Bastava girarla, e si entrava. Solo, quasi sempre, lo si ritrovava dopo avere cercato nella stanza grigia e azzurra; veniva avanti grigio, d’argento, senza età.

     Era nella stagione grigia dell’artista, quella stessa in cui i grandi uomini si ritrovano con un pugno di cenere, quando, vivi, sono già sospinti nella storia; che è il momento più difficile da sopportare: la vita spinge, il mondo ricomincia volubile e ciarliero, con la crudeltà naturale dei nuovi princìpi. Su un tale uomo già compiuto non ha più vigore la vecchia misura, e quella nuova spetta alla storia. È il momento in cui egli si volge a guardare i nuovi che avanzano a bandiere spiegate come un giovane esercito, e mai il mondo fu più bello e il destino più sicuro. E il tempo in cui talvolta l’uomo al tramonto si china a raccattare lo strumento dalle mani incerte dei giovani e traccia la sua ultima opera col colore dei rimpianti e con la illusoria fioritura dell’autunno. Ed è il tempo in cui all’uomo non è dato più sentire un giudizio certo di lui. Troppo se ne parlò. Il gioco è fatto. Quello che è scritto è scritto. Mi parve di avvertire un simile momento in Pirandello. Ma non gli sentii mai dire una parola.

« Quello che è scritto è scritto ». Pirandello ricordava questa frase da Giovanni Verga. Quando Verga fu nominato senatore, Pirandello andò a Catania per festeggiarlo. Tenne un discorso in suo onore. Verga lo ascoltò, e alla fine gli disse: « Caro Pirandello, avete detto bellissime cose e ve ne ringrazio. Ma ormai, che c’è più da fare? Quello che è scritto è scritto ». Ciò che sentì e pensò Verga in oltre trent’anni di distacco dalla letteratura non ha che rare testimonianze. Si sa che egli non parlò mai più d’arte come se artista non fosse stato mai. Ma le parole che disse a Pirandello significano qualche cosa. Tristezza delle cose compiute, orgoglio, distacco, quasi egli avesse agito, nel momento della sua ispirazione, come uno strumento di qualcuno più alto. Come molti veri scrittori, Verga scrisse cose bruttissime accanto alle sue immortali. Non era un artista; era un poeta. Non aveva una tecnica o un mestiere. Era uno di quei grandi infelici condannati a ciò che hanno da dire; tutto l’opposto del letterato. Pervenne alla lingua come un primitivo, rinnovò la nascita d’un linguaggio mentre il linguaggio letterario era già maturo, più che maturo. Ma non è soltanto il fatto della lingua. L’Italia era un piccolo paese, ma la sua tradizione rimaneva sempre quella d’un mondo. Era il paradosso della vita italiana. La società dei letterati parlava dall’altezza di quel mondo, viveva negli astri della sua tradizione. E sotto, un paese diverso nasceva. Il cafone, il pescatore, la nuova società che saliva dal Risorgimento erano i vigorosi superstiti di una immane rovina. Non erano catalogabili con gli schemi letterari in uso. L’Italia che ancora cento anni prima fu ricca come la più ricca nazione, si ritrovava povera nel secolo del ferro e del carbone. Su questa nuova vita italiana, la letteratura puntellava ancora il dominio d’un linguaggio e d’un modo tristi e grandiosi come tutte le grandi rovine. Manzoni aveva parlato dei poveri; ma veduti da cattolico, dal paradiso. Verga, pur provenendo dal naturalismo, non cadde nel fatto sociale. Si limitò a recare la testimonianza della energia del popolo italiano. La società, già dominata dal melodramma, si trovò in piena epica borghese, cantore d’Annunzio. Anche questa era volontà di vita che si manifestava subito con una avidità di godimento. L’aspirazione di quel tempo era dimenticare le origini, entrare nel mondo degli eletti, dove i bisogni sono squisiti. Nell’opera sua più debole, quella che non sembra neppur sua, anche Verga cedette a tali aspirazioni. Ma a un certo punto riportò quella pur feconda inquietudine alle sue origini, alla prima lotta con gli elementi e con gli uomini. Gli elementi più benigni, più maligni gli uomini. Nessuno si riconobbe in quella storia sommessa. Per un’ironia frequente nel destino degli scrittori, dai panni popolani della Lupa nacque la Figlia di Iorio e la sua discendenza di donne che ci fanno sentire ancora i loro furori nella letteratura. Pirandello scrisse la seconda parte dell’opera cui aspirava Verga, il dramma della piccola borghesia venuta fuori dal Risorgimento.

     Una volta, entrai nello studio di Pirandello e mi dissero che c’era una lettera di d’Annunzio. Fu qualche giorno dopo che Pirandello aveva curato la regìa della Figlia di Iorio al Teatro Argentina. Pirandello sedeva sulla sua solita poltrona, davanti a un tavolinetto ingombro di carte e di oggetti; lettere, opuscoli, una medaglia coniata per lui dagli italiani in qualche nazione d’America, e la scatola vuota della medaglia del Premio Nobel; tutto nel solito disordine. Sì, era disordinato fra le sue carte e i suoi libri, quanto era ordinato nei pensieri e nei ricordi, e in genere in tutto ciò che apparteneva al suo regno fantastico. Si faceva l’abitudine a vedere i suoi libri negli scaffali, messi senza un criterio, e in quel disordine vedere tutto conservato, tutto: un libro di poesie arrivato di fresco da qualche provincia teneva compagnia a Petrarca, e un opuscolo di propaganda stava accanto a un filosofo; mentre altri libri, del tutto insignificanti, occupavano un posto bene in vista profittando di quella confusione. Non dico di certi suoi cassetti, dove pure una volta ebbi incarico di ricercare alcune carte: c’erano fogli di almeno trent’anni di vita alla rinfusa.
Pirandello non aveva nessuna delle abitudini del letterato; aveva il disprezzo più naturale dell’ordine e della scena che ogni letterato si fa intorno anche senza volerlo e per la semplice abitudine di dovere stare fra quattro mura. Come se fosse sempre in viaggio, le cose che lo circondavano avevano lo stesso senso degli oggetti messi in una valigia. Ciò che poi contrastava con l’ordine casalingo della sua camera da letto.
Dunque, arrivando da lui quel giorno, mi dissero che c’era una lettera di d’Annunzio. La lettera era delle solite; parlava di emulazione, come d’Annunzio faceva spesso con quelli della sua generazione: « l’emulo », il « fratello maggiore e minore », – era scritta nelle dovute forme e con quella magniloquenza della scrittura che là, in quella stanza dove i libri messi a quel modo parevano burlarsi della gloria, non faceva nessuna impressione. E poi, in quella stanza non c’era il più lontano culto della scrittura, non si sarebbe trovato per calamaio altro che una boccetta d’inchiostro e una cannuccia col pennino d’acciaio, e su un tavolino basso una macchina da scrivere con la cenere e i fili di tabacco di molti lavori; sul mezzo foglio infilato, si poteva leggere, in una diligente scrittura a macchina, a che punto era arrivata la commedia o la novella che Pirandello andava scrivendo. Accanto alla lettera dannunziana posata sul tavolo, c’era una scatola d’argento con sopra una delle imprese e un motto di d’Annunzio. La scatola era piena di sigarette. Pirandello ne offrì, ne accese una e la buttò digustato. Erano sigarette profumate di una forte essenza di rose. « Sempre il solito » disse riferendosi a d’Annunzio. Messaggio e dono erano arrivati pel tramite d’una persona, perché d’Annunzio pare ignorasse l’istituzione della posta. La ignorava pure Pirandello, ma perché scriveva raramente lettere, e quasi soltanto per cose urgenti, e ai suoi familiari e alla donna che amava.
Si parlò di d’Annunzio. Pirandello lo aveva conosciuto nella sua giovinezza a Roma, e più visto che conosciuto: lo ricordava con la sua ricercata eleganza dei tempi romani, quella che alcune fotografie ricordano, con due dita di polsini inamidati fuori delle maniche, il colletto alto, il tubino, e giacche di taglio molto ardito. Era il tempo in cui Pirandello vestiva come un letterato di provincia, e con un gran cappello dall’orlo zaganato.
Alla fine dei suoi giorni, Pirandello si ritrovava scrittore nuovo. Per non notare altro, mi basterà accennare al tema predominante del suo ultimo libro Una giornata: le ricerche dell’essenziale, quasi che, dopo tanto lavoro, non fosse riuscito ad aprire quella ben serrata conchiglia che è la vita. Era in definitiva, la ricerca d’un tema molto grande, il tema della purezza. Le pagine che portano il titolo di Effetti d’un sogno interrotto, furono le ultime pagine di lui. Come non molti scrittori, ma come i più profondi, egli si aggirava intorno a un tema, che ha travagliato la mente di tutta la più inquietante letteratura; al tema della colpa che è alle origini della vita e della morale: quali sono i moventi dei nostri atti; che cos’è la purezza; che cosa è l’amore; che cosa è la donna; quale è il potere demoniaco dell’uomo.
Colpiva spesso, in Pirandello, il suo giudizio generale sull’altra metà; che era francamente pessimistico. Una delle sue ultime letture fu Boccaccio, che in queste cose vide fino alla feccia. Ma raramente ho veduto tante delicate attenzioni verso la donna come in Pirandello, tanto piacere di starvi insieme, di ascoltarla parlare. Non so come accadesse in casa sua, che nelle riunioni le donne finivano sempre a stare in gruppi separati dagli uomini. Ricordo Ugo Ojetti una sera, confinato su un divano tra uomini, che di lontano cercava di raccontare qualcosa di garbato al divano opposto delle donne. Da un pezzo non leggevo frasi come « eletta signora », « eletta amica » nelle dediche dei libri di un autore. Le vidi uscire dalla penna di Pirandello. C’era in lui un vecchio senso cavalleresco, un’antica concezione della donna, insieme con questo pessimismo fondamentale. E naturalmente l’uomo rappresentava il diavolo, il corruttore. Una volta lo vidi tornare da un colloquio con Mussolini, rabbuffato. Disse: « È un uomo volgare », e raccontò che colui gli aveva rimproverato il suo ritegno, e gli aveva detto testualmente: « Quando si ama una donna non si fanno tante storie, la si butta su un divano ». Pirandello aveva la stima antica verso la madre, la sposa, la sorella, la figlia, e cioè verso la donna nella funzione che sola gli antichi drammatizzarono e poetizzarono, e un profondo scetticismo verso la donna amante quale poi la letteratura moderna cercò di portare sul medesimo altare e al medesimo culto della maternità, filialità, sororità. In lui, il dramma vero della donna era quello che ad essa attribuivano gli antichi.

     Negli ultimi suoi anni, Pirandello aveva portato questa indagine sulla fedeltà e sulla purezza in un mondo più poetico che non nelle sue opere precedenti. Ho ricordato Effetti d’un sogno interrotto. Il tradimento inconscio, involontario e non deliberato, era il punto di tale indagine; e forse neppure il tradimento, ma lo stesso offuscamento che sulla donna portano i pensieri dell’uomo, i desideri proibiti e insani. Questo fu il tema d’un suo dramma non ugualmente felice. Era il lato classico di Pirandello. Lo aveva mostrato crudelmente in quella commedia che si chiama L’uomo, la bestia e la virtù. Ed era per lui un motivo sempre nuovo, era il suo stupore, una meraviglia da adolescente, se adolescenza vuol dire scoperta stupita e sbigottita degli elementi impuri in una vita che la fantasia ha concepito come totale e ideale. Era il lato giovanile di Pirandello. Era la sua netta contrapposizione con tanta letteratura di prima e di dopo di lui, che al confronto può sembrare roba di ragazzi viziosi. La sua preoccupazione della purezza era una preoccupazione di coscienza sgombra dal male.
Siccome Pirandello fu un uomo innamorato fino al penultimo anno della sua vita, io lo vidi più di una volta, a Berlino e a Roma, in compagnia della donna che egli aveva collocato in cima ai suoi pensieri. Cercando in quel famoso cassetto della sua scrivania, mi venne per le mani un foglio ingiallito in cui confessava la fine della giovinezzza, un corpo travagliato dagli anni, e perciò la fine dell’amore. Segnava il punto giusto: la fine della stagione dei piaceri proprio nel tempo in cui l’uomo non può dare più gioia di quanta ne riceva. Non considerava l’amore come una frode su un corpo inerme; ma in quel modo virile che è donare. Perciò, forse, si prese negli ultimi anni la parte di chi dà quello che è sicuro sia un dono: l’amicizia, una calda ammirazione e affezione, una protezione e una esperienza.
Ricordo di lui, accanto a certe grandi generosità di cui era capace, la puerile avarizia dei fiammiferi o d’un’acqua preferita che egli beveva a tavola e che non concedeva a nessuno. Una volta che la sua amata era a pranzo, egli versò di quell’acqua invitandola a bere perché era una « acqua che faceva bene ». E questo era tutto lui. Entrando un’altra volta nel suo studio, trovai quella tale donna sdraiata su un divano, e s’era levate le scarpine mostrando i piedi nudi. Era stanca. Eravamo di primavera. Mi parve di capire che Pirandello ne fosse imbarazzato. Davanti a quella stanchezza primaverile, egli si comportava come con una bimba, e col piccolo animale che egli aveva sempre veduto spuntare primordiale e crudele nella donna.

     La prima volta che vidi Pirandello fu in un villino intorno alla via Nomentana (non quello dove terminò la sua vita e che aveva già prima abitato passandovi anni di grande lavoro, e dove era tornato nel 1932). Pirandello tornava dai successi d’America e aveva comperato un grande tappeto di Smirne. Questo tappeto, turchino e rosso, fu uno dei pochi lussi che io gli vidi. Per quanto egli fosse stato ricco e allora fosse agiato, questo tappeto rappresentava il suo nuovo incontro con la fortuna. Questo tappeto ci stava per caso, e non significava niente di decorativo e di estetizzante; c’era per la necessità di avere qualcosa di caldo e di soffice sotto i piedi. Io me lo ricordo come l’annunzio di un’epoca grande ben vissuta e ben lavorata; per questo ha tanta importanza nel mio ricordo. E Pirandello stava seduto tra i suoi amici, contento, come era contento lui quando gli era riuscito bene un lavoro. Nello stesso atteggiamento lo ricordo quando tornò dal Premio Nobel. Era come se fosse cominciata una buona stagione.
Tra i mobili, il suo tavolo da lavoro, che fu quello di sempre, era troppo alto, la sedia bassissima; e per quanto egli fosse di bella statura, non immaginavo come ci potesse stare a lavorare. Poi lo vidi qualche volta: stava come un ragazzo davanti a un banco troppo alto, il piano del tavolo gli arrivava alle ascelle; doveva star su con le spalle. Forse questo atteggiarsi nel lavoro lungo diede al suo portamento quell’impressione di raccolto in su, una impressione di albero. Lavorava con la sua calligrafia onesta, precisa, ottocentesca, di cui amava certe maiuscole molto belle ed ariose come la P del suo cognome. Insomma, a cercare negli oggetti intorno a lui e in lui stesso un solo indizio delle audacie di cui era capace in arte, ora tempo perduto, o almeno tempo per fantasticargli vicino.
Ma il suo vero lusso era il vaso greco trovato in un campo di Agrigento, quello dove sono ora raccolte le sue ceneri, e che dopo essere rimasto intatto centinaia d’anni nel sodo della terra, si sciupava ora all’azione dell’aria. Egli ne parlava spesso, gli dispiaceva di vederlo deperire. Ne parlava come del suo paese, il solo di cui gli abbia sentito rammentare luoghi, aspetti, ore, e sì che aveva viaggiato parecchio mondo. Il suo patriottismo era proprio da greco, o direi da meridionale. Quella balza, quel colle, quei templi, quella campagna, quel mare. Dei greci non aveva il senso della natura altro che per questo, e il mondo lo vide da pellegrino. Me lo ricordo così anche a Berlino. Gli uomini lo interessavano. Già del suo paese ricordava precisamente i colori, i caratteri, le avventure. E allo stesso modo ricordava gli uomini d’ogni altra parte del mondo. Mi pareva alle volte di capire il suo segreto nel capirli, che è poi il segreto dell’arte sua. Da buon pellegrino, tutto il mondo per lui era paese, e dunque non si affidava a nessun sentimento di stupore, o a nessun pregiudizio di razze: egli scorgeva le passioni dominanti, invariabilmente le stesse, quelle poche e forti proprie dell’uomo. Dei suoi viaggi non gli sentii nessun ricordo di paese, molti sugli uomini. E di costoro non ebbi mai l’impressione che parlassero un’altra lingua. Egli riduceva tutti al medesimo linguaggio, che era la misura morale.

     Arrivava perciò all’arte da una strada tutta sua e da reazioni umane, di carattere, di moralità, come un antico. Era tutto e niente altro che uomo. Mai uomo di lettere. Non cercava eccitanti nei libri, e difatti non cercava libri nuovi se non quelli che gli arrivavano. Questi leggeva quasi tutti cercando la rivelazione di un artista. Ultimamente era tornato ai grandi scrittori, stava con Boccaccio e Shakespeare. Un giorno, a proposito d’una novella di Boccaccio, la VII dell’Ottava Giornata, a sentirgliela rammentare mi parve cosa nuova: il nucleo drammatico, il carattere, il conflitto, venivano fuori come in una vicenda senza tempo. Allo studente che si vendica della vedova crudele, aggiungeva parole moti e svolgimenti suoi, prendendo piacere a mettersi nell’animo dell’uno o dall’altra. Tutti i personaggi riusciti diventavano per lui altri personaggi, uno si trasformava in tutti a formare la vita folta e avventurosa. Leggeva attentamente, rigorosamente, come se alla fine volesse rendersi conto del segreto dell’arte. Credo che l’arte gli apparisse ormai come troppo poco, un mezzo niente altro che umano. Di questo ebbi timore di chiedergli.
Ma l’arte era il solo mezzo per entrare in rapporto con lui. Non so come facesse a conoscere quello cui gli altri scrittori stavano lavorando, ma di quanti stimava sapeva; e aspettava sul serio, come si aspetta un miracolo, o un gran giorno. Per essere accolti da lui come egli sapeva accogliere, con uno sguardo scrutatore e benevolo, come se ne dà agli adolescenti, bastava per raccomandazione una pagina buona. Mi ripeté più volte di ricordarsi d’un libretto di poesie con cui un nostro scrittore aveva cominciato. Se lo ricordava posato su un tavolo quel libretto, e faceva il gesto di chi ammonticchi qualcosa davanti a sé. In questo gesto l’arte diventava qualcosa di solido, e quel principio luminoso. Anche i suoi occhi erano luminosi, e interamente confidenti quando parlava o sentiva parlare d’arte. Preferiva ascoltare. Per ogni altro discorso, di cose umane e personali, un baleno dei suoi occhi chiari e acuti sembrava dirvi che egli conosceva tutto e che niente valeva la pena, se non fosse cosa dello spirito. C’era un’ironia, non per voi, ma per gli eventi della vita; e più d’uno davanti a quegli occhi sentì, credo, l’inutilità di affannarsi troppo. Questo non era pessimismo. Dava il sentimento che egli conoscesse il gioco: ispirava fiducia. Senza troppe parole, si usciva dal suo studio più preparati.
E per poco che stimasse uno ne parlava dappertutto, a Milano come a Parigi o in America, al punto che, incontrando poi in viaggio qualcuno cui egli avesse detto di voi, trovavate un amico legato da un ricordo comune, e questo ricordo denso come un paesaggio, come un passato, come un galantuomo, era Pirandello. A ritrovare poi Pirandello, vi covava coi suoi occhi chiari e fermi. Una volta rovesciò il capo sulla spalliera della poltrona, socchiuse gli occhi, con un atteggiamento che gli era consueto, e disse: « Ora bisogna fare qualcosa di buono e di vero ». Diceva « bisogna » e parlava all’impersonale ma si riferiva a chi gli stava accanto, e insieme a quella grande famiglia che era per lui l’arte. La sua amicizia legava come un patto e una promessa.
Sembrava perciò che appartenesse a una grande corporazione o famiglia che ha le radici profonde e le spinge lontano nell’avvenire. Che una persona a lui vicina intraprendesse un lavoro, diventava un fatto collettivo; dava l’impressione che un occulto universo aspettasse. Ne parlava e chiedeva notizie. Io non lo feci mai, ma so di scrittori che gli leggevano le opere loro atto per atto, scena per scena, capitolo per capitolo. I suoi giudizi e i suoi suggerimenti non toccavano problemi di estetica mai; la sua critica cominciava generalmente da dentro, dal personaggio; meglio ancora, cominciava dall’autore e dal suo atteggiamento di fronte ai fatti della vita e ai problemi della finzione. Un’idea diventava una forza in movimento e bisognava portarla alle estreme conseguenze. Così un personaggio, dacché prendeva vita, aveva la sua necessità; perciò era istruttivo vedere quello che Pirandello sapeva leggere in una pagina. Una volta, a proposito d’una pagina mia che non gli piacque, mi disse soltanto: « qui manca il raccoglimento »; vi mancava, voleva dire, la dedizione dell’autore a quel brano, e quindi la sua personalità intera. Mi sentii toccato moralmente da questo suo giudizio, e sono certo che esso si rivolgesse a tutto me stesso in quel momento. Mi fece bene.

     Una volta se ne ebbe quasi a male per avergli io detto o scritto che la sua narrativa più recente, che appariva nel « Corriere della Sera », aveva risentito l’influsso del lavorìo della letteratura nuova, di cui egli trovava eccessivo il lirismo. Sono ancora convinto che egli ne aveva fatto tesoro e l’aveva arricchito della sua forza di narratore. Non so se sbaglio ma il Pirandello poeta non era mai stato così felice nei racconti come in questi ultimi brani, tra cui uno è diventato famoso, e s’intitola Una giornata. Anche per questo la sua scomparsa parve prematura. Pareva a tutti che egli avesse qualcosa da aggiungere al suo edificio di narratore.
Quando gli ebbi detto di questa sua nuova stagione di narratore, non ebbi il coraggio d’insistere e di spiegarmi. Temevo di aggiungere qualcosa di gentile parlando della sua opera a lui, e questo rapporto troppo umano era difficile stabilirlo con un personaggio simile. I rapporti con lui erano estremamente semplici: parlare, ascoltarlo raccontare, stare a tavola insieme, calpestare insieme l’erba dei prati in campagna dove egli stava sempre volentieri, ma attento, al punto che una volta, nei dintorni di Tivoli, davanti a una merenda e al vino sincero, una contadina che più in là annaffiava certi suoi fiori e parlava di portarli al figlio morto, « allu figliu me’ » diceva la poveretta, io vidi costei, negli occhi di lui, grande, drammatica, e insieme troppo fragile a sostenere il dolore del mondo. Poiché era molto difficile, stando accanto a Pirandello, e senza quasi parole come accadeva a volte, non avvertire le sue reazioni e il suo giudizio sulle cose e sugli uomini: ed ecco che ci si trovava a un dito dalla feccia del calice.
Mi pare strano ch’io non abbia ricordi di giudizi suoi, e di pensieri suoi sull’arte. Pirandello era rimasto istintivo. Aveva a volte, come nella sua opera, un certo tenebrore proprio del sud, ma molte volte egli ha cantato come la cicala greca. Era greco, o meridionale, o mediterraneo, il suo modo di atteggiare a mimi assai spesso i fatti umani, come nelle sue scene rusticane, o in quella commedia L’uomo, la bestia e la virtù, e perfino in certi suoi drammi borghesi. Greco o mediterraneo il senso del destino, e il modo tutto suo di scovare appetiti e passioni dominanti d’un personaggio.
Raccontava come un antico, e ancora oggi non so per quale operazione della fantasia egli poteva affrontare un tema che noi considereremmo inattuale, e di cui si sarebbe compiaciuto il Novellino, e renderlo vivissimo. Questo è un segreto che mi ripromettevo sempre d’imparare; era una continuità compatta, solidale, un’attenzione mai esaurita; come metter mano a una vecchissima scienza e sul punto in cui antiche e vecchie mani esercitarono un perpetuo sforzo nella medesima direzione.
Gli piaceva leggere le cose sue o di farle leggere appena scritte. Anche gli piaceva di riascoltare le sue commedie a teatro. Le beveva battuta per battuta, ridendo o aggrottandosi, come se non le avesse mai intese. Non c’era in questo neppure una punta di vanità. Così ascoltava le commedie degli altri, e perfino certe vecchie farse scadenti. Spesso, a una battuta che partiva dal palcoscenico, egli suggeriva una replica là per là, e alle volte era la stessa che si sentiva poi sulla scena. Era come se conoscesse la matematica dell’opera di teatro.
Accadeva di aver da dire anche con lui. Si sdegnava. Poi da solo se ne crucciava. Vi faceva cercare. Arrivavate nel suo studio, e vi veniva incontro con le mani aperte, i gomiti stretti, e curvandosi benignamente vi abbracciava e vi baciava sulle due guance. Perciò con lui non c’è mai stato bisogno di spiegazioni.
Non gli ho mai sentito dire nulla sul pubblico. Quando gli fischiarono delle commedie, stava come se si fosse scatenato per lui un fenomeno naturale, una pioggia o una grandinata. Lo stesso quando si vide portare in trionfo. Seppe vincere.

     La sua fu tuttavia una vittoria fuori della letteratura, una vittoria della fama. S’erano interessati alle nuove posizioni teatrali che egli aveva introdotto, e che ancora oggi dominano le formule di molto teatro europeo e americano, Shaw come Barrie, come l’industriale Ford. Ma in Italia sulla sua opera di novelliere c’era un giudizio sbrigativo della critica più agguerrita, e sulla sua opera di drammaturgo una sommaria recensione di Croce, forse scritta sotto altre influenze, forse sotto un equivoco di natura filosofica. Quanto alla scoperta che dei suoi motivi drammatici fece Adriano Tilgher, parve a lui a un certo punto una troppo angusta prigione. Una vittoria di tale natura egli dovette capirla e sarebbe troppo lungo cercare di spiegarsi qui la ragione della inaderenza che accompagnò la sua fama e la sua popolarità pur così grandi che il suo nome divenne un aggettivo. Al regime dominante egli non poteva piacere per la sua natura e per la sua visione della vita. Bastava guardarlo. Non aveva niente della mitologia allora in uso. Un giorno, dopo che egli ebbe ottenuto il premio Nobel, io cercai di suscitargli intorno una manifestazione di simpatia degli scrittori, ci fu un ricevimento in casa sua, c’erano tutti ma piuttosto come a festeggiare un fortunato. Un’altra volta, uno dei suoi critici meno favorevoli mi chiese di riaccostarlo a lui, l’incontro avvenne e alla fine Pirandello mi informò che colui era andato a chiedergli il voto per la sua elezione all’Accademia d’Italia. È probabile poi che Pirandello avvertisse il suo distacco dal regime che gli aveva dato gli onori di cui era prodigo alle persone eminenti, di cui aveva bisogno per la sua fama di protettore delle arti, e che in un ambiente così equivoco, col distacco che si operava allora fra le generazioni, egli stesso non trovasse più una presa con una realtà. Il suo Enrico IV (1922) era stato, come scrive Mario Apollonio nella sua Storia del Teatro Italiano, il dramma della « idolatria delle forme storiche che tenne l’Italia per più decenni », del pazzo che « non riesce a scrollarsi di dosso il fasto tarlato di quelle maschere ». E in una delle sue ultime novelle, C’è qualcuno che ride, egli insinuava un sospetto di ridicolo in un mondo pazzamente serio. Ma non aveva nulla del cospiratore; apparteneva a quella generazione di scrittori cresciuti con l’ideale e la missione di parlare a un grande pubblico, in una società non ancora divisa e che rispettava una verità generale.

     Negli ultimi anni, infastidito e inquieto, « l’uomo con una valigia » cercava di darsi pace. Aveva rinunciato alla donna amata staccandola da sé e affidandola a Londra all’amicizia e alla protezione di J. M. Barrie. La fama non gli serviva a nulla in un ambiente sociale sordo e che doveva rattristarlo, sebbene egli non lo confessasse per il suo naturale decoro. Né gli serviva il denaro che egli aveva sempre concepito come patrimonio di un buon padre di famiglia e insomma buono per gli altri, e a lui soltanto strumento per alcune piccole comodità. Nel fondo del suo animo, determinante di tutte le sue azioni, doveva essere presente la tragedia familiare che lo aveva colpito fra i quaranta e cinquanta anni. La moglie, ossessionata dalla gelosia, non vedeva attorno a sé che rivali anche nelle domestiche, al punto che molte volte Pirandello e i figli andavano a consumare i pasti in trattoria. A quella donna, a quanto si diceva, Pirandello era rimasto fedele fisicamente come se fosse stato segnato da una impronta indelebile. Comunque, dovette essere un trauma sessuale da cui egli non si riprese mai, il cui mistero non è dato esplorare. È un trauma che si sente in tutta la sua opera.
Inquieto, dicevo, egli tornava all’idea di vivere a Parigi in un appartamento di Avenue Victor-Emmanuel. Ma Mussolini non vedeva di buon occhio questo soggiorno all’estero di un uomo così eminente, vi sospettava una condanna al regime, e lo ammonì di tornare in patria. Allora egli pensò di stabilirsi a Milano ma non lo fece mai. Aveva avuto qualche incidente col Partito, e uno abbastanza singolare per quei tempi di soggezione. In uno dei suoi viaggi all’estero dietro al suo teatro, Pirandello era sbarcato una volta in Brasile. Si era trovato di fronte a italiani fuorusciti che stampavano là un loro giornale. Pirandello, interrogato, uscì nella singolare dichiarazione che « all’estero non ci sono fascisti né antifascisti ma siamo tutti italiani ». Tornato a Roma, fu chiamato dal Segretario del Partito il quale aveva sul tavolo una voluminosa documentazione di ritagli di giornali messi insieme da Enrico Corradini, allora aspirante al ruolo di drammaturgo nazionale, sull’atteggiamento di Pirandello all’estero. Pirandello reagì in un modo inatteso: cavò di tasca la tessera del partito, la lacerò e la buttò sul tavolo sotto gli occhi del gerarca; si strappò il distintivo dall’occhiello e lo scaraventò in terra; e uscì sdegnato. Dovettero corrergli dietro, calmarlo, chiedergli scusa.

     Un’altra delle sue uscite fu la commemorazione che tenne all’Accademia d’Italia, in una seduta pubblica, su Giovanni Verga. Parlò per incidenza di d’Annunzio, fece il paragone tra vita e vita, tra opera e opera, tra insegnamento e insegnamento. D’Annunzio era considerato il campione del regime. Nella sala, e tra i membri dell’Accademia, erano molti dei suoi amici politici. Alcuni non si tennero più sulla loro sedia, percorrevano a passi nervosi le sale adiacenti mentre Pirandello parlava implacabile. Le signore del pubblico erano sbalordite. Era un’accusa a tutta la società di allora. Si temette un incidente da un istante all’altro, e sarebbe bastato poco, se il timore di uno scandalo più grave non avesse consigliato prudenza. Pirandello non aveva idee politiche se non quelle che gli erano rimaste impresse dalla tradizione risorgimentale della sua famiglia. Un suo nonno era stato esule a Malta. Non pochi equivoci, e l’inesperienza caratteristica di tutta la sua generazione di scrittori, quanto ai fatti politici, dovevano averlo portato a scambiare nazionalismo con patriottismo.
E poi, era uomo di prime impressioni e di impulsi, forse di risentimenti che si contrastavano e mutavano di continuo, e infine si placavano. Per giudicarlo sotto questo aspetto, bisogna tenere a mente un uomo che dalla quasi oscurità di cinquanta anni di vita è sbalzato a una fama abbagliante; il momento di questa fama coincide con l’avvento di un regime politico, che per calcolo, gli largisce grandi onori. Bisogna pure ricordare lo sdegno di quel tempo in molti uomini di cultura, verso la democrazia. Era il retaggio d’una ribellione estetizzante che nella cultura italiana fece non poche vittime, e che lasciò il paese, nella sua crisi più profonda, senza guide né punti di riferimento.

Negli ultimi anni s’era spogliato d’ogni cosa cara. Arrivava, ripartiva; delle stagioni della sua vita nella sua stanza vi erano i libri, nelle diverse lingue, una figurina di Ibsen regalatagli in Norvegia, una medaglia offertagli dai siciliani in Argentina: tutto mescolato, cacciato con altri mille ricordi nel fondo dei cassetti, dimenticato su un armadio. Non s’era mai veduto ancora in Italia un uomo che amasse meno l’immagine di sé stesso. E non s’era mai veduto un poeta tanto fuor del binario d’una rigida tradizione letteraria, la cui personalità, manifestata in un’opera enorme e talvolta impraticabile, spesso arriva alla grande arte per vie ignote e tutt’altro che normali, il cui nome basta a suscitare l’immagine di un tempo, d’un modo d’essere e di agire. Talvolta un nonnulla lo stacca dalla banalità; basta poco a elevarlo ad altezze che pochi suoi contemporanei conoscono. Il diritto di sedere nell’olimpo letterario gli viene assai spesso da vie tutt’altro che semplici. La sua lingua, al principio ripicchiata e di vocabolario, diviene nel meglio della sua opera un modo d’esprimersi naturale; le sue manie a un certo punto investono l’uomo e divengono rimpianti, sogni, incubi, segni del destino. Tant’è vero che non c’è grande poeta senza idee fisse. Non è chiara neppur ora la trasmutazione dei valori nell’arte pirandelliana; non è chiara l’operazione per cui i suoi personaggi provinciali, vestiti di nero, divengono i protagonisti d’un mondo borghese preso dai brividi del capovolgimento d’un’epoca. E non è chiaro come la grossa farsa paesana torni, a una data temperatura, al modello d’una commedia classica. Il suo segreto e la sua forza stanno in quello che credette fanciullo e uomo giovane, nei suoi stessi pregiudizi: nell’eredità insomma del suo ceppo borghese, nel doloroso decoro dei borghesi di provincia, nel loro sacrificio oscuro, nella loro facoltà di ammirare e di credere, perfino in una certa dose di malignità e di cattiveria, di emulazione e di orgoglio e di culto delle apparenze, di ideali e d’impulsi segreti pei quali alla fine, portati alla scoperta del mondo, ne rifuggono inorriditi, poiché lo immaginano sempre più alto e più nobile. La rivolta di Pirandello davanti ad alcuni fatti non ha più che queste ragioni e spinte. Egli apparteneva a una classe capace di ideali e di sacrifici.

Sulle prime, la stessa società di cui Pirandello faceva la storia, saltò in piedi indignata, quasi quanto sono indignati i suoi personaggi di scoprirsi sul palcoscenico. Essi credono alla verità e all’onestà, hanno diviso il mondo in bene e in male, e questi limiti non li hanno mai aboliti, credono in una verità assoluta e incontrovertibile, ciascuno ha in sé il suo dio e il suo giudice; lottano contro la malignità umana che strappa loro gli ultimi schermi e le ultime povere e dignitose apparenze, si confessano a un certo punto con dolore; essi vorrebbero essere ben alti, ben grandi, ben puri; anche se non v’è altezza né grandezza. Vorrebbero che vi si credesse ancora. Quando il Padre nei Sei personaggi, comincia a narrare di sé, lo fa quasi in sogno. In genere, nell’opera pirandelliana, quando l’uomo comincia a raccontare di sé ad alta voce scopre quale è veramente egli stesso: la colpa, il peccato, l’errore, sentimenti ben forti nell’opera pirandelliana, prendono consistenza come una lastra fotografica al reagente degli acidi: è definirsi che uccide gli uomini; l’alto della parola diviene una forma di confessione e di espiazione; i drammi si compiono parlandone; fino a quando tutto rimane sepolto nel fondo della coscienza, è ancora increato e ingiudicato, e l’uomo è tranquillo. Parlando, l’uomo crea e foggia sé stesso, stabilisce il suo destino. Per arrivare a questo, occorreva uno scrittore penetrato di tanti elementi oscuri della coscienza, colpito dagli stessi pregiudizi che tessono il destino degli eroi dei drammi antichi e che fanno il fondo della psicologia popolare, della sua giustizia e delle sue leggi oscure. L’uomo si inventa e si scopre parlando.

     Non ho mai conosciuto un artista più insensibile di lui alla natura, né un uomo tanto poco accessibile a quell’altra natura fossile che sono le rovine della vita antica. Di questo ebbi occasione d’accorgermene sulla via Appia una sera che il vento sembrava cacciare all’infinito la strada e tendere i cipressi. Gli chiesi che cosa gliene paresse; mi rispose che tutto questo era sinistro. Nella sua insensibilità ai fenomeni naturali risiede quel tanto di greco che è in lui e cioè quel tanto di stregato, di fatale, proprio di quella civiltà che oggi possiamo misurare perché si avvicina come nessun’altra a quella del mondo moderno, tutt’altro che serena come fu pregiudizio di molti anni in cui le tempeste erano lontane. Pirandello trasferì ogni sentimento della natura in una legge fatale del cuore e dei sensi, la sua opera è abitata da antichi fantasmi ritornanti, e le ore si colorano in lui col colore dei miti solari e dei miti lunari d’un tempo; sono complici d’un evento oscuro e influiscono sugli uomini come nella legge delle streghe e in quell’altra legge per cui la luna governa alcuni atti umani, gonfia i mari, è complice delle nascite, rende velenosi alcuni pesci. In fondo a Pirandello v’è tutto un groviglio di pregiudizi ancestrali e di fenomeni superiori all’uomo. Dopo molti anni di letteratura determinista, è risuonato ancora nell’opera pirandelliana lo strillo delle civette, le corna della luna che formarono la fenomenologia delle opere di Shakespeare.

Nel 1932, alla ripresa di alcune opere del repertorio teatrale di Pirandello, si notò come una seconda nascita di lui all’arte. L’opera di Pirandello è troppo creatura del tempo suo per non subire le alternative degli anni e per non avere in essi quasi un reagente. Nata con un valore indiziario e come un segno del costume, precorritrice d’una crisi umana, il tempo stesso ne trasforma il valore e il significato. Fu curioso vedere, a esempio, come Il giuoco delle parti, spoglio del valore polemico che ebbe alla sua prima apparizione, si ripresentasse quasi con lo schema d’una commedia di Bernstein. Ma, a differenza d’una commedia borghese, v’è qualcosa che trascende il costume vi si ritrova lo schema puro d’un dramma di tipo antico, e ben pochi sono i residui che ricordano una moda di commedia salottiera quale Pirandello aveva trovato nel suo cammino e nella sua formazione. Il fatto è che la commedia borghese si ritrova in Pirandello divenuta enormemente seria. A vederlo qual era, il teatro borghese di quel tempo è dominato da un’inquietudine pratica, basata sulle fortune e sul ruolo del denaro, della posizione, dell’arrivare. Lo si metta a paragone col mondo di Ibsen, mondo della borghesia ascendente e da cui proviene quasi tutto il teatro contemporaneo, e se ne scorgerà la differenza: in Ibsen è l’individualità e la massima espressione di sé stessi, della propria moralità, caratteri splendenti della borghesia al suo sorgere. Negli epigoni, si sente che molte di quelle inquietudini si temperano in fastidi, e la conquista interiore della piena espressione individuale dell’esplicazione di sé stessi, diventa avidità di acquisto di beni esteriori; e la lotta per la donna, passata da quella che è nel Costruttore Solness, all’estrema miseria del Sansone di Bernstein che ne riproduce il tema. Si può seguitare a trovare forme parallele fra l’ibsenismo e il teatro borghese, come per esempio fra Edda Gabler e la Marcia Nuziale. A questo punto, la borghesia come classe piega sotto la parte che s’era assunta; il dramma come ogni altra forma di letteratura si frantuma ai medesimi scogli, e non è più che questione di appetiti.

Pirandello coglie esattamente questo momento, prima ancora che venti anni di critica e di fatti lo chiariscano: la sua apparizione sull’orizzonte del teatro ha questo valore annunziatore. Davanti allo smarrimento di sé stessi e al crepuscolarismo, la stracca commedia salottiera diventa in Pirandello ancora capace di reazioni; l’uomo vi si rivolta come un disperato eroe, la revisione dei valori convenzionali e la ricerca d’una leva morale diviene fin troppo acuta. Alla fine, l’individuo in giacchetta potrebbe portare un peplo di tragedia: può di nuovo uccidere, cioè offendere, affermare il valore d’una verità fondamentale, d’un fatto morale e d’una coscienza. Nel dramma borghese tutto finiva fatalmente al suicidio. Il valore dell’apporto pirandelliano alla storia del costume è in una specie d’intuizione della società nuova; i suoi personaggi si possono ridurre a una sola espressione e a un solo atteggiamento: la reazione a tutto quello che nella società borghese è senza più contenuto vitale, un cammino dagli appetiti agli istinti. Uccidere diventa in Pirandello una sanzione dell’istinto, la voce del sangue, il ritorno dell’uomo a una fatalità umana e a una legge. Una delle vie per cui opera Pirandello è l’Amletismo; tutti i suoi personaggi hanno in sé qualcosa di Amleto, e fra questi un discendente diretto è Enrico IV. Come Amleto, i suoi personaggi sono in un mondo di tradizioni consunte portando in sé qualcosa di essenziale, e il sapore della morte, e il demone del pensiero in confronto con la debolezza della volontà. Anche in Pirandello appare la demenza come una via per riguadagnare il senso della personalità umana, e qualcosa di fatale che supera la stessa personalità e volontà dell’uomo. Siamo cioè al ritorno d’una verità e d’un valore morale di sentimenti che si manifesta con la violenza con cui si manifestò nel dramma greco. A un certo punto le leggi morali acquistano la violenza dell’istinto, e colpiscono ciecamente come colpiva il destino.

Corrado Alvaro

Corrado Alvaro

San Luca, 15 aprile 1895 – Roma, 11 giugno 1956

Prefazione Corrado Alvaro

da Fondazione Corrado Alvaro

Corrado Alvaro nasce il 15 aprile 1895, primogenito dei sei figli di Antonio e di Antonia Giampaolo, a San Luca, un piccolo paese nella provincia di Reggio Calabria, sul versante ionico dell’Aspromonte. Il padre, maestro elementare, è fondatore di una scuola serale per contadini e pastori analfalbeti; la madre proviene da una famiglia della media borghesia. A San Luca trascorre un’infanzia felice, ricevendo la prima istruzione dal padre e da un vecchio maestro del luogo. Nelle sere d’inverno, accanto al camino, ascoltava il padre leggere alla madre gli autori prediletti: Manzoni, d’Azeglio, Balzac e Mastriani: «Avevo passato dieci anni in quel mucchio di case presso il fiume, sulla balza aspra circondata di colli dolcissimi digradanti verso il mare, i primi dieci anni della mia vita, e pure essi furono i miei più vasti e lunghi e popolati» (Memoria e vita).
Terminate le scuole elementari, nel 1906 è mandato a proseguire gli studi, come esterno, nel prestigioso collegio gesuitico di Mondragone, a Frascati. Nel 1907 sono ospiti dello stesso collegio i fratelli Beniamino e Guglielmo: studia e comincia a scrivere poesie e racconti. Come egli stesso riferirà, viene espulso dal collegio, dopo i primi anni di ginnasio, perché sorpreso a leggere testi considerati proibiti (l’Intermezzo di rime di D’Annunzio). Obbligato a cambiare scuola, è mandato nel collegio di Amelia, in provincia di Perugia, dove termina il ginnasio. Approda infine al Liceo «Galluppi» di Catanzaro, vivendo dapprima come ospite del convitto Tubelli, poi rievocato in Mastrangelina; ed ha tra i compagni di scuola Umberto Bosco, che ne ha ricordato l’acceso interventismo. Esordisce con un libretto dedicato a Polsi nell’arte, nella legenda e nella storia (1912), che porta in calce la firma «Corrado Alvaro. Studente liceale».

Nel gennaio del 1915, chiamato alle armi, è assegnato a Firenze, a un reggimento di fanteria, e segue il corso allievi ufficiali nell’Accademia militare di Modena, uscendone con il grado di sottotenente. All’inizio di settembre si trova in zona di guerra; a novembre è in prima linea, viene ferito alle braccia (il destro non guarirà mai completamente) sul Monte Sei Busi, nella zona di San Michele del Carso, e viene decorato con una medaglia d’argento. Nel 1917 escono a Roma le Poesie grigioverdi e l’anno dopo, l’8 aprile, sposa la bolognese Laura Babini, conosciuta durante la guerra, allora impiegata come ragioniera, più tardi traduttrice dall’inglese. Alla fine del ’19 si trasferisce a Milano, con la famiglia (nel frattempo gli è nato il figlio Massimo), perché assunto al «Corriere della Sera» di Luigi Albertini, cui dedicherà nel 1925 un intenso profilo. Sul finire del 1921 si trasferisce a Parigi, come corrispondente del «Mondo» di Amendola, tornando a Roma un anno dopo per partecipare intensamente alla lotta antitotalitaria del quotidiano (è stato tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti di Croce; ed ha subìto anche, in un’occasione, la violenza dello squadrismo). Dal ’26 comincia a collaborare alla «Stampa» e, in seguito, diviene segretario di redazione di «900»; nei primi mesi del ’29 è a Berlino, per una serie di corrispondenze commissionategli dall’«Italia letteraria»: essendogli sempre più difficile lavorare (e firmare) in Italia, comprende che è il momento di allontanarsene per poter poi rientrare, come non sarebbe stato possibile se si fosse stabilito a Parigi, dove convergevano tutti i fuorusciti politici.

Nel corso del 1930 pubblica ben tre raccolte di racconti (Gente in Aspromonte, Misteri e avventure, La signora dell’isola) e il romanzo Vent’anni, il più intenso fra quelli italiani imperniati sulla Grande Guerra, che gli valgono il prestigioso (e remunerativo) premio letterario di «La Stampa». L’affettuosa amicizia con Margherita Sarfatti è determinante per stemperare l’inimicizia del regime e per consentirgli una «silenziosa renitenza», da nemico pacifico, nevroticamente domestico, con qualche scivolamento indebito (Terra nuova. Prima cronaca dell’Agro Pontino, andato in stampa nel 1934 per l’Istituto Naz. Fascista di Cultura: libro che Alvaro considerava un omaggio alla civiltà e non al fascismo). È indubbio che, in questa fase, la quota di riconoscenza per un governo totalitario che gli consentiva il pot boiler in patria abbia moderato la primitiva carica antagonistica (senza tuttavia mai giungere a prendere la tessera o aderire agli inviti di Mussolini), che poi torna ad accamparsi obliquamente nel romanzo distopico L’uomo è forte (1938): «una protesta contro il terrore», «contro le condizioni dell’uomo sotto ogni oppressione, sia essa di Franco o di Mussolini o di Hitler o della Ghepeù», ed anche una catarsi terapeutica da una nevrosi ossessiva che gli impediva di «andare in pubblico, specie nei teatri» (dopo averlo scritto, «mi pareva di sentirmi scaricato, di avere potuto parlare, sia pure in forme coperte»). Inizia a lavorare per il cinema, come sceneggiatore e soggettista, e tiene una rubrica cinematografica sulla «Nuova Antologia»; nel ’38 abbandona Mondadori per Bompiani, cui rimarrà sempre fedele, e nel ’40 riceve il premio dell’Accademia d’Italia per L’uomo è forte; per il teatro riduce I fratelli Karamazov di Dostoevskij e La Celestina di Fernando de Rojas.

Nel gennaio del 1941 torna per l’ultima volta a San Luca, per i funerali del padre; poi, più volte, a Caraffa del Bianco, in visita alla madre e al fratello don Massimo, parroco del paese. Dal 25 luglio all’8 settembre 1943 assume la direzione del «Popolo di Roma»: con l’occupazione tedesca della città, colpito da mandato di cattura, si rifugia a Chieti, sotto il falso nome di Guido Giorgi, e vive dando lezioni di inglese. Nel giugno del 1944 ritorna a Roma e viene a sapere che il figlio è prigioniero in Jugoslavia, poi partigiano nei dintorni di Bologna. Nel gennaio del ’45 fonda, con Francesco Jovine e Libero Bigiaretti, il Sindacato Nazionale degli Scrittori, di cui è segretario fino alla morte; nel marzo’47 va a dirigere per tre mesi il «Risorgimento» di Napoli, da cui è allontanato per la sua posizione politica, schierata senza compromessi con il Fronte popolare (come già prima era accaduto con le dimissioni dalla direzione del “Giornale radio”). Vive e lavora a Roma, nell’appartamento di Piazza di Spagna, con terrazzo sulla scalinata di Trinità dei Monti, recandosi spesso a Vallerano, ai piedi dei Monti Cimini, dove ha una casa in mezzo alla campagna. Torna a collaborare al «Corriere della Sera», ma ancora una volta si dimette per essere stato attaccato su quelle pagine per la sua adesione politica al Fronte democratico; tra le varie collaborazioni, è anche critico teatrale e cinematografico del «Mondo» di Pannunzio. Nell’autunno esce Quasi una vita, che raccoglie pagine di diario tra il 1927 e il 1947: il libro vince il premio Strega 1951, superando in finale le opere concorrenti di Soldati, Levi e Moravia. Nel 1954 deve sottoporsi a un intervento chirurgico per un tumore addominale, inizialmente creduto benigno, come invece non era. Il 20 aprile 1956 esce sul «Corriere della Sera», dove era tornato a collaborare, il suo ultimo articolo, Pagine diverse: aggravatasi la malattia, che ha colpito i polmoni, muore a Roma nella sua abitazione il mattino dell’11 giugno 1956, lasciando molti inediti. La cerimonia funebre, nella chiesa romana di Santa Maria delle Fratte, è officiata dal fratello don Massimo; poi viene sepolto nel cimitero di Vallerano.

Unico degli scrittori calabresi di questo secolo ad essere entrato nella dimensione della classicità, Alvaro ha disseminato i suoi articoli nelle terze pagine dei maggiori quotidiani italiani («Il Mondo»; «Corriere della Sera»; «Il Messaggero»; il «Popolo di Roma»; «La Stampa»); è stato poeta innovativo (le Poesie grigioverdi sono del ’17); romanziere di respiro europeo (da L’uomo nel labirinto, del ’26, a L’uomo è forte, del ’38); diarista (Quasi una vita è tra i più bei giornali di bordo che uno scrittore abbia vergato); autore e critico di teatro (Lunga notte di Medea si pone di diritto tra i grandi testi tragici del nostro secolo); memorialista del mondo sommerso (la trilogia con tale titolo); e, inoltre, finissimo traduttore ed intellettuale e saggista di rilevanza assoluta, anche in virtù di un’esperienza cosmopolita che lo portò a vivere per qualche tempo a Parigi ed a Berlino ed a visitare, da inviato speciale, paesi ed entità antropologiche lontane (Turchia, Russia), con esperienze dalle quali scaturiscono i suoi libri di viaggio. Una figura di grande complessità, data l’ampiezza degli orizzonti culturali ed ispirativi: Alvaro congiunge il microcosmo calabrese – il paese dell’anima che funge da sostrato a tutto il suo itinerario di scrittore – e la realtà europea, in cui ambiva innestarsi, ma senza cancellare l’identità storico-culturale dei padri. Nella sua opera si raggruma e si esalta l’immagine stessa della Calabria, riproposta nella grandezza della sua storia e nella sua fermentante forza d’irradiazione; e vi confluisce tutta una linea di tradizione culturale e di civiltà, che va dalle radici magnogreche a Gioacchino da Fiore, da Campanella a Padula.

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