Pirandello. La visione del mondo e la poetica

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Di Cristina Zanette e Claudio Fasola

L’uomo pirandelliano disvela la realtà di un mondo rivelatosi privo di un qualsiasi disegno provvidenziale; è l’uomo colto nella scoperta della non regolarità e causalità della sua vita

Indice Tematiche

Pirandello. La visione del mondo e la poetica
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Pirandello. La visione del mondo e la poetica

da Scienze Postmoderne

1. Introduzione

“Ma, benché i mezzi di notazione delle scienze morali non siano gli stessi che nelle scienze fisiche, nondimeno, essendo la materia la stessa, in ambedue costituita di forze, direzioni e grandezze, si può concludere che tanto nelle une quanto nelle altre l’effetto finale si produce secondo la stessa regola” (Taine, 1864).
Intorno alla fine del secolo XIX si diffonde la corrente filosofica del Positivismo secondo cui la realtà tutta, regolata essenzialmente da principi di meccanica e quindi determinata da grandezza e direzione di forze, è analizzabile secondo leggi universali e perciò stesso prevedibile e conoscibile oggettivamente (Comte, 1830; Spencer, 1862; Taine, 1864).
Nella letteratura espressione della filosofia positiva sono il Naturalismo in Francia con Zola, Flaubert e Balzac, il Realismo in Inghilterra con  Eliot e Hardy e, sia pure con forme diverse, il Verismo con Verga in Italia. Ne Le roman expérimental (1880), manifesto della letteratura naturalista, Zola, rifacendosi agli studi del fisiologo Claude Bernard,  afferma che il “romanziere come lo scienziato deve essere insieme osservatore e sperimentatore, considera l’arte come una riproduzione oggettiva del reale governata dalle leggi della natura, rivendica l’impegno morale dello scrittore che, mettendo in luce le cause dei fenomeni sociali, deve indurre la società stessa a intervenire per modificarli e migliorarli. […] L’uomo metafisico è morto ed il nostro terreno si trasforma interamente nell’uomo fisiologico”.

Se il Positivismo considerava la realtà nel senso dei fatti percepiti come garanzia di oggettività assoluta e universale, negando valore a ogni forma di realtà soggettiva e spirituale e alle determinazioni particolari dei fenomeni, costringendoli all’interno di tassonomie astratte, Cassirer ne Il concetto di sostanza e il concetto di funzione del 1910, indica come oggetto della scienza non la realtà noumenica, quanto l’analisi dei modi e delle forme con cui la realtà viene percepita e conosciuta. La frattura epistemologica fu data dalla teoria della relatività (1905) di Einstein (1879- 1955) che scardina alla base la realtà vista come oggettiva ed esterna all’individuo: spazio e tempo da quantità assolute, immobili e distinte diventano intrinsecamente relative, determinate dagli eventi di interazione tra energia e materia. “Quando il fisico, il cui compito è l’obiettivazione, afferma il primato dello spazio oggettivo e del tempo oggettivo sullo spazio soggettivo e sul tempo soggettivo, quando lo psicologo e il metafisico, orientati come sono alla totalità e all’immediatezza dell’esperienza vissuta, giungono alla conclusione opposta, in entrambi i giudizi si manifesta solo una falsa assolutizzazione della norma conoscitiva con la quale ognuno di essi definisce e misura la realtà. […] Ma bisogna osservare che ciò che qui viene definito senz’altro come la realtà, la “durée réelle”, non è un assoluto, ma solo un diverso punto di vista della coscienza, contrapposto a quello fisico-matematico. […] Sia i simboli della visione dell’esterno della matematica e della fisica, che i simboli della visione dell’interno della psicologia vanno intesi come simboli” (Cassirer 1921).

“La filosofia moderna ha mirato a spiegar l’universo come una vivente macchina, e s’è ingegnata di precisar la conoscenza che ne abbiamo. È poi passata a stabilire il posto dell’uomo nella natura, a interpretare la vita e a dedurne gli scopi. […] Ma questo spirito moderno è profondamente malato, non dà risposte e anzi si trasforma nell'”immagine d’un sogno angoscioso attraversato da rapide larve or tristi or minacciose, d’una battaglia notturna, d’una mischia disperata, in cui s’agitino per un momento e subito scompaiano, per riapparirne delle altre, mille bandiere, in cui le parti avversarie si sian confuse e mischiate” (Pirandello 1893, pp.189-203). Sarà il Decadentismo in letteratura a esprimere il rifiuto della visione positivista della realtà che si era rivelata ai loro occhi problematica e destrutturata, non quindi riducibile ad una visione monolitica e univoca; i moduli narrativi a struttura chiusa verranno sostituiti da forme narratologiche lontane da logiche formali sentite non adatte a rappresentare le plurime fenomenizzazioni della realtà. E’ il momento del romanzo a struttura aperta (Eco 1962), polipropsettico, che rifiuta in particolare il manzonismo, sia nella sua visione paternalistica, sia nelle scelte formali del narratore onniscente, che non solo tutto conosce, ma che anche tutto giudica dall’alto dell’acquisizione di una verità ultima data e conosciuta: l’arte rifiuta di farsi oggettiva rappresentazione della realtà storica e sociale. La letteratura prende atto della frantumazione della realtà, che è realtà complessa, non lineare e progressiva, non prevedibile; prende atto che le strutture narrative atte per descrivere l’unicità non sono adeguate a descrivere la molteplicità.

E’ il panorama culturale che fa da sfondo al testo plurimo di Dostoevskij (Calvino, 1988), in cui la parola non si esaurisce nella semplice funzione narrativa o descrittiva e non si reifica neppure per divenire oggetto della coscienza del’autore (Bachtin 1968); la parola si trova spiazzata nel suo rapporto con l’oggetto e si fa parola allocutoria e dialogica; i sistemi linguistico sintattici lineari lasciano il posto a “una molteplicità di soggetti, di voci, di sguardi sul mondo” (Calvino 1988, p.114). Nei romanzi di Dostoevskij non si vede il personaggio determinato in una prospettiva naturalistica da fattori causali e genetici, ma come il personaggio prende coscienza di sé, del suo non essere dato univoco e prevedibile come postulato da l’homme de la nature et de la verité di Rousseau (1762).
E’ il panorama culturale dello zeitromane di Svevo in cui al tempo narrativo lineare si sostituisce un’esperienza episodica del tempo, recuperato per blocchi di memoria giustapposti divergenti dal tempo del vissuto e dissestanti l’idea di unità e di progresso lineare del personaggio (Anselmi, Fenocchio, 2004). Il tempo sveviano è un tempo spogliato di qualsiasi elemento misurabile e che anzi ha perso ogni interesse per la misura (Ricoeur, 1984); al tempo si sostituisce il ricordo, un ricordo che corregge, che deve rimanere fluido (Gavezzani, 1985).
E’ il panorama culturale della demistificazione della realtà e dell’io di Pirandello nelle cui opere ci si presenta un uomo
non determinato da propri caratteri psicologici, da proprie individuali disposizione intrapsichiche, ma generato da ragioni, intenzioni e da costrutti mutuati dai contesti normativo simbolico, parte dei quali non sono nella testa dell’individuo, ma nello spazio interattivo che si viene a creare tra le persone (Salvini 1998).

2. Rimandi filosofici

L’opera di Pirandello è permeata di molteplici riflessioni epistemologiche, nate dalle sue letture dirette di alcuni autori come Binet e Bergson e dagli sviluppi che si hanno nell’epoca a lui contemporanea sia nella scienza che nella filosofia in seguito al venir meno delle certezze postulate dalla cultura positiva di fine secolo e che troveranno una cornice teorica nel Post modernismo [1].

[1] Il termine postmoderno viene usato per la prima volta da Howe (1959) e Levin (1960) in una accezione negativa per evidenziare l’esaurirsi delle forme espressive del modernismo. Negli anni Sessanta con Barth, Keruac, Antonioni il postmodernismo si configura come ribellione all’espressionismo astratto dell’ultimo modernismo, elistico e conservatore. Sarà Fiedler nel 1969 a dare al termine una valenza positiva, indicando con esso la nuova atmosfera culturale che andava eliminando le barriere tra arte elevata e arte di massa. Nel 1971 il critico americano Hassan  pubblica un articolo, POSTmodernISM: a Paracritical Bibliography, che viene considerato il punto di partenza del dibattito critico sulla cultura postmoderna.

2.1 L’io cubista: Binet

Secondo la scienza positiva ed empirista il fatto scientifico oggetto della conoscenza è il dato, l’elemento semplice e primario da cui muove la conoscenza. In seguito alle riflessioni ad esempio di Foucault (1954-75), Kuhn (1957; 1962), Feyerabend (1979) si assiste ad un’operazione di deontologizzazione dell’oggetto e al superamento della teoria referenziale del significato nel riconoscimento dell’importanza della consapevolezza degli effetti che tutte le assunzioni preliminari generano nel costruire l’oggetto dei propri studi e nelle modalità di descriverlo; viene rifiutata l’immagine monolitica e atemporale della scienza; viene rifiutata soprattutto la categoria della causalità che vuole l’uomo connesso al mondo esterno in modo deterministico; viene rifiutata una realtà ontologica data ed esterna al soggetto che viene sostituita da paradigmi di senso (Rorthy, 1991).
Con il determinismo causale viene meno anche l’idea classica fatta propria dalla borghesia dell’Ottocento dell’uomo creatore e padrone del proprio destino e del proprio mondo. Il soggetto stesso, l’immediatezza del cogito ergo sum di Cartesio, inizio della filosofia moderna, perde i caratteri di unitarietà e di necessità. Il mondo moderno aveva razionalizzato la realtà nel tentativo di darle forma unitaria e coerenza sia nei suoi fondamenti sia nella conoscenza di essa (Fontana, 2005); la logica formale viene ora superata da una logica non-euclidea; viene negata ogni forma di corrispondenza biunivoca e di deduzione sillogistica (Di Lieto, 2008).

L’uomo pirandelliano disvela la realtà di un mondo rivelatosi privo di un qualsiasi disegno provvidenziale; è l’uomo colto nella scoperta della non regolarità e causalità della sua vita; è l’uomo che si scopre non più portatore di valori ben definibili e che sente di aver perso irrimediabilmente una prospettiva unica rispetto cui guardare una realtà non più monolitica, ma poliedrica e polisemantica. E’ l’io in cui Binet (1982) vide diverse e contrastanti personalità, un uomo cubista (Segre, 1969), scomposto e fluido: “ciò che noi conosciamo di noi stessi, non è che una parte, forse una piccolissima parte di quello che noi siamo” (Pirandello, 1908). La stessa coscienza della persona in Binet ha perso i confini e i limiti assoluti di una entità fissa e permanente in quanto sintesi di fenomeni che variano incessantemente nel tempo, dando luogo all’“esistenza simultanea di diverse coscienze”: “ciascuno di noi non è uno, ma contiene numerose persone che hanno tutte lo stesso valore” (Binet, 1892), a cui fa eco Pirandello “e non vuoi capire che la tua coscienza significa appunto gli altri dentro di te?” (Ciascuno a suo modo, 1924).

2.2 Il tempo: Bergson

L’uomo nella sua esperienza quotidiana esperisce diverse temporalità, quella del tempo standard, intersoggetivamente accessibile, intersezione tra il tempo cosmico ed il suo calendario socialmente stabilito, e il tempo interiore, tra i quali non vi può essere piena simultaneità (Berger, Luckmann, 1966).
Tutto l’Ottocento è permeato dalla concezione oggettiva del tempo, del  tempo newtoniano indipendente dagli avvenimenti e antecedente ad essi, del tempo come entità assoluta, vera, non in relazione con alcunché di esterno, uniforme nel suo procedere. Con la teoria della relatività (1905) il tempo da costante, progressivo e lineare si trasforma in relativo, grandezza dipendente dalle velocità relative dei sistemi di riferimento: osservare il mondo è osservare un mondo costruito dalle proprie esperienze che lo organizzano e lo ordinano (von Foester, 1982).
Henry Bergson (1859-1941) parla del tempo come durata, fluire incessante, non susseguirsi di un istante a un altro istante, ma simultaneità in cui si perdono i confini di presente, passato e futuro (Bergson, 1907). Diviene perciò impossibile secondo Bergson cercare di costringere  la realtà dello spirito nelle schematizzazioni rigide offerte dalle scienze: la vita è evoluzione continua, eterogeneità pura, proiezione della realtà e dello spirito verso forme sempre cangianti, in una perenne attività creatrice, che può essere solo appresa intuitivamente nel suo flusso ininterrotto (Bergson, 1896).
La coscienza, allora, non può che essere la memoria, conservazione del passato e anticipazione del futuro, in cui non possono essere dati due istanti identici; memoria non materialistica, in quanto non rappresenta il nostro passato, ma lo gioca, lo attiva prolungando le immagini fino al presente, facendo riemergere da un fondo dimenticato i ricordi che in proiezione futura possano essere utili all’azione (Bergson, 1896). La coscienza giustappone oggetti in una successione ordinata ed è così che crea il tempo omogeneo (Bergson, 1907).
La vita si presenta allora, come in Novelle per una anno, varia e frantumata, non appartenente a un tempo rettilineo ma come puro caos in cui l’unica dominante è proprio il fluire costante e dissipatore del tempo che nega ogni corrispondenza simbolica tra uomo e natura e ogni armonia e organicità.

2.3 La vita e la forma: Georg Simmel

Dopo un primo periodo in cui si accosta al positivismo evoluzionistico di Fechner, il filosofo berlinese assume posizioni vicine alla fenomenologia di Husserl, per poi sviluppare una concezione vitalista, intendendo la vita come continuo conflitto tra soggetto e oggetto.
Ogni conoscenza è secondo Simmel un presupposto di validità ipotetica e relativa con la funzione di organizzare concettualmente il dato empirico. Non si possono dare principi fondamentali costitutivi, ma solo principi regolativi: non esiste una verità assoluta e data. Nel 1893 Pirandello nel saggio Arte e cocienza oggi, affermando la relatività di ogni cosa data dal venir meno della comune intesa su e quindi della stessa comprensibilità dei termini astratti, nega all’uomo ogni possibilità di stabilirsi un “punto fermo e incontrollabile”. La filosofia non può trovare espressioni definitive della verità della vita e si presenta come espressione di “tipi e forme molteplici della spiritualità umana”  (Simmel, 1892) in un continuo contrasto tra vita e forma: la vita è principio incondizionato e realizzazione di tutte le forme di realtà che, però, si contrappongono allo scorrere della vita stessa (Simmel, 1918). La vita infatti non può che esprimersi in forme, dotate di una loro logica intrinseca, di una struttura definita, al di là delle quale però necessariamente deve porsi la vita. Pirandello nel saggio L’umorismo (1908) trasforma l’esistenza simultanea di più coscienze nel flusso della vita che non si può cristallizzare in “forme stabili e determinate” che “sono i concetti, sono gli ideali a cui vorremmo serbarci coerenti, tutte le finzioni che ci creiamo, le condizioni, lo stato in cui tendiamo a stabilirci” (p. 938). “La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo di arrestare perché noi già siamo forme fissate, forme che si muovono in mezzo ad altre immobili, e che però possono seguire il flusso della vita, fino a tanto che, irrigidendosi man mano, il movimento, già a poco a poco rallentato, non cessi” (p. 938).

3. Opere maggiori

3.1 L’umorismo (1908)

L’arte in genere compone, l’umorismo decompone
Pirandello, L’umorismo

Il saggio, espressione compiuta della poetica di Pirandello, ma anche della sua visione dell’uomo, si divide in una parte prettamente storica sul termine e sulle diverse espressioni dell’arte umoristica ed in una teorica in cui si delinea il concetto stesso di umorismo, l’essenza, i caratteri e la materia.
“Che cos’è l’umorismo?” (p. 905).
Per rispondere alla domanda nella seconda parte del saggio, partendo dall’analisi di una poesia del Giusti (Sant’Ambrogio, 1945), Pirandello compie una disamina del personaggi di don Chisciotte e don Abbondio e dei sentimenti che il leggere le loro vicende suscita nel lettore: “questo stato d’animo, ogni qual volta mi trovo innanzi a una rappresentazione veramente umoristica, è di perplessità: io mi sento come tenuto tra due: vorrei ridere, rido, ma il riso mi è ostacolato da qualcosa che spira dalla rappresentazione stessa” (p.  916). Non si può comprendere il sentimento se non si comprende il processo da cui risulta la rappresentazione stessa (p. 909). L’attenzione si sposta allora sul senso dell’opera d’arte, sul suo non poter essere ridotta a conoscenza: “come ho dimostrato altrove (scilArte e scienza, 1908) la conoscenza, sia pur soltanto intuitiva e non intellettuale, non ci può dar altro che un’oggettivazione, la quale può essere soltanto contenuto psichico e non forma, contenuto che l’arte formerà investendolo suriettivamente” (p. 825). D’altra parte si riconosce all’opera d’arte l’importante funzione di dare ordine e coerenza alle immagini che si pongono innanzi all’autore: “l’opera d’arte è creata dal libero movimento della vita interiore che organa le idee e le imagini in una forma armonioso, di cui tutti gli elementi hanno corrispondenza tra loro e con l’idea madre che le coordina” (p. 910). E’ la riflessione, però, che assume una funzione peculiare nella comprensione dell’opera d’arte e nello specifico di un’opera umoristica: “la riflessione, durante la concezione, come durante l’esecuzione dell’opera d’arte, non resta certamente inattiva: assiste al nascere e al crescere dell’opera, ne segue le fasi progressive e ne gode, raccosta i vari elementi, li coordina, li compara. […] La coscienza non è potenza creatrice, ma lo specchio interiore in cui il pensiero si rimira. […] D’ordinario nell’artista, nel momento della concezione, la riflessione si nasconde […], è, quasi, per l’artista una forma del sentimento. […] Nella concezione di ogni opera umoristica la riflessione non resta invisibile, non resta cioè quasi una forma del sentimento, quasi uno specchio in cui si rimira; ma gli si pone innanzi, da giudice; lo analizza, spassionandosene; ne scompone l’immagine; da questa analisi, però, da questa scomposizione, un altro sentimento sorge o spira: il sentimento del contrario” (pp. 910-911). E’ il sentimento del contrario la ragione ultima dell’umorismo. Non la semplice constatazione di qualcosa di stridente in un’immagine, che sarebbe comica, ma il sentimento nato dalla riflessione del perché don Abbondio, “questo sentimento del contrario oggettivato e vivente (p. 929), non riesce a darsi quel coraggio che ci si potrebbe o ci si vorrebbe aspettare da un prelato. Così di fronte alle vicende di Don Quijote del Cervantes “noi vorremmo ridere di tutto quanto c’è di comico nella rappresentazione di questo povero alienato che maschera della sua follia, se stesso e gli altri e tutte le cose; vorremmo ridere, ma il riso non ci viene alle labbra schietto e facile; sentiamo che qualcosa ce lo turba e ce l’ostacola: è un senso di commiserazione, di pena e anche di ammirazione, sì, perché se le eroiche avventure di questo povero hidalgo sono ridicolissime, pur non v’ha dubbio che egli nella sua ridicolaggine è veramente eroico” (pp. 912-913). L’umorismo si presenta allora come un’ “erma bifronte, che ride per una faccia del pianto della faccia opposta [2]” (p. 917).

[2] Il concetto si ritrova anche in Arte e scienza (1908): “l’umorismo è un fenomeno di sdoppiamento nell’atto della concezione; è come un’erma bifonte, che ride per una faccia del pianto della faccia opposta” (2006, p. 617).

Per comprendere il senso di questa “speciale attività” della riflessione che viene a rompere e turbare “il movimento spontaneo che organa le idee e le immagini in una forma armoniosa” (p. 918) si deve comprendere la fluidità della vita, il suo scorrere incessante e perciò stesso non comprensibile secondo schemi fissi e rigide tassonomie:  la vita dell’anima dell’uomo è “equilibrio mobile; è un sorgere e un assopirsi continuo di affetti, di tendenze, di idee; un fluttuare incessante tra termini contradditori, e un oscillare tra poli opposti, come la speranza e la paura, il vero e il falso, il bello e il brutto, il giusto e l’ingiusto” (p. 937).  L’uomo allora si maschera di ciò che in buona fede si  figura d’essere: è la forma che si dà l’uomo, è il suo tentativo di dare ordine a un mondo disarmonico, attraverso quella Logica, su cui Aristotele scrisse “un leggiadro trattatello che si adotta ancora nelle scuole perché i fanciulli imparino presto e bene a baloccarsi” (p. 941), che “fissa quel che è mobile, fluido; tende a dare valore assoluto a ciò che è relativo” (p. 942): “L’uomo delira e non se n’avvede; non può fare a meno di atteggiarsi, anche davanti a se stesso, in qualche modo, e si figura tante cose che ha bisogno di prendere sul serio” (p. 941). Ma nulla è vero: “manca affatto alla nostra conoscenza del mondo e di noi stessi quel valore obiettivo che comunemente presumiamo di attribuirle. E’ una costruzione illusoria continua” (p. 931).

L’umorista, allora, è chi ha compreso che l’arte rende troppo coerente e troppo ragionevole la vita e la natura e vuole invece coglierne il carattere contraddittorio, osservandola da più prospettive contemporaneamente: “per l’umorista le cause, nella vita, non sono mai così logiche, così ordinate” come l’opera d’arte vuole farci credere nel momento che crea un carattere, che vorrà essere coerente in ogni atto, attraverso la composizione di elementi “opposti e repugnanti” (p. 945). L’umorista “scompone il carattere nei suoi elementi”; “l’artista ordinario bada al corpo solamente; l’umorista guarda al corpo e all’ombra, e talvolta più all’ombra che al corpo; nota tutti gli scherzi di quest’ombra, come essa ora s’allunghi ed ora s’intozzi, quasi a far le smorfie al corpo, che intanto non la calcola e non se ne cura” (p. 948): il comico indissolubilmente legato al tragico in una realtà poliedrica e dissonante. L’arte umoristica costringe a prendere coscienza di un mondo e di un uomo frantumato e scisso, disgregato e lacerante. È l’arte che non è specchio, ma creazione (Ferry, 1990).

3.2 Novelle per un anno (1922)

… si fa presto a volerci in un modo o in un altro; tutto sta poi se possiamo essere quali ci vogliamo.
Pirandello, La tragedia di un personaggio

Pirandello compone novelle per tutto l’arco della sua attività di scrittore. Pubblicate in modo sporadico, si preoccupa della loro raccolta in volumi che, però, lungi dal dare organicità alle opere, sembra acuire la loro disorganicità e disarmonia: la successione infinita di casi e situazione sembra rinviare alla visione disgregata della vita che non appartiene più a un tempo rettilineo e progressivo, ma è frantumata e, così, de sublimata. Illusione e realtà hanno perso i confini propri: “nasce in ciascuno il sospetto pernicioso che tanto vale allora la realtà quanto il fantasma, e che ogni realtà può essere benissimo un fantasma e viceversa” (La signorina Frola e il signor Ponza, suo genero). Le certezze deterministiche della filosofia positiva, con i loro nessi di causa ed effetto, hanno lasciato il posto al non senso di una casualità a volte anche paradossale: gli eroi propri della letteratura , “coerenti in ogni loro atto” (p. 945) hanno lasciato il posto ai personaggi postulati ne L’umorismo (1908), colti nelle loro incongruenze. Viene rappresentato l’uomo nel suo percepirsi non immagine ideale, non immagine monolitica, non immagine corrispondente a ciò che lui stesso pensava di possedere: “staccalo da te il pagliaccetto che ti fabbrichi con l’interpretazione fittizia dei tuoi atti e dei tuo sentimenti, e t’accorgerai subito che non ha nulla da vedere con ciò che è in te e che tu non sai, e che è un dio terribile, bada, se ti opponi a esso, ma che invece diventa invece subito pietoso d’ogni tua colpa se t’abbandoni e non ti vuoi scusare. […] al pagliaccetto che non scorgeva in sé, ma vedeva in te che gli facevi specchio” (Pirandello, 1958, p. 198). Evidente l’influenza di Les altérations de la personalité di Binet: “e tante e tante cose, in certi momenti eccezionali, noi sorprendiamo in noi stessi, percezioni, ragionamenti, stati di coscienza, che son veramente oltre limiti relativi alla nostra esistenza normale e cosciente” (Pirandello, 1908). L’esistenza normale, fatta di ordine e certezze, si è disgregata nella mancanza di coerenza e unità di un susseguirsi scomposto e casuale di eventi, di frammenti privi di un qualsivoglia nesso; ogni corrispondenza simbolica tra la natura e l’uomo si è dissolta nel flusso distruttivo del tempo che non è più rettilneo, ma caos. “Il grande artista tende all’armonia attraverso il capolavoro, dalla ferma oggettività formale, ove tutte le incrinature vengano saldate nel bronzo: luogo di riferimento e di protezione per l’umanità infreddolita dalle tenebre, immersa nel buio. Pirandello costruisce pezzi disarmonici. Utilizza la dissonanza come scatto di ripresa per una soluzione che viene di continuo rimandata” (Macchia, 1969-72, p. XXXVIII).

“Sapeva bene Perazzetti quanto in ogni uomo il fondo dell’essere sia diverso dalle fittizie interpretazioni che ciascuno se ne dà spontaneamente, o per inconscia finzione, per quel bisogno di crederci o d’esser creduti diversi da quel che siamo, o per imitazione degli altri, o per le necessità e le convenienze sociali” (Non è una cosa seria). C’è nelle novelle la totale dissacrazione della società e con essa dei valori convenzionali e borghesi di famiglia, amore e lavoro, trasformatisi ormai in un puro gioco delle parti, “di quelle intime e quasi necessarie ipocrisie, di quelle spontanee, inevitabili illusioni che ciascuno, senza volerlo, si crea e si compone per un bisogno istintivo, quasi di pudor sociale” (Una voce): “la realtà ci appare orrida nella sua crudezza impassibile e misteriosa, poiché tutte le nostre fittizie relazioni consuete di sentimenti e d’immagini si sono scisse e disgregate in essa” (Pirandello, 1908). L’uomo recita un copione che lo imprigiona in un ruolo, in una maschera vuota e priva di significato, ma che ha la forza di rendere reale e reificato ciò che non esiste: “a noi stessi e alla nostra vita diamo ciascuno a modo nostro una realtà: la proiettiamo fuori e crediamo che, così come è nostra, debba essere anche di tutti; e allegramente ci viviamo in mezzo e ci camminiamo sicuri, il bastone in mano, il sigaro in bocca. Basta appena un soffio a portarsela via, codesta vostra realtà! Ma non vedete che vi cangia dentro di continuo? La realtà non è mai per sè” (I pensionati della memoria); “non esiste alcuna realtà se non quella che ci diamo noi” (La trappola).

L’uomo, “gravato di altissimi doveri pubblici e privati” si ritrova d’un tratto “con un senso d’atroce afa della vita, in un tetro plumbeo attonimento, nel quale gli aspetti delle cose più consuete m’apparvero come votati di ogni senso, eppure, per i miei occhi, d’una gravezza crudele, isopportabile” (La carriola). L’avvocato non si riconosce in quella targa ovale, d’ottone, su cui è inciso il suo nome, preceduto dai titoli e seguito dagli attributi scientifici e professionali: “vidi a un tratto, come da fuori, me stesso e la mia vita, ma per non riconoscermi e per non riconoscerla come mia”. La forma si rivela vuota e inconcludente, sclerotizzante, una trappola data dal meccanismo fittizio delle regole sociali, una forma che “deve essere per forza” perché “serve così”. Ma l’uomo si scopre angosciato nel sentire la sua forma come una “morte”, in quanto non riesce a condividere le strutture di significato e le regole delle pratiche sociali: “e grido, l’anima mia grida dentro questa forma vuota che mai è stata mia. E ho nausea, orrore, odio di questo che non sono io, che non sono mai stato io”. E’ l’amore la prima e più grande trappola, l’amore e la famiglia, basi imprescindibili della società borghese; nella famiglia sono indissolubilmente legate le forme della vita e della morte: “e si innamorava il disgraziato, si innamorava con una facilità spaventosa! Non pensava più a nulla, s’intende, finiva d’esser lui, appena innamorato diventava subito un altro, diventava quel Perazzetti che gli altri volevano, qual amava foggiarselo la donna nelle cui mani era caduto, non solo, ma quale amavano foggiarselo anche i futuri suoceri, i futuri cognati e perfino gli amici di casa della sposa. Faceva schiattar dalle risa nel descrivere tanti Perazzetti ch’egli era stato, uno più stupido e imbecille dell’altro: quello del pappagallo della suocera, quello delle stelle fisse della cognatina, quello dei fagiolini dell’amico non so chi” (Non è una cosa seria).

Anche quando l’uomo si appropria di un ruolo, anche quando pare che “una vena nuova di vita gli fosse rampollata dentro e si fosse messa a scorrere con urgenza impetuosa”, arriva inesorabile chi chiede “ma scusate, non siete voi don Ciccino Cirinciò?”. Non è semplice richiesta di un nome, ma richiesta di togliersi una maschera, una forma assunta dove “nessuno lo conosceva” ed ora “con gli occhi di quell’ometto si vedeva rientrare in sé medesimo con tutte le sue sciagure e le sue miserie”: “non era credibile, non appariva credibile più neanche a se stesso…” (La maschera dimenticata). L’uomo si vede obbligato ad accettare il ruolo sociale cui altri lo hanno costretto, a divenire oggetto dato e osservato; percepisce di non essere entità unica, ma parte di un contesto relazionale, di non possedere una dimensione psicologica totalizzante, ma di dover assumere ruoli dati dai suoi rapporti di interazione con gli altri, unica modalità interpretativa del suo senso di identità (Bateson, 1972).  Unica via d’uscita è un gesto incoerente, un atto contrario alle norme prescrittive, al comune e condiviso sistema normativo simbolico, la voluttà di concedersi “d’esser pazzo, d’esser pazzo per un attimo solo, per uscire un attimo solo dalla prigione di questa forma morta, di distruggere, d’annientare per un attimo solo, beffardamente, questa sapienza, questa dignità che mi soffoca e mi schiaccia” (La carriola) o la decisione di sposarsi “per guardarsi dal pericolo di prendere moglie” (Non è una cosa seria).

La struttura sintattica delle novelle sembra rispondere alle medesime istanze. Anch’essa si frantuma in forme paratattiche che, annullando ogni nesso subordinativo, annullano la possibilità stessa di una realtà data dalla logica successione meccanicistica di eventi e comportamenti. Tutto pare ridursi a una assoluta simultaneità di cui diviene espressione linguistica il passaggio senza soluzione di continuità dalla struttura narrativa con i tempi funzionali del passato storico alla forma dialogica con l’uso del parlato asintattico che risolve tutto nel presente dell’azione diretta, che rimanda a una costruzione teatrale in cui diventano complementari al linguaggio l’espressività mimica dei gesti e dei movimenti. Come la vita si fa teatro (Goffman, 1969), il linguaggio si teatralizza, gioca sul rapporto tra effetto e parola, sulla parola che pur nella prosa, si appoggia all’inflessione della voce e arriva quasi all’afasia (Macchia, 1967-72).

3.3 I Romanzi

Non aver più coscienza d’essere, come una pietra, come una pianta: non ricordarsi più neanche del proprio nome…: vivere per vivere, senza saper di vivere”
Pirandello, Uno, nessuno e centomila

Il romanzo nasce come genere oggettivo, capace di dare un vero spaccato della realtà, una sua spiegazione ultima, fornendone un sistema razionale e risolutivo (Pullini, 1986). Anche Pirandello nel passo già citato del saggio L’uomorismo (1908) riconosce all’arte la funzione di offrire un quadro d’insieme alle diverse immagini he assumono così l’aspetto di un “congegno ordinato”: “l’opera d’arte è creata dal libero movimento della vita interiore che organa le idee e le immagini in una forma armonioso, di cui tutti gli elementi hanno corrispondenza tra loro e con l’idea madre che le coordina”. Interessante il confronto con un brano apparentemente analogo del Verga, confronto dal quale emerge chiaramente la distanza tra i due autori: dove uno registra pur attraverso una “ricostruzione intellettuale” una realtà data, appartenente al tempo ciclico dell’eterno alternarsi delle stagioni, sempre uguale a se stessa, determinata in senso causalistico dalla “lotta per la vita”, l’altro parla di una “riflessione” che è lettura non di una realtà, ma di una interazione continua e fluida tra lettore, autore e personaggio; se uno è espressione di un approccio nomotetico e meccanicistico l’altro nega l’isomorfismo tra realtà e conoscenza proprio del realismo monista. “Intanto io credo che il trionfo del romanzo, la più completa e la più umana delle opere d’arte, si raggiungerà allorché l’affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane; e che l’armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua arte così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, e il romanzo avrà l’impronta dell’avvenimento reale, e l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sorta spontanea come un fatto naturale” (Lettera a Salvatore Farina). Pirandello nega invece ogni possibile descrizione naturalistica: “non solo per l’artista, ma non esiste per nessuno una rappresentazione, sia creata dall’arte e sia comunque quella che tutti ci facciamo di noi stessi, degli altri e della vita, che si possa credere una realtà” (Pirandello, 1908). La realtà è illusione: “affrettatevi e tormentatevi, senza pensare che tutto questo non conclude. Se non conclude, è segno che non deve concludere, e che è vano cercare una conclusione. Bisogna vivere cioè illudersi, lasciar giocare in noi il demoniaccio beffardo” che “si spassa a rappresentarci di fuori, come realtà, ciò che poco dopo egli stesso ci scopre come una nostra illusione, deridendoci” (I vecchi e i giovani, 1909).
Il primo romanzo di Pirandello, L’esclusa, pubblicato nel 1901, ma scritto già nel 1893, ha ancora forti legami con il Verismo del Capuana, sia nell’impianto stilistico con la narrazione in terza persona sia nell’ambientazione in una Sicilia gretta, chiusa in un moralismo e perbenismo formale. In realtà il “fatto” al centro del romanzo, il tradimento della moglie a causa del quale essa verrà cacciata da casa, è reale solo nella soggettività del marito e del paese ed anzi, il momento in cui si compie davvero il tradimento, in cui cioè il fatto diviene reale, coincide con il momento del perdono. La conclusione beffarda e paradossale rompe così alla base l’impianto deterministico del Verismo, annullando di fatto proprio la relazione di causa ed effetto del comportamento della donna, la concatenazione  meccanicistica degli eventi.

Pirandello nei suoi romanzi abbandona la descrizione monologica dell’uomo in quanto ha abbandonato la visione di un uomo “frutto di un’astrazione da una radice quadrata” (Dostoevskij, 1864) di un uomo determinato da leggi matematiche. Si pongono in rilievo le diverse modalità in cui l’uomo si osserva, viene osservato e si sente oggetto di osservazione, nella consapevolezza che la sua stessa identità non è proprietà della persona, ma risiede, in quanto articolato sistema di rappresentazioni unificate di sé e mediate da un ruolo, nella struttura normativo simbolica e nelle regole dell’interazione (Salvini, 1998).
Accanto alla scoperta della provvisorietà della forma e della sua ineluttabilità, si profila la consapevolezza della necessaria rinuncia a vivere. «Una sola cosa è triste, cari miei: aver capito il giuoco! Dico il giuoco di questo demoniaccio beffardo, che ciascuno di noi ha dentro e che si spassa a rappresentarci di fuori, come realtà, ciò che, poco dopo, egli stesso ci scopre come una nostra illusione, deridendoci degli affanni che per essa ci siamo dati, e deridendoci anche… del non averci saputo illudere, poichè fuori di queste illusioni non c’è più altra realtà… E dunque non vi lagnate! Affannatevi e tormentatevi, senza pensare che tutto questo non conclude. Se non conclude, è segno che non deve concludere, e che è vano dunque cercare una conclusione. Bisogna vivere, cioè illudersi; lasciar giocare in noi il demoniaccio beffardo, finchè non si sarà stancato; e pensare che tutto questo passerà… passerà… (I vecchi e i giovani, 1909, p. 272).

3.3.1 Il fu Mattia Pascal  (1904)

Ne Il fu Mattia Pascal realtà e finzione si mescolano, si confondono. Abbandonato l’assetto verista si presenta come un lungo monologo, un racconto svolto in prima persona di un “caso strano e diverso”, eppure espressione del “beatissimo dispregio d’ogni verosimiglianza della vita”. La scelta del tempo presente dà continuità e attualità al racconto dell’io narrante che è il personaggio nel momento dello svolgersi dell’azione. La focalizzazione soggettiva, cangiante e mutevole, presenta gli avvenimenti in una prospettiva di relatività, avendo disgregato di per sé l’oggettività naturalistica del fatto (Baldi, Giusso 1994). Le vicende del resto non sono narrate, ma vi è il tentativo da parte di Mattia di spiegare a sé e agli altri la bizzarria della sua sorte.  Il romanzo si apre e si chiude con la profferta del nome, Mattia Pascal prima, il fu Mattia Pascal dopo, delineando immediatamente il tema centrale del romanzo, l’identità cercata dall’uomo e risoltasi proprio in quel nome che è “una cosa poco seria” (Non è una cosa seria), che non pareva molto a chi ignorava “che cosa voleva dire il non sapere neppure questo, il non poter più rispondere, cioè, come prima, all’occorrenza: -Io mi chiamo Mattia Pascal”. E’ la storia del tentativo di fuga di un uomo incarcerato dalle trappole della vita della convivenza sociale, del suo tentativo di recuperare una vera identità al di là della forma, della maschera: “ io mi ero conciato a quel modo per gli altri, non per me. Dovevo ora star con me, così mascherato?”. Adriano Meis si riappropria della libertà negata dalle convenzioni sociali a Mattia, ma la libertà “così sconfinata” era anche “un tantino tiranna” e Adriano si ritrova “forestiere alla vita”, alla vita che “considerata così, da spettatore estraneo, pareva ora senza costrutto e senza scopo”; “e io non potevo più essere”.

Anche le piccole cose che ci circondano assumono significato solo all’interno di una cornice simbolica che ci permetta di dare loro un significato, significato che viene negato ad Adriano: “ogni oggetto in noi suol trasformarsi secondo le immagini che esso evoca e aggruppa, per così dire, attorno a sé. Certo un oggetto può piacere anche per se stesso; ma ben più spesso il piacere che un oggetto ci procura non si trova nell’oggetto per se medesimo. La fantasia lo abbellisce cingendolo e quasi irraggiandolo d’immagine care. Né noi lo percepiamo più qual esso è, ma così, quasi animato dalle immagini che suscita in noi o che le nostre abitudini vi associano. Nell’oggetto, insomma, noi amiamo quel che vi mettiamo di noi, l’accordo, l’armonia che stabiliamo tra esso e noi, l’anima che esso acquista per noi soltanto e che è formata dai nostri ricordi. Or come poteva avvenire per me tutto questo in una camera d’albergo?” Adriano Meis inizia a “penetrare il senso e a misurare i limiti” della sua libertà: “avevo già sperimentato come la mia libertà, che a principio mi era sembrata senza limiti, ne avesse purtroppo nella scarsezza del mio denaro; poi mi ero accorto che avrebbe potuto chiamarsi solitudine o noia, e che mi condannava a una tristissima pena: quella della compagnia di me stesso; mi ero allora accostato agli altri; e la vita, per quanto io, già in guardia, mi fossi opposto, la vita mi aveva trascinato con la sua foga irresistibile: la vita che non era più per me”. La libertà ha trasformato Angelo Meis in un’ombra, “un’ombra di un morto. Ma aveva un cuore, quell’ombra, e non poteva amare; aveva denari, quell’ombra, e ciascuno poteva rubarglieli; aveva una testa, ma per pensare e comprendere ch’era la testa di un’ombra, e non l’ombra di una testa”. L’uomo che sa di non essere uno scopre di non essere nessuno; l’uomo che non vuole rassegnarsi alla maschera non ha altro, non ha altra possibilità se non recitare il suo ruolo nel palcoscenico della vita, il setting Goffman (1959), sul quale a partire da significati condivisi ognuno deve recitare il proprio ruolo. “Fuori dalla legge e fuori di quelle particolarità, liete o triste che sieno, per cui noi siamo noi, caro signor Pascal, non è possibile vivere. Ma io gli faccio osservare che non sono rientrato affatto né nella legge né nelle mie particolarità. Mia moglie è moglie di Pomino, e io non saprei proprio dire ch’io mi sia”. L’uomo posto nell’impossibilità di indossare la maschera si ritrova nudo, “non crede più in una salvezza, neppure in quella della natura o dell’io […]; arriva alla disintegrazione totale dei ruoli e delle regole, della morale” (Querci, 1992, p. 29).

3.3.2 Uno, nessuno e centomila (1925)

La stessa cosa non è uguale per tutti e anche per ciascuno di noi può di continuo cangiare, e difatti cangia di continuo
Pirandello, Uno, nessuno e centomila

“Mi si fissò invece il pensiero che io non ero per gli altri quel che finora dentro di me m’ero figurato d’essere”, “credevo d’essere per tutti un Moscarda col naso dritto, mentr’ero per tutti un Moscarda col naso storto”.
Vitangelo Moscarda all’improvviso scopre in sé un altro, tanti altri. E’ l’uomo divenuto consapevole dell’Altro (Mead, 1934), ma che cade nell’“ambascia” di non riuscire a rappresentarsi: “non potevo pormi davanti il mio corpo e vederlo vivere come quello di un altro. […] io non potevo vedermi vivere”.  Il valore e il significato anche dell’aspetto corporeo e quindi dell’immagine di sé, avendo bisogno di un doppio sguardo di conferma, il proprio e l’altrui, si rivela transitorio e fluido. Il me non è dato, ma è una costruzione conseguente un processo dialogico tra voci narranti individuali, interpersonali e sociali di contesto (Faccio, 2005); la conoscenza di sé presuppone l’aver assunto l’Altro come referente, assunzione che permette la selezione e l’interpretazione delle informazioni che si hanno a disposizione nel contesto in cui è inserito il soggetto (Salvini, 1998). Venutagli a mancare la capacità di elaborare le informazioni che lo riguardano, interne ed esterne, di percepirsi attraverso una immagine di sé univoca, Moscarda è incapace di porre in atto le competenze sociali, di assumere un ruolo, dotato di un significato condiviso, necessario per organizzare e dare senso ai contesti relazionali in cui interagisce. Si trova così nell’impossibilità di comprendere il proprio e l’altrui agire e di costruirsi o di riconoscersi in una propria identità personale.

Il presupposto positivista per cui ogni uomo ha la presunzione di potersi costruire “così o così, secondo come si vede e sinceramente crede di essere, non solo per sé, ma anche per gli altri”, per cui ad una azione corrisponde una reazione certa e prevedibile, per cui tutto, anche la dimensione umana, è riconducibile  a classificazioni astratte di tipo scientifico pare vacillare. “E’ la presunzione che la realtà, qual è per voi, debba essere e sia ugualmente per tutti gli altri. Ci vivete dentro; ci camminate fuori, sicuri. La vedete, la toccate; e dentro anche, se vi piace, ci fumate un sigaro (la pipa? La pipa) e beatamente state a guardare le spire di fumo a poco a poco vanire nell’aria. Senza il minimo sospetto che tutta la realtà che vi sta attorno non ha per gli altri maggiore consistenza di quel fumo”. ”Innegabilmente ci sono i fatti: “nascere è un fatto. Nascere in un tempo anziché in un altro […], da questo o da quel padre, in questa e in quella condizione; nascere maschio o femmina: fatti”. Ma i fatti non bastano a rendere ragione dell’essere dell’uomo: “tempo, spazio: necessità. Sorte, fortuna, casi: trappole tutte della vita. C’è questo. In astratto non si è”. Non è possibile rendere l’uomo semplice soggetto, cartesianamente separato dall’oggetto. L’enfasi si pone qui sulla dimensione interattiva dell’uomo, che scopre un’immagine di sé non prescindibile dal contesto in cui si trova ad agire; l’uomo non è monade isolata, “senza porte e senza finestre” (Leibniz, 1914). “L’essere agisce necessariamente per forme, che sono le apparenze ch’esso si crea, e a cui noi diamo valore di realtà”. La verità del soggetto non è nel soggetto, perché esso “non sarà mai né questo né così in modo stabile e sicuro; ma ora in un modo ora in un altro”. Gli stessi “connotati” di una persona sono “dati che per sé non dicono nulla” perché non danno ragione della presenza di un altro che mi vede: “quand’anche mi rappresentassero intero e preciso, dove mi rappresenterebbero? In quale realtà? Nella vostra, che non è quella di un altro”. L’identità della persona appare dunque non solo costantemente negoziata con il contesto significante, con la struttura normativo simbolica all’interno del quale il soggetto agisce [3], ma non separabile dalla presenza dell’altro: le categorie dell’osservatore vengono cioè a sovrapporsi alle caratteristiche personali (Salvini, 1998). “Ciascuno di voi interpreterà [ogni atto ch’io compia], gli darà senso e valore a seconda della realtà che m’ha data”. Ma la realtà su se stessi non è data neppure al soggetto: “ciò che possa essere io per me, non solo non potete saper nulla voi, ma nulla neppure io stesso”.

[3] Le matrici generative dell’identità personale non si possono più ricercare all’interno del soggetto, ma nelle relazioni del soggetto con la matrice culturale e sociale in cui è immerso (INGHILLERI, FASOLA, 2005).

L’altro, imprescindibile osservatore, fa percepire in modo differente noi anche a noi stessi. Immaginiamo di essere con un amico di vecchia data e che arrivi, inaspettato un nuovo amico, sconosciuto al vecchio: nasce “un imbarazzo insostenibile di trovarsi, così, due, contemporaneamente”, tanto da dover mandar via “con una scusa meschina” uno dei due. “Incompatibili non erano quei due […], ma i due voi che all’improvviso avete scoperto in voi stesso. Non avete potuto tollerare che le cose dell’uno fossero mescolate con quelle dell’altro; […] per il vecchio amico avete una realtà e un’altra per il nuovo, così diverse in tutto da avvertire voi stesso che, rivolgendovi all’uno, l’altro sarebbe rimasto a guardarvi sbalordito”.
L’altro può essere anche la propria memoria: “andate via da codesta casa; ripassate fra tre o quattr’anni a rivederla con un altro animo da questo d’oggi; vedrete che ne sarà più di codesta realtà”. Non esiste allora “una signora realtà mia e una signora realtà vostra, dico per se stesse, e uguali, immutabili”.

Con la qualità che è propria dell’uomo Vitangelo Moscarda inizia a interrogarsi: “che altro avevo dentro, se non questo tormento che mi scopriva nessuno e centomila?”; “che voleva dire io, se per gli altri aveva un senso e un valore che non potevano mai essere i miei; e per me, così fuori degli altri, l’assumermene uno diventa subito l’orrore di questo vuoto e di questa solitudine?”. L’uomo pirandelliano scopre che se non accetta la realtà in quanto data da un contesto, se si aliena da questo stesso contesto, rimane solo, “ciascuno con gli occhi pieni dell’orrore della propria solitudine senza scampo”. Al di fuori di un sistema di riferimento anche la comunicazione si fa vana. “Parlare per non intendersi” pur usando la stessa lingua, le stesse parole, perché le parole sono vuote: e voi le riempite del senso vostro nel dirmele; e io nell’accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto d’intenderci; non ci siamo intesi affatto.” [4] “io dunque parlavo per me solo. Ella parlava col suo Gengè [5].

[4] Il concetto dell’incomunicabilità delle parole torna, quasi testualmente, in Sei personaggi in cerca d’autore: “è  tutto qui il male. Nelle parole. Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se io nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro dime; mentre chi le ascolta, inevitabilmente, le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!”

[5] Gengè è il nomignolo con cui lo chiama la moglie, è l’io per lei, è Vitangelo Moscarda “quale ella se l’era foggiato, […] carino sciocchino”, è l’estraneo che lei stringe tra le braccia: “quel suo Gengè esisteva, mentre io per lei non esistevo affatto. […] La realtà mia era per lei in quel suo Gengè”.

E questi le rispondeva per bocca mia in un modo che a me restava al tutto ignoto. E non è credibile come diventassero sciocche, false, senza costrutto tutte le cose ch’io le dicevo e ch’ella mi ripeteva. […] – io ho detto cosi?”.
“E nulla più era vero, se nessuna cosa per sé era vera”.

3.4 Il teatro

I greci che ebbero l’armonia interiore derivante dall’esatta concezione della via e dell’uomo, ebbero anche un teatro glorioso, perché poterono serenamente contemplare ogni errore, cui deve sempre fatalmente seguire una catastrofe. noi sentiamo troppo, soffriamo troppo: la nostra vita è per se stessa drammatica, però non possiamo aver la serenità di concepire il dramma, da che noi stessi vi siamo impigliati.
La menzogna nel sentimento dell’arte “Vita Nuova”, 1890

Pirandello approda al teatro seguendo il modello teatrale naturalista del dramma borghese con il suo interesse per le problematiche familiari, soprattutto soldi e adulterio [6], minandone però da subito il significato di rappresentazione oggettiva della realtà: “Non si tratta di imitare o riprodurre una vita; e questo per la semplicissima ragione che non c’è una vita che stia come una realtà per sé, da riprodurre con caratteri suoi propri: la vita è flusso continuo e indistinto e non ha altra forma all’infuori di quella che a volta a volta le diamo noi, infinitamente varia e continuamente mutevole” (2006, p. 1070). Anche la scrittura drammatica, come quella narrativa delle novelle, “non è imitazione o riproduzione, ma creazione” (2006, p. 1069).

[6] La prima opera drammaturgica, L’epilogo, risale al 1898 e narra, con uno schema tipico del teatro naturalistico-borghese, di un triangolo amoroso, marito, moglie, amante.

Pirandello pone in discussione la modalità con cui gli autori drammatici compongono le loro opere, partendo da un fatto, da una osservazione “che stimano originale su un dato sentimento o caso della vita” per poi su questo trarne un dramma “come una conclusione costruita al pari d’un ragionamento, con un’addizione di elementi esteriori, di cui studiano i rapporti, e innestano e combinano”; nessuno pensa, o vuol pensare, sostiene invece Pirandello,  che “l’arte è la vita e non un ragionamento; che partire da un’idea astratta […] e poi dedurne, mediante il freddo ragionamento e lo studio, le immagini che le possano servir da simbolo, è la morte stessa dell’arte [7]. Non il dramma fa le persone, ma queste il dramma” (2006, p. 449).

[7] Si veda anche Arte e scienza, 1908 in 2006, pp. 587-606

I personaggi delle prime prove teatrali sembrano vuol far implodere [8] i ruoli che il mondo borghese impone loro di assumere, quello del bravo marito o dell’uomo d’affari tutto ligio al suo lavoro.

[8] Antonio Gramsci in una recensione a Il piacere dell’Onestà parlerà delle commedie di Pirandello come di “bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori e producono crolli di banalità, rovine di sentimenti, di pensiero” (“Avanti”, 29 novembre 1917).

Portando il ruolo stesso alle sue estreme conseguenze non si può che giungere al paradosso, svelandone in pieno l’ inconsistenza ontologica: le corna messe al marito dalla giovanissima moglie, sono corna ad un ruolo, non ad personam (Pensaci, Giacomino, 1916); la moglie diviene solo  incarnazione del ruolo di moglie, “e per me nessuna! nessuna! (Così è se vi pare, 1917). In discussione è la regolarità borghese, la normalità cui si contrappone una anormalità sfacciata, volutamente ostentata per rendere palese, proprio attraverso il farsesco, l’intima normalità di quella pazzia, di quella stranezza, considerata anormale solo dalla società conformista, fatta di forme e maschere sclerotizzate e sclerotizzanti. Lo spunto fondamentale è dato dalla tesi di Baldovino nel Piacere dell’onestà (1917): “Mi disse che Cartesio, scrutando la nostra  coscienza della realtà, ebbe uno dei più terribili pensieri che si siano mai affacciati alla mente umana: — che, cioè, se i sogni avessero regolarità, noi non sapremmo più distinguere il sonno dalla veglia! — Hai provato che strano turbamento, se un sogno ti si ripete più volte? — Riesce quasi impossibile dubitare che non siamo di fronte a una realtà. Perché tutta la nostra conoscenza del mondo è sospesa a questo filo sottilissimo. la re-go-la-ri-tà delle nostre esperienze. — Noi, che abbiamo questa regolarità, non possiamo immaginare quali cose possano essere reali, verosimili, per chi viva fuori d’ogni regola, come quell’uomo li!”  (atto I, scena III). Baldovino appare come la vecchia imbellettata de L’umorismo (1908), burattinesco, ridicolo, goffo, ma anche profondamente straziato, sofferto.

3.4.1 Sei personaggi in cerca d’autore (1921)

Ma dunque sul serio lei non comprende l’orrore della tragedia mia? Avere il privilegio inestimabile di esser nato personaggio, oggi come oggi, voglio dire oggi che la vita materiale è così irta di vili difficoltà che ostacolano, deformano, immiseriscono ogni esistenza; avere il privilegio di esser nato personaggio vivo, ordinato dunque, anche nella mia piccolezza, all’immortalità, e sissignore, esser caduto in quelle mani, esser condannato a perire iniquamente, a soffocare in quel mondo d’artificio, dove non posso né respirare né dare un passo, perché tutto è finito, falso, combinato, arzigogolato!” (Pirandello, 1958, p. 816).

Il rapporto tra normalità e anormalità, tra realtà e finzione si risolve nel conflitto tra persona e personaggio nel meta teatro di Pirandello, in particolare nella commedia Sei personaggi in cerca d’autore rappresentata nel 1921. “La natura si serve dello strumento della fantasia umana per proseguire la sua opera di creazione, e chi nasce mercè questa attività creatrice che ha sede nello spirito dell’uomo è ordinato da natura a una vita di gran lunga superiore a quella di chi nasce dal grembo mortale di una donna. Chi nasce personaggio, chi ha la ventura di nascere personaggio vivo..” ha ritrovato l’indistruttibile, l’eterno. La differenza è tra l’avere forma, la persona,  e l’essere forma, il personaggio. Alla persona appartiene una forma continuamente cangiante fino alla sua stessa distruzione; i personaggi sono immortali, fissati in una forma consistente e definitiva.
“Posso soltanto dire che, senza sapere d’averli punto cercati, mi trovai davanti, vivi da poterli toccare, vivi da poterne udire perfino il respiro, quei sei personaggi che ora si vedono sulla scena. E attendevano, lì presenti, ciascuno col suo tormento segreto e tutti uniti dalla nascita e dal viluppo delle vicende reciproche, ch’io li facessi entrare nel mondo dell’arte, componendo delle loro persone, delle loro passioni e dei loro casi un romanzo, un dramma o almeno una novella.
Nati vivi, volevano vivere” (Prefazione, 1925).

“Due soprattutto fra quei sei personaggi, il Padre e la Figliastra, parlano di questa atroce inderogabile fissità della loro forma, nella quale l’uno e l’altra vedono espresse per sempre, immutabilmente la loro essenzialità, che per l’uno significa castigo e per l’altra vendetta; e la difendono contro le smorfie fittizie e la incosciente volubilità degli attori e cercano d’imporla al volgare Capocomico che vorrebbe alterarla e accomodarla alle così dette esigenze del teatro” (Prefazione, 1925). Il padre si ritrova fissato per sempre in quel singolo atto di debolezza della sua carne in cui lo ha sorpreso la figlia, “dove e come non doveva conoscermi, come io non potevo essere per lei; e mi vuole dare una realtà”: “il dramma è tutto qui, nella coscienza che ho, che ha ciascuno di noi – veda – si crede uno ma non è vero; è tanti, signore, tanti, secondo tutte le possibilità che sono in noi; uno con questo, uno con quello, diversissimi! e con l’illusione, intanto, d’essere sempre uno per tutti, e sempre quest’uno che ci crediamo in ogni nostro atto”. La figlia è costretta in quel grido della madre a rimanere “quella ragazzetta con le treccine sulle spalle […] con le mutandine fuori dalla gonna” e a non stare “come una signorinetta modesta, bene allevata e virtuosa, d’accordo con le sue maledette aspirazioni a una solida sanità morale”. Al di sotto del dramma dell’incesto emerge forte il rapporto tra illusione e realtà, tra la “perfetta illusione di realtà” che dovrebbe essere l’arte e il non avere “altra realtà fuori di questa illusione” dei personaggi. “un personaggio, signore, può sempre domandare a un uomo chi è. Perché un personaggio ha veramente una vita sua, segnata di caratteri suoi, per cui è sempre qualcuno. Mentre un uomo –non dico lei, adesso – un uomo così in genere, può non essere nessuno. […] Se noi oltre l’illusione non abbiamo altra realtà, è bene che anche lei diffidi della realtà sua, di questa che lei oggi respira e tocca in sé, perché come quella di ieri è destinata a scoprirlesi illusioni domani”.

Ma realtà e finzione si intrecciano, così i personaggi non accettano di essere rappresentati: “la rappresentazione che farà difficilmente potrà essere una rappresentazione di me, com’io realmente sono. sarà piuttosto – a parte la figura – sarà piuttosto com’egli interpreterà ch’io sia, com’egli mi sentirà – se mi sentirà – e non come’io dentro mi sento”. In un saggio su Illustratori, attori e traduttori del 1908 dice che “l’attore rende più reale e tuttavia men vero il personaggio creato dal poeta, gli toglie tanto, cioè di quella verità ideale, superiore, quanto più gli dà di quella realtà materiale, comune; e lo fa men vero anche perché lo traduce nella materialità fittizia e convenzionale della scena. L’attore insomma dà una consistenza artefatta, in un ambiente posticcio, illusorio a persone e ad azioni che hanno già avuto una espressione di vita superiore alle contingenze materiali e che vivono già nell’idealità essenziale e caratteristica della poesia, cioè in una realtà superiore” (2006, p. 647).
Se con i primi drammi Pirandello aveva svuotato il dramma borghese, ora con la negazione di un rapporto preciso tra realtà e finzione, tra finzione e realtà, nega la stessa possibilità del teatro inteso come rappresentazione: “Ma non ha ancora compreso che questa commedia lei non la può fare? Noi non siamo mica dentro di lei, e i suoi attori stanno a guardarci da fuori. Le par possibile che si viva davanti a uno specchio che, per di più, non contento d’agghiacciarci con l’immagine della nostra stessa espressione, ce la ridà come una smorfia irriconoscibile di noi stessi?”.

Cristina Zanette e Claudio Fasola

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