Di Maria Cristina Riffero.
Due musicisti, uno conterraneo di Luigi Pirandello e l’altro nato in Piemonte ovvero Giuseppe Mulè e Alfredo Casella, misero in musica i due testi pirandelliani, ricavandone una commedia in melodramma ed un balletto senza incontrare grande entusiasmo od esplicito consenso per queste trasposizioni per palcoscenico di musica in Pirandello….
Pirandello rusticano:
La Giara e Liolà nell’interpretazione
di Alfredo Casella e Giuseppe Mulè
1.Introduzione
Due musicisti, uno conterraneo di Luigi Pirandello e l’altro nato in Piemonte, regione alla quale la letteratura di Pirandello fu molto legata, ovvero Giuseppe Mulè e Alfredo Casella, misero in musica due testi pirandelliani, ricavandone una commedia in melodramma ed un balletto senza incontrare grande entusiasmo od esplicito consenso per queste trasposizioni per palcoscenico di musica in Pirandello, lavorando su due testi che ebbero forma originale, sia come novella che come sezione di un romanzo pirandelliano, che identificò il suo autore con una notorietà a livello planetario, ovvero Il Fu Mattia Pascal, che in testi per il teatro di prosa, sia il teatro in dialetto siciliano o, per meglio dire, nel dialetto di Agrigento, che in quello delle vicende trasposte per teatro in lingua italiana, questi due testi sono La Giara e la storia del “Don Giovanni” siciliano dalle poderose doti canore, oltre che amatorie, Liolà.
2.La Giara: il racconto
La novella da cui tutto ebbe origine fu scritta nel 1906 e pubblicata sul Corriere della Sera del 20 Ottobre 1909.
L’editore milanese Treves nel 1912 la pubblicò nel volume Terzetti e nel 1928 l’editore Bemporad di Firenze inglobò il racconto La Giara nell’undicesimo volume delle Novelle per un anno che ebbe il titolo proprio da questo racconto incentrato su un episodio della vita nella campagna siciliana presso Agrigento.
La novella parla di una annata agricola in cui c’era stata una grande produzione di olive e il proprietario di un prospero podere, Don Lollò Zirafa:
“Prevedendo che le cinque giare vecchie di coccio smaltato che aveva in cantina non sarebbero bastate a contener tutto l’olio della nuova raccolta ne aveva ordinata a tempo una sesta più capace a Santo Stefano di Camastra dove si fabbricavano alta a petto d’uomo, bella panciuta e maestosa che fosse delle altre cinque la badessa“. La Giara che viene qui descritta, in termini che pare che di essa si voglia fare un ritratto, come se fosse una figura umana, ovvero una donna formosa, diviene dunque di proprietà di questo ricco possidente, uomo quanto mai collerico che attacca briga con tutti per: “Ogni nonnulla”
e il suo avvocato, stanco di vederselo capitare in studio, giungendo dalla campagna trotterellante sulla sua mula, anche più volte in una stessa settimana, gli aveva regalato il Codice Civile perché potesse risolvere da sé le contese che andava creandosi con il suo pessimo carattere.
Per la giara nuova che era giunta al podere non si era riusciti a trovare un posto nella cantina del rustico edificio ed era stata, quindi, provvisoriamente posizionata in un luogo che odorava in modo pesante di mosto e il racconto si apre quando da due giorni è cominciata la raccolta delle olive e descrive Don Lollò che:
“Era su tutte le furie perché tra gli abbacchiatori ed i mulattieri venuti con le mule cariche di concime da depositare a mucchi su la costa… non sapeva più come spartirsi a chi badar prima. E bestemmiava come un turco e minacciava di fulminare questi e quelli se un’oliva che fosse un’oliva gli fosse mancata, quasi le avesse prima contate tutte a una a una sugli alberi o se non fosse ogni mucchio di concime della stessa misura degli altri“.
Il terzo giorno della raccolta delle olive dei contadini che lavoravano al podere si resero conto che:
“La bella giara nuova” era:
“Spaccata in due come se qualcuno, con un taglio netto, prendendo tutta l’ampiezza della pancia, ne avesse staccato tutto il lembo davanti“.
I contadini, terrorizzati alla vista del fatto, per paura di essere incolpati del danno, decidono di avvertire del disastro Don Lollò che stava seguendo gli scaricatori di concime e:
“Gesticolava di solito furiosamente, dandosi di tratto in tratto con ambo le mani una ricalcata al cappellaccio bianco. Arrivava talvolta a forza di quelle ricalcate a non poterselo più strappare dalla nuca e dalla fronte“.
Don Lollò resta disperato a vedere che la giara nuova che gli era costata quattro onze e che non era ancora stata usata si fosse rotta così orribilmente e, quindi, Don Lollò:
“Voleva sapere chi gliel’avesse rotta! Possibile che si fosse rotta da sé? Qualcuno per forza doveva averla rotta per infamità o per invidia! Ma quando? Ma come? Non gli si vedeva segno di violenza! Che fosse arrivata rotta dalla fabbrica? Ma che? Suonava come una campana!“.
I contadini, per calmarlo, dissero al loro padrone che:
“La giara si poteva sanare. Non era poi rotta malamente, un pezzo solo. Un bravo conciabrocche l’avrebbe rimessa su nuova. C’era giusto Zì Dima Licasi che aveva scoperto un mastice miracoloso di cui serbava gelosamente il segreto, un mastiche che neanche il martello ci poteva quando aveva fatto presa. Ecco se Don Lollò voleva domani, alla punta dell’alba, Zì Dima Licasi sarebbe venuto lì e in quattro e quattr’otto la giara meglio di prima“.
I contadini faticarono a persuadere Don Lollò di operare questo tipo di scelta ma questi alla fine si lasciò convincere ed il giorno dopo Zì Dima giunse al podere di PrimoSole per riparare la giara.
Zì Dima viene presentato nel racconto come:
“Un vecchio sbilenco dalle giunture storpie e nodose come un ceppo antico di ulivo saraceno. Per cavargli una parola di bocca ci voleva l’uncino… Voleva che parlassero i fatti Zì Dima Licasi“.
Il conciabrocche vuole riparare la giara con il solo mastice ma il collerico Don Lollò che non si fida di questo mastice, dalla ricetta segreta, di Zì Dima vuole anche che alla giara siano messi i punti, dicendo al conciabrocche:
“Ci devo mettere olio io là dentro e l’olio trasuda! Un miglio di spaccatura con il mastice solo! Ci voglio i punti. Mastice e punti… Comando io“.
Questa richiesta fece molto arrabbiare Zì Dima che sapeva che i proprietari delle giare rotte erano:
“Tutti così! Gli era negato il piacere di fare un lavoro pulito filato coscienziosamente a regola d’arte e di dare una prova della virtù del suo mastice”
ma dovette sottostare alla richiesta di Don Lollò e estrarre dalla cesta il trapano per mettere i punti alla giara lavorando con molta rabbia.
Infatti:
“Zì Dima si mise all’opera gonfio d’ira e di dispetto. E l’ira ed il dispetto gli crebbero ad ogni foro che praticava con il trapano nella giara e nel lembo spaccato per farvi passare il fil di ferro della cucitura. Accompagnava il frullo della saettella con grugniti a mano a mano più frequenti e più forti… Finita quella prima operazione scagliò con rabbia il trapano nella cesta applicò il lembo staccato alla giara per provare se i fori erano a egual distanza e in corrispondenza tra loro poi con le tenaglie fece del fil di ferro tanti pezzetti quanti erano i punti che doveva dare… Aprì la scatola di latta che conteneva il mastice e lo levò al cielo scotendolo, come per offrirlo a Dio visto che gli uomini non volevano riconoscerne le virtù, poi con il dito cominciò a spalmarlo tutto in giro al lembo staccato e lungo la spaccatura, prese le tenaglie ed i pezzetti di fil di ferro preparati avanti e si cacciò dentro la pancia aperta della giara ordinando al contadino”
che aveva chiamato in aiuto:
“Di applicare il lembo della giara così come aveva fatto lui poc’anzi, prima di cominciare a dare i punti“.
E Zì Dima chiede anche al contadino di provare a tirare il lembo rotto della giara per vedere se questo si staccava, pur essendo stato saldato solo con il mastice applicato di fresco e con i punti non ancora messi.
La giara risulta essere resistentissima e suona, anche, come una campana, come se fosse nuova e non avesse subito alcuna riparazione, solo così risistemata con il mastice ed avendo, anche, la presenza del conciabrocche al suo interno ma i punti devono essere messi per forza perché il collerico Don Lollò, che è il padrone, così vuole ed allora:
“Zì Dima si mise a far passare ogni pezzetto di fil di ferro attraverso i due fori accanto, l’uno di qua e l’altro di là della saldatura e con le tenaglie ne attorceva i due capi. Ci volle un’ora a passarli tutti. I sudori giù a fontana dentro la giara. Lavorando si lagnava della sua mala sorte“.
Una volta finito il lavoro, come sempre, Zì Dima usciva dal collo della giara che aveva riparato da dentro ma, in questo caso, il problema dell’uscita dalla giara per Zì Dima, che aveva anche il corpo deforme, si fece veramente drammatico perché:
“Quanto larga di pancia tanto quella giara era stretta di collo. Zì Dima nella rabbia non ci aveva fatto caso. Ora prova e riprova non trovava più il modo di uscirne… Imprigionato lì nella giara da lui stesso sanata e che ora non c’era via di mezzo per farlo uscire, doveva essere rotta daccapo e per sempre“.
Don Lollò è furibondo del fatto che Zì Dima non abbia preso le misure del collo della giara ed ora non riesca più ad uscire da questa, dato che non vuole che essa venga nuovamente ad essere rotta per liberare il conciabrocche imprigionato e decide di andare al paese dal suo avvocato per chiedergli come dovesse comportarsi in questo anomalo caso, intanto però aveva pagato a Zì Dima, sempre chiuso nella giara, buttandogliele dentro, cinque lire, il prezzo stimato per il lavoro della giornata del conciabrocche e in più vuole offrire del cibo a Zì Dima ma questi rifiuta perché vuole solo uscire dalla giara.
L’avvocato, consultato in paese, dice a Don Lollò che il conciabrocche va liberato perché altrimenti si sarebbe trattato di un caso penale di sequestro di persona e, quindi, l’avvocato spiegò a Don Lollò come si doveva procedere in questa vertenza quanto mai singolare che vedeva protagonista questa giara strana che Don Lollò aveva definito:
“Ordigno del diavolo!“.
Don Lollò doveva subito liberare il prigioniero per non rispondere di sequestro di persona e:
“Il conciabrocche doveva rispondere del danno che veniva a cagionare con la sua imperizia o con la sua storditaggine”
di essersi rinchiuso nella giara, dovendola riparare dall’interno, senza averne preso prima le misure del collo e, quindi, Zì Dima avrebbe dovuto ripagare la giara a Don Lollò:
“Non come se fosse nuova perché era rotta”
ma Don Lollò si arrabbia a questa proposta dell’avvocato perché la giara:
“Ora è sana, meglio che sana… E se ora torno a romperla non potrò più farla risanare. Giara perduta“.
L’avvocato consiglia a Don Lollò di fare stimare il valore odierno della giara, dopo la riparazione, dallo stesso Zì Dima.
Ma, ritornato al podere, Don Lollò si accorge che tutti i suoi contadini sono posizionati intorno alla giara in cui Zì Dima sembra starci assai bene e più al fresco che non a casa sua.
Don Lollò chiede, comunque, a Zì Dima di stimare il valore che la giara può avere ora e il conciabrocche gli risponde:
“Se lei me la avesse fatta conciare con il mastice solo, com’io volevo, io prima di tutto non mi troverei qui dentro e la giara avrebbe su per giù lo stesso prezzo di prima. Così conciata, con questi puntacci che ho dovuto darle per forza di qua dentro, che prezzo potrà avere? Un terzo di quanto valeva si e no“.
Don Lollò fa subito il conto e calcola che ora il valore della giara è di un’onza e trentatré e se Zì Dima gli darà quei soldi Don Lollò è disposto a rompere in modo definitivo la bella giara e farlo uscire dalla sua prigionia ma Zì Dima non vuole pagare e dice che piuttosto sarebbe rimasto a vivere per sempre in essa.
Ora era sera e Don Lollò non poteva più tornare dall’avvocato per dirgli che il conciabrocche non voleva più uscire dalla giara e stabilire con questi che cosa legalmente si doveva fare, certo, per prima cosa, il giorno dopo, Don Lollò avrebbe potuto citare Zì Dima per: “Alloggio abusivo”
all’interno della giara e, quindi, impedimento del corretto uso della stessa da parte del suo proprietario.
Preso dalla rabbia Don Lollò scrollò la giara con violenza cercando così di convincere all’uscita Zì Dima perché non voleva danneggiarla colpendola con un calcio ma, anche, scrollata la giara resisteva in modo perfetto alla furia del suo padrone e così Zì Dima poteva elogiare il potere del suo mastice e Don Lollò arrabbiato e stufo di mercanteggiare con il conciabrocche ritenne che Zì Dima avrebbe, prima o poi, richiesto di nuovo di uscire dalla giara perché altrimenti, chiuso lì dentro senza cibo, sarebbe morto di fame ma Zì Dima aveva le cinque lire con cui nel pomeriggio Don Lollò gli aveva pagato il lavoro e con quei soldi il conciabrocche decise di pagare una cena per sé e per i contadini di Don Lollò, il quale fu destato dal suo riposo notturno dal rumore prodotto da quella festa campestre e affacciatosi sull’aia vide:
“Sotto la Luna i contadini ubriachi che presisi per mano ballavano attorno alla giara. Zì Dima la dentro cantava a squarcia gola“.
Don Lollò fu così arrabbiato alla vista di questa scena che:
“Si precipitò come un toro infuriato e… con uno spintone mandò a rotolare la giara giù per la costa. Rotolando… la giara andò a spaccarsi contro un ulivo. E la vinse Zì Dima”
che ritornò libero senza pagare nulla al collerico ed attaccato in modo morboso ai suoi averi Don Lollò.
2.1. La Giara: Corriere della Sera, Mercoledì 20 Ottobre 1909
La prima versione della novella occupa quasi interamente la terza pagina di quel numero del quotidiano milanese che ha riportata in prima pagina la notizia della morte, avvenuta a Torino, dello psichiatra Cesare Lombroso.
La fantasia creativa di Luigi Pirandello fa si che uno stesso racconto da lui creato abbia diverse vite letterarie, ovvero che si presenti diverso nella sua stesura a seconda se pubblicato su quotidiano o rivista oppure appaia in una raccolta di novelle in volume.
In questa versione del racconto comparsa sul Corriere della Sera Pirandello ci dice che la giara nuova giunta al podere delle Quote di PrimoSole di Don Lollò era capace di duecento litri, notizia che si perde nella stampa in volume della novella, nella quale è scritto quando viene trovata la giara spaccata:
“La bella giara nuova spaccata in due come se qualcuno con un taglio netto, prendendo tutta l’ampiezza della pancia, le avesse staccato tutto il lembo davanti“.
Nella versione del racconto apparsa sul quotidiano invece si legge: “Un gran lembo davanti s’era staccato come se qualcuno zà! l’avesse tagliato netto con la mannaia prendendo tutta l’ampiezza della pancia fin giù“.
Quando, poi, più avanti nel racconto Pirandello presenta il conciabrocche Zì Dima come uomo di poche parole nella versione in volume della novella scrive:
“Voleva che parlassero i fatti Zì Dima Licasi. Doveva poi guardarsi davanti e dietro perché non gli rubassero il segreto“,
questa frase continuava, in modo più compiuto, nella novella apparsa sul Corriere della Sera in questo modo:
“Della confezione di quel mastice miracoloso“,
che usava per aggiustare senza punti giare e brocche.
Nel racconto in volume Don Lollò paga a Zì Dima cinque lire per il lavoro svolto nel riparare la giara.
Nella versione della novella per il Corriere della Sera a Zì Dima sono pagate tre lire e, quando l’avvocato suggerisce a Don Lollò di farsi pagare da Zì Dima, rimasto prigioniero della giara che aveva sanato, il valore che questa a suo giudizio aveva dopo la riparazione, per poter così rompere in modo definitivo la giara e fare uscire dalla sua prigionia il conciabrocche questi dice che il valore della giara, dopo il risanamento con i punti oltre che con il mastice, è di un’onza e trentatré e nel racconto presentato sul Corriere della Sera è anche scritto che questo importo corrispondeva al valore di diciassette lire, notizia di proporzione monetaria tra le onze e le lire che manca nell’edizione in volume della novella.
3. La Giara su palcoscenico di teatro di prosa
La versione teatrale in dialetto della commedia con il titolo A’ Giarra vede la prima rappresentazione a Roma il 9 Luglio 1917. La versione in italiano della commedia la si ebbe, sempre a Roma, il 30 Marzo 1925 dopo che il 19 Novembre 1924 a Parigi aveva debuttato l’omonimo balletto con la musica di Alfredo Casella.
La commedia, come il racconto da cui trae origine, è ambientata nel podere di Don Lollò quando si stanno raccogliendo le olive ed è arrivato il concime per i campi.
In apertura dell’atto unico la didascalia descrittiva della scena dice: “E’ Ottobre“.
E mentre nel racconto Don Lollò si deve recare in città per interrogare il suo avvocato a proposito del problema del conciabrocche Zì Dima rimasto prigioniero della Giara nella commedia l’avvocato si trova ospite al podere di Don Lollò in quanto è stato qui invitato dal suo cliente perché possa riposarsi all’aria di campagna ma, in realtà, per chiedergli aiuto e consiglio su come gestire la giara nuova per l’olio che si è fatta da poco fabbricare e su come potere derimere eventuali situazioni critiche che potevano coinvolgere la giara nuova esposta ai passaggi dei lavoratori agricoli del podere.
Don Lollò in apertura dell’atto elogia il prezioso dono del Codice Civile che gli ha fatto il suo avvocato con il mulattiere che gli ha portato il concime e che si inalbera con Don Lollò, il quale vuole che del concime si mettano i mucchi nel luogo da lui prescelto e nella quantità da lui stabilita e dice, mentre:
“Cava di tasca un libro di piccolo formato legato in tela rossa“, al perplesso mulattiere:
“Ti sembra un libricino da messa? E’ il Codice Civile. Me l’ha regalato il mio avvocato, che ora è qua in villeggiatura da me. E ho imparato a leggerci in questo libricino e a me non la fa più nessuno, neppure il Padre Eterno! Contemplato tutto qui, caso per caso. E me lo pago ad anno io l’avvocato!“.
I contadini che lavorano per Don Lollò in questa masseria, nel cui cortile si trova:
“Un secolare ulivo saraceno e attorno al tronco scabro e stravolto un sedile di pietra murato tutto in giro“,
sanno che Don Lollò ha fatto venire l’avvocato al podere per parlargli della sua bella giara nuova.
Don Lollò che deve stare dietro al mulattiere che deve scaricare il concime dice all’avvocato, che nella commedia ha nome Avvocato Scimè, che è uscito di casa disturbato dalle urla di Don Lollò verso il mulattiere, di andare:
“A sedere sotto il gelso e si legga in pace il suo giornale, verrò più tardi a seguitar con lei il discorso della giara“,
in questo modo il padrone testimoniava, di fronte ai suoi contadini, che con l’avvocato, in riposo al podere, stava proprio parlando della giara nuova se, anche, ai contadini, che avevano paura che la giara potesse subire dei danni, esposta come era al passaggio dei lavoranti, voleva fare credere che con l’avvocato stesse parlando di altri argomenti.
L’avvocato dice ai contadini di Don Lollò, quando questi si allontana per seguire il mulattiere, che non ne può più di stare in questo podere perché Don Lollò gli fa:
“Girar la testa come un arcolaio”
ed il giorno dopo sarebbe ritornato nella sua casa in città.
Il garzone del podere, ‘Mpari Pe’, dice che Don Lollò, prima di avere in dono il Codice Civile, si faceva sellare per ogni nonnulla la mula per andare a discutere di ogni, anche minuscolo, problema con l’avvocato e proprio per evitare questo l’avvocato, dice ai garzoni di Don Lollò, di avergli regalato il Codice Civile, così:
“Se lo cava di tasca ci si scapa a cercare da sé e lascia me in pace… Ma appena seppe dell’ordinazione del medico che stessi in riposo per un po’ di giorni in campagna mi mise in croce, mi mise, perché accettassi la sua ospitalità. Gli posi per patto che non dovesse parlarmi di nulla. Da cinque giorni mi rompe l’anima parlandomi di una giara, di non so che giara”
e ‘Mpari Pe’ dice all’avvocato di che tipo di giara si tratta, riprendendo la descrizione che umanizza la giara, paragonandola ad una badessa che si trova ad inizio del racconto:
“La giara grande per l’olio arrivata che è poco da Santo Stefano di Camastra dove si fabbricano bella: grossa così, alta a petto d’uomo, pare una badessa o che vorrebbe attaccarla anche con il fornaciaio di là?“.
E l’avvocato risponde:
“E come no? Perché gliel’ha fatta pagare quattr’onze e dice che se l’aspettava più grande“.
Il prezzo pagato per la giara è presente anche nel racconto dove però non si dice che Don Lollò si lamentasse per aver pagato la giara troppo cara, dopo questo dialogo tra l’Avvocato Scimè e il garzone ‘Mpari Pe’ una didascalia della commedia dice:
“Dall’interno lontano, per le campagne, si ode il bercio cantilenato di Zì Dima Licasi: <Conche, scodelle da accomodare!>“.
Nel racconto sono i contadini che una volta trovata la giara rotta consigliano a Don Lollò di rivolgersi a Zì Dima per farla riparare e questi giunge al podere, chiamato dai contadini di Don Lollò, il giorno dopo la rottura della giara mentre, nella versione teatrale, l’atto unico si svolge tutto dalla mattina alla sera in un unico giorno.
Inoltre, nel testo teatrale, dei contadini addetti alla raccolta delle olive vanno a dire al garzone che Don Lollò ha ordinato loro di togliere la vecchia botte dalla dispensa per metterci la giara nuova e quando questi contadini vanno per fare il lavoro richiesto trovano che la giara nuova è:
“Spaccata a metà, come se le avessero dato con la mannaia: zà!“.
I contadini e le contadine, sicuri di non essere loro la causa della rottura della giara, cercano di trovare una scusa per il fatto da dire al collerico Don Lollò e tra loro discorrono così:
“S’è dato più di una volta… che le giare nuove si rompano da sé! Perché tante volte sapete com’è, nel cuocere in fornace qualche favilla vi rimane presa dentro che poi tutt’a un tratto pam! scoppia. Proprio così come se le tirassero una schioppettata“.
Don Lollò, chiamato per constatare il danno, arriva furente ed urla: “Alla luce se v’è segno d’urto o di botta si vedrà. E se c’è vi salto alla gola e vi mangio la faccia! Me la pagherete tutti quanti, uomini e donne“.
E le contadine, per prenderlo in giro, gli dicono che forse gli hanno rotto la giara:
“Strusciandola con la sottana“.
La giara spaccata viene portata in scena dai contadini, a questo punto della commedia e Don Lollò, vedendo il danno, inizia a levare: “Le disperazioni a modo di quelli che piangono un parente morto“.
E così viene a lamentarsi:
“La giara nuova! Quattr’onze di giara! E dove metterò l’olio dell’annata… E’ stata invidia o infamità! Quattr’onze buttate via! E questa ch’era annata di olive… Come farò?“.
I contadini gli dicono che il danno si può riparare perché:
“Se ne è staccato un pezzo, un pezzo solo, spaccato netto, forse era incrinata!”
ma Don Lollò risponde che non poteva essere incrinata perché risuonava quando era giunta come una campana ed i contadini, allora, gli dicono di chiamare il conciabrocche Zì Dima Licasi che è in zona perché lo hanno sentito gridare ed è un bravo mastro conciabrocche che:
“Ha un mastice miracoloso che non ci può neanche il martello quando ha fatto presa“.
Don Lollò non crede al potere di queste riparazioni miracolose ma accetta che si vada a chiamare Zì Dima ma intanto pensa, anche, di andare dall’avvocato, che sta leggendo il suo giornale tra i campi, per sapere come deve rifarsi del danno alla giara se questo è dovuto ad un difetto di fabbricazione e così dice:
“Che Zì Dima e Zì Dima con l’avvocato piuttosto devo interdermela che se si è rotta da sé è segno che doveva aver qualche guasto, sonava però, sonava quand’è arrivata. E me la son tenuta per sana. C’è la mia dichiarazione. Quattr’onze perdute“.
Quando arriva Zì Dima, che non saluta nel giungere al podere, se anche i contadini in precedenza hanno avvertito Don Lollò che Zì Dima è uomo di poche parole, questi si infuria a non essere stato salutato e apostrofa perciò Zì Dima che gli risponde:
“Ha bisogno della mia opera o del mio saluto? Della mia opera, credo. Mi dica che ho da fare e lo farò“.
Don Lollò, che non è certo meno stizzoso di Zì Dima, replica a sua volta:
“Se le parole vi costano tanto perché non le risparmiate anche agli altri? Non lo vedete qua che cosa avete da fare?(Gli indica la giara)“. Don Lollò vuole sapere come verrà la giara e anche vedere il mastice miracoloso del conciabrocche di cui tutti gli hanno parlato e c’è qui, nelle didascalie e nei dialoghi della commedia, narrato l’episodio, anche presente nel racconto, in cui Zì Dima recupera dalla cesta di lavoro gli occhiali avvolti in un fazzoletto per vedere il danno alla giara in modo più chiaro e tutti pensano che in quel fazzoletto ci sia il mastice e restano delusi quando vedono solo uscire gli occhiali del conciabrocche.
La scena nella commedia si svolge così:
“Zì Dima (che ha posato a terra la cesta e n’ha cavato un vecchio fazzoletto di cotone turchino tutto arrotolato) si mette a sedere per terra e comincia a svolgere, pian piano, con molta cautela, il fazzoletto. Tutti lo guardano attenti e curiosi… Sarà il mastice!… Tutti, appena da quel fazzoletto viene fuori un paio di occhiali con il sellino e le stanghette rotti e legati con lo spago, scoppiando in una risata:
<Uh! Gli occhiali>. Chi sa che credevano che fosse. Credevano il mastice! Zì Dima, pulendo gli occhiali con una cocca del fazzoletto, li guarda, poi, inforcando gli occhiali, esamina la giara e dice: <Verrà bene>“.
Nel racconto questo episodio, riportato quasi in modo uguale nella commedia, è descritto così:
“Zì Dima posò a terra la cesta, ne cavò un grosso fazzoletto di colore rosso, logoro e tutto avvoltolato, prese a svolgerlo prima piano, tra l’attenzione e la curiosità di tutti e quando, alla fine, venne fuori un paio di occhiali con il sellino rotto e le stanghette rotte e legate con lo spago, lui sospirò e gli altri risero. Zì Dima non se ne curò, si pulì le dita prima di pigliare gli occhiali, se li inforcò poi si mise a esaminare con molta gravità la giara tratta sull’aia. Disse: <Verrà bene>“.
A questo punto, però, Don Lollò dice che oltre al mastice vuole anche che vengano dati i punti alla sua giara e nella didascalia della commedia è scritto che dopo questa richiesta di Don Lollò:
“Zì Dima torna a guardarlo poi, senza dir nulla, prende il fazzoletto, gli occhiali e li butta nella cesta rabbiosamente, afferra la cesta, se la rimette in spalla e si avvia: <Me ne vado>“.
Meno irato pare, a questo punto della vicenda, lo Zì Dima del racconto che poi esprimerà il suo nervosismo represso quando forerà la giara con il trapano per metterci i punti, perché nel racconto a questo punto si legge che:
“Me ne vado rispose senz’altro Zì Dima rizzandosi e rimettendosi la cesta dietro le spalle”
e Zì Dima, irato di dover mettere anche i punti alla giara, nella commedia dice:
“Tutti così! Ignoranti! Sia pure una brocca o sia una conchetta, una ciotola o una tazzina: i punti. I denti della vecchia che digrignano e par che dicano: <Sono rotta e accomodata>. Offro il bene e nessuno ne vuole approfittare. E mi deve essere negato di fare un lavoro pulito a regola d’arte“.
I contadini danno ragione a Don Lollò e dicono a Zì Dima che, per una migliore tenuta della giara, è meglio mettere anche i punti oltre al mastice miracoloso.
A Zì Dima viene lasciato un contadino come aiuto perché la giara è grossa e, come nel racconto, Zì Dima:
“Si mette subito all’opera con dispetto. Cava dal cesto il trapano e comincia a fare i buchi alla giara e al lembo spaccato”
mentre il contadino, che è Tararà, gli dice parlando di Don Lollò:
“Ci vuole i punti? Lei ce li metta. Venti? Trenta? Anche più? Trentacinque?”
e Zì Dima gli risponde:
“La vedi questa saettella di trapano? Come la muovo, fru e fru, fru e fru, me ne sento sfruconare il cuore”
e il contadino gli chiede:
“E’ vero che l’ebbe in sogno la ricetta del suo mastice?”
e Zì Dima dice di sì che la ricetta la ebbe in sogno, dove gli apparì suo padre e, per spaventare il contadino, dice che il padre che gli apparve in sogno e gli disse come fabbricare il mastice era il diavolo e, quando il contadino si spaventa, pensando essere Zì Dima il figlio del diavolo, il conciabrocche, a proposito del mastice, gli dice:
“E questa che ho nella cesta è la pece che vi attaccherà tutti quanti“. Il contadino crede che sia nera e, per spaventarlo ancora di più, Zì Dima gli dice:
“E’ bianca e me l’insegnò mio padre a farla bianca. Riconoscerete la sua potenza quando ci starete a bollire in mezzo. Ma laggiù è nera. Se accosti due dita non le stacchi più e se t’attacco il labbro con il naso resti abissino per tutta la vita“.
Allora Tararà si stupisce, nella sua dabbenaggine contadina, che il mastice non abbia mai arrecato dei danni a Zì Dima, il quale gli risponde:
“Quando mai il cane ha morso il suo padrone?” e poi Zì Dima:
“(Cava dalla cesta una scatola di latta, la apre, ne trae una ditata di mastice e lo mostra, spalma il mastice prima sull’orlo della spaccatura della giara poi lungo tutto il lembo) Con tre o quattro ditate, così appena appena“.
Poi, Zì Dima dice al contadino che deve entrare nella giara perché deve fermare i punti da dentro e, quindi, prende dalla sua cesta di lavoro fil di ferro e tenaglie ed entra nella giara e, poi, dice al contadino:
“Alza codesto lembo e applicalo a combaciare…Ora tira! Tira! E’ ancora senza punti. Tira con tutta la tua forza. Vedi se si stacca più? Neanche dieci paia di buoi potrebbero più staccarla”
al che il contadino dice a Zì Dima: “E’ sicuro che potrà uscirne ora?” e Zì Dima:
“Come no? Ne sono sempre uscito da tutte le giare” e Tararà replica:
“Ma questa non so. Mi pare un po’ stretta di bocca per lei. Si provi“. Ed, in effetti, Zì Dima si accorge di essere rimasto prigioniero della giara, allora, per capire come procedere, viene chiamato Don Lollò che a sua volta manda a chiamare l’avvocato per risolvere la questione mentre Zì Dima, che vuole uscire dalla giara, gli dice arrabbiato, dato che vuole che la giara venga rotta e, già prima dell’arrivo del padrone aveva chiesto ai contadini di romperla a colpi di martello:
“O la rompe lei o, a costo di rompermi io la testa, la faccio rotolare e spaccare contro un albero!“.
Don Lollò, nell’attesa che arrivi l’avvocato a risolvere il curioso problema, paga a Zì Dima dieci lire per il lavoro che ha svolto, il doppio di quanto lo retribuisce nel racconto.
Quando arriva l’Avvocato Scimè con esso parlano sia Zì Dima che Don Lollò per fare valere le loro ragioni.
Don Lollò non vuole rompere la giara appena risanata, per non perderla in modo definitivo e Zì Dima vuole uscire da questa insolita prigionia e dice all’avvocato che lui non ha badato al fatto che fosse difficoltoso uscire da questa giara perché:
“Da tant’anni che faccio questo mestiere di giare ne ho accomodate centinaia e tutte sempre da dentro per fermare i punti come l’arte comanda. Non m’era mai avvenuto il caso di non potere più uscire. Tocca a lui dunque di prendersela con il fornaciaio che gliela fabbricò così stretta di bocca”
e Don Lollò replica:
“Ma codesta gobba che avete ve l’ha forse fabbricata il fornaciaio per impedirvi di uscire dalla mia giara? Se attacchiamo lite per la bocca stretta… appena si presenta lui con quella gobba il meno che potrà fare il pretore è di mettersi a ridere e mi condannerà alle spese“.
E Zì Dima risponde dicendo:
“Non è vero! Perché con questa stessa gobba… dalla bocca di tutte le altre giare son sempre entrato ed uscito come dalla porta di casa mia!“.
L’avvocato dice, dunque, che Zì Dima se vuole uscire, provocando la rottura definitiva della giara, dalla sua prigionia deve pagare a Don Lollò il valore che egli stima essere ora della giara dopo il lavoro di riparazione da lui svolto ma Zì Dima non vuole saperne di pagare per uscire dalla giara e dice che starà, allora, a vivere al suo interno perché:
“Ci sto meglio che a casa mia. Fresco come in Paradiso”
e si mette a fumare placidamente e Don Lollò, allora, pensa di citarlo per alloggio abusivo, al che l’avvocato gli dice:
“Mandategli l’usciere per lo sfratto“.
L’avvocato dice a Don Lollò di non infuriarsi perché Zì Dima vuole stare nella giara e gli dice che dopo una notte passata lì cambierà parere e vorrà uscire pagando l’importo che è stato stabilito.
Zì Dima però dà ai contadini le dieci lire che gli sono state date come pagamento per andare a fare compere e fare così festa tra di loro, inoltre, è spuntata una luna che:
“Pare giorno”
ma, da dove è posizionata la giara, Zì Dima non la riesce a vedere e chiede che i contadini spostino la giara per potere vedere pure lui la luna e poi chiede di fare un po’ di musica per allietare la serata: “Cantiamo tutti in coro. Tu suona lo scacciapensieri e voi tutti una bella cantata ballando attorno alla giara“,
uno dei contadini:
“Cava di tasca lo scacciapensieri e si mette a suonarlo, gli altri, cantando e gridando, si prendono per mano e danzano scompostamente attorno alla giara incitati da Zì Dima“,
il rumore disturba il sonno di Don Lollò che esce di casa furibondo e dà un poderoso calcio alla giara:
“Che rotola giù per il sentieruolo tra le grida di tutti. Poi si sente il fracasso della giara che si spacca urtando contro un albero“.
I contadini pensano che Zì Dima sia rimasto ucciso ma, poi, lo vedono uscire senza che si sia fatto nulla dalla giara distrutta e sono felici di ciò e:
“Lo prendono sulle spalle e lo portano in trionfo”
mentre Zì Dima dice festante di essere uscito vincitore dalla disputa, perché è uscito dalla giara senza nulla dover pagare a Don Lollò per essere liberato dalla sua prigionia.
3.1. La versione teatrale della Giara in dialetto siciliano
Mentre per la stesura di Liolà Luigi Pirandello adottò il puro dialetto agrigentino per la stesura della Giara il dialetto usato è sempre, prevalentemente, quello di Girgenti se anche ci sono dei termini che risultano provenire dal dialetto catanese.
Nella versione in dialetto della commedia il conciabrocche Zì Dima diventa “conzalemmi” e Don Lollò nella sua qualità di ricco possidente è presentato come “borghese” e la giara nuova è grossa tanto che, per le sue dimensioni, in questo testo, viene paragonata ad una casa mentre nel testo in italiano si dice che:
“Pareva una badessa“.
Una delle contadine che lavorano per Don Lollò, a nome Trisuzza, nel testo in dialetto, dice che spesso capita che le giare arrivate sane all’acquirente si rompano dopo da sole e dice che sua zia, una volta, ne aveva acquistata una per l’acqua e questa giara si spaccò da sola dopo tre giorni dall’arrivo e questi scoppi improvvisi delle giare nuove sono dovuti alle faville del fuoco della cottura che rimangono al loro interno e la contadina, dopo questa premessa, narra di cosa capitò alla giara di sua zia Rosa quando questa all’improvviso si ruppe: “Capitò così. Si sentì come un botto: tan! Come se le avessero sparato“.
E nel testo teatrale in dialetto si dice che quella mattina Zì Dima era andato a lavorare dal vicino di Don Lollò e, sempre Trisuzza, dice che il proverbio sosteneva che “dura più una giara rotta di una sana” dopo che si è provveduto alla riparazione del danno.
Anche in questa versione teatrale Don Lollò diffida del mastice portentoso di Zì Dima e vuole i punti per saldare tra loro le parti rotte della giara perché dice che, secondo lui, la giara riparata con il solo mastice resiste non più di cinque minuti alla riparazione e, allora, Zì Dima dice al contadino Tararà, che resta ad aiutarlo durante il lavoro: “Non volete credere che questo mastice fa presa e non si rompe più. Aspettate quando sarete morti e finirete all’Inferno. <Non ci avete voluto credere a mio figlio Dima> dirà mio padre“,
dato che il conciabrocche aveva detto al contadino, che gli faceva da assistente al lavoro, che il segreto del mastice miracoloso glielo aveva dato, in sogno, suo padre che era il diavolo e, poi, Zì Dima continua dicendo che il diavolo, gettando questi contadini che non avevano creduto al potere del mastice di Zì Dima, dentro allo stesso, che è un elemento costitutivo dell’Inferno, avrebbe detto loro: “Sentite ora se è resistente“.
E, poi, Zì Dima si mette a tagliare il filo di ferro con cui deve dare i punti alla giara e così facendo dice al contadino, lì presente per aiutarlo:
“Lo vedi come taglio questo filo di ferro, così mio padre vi staccherà le ossa, a chi non ha voluto credere al valore del mastice. Ma ci credono tutti quelli che praticano la mia arte che, per davvero, darebbero l’anima al diavolo per sapere come è fatto questo mastice qua“.
Ed, una volta dato il mastice per saldare le due parti rotte della giara neanche cento paia di braccia di contadini robusti tirando il lembo rinsaldato avrebbero più potuto staccarlo, dice il conciabrocche, mentre i fori dei punti a Zì Dima sembrano tanti occhi che osservano e conta i punti che deve dare per rinsaldare la giara e questi sono ben cinquanta.
Nel testo in dialetto Don Lollò paga a Zì Dima tre lire per il lavoro fatto, dopo che costui è rimasto prigioniero della giara e Zì Dima si stupisce di non potere più uscire dalla giara perché, in tanti anni che aveva svolto questo lavoro, non solo era sempre uscito da tutte le giare che aveva riparato ma entrava, anche, sempre dal collo delle giare per fermare dall’interno i punti della saldatura e mai gli era capitato di avere delle difficoltà di passaggio e, poi, qui, si dice, come in uno dei racconti che sono alla base del testo teatrale, che il valore di un’onza e trentatré, che Zì Dima doveva dare a Don Lollò perché rompesse la giara, perdendola in modo definitivo, per liberare dalla sua prigionia il conciabrocche, corrisponde a 17 £ e Zì Dima è qui disposto a restituire a Don Lollò i soldi che gli ha dato come pagamento del lavoro svolto ma non può dargli 17 £ per essere liberato dalla prigionia nella giara, perché quella cifra Zì Dima non la guadagna neanche in quindici giorni di lavoro e la commedia in dialetto finisce con Zì Dima liberato dalla prigionia nella giara grazie alla rabbia furibonda di Don Lollò che, irato per la festa notturna dei contadini sull’aia, ha mandato a rompersi contro un albero la giara, prigione del conciabrocche, dandole un calcio poderoso ed in questo modo la commedia finisce con Zì Dima che dice al possidente:
“Ve lo dissi che vincevo io“,
ovvero, il conciabrocche era convinto che sarebbe uscito dalla prigionia nella giara senza nulla dover pagare a Don Lollò.
Alcuni critici di indirizzo cattolico ritennero Liolà un’opera immorale ed a Torino questo testo teatrale, quando apparve, proprio a seguito di queste pressioni di ambiente cattolico, fu tolto dal cartellone dopo una sola recita, invece, nella Giara Andrea Camilleri trova dei rimandi alla Commedia dell’Arte Italiana, infatti, egli nota, che i nomi dei contadini, Tararà e Fillicò, che lavorano al podere di Don Lollò, sono i nomi di maschere popolari o di grotteschi personaggi del territorio di Agrigento.
In modo particolare nella cultura girgentana Tararà era la tipica figura del servitore, una sorta di Arlecchino siciliano mentre Fillicò era un personaggio che faceva le cose con cattivo garbo e che come tale portavano ad un esito negativo delle stesse.
Quindi, in questa sua commedia campestre, Pirandello oltre che descrivere l’ambiente rurale della Sicilia natale presenta, anche, un rimando al mondo delle maschere parenti di quelle della Commedia dell’Arte Italiana tipiche della sua isola e della sua città natale, presentando, quindi, anche questo aspetto folklorico della vita rurale dell’isola.
4. Il significato ancestrale della Giara nella cultura siciliana
La liberazione di Zì Dima dalla Giara è simbolo dell’uscita del lavoratore, qui inteso legato alla vita dei campi, dunque un lavoratore agricolo, dall’incubo della prepotente autorità del padrone.
E’ essa il racconto di una favola che guarda il rapporto tra prepotenza e saggezza, che risulta essere la virtù vincente.
La giara, inoltre, è metafora dell’utero materno da cui si nasce alla vita ma è anche simbolo della tomba, perché le popolazioni della Sicilia antica seppellivano i loro morti ponendoli in posizione fetale dentro a delle grandi giare.
La giara, quindi, nella cultura antica della Sicilia è simbolo di nascita e di morte la quale, però, è il preludio alla rinascita in un’altra forma di vita e l’uscire dalla giara di Zì Dima è il simbolo di questa resurrezione ad una nuova esistenza.
5. Dal teatro di prosa al balletto: La Giara con le musiche di Alfredo Casella
Come si è visto, specie nella versione teatrale e specie nell’ultima parte dell’atto unico, La Giara è una commedia profondamente musicale.
Zì Dima chiede ai contadini di fare musica per allietare la nottata di luna piena da lui passata all’interno della giara e questi lo accontentano suonando e cantando melodie legate al folklore locale. E’ chiaro che un soggetto di questo tipo era la base ideale per creare un balletto pensato sulla base della vicenda e di fare questo fu chiesto ad Alfredo Casella dalla Compagnia dei Balli Svedesi di Rolf de Marè che voleva avere un nuovo ballo in repertorio per la sua compagnia basato sul soggetto della novella La Giara di Luigi Pirandello e che fu rappresentato per la prima volta a Parigi, al Teatro Champs Elysées, il 19 Novembre 1924.
La trama del balletto, ambientato in una Sicilia ottocentesca più verghiana che pirandelliana, introduce il personaggio di Nela, che qui è la figlia del ricco e collerico possidente Don Lollò, il proprietario della giara, il quale, né nella novella né nella commedia teatrale, non si dice se sia o meno sposato e non si parla di suoi figli o figlie, invece, nel balletto viene tolta la figura dell’Avvocato Scimè che ha un ruolo importante, specie nella commedia ed, essendo la richiedente del progetto una compagnia di danza, era più che logico che nella vicenda coreografica si dovesse introdurre un ruolo per prima ballerina mentre i contadini e le contadine, che nella commedia hanno un certo qual ruolo, seppur di contorno, si riducono ad essere i danzatori di fila che interpretano i lavoranti del podere.
Nella trama del balletto si dice che è Nela a calmare il padre quando gli viene comunicato che la sua bella giara nuova si è spaccata e quando giunge Zì Dima, nel balletto, non si parla della sua proposta di usare il solo mastice per riparare la giara ma si parla subito del fatto che l’artigiano si ponga al lavoro con il trapano, infatti, sull’argomento del balletto si legge che Zi Dima:
“Fora con il trapano i pezzi che il fil di ferro dovrà tenere assieme spiato da tre ragazze che si divertono un mondo”
e che sono le tre contadine che figurano tra i personaggi comprimari del balletto.
L’argomento continua illustrando che:
“Quando i pezzi sono pronti i contadini… aiutano Zì Dima ad entrare nella giara, dicendo egli che dall’interno potrà meglio procedere alla riparazione perfetta. Si applica alla giara il pezzo che manca. La giara sembra nuova. I contadini rimangono ammirati. Poi viene il momento di estrarre dal collo della giara il vecchio conciabrocche ed i contadini tentano di compiere l’operazione cantando allegramente. Però, Zì Dima ha fatto i calcoli senza la sua gobba che si oppone recisamente all’uscita del vecchio. I contadini vogliono spaccare la giara per liberare il vecchio. Ma Lollò rifiuta energicamente, pretendendo che Zì Dima paghi prima la giara, la quale dovrà essere definitivamente perduta, per liberarlo. Non volendo Zì Dima saperne Don Lollò lo condanna a rimanere nella giara finché abbia mutato opinione“.
Si vede, da questa traccia, che nella trama del balletto i contadini vorrebbero subito liberare Zì Dima dalla sua insolita prigionia, invece, nel racconto e nella commedia, questi dicono di non poter fare nulla per essergli di aiuto se prima non hanno consultato Don Lollò, il quale paga Zì Dima per il lavoro fatto, cosa che nel balletto non è indicata e chiede consulto all’avvocato per sapere il da farsi e, quindi, nel balletto sono assenti tutti i consigli che dà l’Avvocato Scimè e che portavano alla conclusione che Zì Dima sarà liberato dalla prigionia nella giara solo quando pagherà il valore in denaro che ha la giara, dopo il rattoppo che ha subito e che egli stesso ha stimato, a Don Lollò.
Nella traccia del balletto sembra che Don Lollò sia arrivato subito da solo alla conclusione di farsi pagare la giara per liberare da essa il conciabrocche e non si dice neanche che Don Lollò non è per nulla contento di lasciare Zì Dima nella giara e che vorrebbe citarlo per alloggio abusivo e che è l’avvocato che gli consiglia, nella commedia, di lasciare trascorrere la notte nella giara al conciabrocche il quale, sicuramente, il giorno seguente, chiederà nuovamente di essere liberato dalla sua prigionia singolare.
Il balletto procede con il giungere della notte e con Zì Dima che fuma sereno all’interno della sua nuova casa-giara:
“Ed il fumo si vede uscire a boccate dal collo della giara”
e si ode cantare una melodia popolare siciliana che narra la storia di una fanciulla rapita dai pirati ed il suo disperato amante canta il suo dolore perché la sua sposa promessa, andata al mare, è stata rapita dai pirati turchi ed ora è loro schiava.
Nella notte Nela esce di casa perché vuole fare uno scherzo al suo collerico padre approfittando di questo singolare fatto accaduto al podere:
“Essa danza attorno alla giara. Poi chiama a raccolta i contadini. Si porta da bere. Si beve alla salute ed alla liberazione di Zì Dima. Poco a poco una danza generale avvolge la giara in un baccano orgiastico ed infernale“.
Qui, nel balletto, si dà a Nela il ruolo che, invece, nel racconto e nella commedia ricopre Zì Dima che, forte del pagamento per il lavoro, che gli ha fatto Don Lollò, paga da bere a tutti i contadini del possidente e li invita a fare musica nella bella nottata di luna piena.
Qui, nel balletto, Zì Dima è spettatore di questa notturna festa campestre e non suo promotore come avviene nei testi originali pirandelliani.
Il rumore della festa sveglia Don Lollò che furibondo si precipita in scena e:
“Con una poderosa spinta manda la giara ed il suo contenuto a ruzzolare giù per la china. La giara va a spaccarsi contro un ulivo. I contadini corrono in soccorso del vecchio e lo riportano in scena al suono di una musica rustica e trionfale. Danza finale. Don Lollò disperato della sua sconfitta fugge in casa“.
Questa conclusione è del balletto perché la commedia ed il racconto vengono a terminare con il trionfo di Zì Dima e non viene detto come reagisce Don Lollò a questo scorno che subisce e che dà un duro colpo alla alterigia del prepotente possidente.
5.1. Nela
Il personaggio di Nela, nome della protagonista femminile del balletto si trova in altri testi di Pirandello.
Nel mito La Nuova Colonia ella è, infatti, una delle donne che il fuorilegge Crocco, ritornato all’isola dal suo viaggio in terraferma, porta con sé, affinché i contrabbandieri, che hanno scelto di vivere in esilio su questo piccolo isolotto, abbiano delle donne per loro compagnia, con le quali, nell’ultimo atto del mito, si celebrano anche dei matrimoni per burla, tra Nela e le altre ragazze giunte all’isola con lei e alcuni degli ex galeotti, ora qui residenti, nella piccola isola che in precedenza li aveva visti come prigionieri e, in questo mito c’è, anche, il personaggio di Mita, che è qui la figlia del proprietario delle paranze, che si vuole che diventi la sposa del capo dei contrabbandieri Currao, per sancire l’alleanza tra il possidente delle barche ed i contrabbandieri esuli sull’isola, che era stata la loro precedente prigione.
Nela e Mita sono personaggi che figurano anche nel pirandelliano Liolà, Mita è la moglie maltrattata di zio Simone, prima del matrimonio amata da Liolà e Nela è una delle ragazze del borgo siciliano che è invaghita, come tutte le giovani del paese, di Liolà.
6. La Giara in scena tra teatro di danza e teatro di prosa
Alfredo Casella dovette amare in modo particolare questo balletto di sua composizione perché intitolò Il Segreto della Giara il suo libro di memorie.
Dopo Alfredo Casella altri artisti del mondo musicale diedero una loro chiave di lettura alla commedia agreste monoatto di Pirandello.
Nel 1991 La Giara fu allestita dal Teatro Stabile di Catania e si chiese per le musiche la collaborazione di Edoardo Bennato che lavorò sulla commedia di Pirandello adottando uno stile simile a quello delle opere buffe del Settecento teatrale e ponendo, quindi, in questa storia di epica contadina le forme operistiche dell’aria, del duetto e del concertato.
La commedia venne anche allestita a Montecarlo nel 1989 da una compagnia teatrale algerina che ambientò la vicenda in un villaggio rurale del Nord Africa, senza fare perdere alla vicenda il fascino dell’originale pirandelliano.
E, l’accostamento della Giara balletto con la Cavalleria Rusticana melodramma di Pietro Mascagni, pensata dal Teatro Regio di Torino nella stagione teatrale in corso 2018/19, fu un abbinamento già effettuato a Firenze, nel Marzo del 1991, con la direzione orchestrale di Gianandrea Gavazzeni.
Il balletto, però, in quella ripresa fu molto criticato, specie dal punto di vista scenico, perché, si disse, che era stato allestito:
“Senza riferimenti visivi che lo collegassero al testo di Pirandello” ed, in questa commedia, come elemento di scena e, perché albero presente nella poetica di Pirandello, ha fondamentale importanza la presenza in scena dell’ulivo saraceno.
7. Alle origini di Liolà
Liolà è un’altra creazione profondamente musicale di Pirandello in cui si parla di un giovane contadino “Don Giovanni”, amante delle belle donne e del canto, il quale insegna a cantare, come primo requisito indispensabile per un essere umano, anche ai suoi figli che ha avuto da diverse donne di vita che sono state le sue amanti e che alleva in prima persona e con l’aiuto della sua anziana madre e più figli avrà, pensa il giovane e più potrà creare ed avere a sua disposizione un piccolo coro di cantori che chiama i suoi Cardellini.
Liolà è, quindi, anche parente del Papageno di Mozart, caratterizzato come è da queste sue doti canore che trasmette ai suoi figli e dalla passione per la musica e per la vita spensierata e libera che gli piace condurre.
Le radici della vicenda di Liolà vanno però cercate nei testi letterari di Pirandello, nel romanzo Il Fu Mattia Pascal e in racconti come La Mosca e La Trappola.
8. Mattia Pascal da giovane: il primo Liolà pirandelliano
Nel 1904, tra il 16 Aprile ed il 16 Giugno, Luigi Pirandello pubblica a puntate il romanzo per cui è universalmente conosciuto, Il Fu Mattia Pascal, sulle colonne de La Nuova Antologia e, nel corso dell’anno, la storia di Mattia viene pubblicata in volume.
La vicenda di Mattia Pascal è ambientata nell’Italia del Nord, dove il luogo di nascita e di vita del protagonista è la provincia della Liguria, ovvero un qualche borgo dell’entroterra presso Imperia.
Nel capitolo quarto del romanzo, intitolato Fu così, Mattia Pascal narra di una sua vicenda di gioventù che molto ricorda la vicenda del giovane Liolà nella commedia.
Mattia Pascal apparteneva ad una agiata famiglia ligure e alla morte del padre, avvenuta quando Mattia era ancora un bambino, i diversi poderi e case di famiglia erano finiti sotto l’amministrazione di un certo Malagna, il quale, come professione, faceva l’amministratore di beni altrui, il quale, però, essendo uomo poco onesto, pensava ad arricchire se stesso con questo lavoro e non a tutelare ciò che gli era stato affidato in gestione e, quindi, aveva dilapidato nel tempo le ricchezze della famiglia Pascal, riducendoli da possidenti a quasi indigenti.
Questo personaggio aveva una moglie inferma che non gli aveva dato figli, che egli molto desiderava per lasciare a questi le ricchezze che aveva tolto a coloro di cui amministrava gli averi e, quindi, alla morte della moglie, anziché sposarsi con un’altra signora di un certo livello sociale, come era stata la sua prima, inferma, consorte, aveva deciso, solo con lo scopo di avere dei figli a cui lasciare i suoi averi, visto che ormai non era più giovane, di sposare in seconde nozze una giovane contadina, la quale fosse robusta e sana e, quindi, con un fisico adatto a dargli dei figli ed, a questo scopo, scelse Oliva che era la figlia del fattore di casa Pascal presso un loro podere e che Mattia conosceva bene fin da ragazzino e si era, anche, un po’ innamorato di questa giovane che, però, non dava retta alcuna ai corteggiamenti del padroncino.
La ragazza sapeva che il Malagna si era arricchito malamente e, per questo, era critica nei suoi confronti ma, attratta comunque, dalle sue ricchezze, lei che era una semplice figlia di un fattore, accondiscende a sposarlo.
A questo punto il racconto così procede:
“Passa intanto un anno dalle nozze, ne passano due e niente figlioli. Malagna entrato da tanto tempo nella convinzione che non ne aveva avuti dalla prima moglie solo per la sterilità o per la infermità continua di questa non concepiva ora, neppur lontanamente, il sospetto che potesse dipendere da lui. E cominciò a mostrare il broncio a Oliva… Aspettò ancora un anno, il terzo: invano. Allora prese a rimbrottarla apertamente e, infine, dopo un altro anno, ormai disperando per sempre, al colmo dell’esasperazione si mise a maltrattarla senza alcun ritegno gridandole in faccia che con quella apparente floridezza ella lo aveva ingannato… che soltanto per avere da lei un figliolo egli l’aveva innalzata fino a quel posto già tenuto da una signora, da una vera signora, alla cui memoria, se non fosse stato per questo, non avrebbe fatto mai un tale affronto“.
Ma chi confortava nel suo dolore la giovane donna, tra cui la madre dello stesso Mattia, diceva ad Oliva che:
“S’era dato più d’un caso d’aver figlioli anche dopo dieci dopo quindici anni dal giorno delle nozze“,
però, vedendo che il marito era assai avanti con gli anni:
“A Oliva era nato fin dal primo anno il sospetto che tra lui e lei la mancanza potesse più essere di lui che sua, nonostante che egli si ostinasse a dire di no? Ma se ne poteva far la prova? Oliva sposando aveva giurato a se stessa di mantenersi onesta e non voleva, neanche per riacquistar la pace, venir meno al giuramento“.
Un amico di Mattia, nel frattempo, si era innamorato di una giovane che sembrava di costumi più liberi rispetto ad Oliva e che era la figlia di una cugina del Malagna, però, costui, per timidezza, aveva difficoltà ad avvicinare la giovane ed, inoltre, risultava che la madre di questa ragazza:
“Alla morte della prima moglie del Malagna si fosse messo in capo di fargli sposare la propria figliola e si fosse adoperata in tutti i modi per riuscirvi”
ma, visto che costui a questa ragazza aveva preferito Oliva la madre di costei aveva iniziato a coprirlo di insulti, come pure era diventata ostile verso sua figlia che accusava di non sapere fare fruttare le sue doti di avvenente ragazza, in quanto si era lasciata sfuggire per marito il ricco zio, però, non riuscendo ad avere figli dalla moglie, il Malagna, ora, si dimostrava pentito verso la cugina e la nipote di non avere preso per moglie questa sua giovane parente.
Mattia, per capirne di più di questo intrigo di paese, inizia a frequentare la casa Pescatore con dei pretesti, per meglio conoscere la vedova Pescatore, cugina di Malagna e sua figlia Romilda, di cui Mattia dovrebbe essere il portavoce dell’amore che per la giovane prova il suo amico ma, Romilda si innamora di Mattia ed i due giovani iniziano a frequentarsi fino al giorno in cui Romilda, per lettera, dice a Mattia che la loro relazione si deve troncare per sempre e questo è, anche, il giorno in cui Oliva si reca a casa della madre di Mattia per dirle che:
“Il suo uomo era riuscito a far la prova che non mancava per lui aver figlioli“,
ovvero, Romilda, trovandosi in attesa di un figlio di Mattia, con l’intervento perfido della madre, aveva convinto lo zio a dichiararsi padre del nascituro per carpirne le ricchezze al danno dell’onesta Oliva che doveva far fagotto delle sue cose dalla casa del Malagna e tornare da suo padre fattore, che fino a quel momento non aveva messo al corrente delle sue sofferenze, a cui ora il marito aggiunge l’obbligo di rispettare la nipote in gravidanza e non mettere in dubbio il suo onore, ovvero, di non dubitare che il figlio che nascerà a Romilda possa essere di altri che del Malagna.
Mattia convince Oliva a non discutere sul fatto che il marito possa avere dei figli perché vuole vendicarsi del tradimento di Romilda e dare un figlio anche ad Oliva e così avviene, infatti, dopo un mese, a casa di Mattia giunse il Malagna:
“Gridando che esigeva subito una riparazione perché io gli avevo disonorata, rovinata, una nipote, una povera orfana, soggiunse, che, per non fare uno scandalo, egli avrebbe voluto tacere. Per pietà di quella poveretta, non avendo egli dei figlioli aveva, anzi, risolto di tenersi quella creatura quando sarebbe nata come sua. Ma, ora, che Dio finalmente gli aveva voluto dare la consolazione di avere un figliolo legittimo, lui, dalla propria moglie, non poteva più in coscienza fare anche da padre a quell’altro che sarebbe nato a sua nipote”
e, quindi, Mattia deve sposare Romilda che si dichiara innocente della precedente rottura con lui, perché quando aveva confessato alla madre il suo stato di gravidanza ed il suo amore per Mattia, costei si era opposta di farla sposare a quel giovane senza un lavoro e, anche, privo di mezzi e disse alla giovane di parlare della situazione allo zio Malagna e Romilda sosteneva che aveva cercato di convincere lo zio che lei amava Mattia e, quindi, occorreva che sua madre cambiasse opinione ma lo zio si era dimostrato anche lui sfavorevole ad un legame della giovane nipote con Mattia e le aveva detto che, essendo lei minorenne, era la madre che doveva decidere per il suo bene e lui stesso:
“Non avrebbe potuto, infine, far altro che provvedere, a patto, però, che si fosse serbato con tutti il massimo segreto, provvedere al nascituro ecco, fargli da padre ecco, giacché egli non aveva figlioli e ne desiderava tanto e da tanto tempo uno“.
Tutto quello che aveva rubato al padre di Mattia, amministrando per suo tornaconto le proprietà della famiglia Pascal alla morte di questi, egli lo avrebbe rimesso al figlio che stava per nascere ai due giovani. Romilda, infine, pur accettando di sposare Mattia, era:
“Gelosa di quel figlio che sarebbe nato ad Oliva tra gli agi ed in letizia mentre il suo nell’angustia nell’incertezza del domani… Le facevano crescere questa gelosia anche le notizie che qualche buona donna, fingendo di non saper nulla, veniva a versarle della zia Malagna, ch’era così contenta, così felice della grazia che Dio, finalmente, aveva voluto concederle, si era fatta un fiore, non era mai stata così bella e prosperosa“.
Romilda è così invidiosa della sorte dell’altra ragazza perché sa che, anche, il figlio che attende Oliva è, come il suo, figlio di Mattia.
Da Romilda Mattia ha due gemelle, una muore pochi giorni dopo la nascita seguita, qualche tempo dopo, anche dall’altra, Oliva, invece, avrà un figlio maschio che Mattia rivede, già grandicello, dopo la sua morte presunta e la sua seconda vita come Adriano Meis ed il successivo ritorno ad essere Mattia Pascal, nel capitolo XVIII del romanzo, che appunto si intitola Il Fu Mattia Pascal, in cui dice: “Oliva l’ho incontrata per via, qualche Domenica all’uscita dalla Messa, con il suo bambino di cinque anni per mano, florido e bello come lei: mio figlio!“.
Da questa esperienza di gioventù di Mattia Pascal nasce la traccia per il personaggio teatrale di Liolà, di cui si trovano, anche, altri riferimenti e rimandi in alcune delle Novelle per un anno.
9. La Mosca il racconto coevo al Fu Mattia Pascal
La Mosca è un racconto coetaneo del Fu Mattia Pascal il quale venne pubblicato su Il Marzocco del 2 Ottobre 1904 e convogliò poi nella raccolta di novelle Erma bifronte edita da Treves nel 1906 ed, infine, il racconto diede il titolo al quinto volume delle Novelle per un anno edite a Firenze da Bemporad nel 1923.
E’ questo un racconto campestre ambientato in Sicilia ed il protagonista è Neli Tortorici, un contadino di vent’anni con una fidanzata di sedici anni che avrebbe voluto magari avere anche dodici figli:
“E a mantenerli si sarebbe aiutato con quel paio di braccia sole ma buone che Dio gli aveva dato. Allegramente sempre, lavorare e cantare tutto a regola d’arte. Non per nulla lo chiamavano Liolà il poeta“.
Neli e suo fratello vanno al paese a chiamare il medico condotto, che vive anche lui in condizioni di indigenza come i contadini del paese in cui presta servizio, perché un loro cugino sta morendo colpito da un improvviso morbo in una stalla di Montelusa, questo male improvviso lo aveva reso in una notte nero e gonfio e questo era accaduto mentre questi contadini si trovavano in un podere a raccogliere le mandorle, le quali però non erano molte in quell’anno e, quando alla sera si era terminata la raccolta delle mandorle:
“A mezzanotte si buttarono tutti, uomini e donne, a dormire al sereno sull’aia dove la paglia rimasta era bagnata dall’umido come se veramente fosse piovuto. <Liolà canta!>. E lui, Neli si era messo a cantare all’improvviso“,
vedendo nella Luna, che veniva scoperta e ricoperta dal passaggio delle nuvole nel cielo, il volto della sua fidanzata.
La mattina seguente quando erano andati a svegliare il loro cugino che dormiva nella stalla lo avevano trovato con la febbre alta e con il corpo gonfiato e nero ed erano corsi in cerca del dottore per tentare di salvargli la vita.
Prima di accompagnare il dottore dal cugino malato Neli ha tempo di passare dal barbiere del paese che nel raderlo gli fa un piccolo taglio al mento di cui Neli non si cura perché deve scendere con il dottore, che ha predisposto la sua mula per il viaggio, verso Montelusa per dare assistenza al cugino e nel percorso di quasi sette miglia di orribile strada i due fratelli parlano al dottore delle cattive condizioni agricole di quell’anno, dove la produzione di orzo e frumento era stata scarsa ma anche le fave erano poche e le olive erano state rovinate dalla nebbia e, anche, le viti avevano patito qualche male e:
“Per i mandorli si sapeva non raffermano sempre, carichi un anno e l’altro no“.
Nel percorso i tre uomini finito di parlare, perché gli argomenti di conversazione non erano poi molti e si erano esauriti dopo poco tempo, sentivano solo più il rumore degli zoccoli del mulo e delle loro scarpe di contadini in marcia e:
“Liolà ad un certo punto si diede a canticchiare svogliato a mezza voce, smise presto”
ed era Domenica e per la strada non si incontrava nessuno.
Il cugino, quando i tre giungono alla stalla di Montelusa, è ancora cosciente ma è certo che verrà a morire e, quindi, dice al bel Neli che invece avrebbero dovuto sposarsi insieme e Neli lo conforta dicendo che ciò sicuramente capiterà ancora.
Il medico diagnostica che si tratta di carbonchio che gli è stato trasmesso dalla puntura di qualche insetto che si era posato su qualche bestia, bovino o ovino, morta di carbonchio nei dintorni e che aveva poi infettato il cugino di Neli mentre dormiva nella stalla.
La colpevole dell’infezione è una mosca, ancora presente nella stalla, la quale è attratta dalla ferita sul mento di Neli causata dal rasoio del barbiere e va a posarcisi al di sopra e il cugino moribondo vedendo la mosca posata sulla ferita del bel Neli è quasi contento che venga ad essere infettato anche l’affascinante giovane e, così, lo segua non nel matrimonio ma nella morte.
Neli si sente pizzicare la ferita e caccia la mosca ma avverte del fatto il dottore che subito decide, con il fratello di Neli, di riportare il giovane al paese per vedere se si può porre rimedio all’inoculazione del morbo che il morso della mosca sicuramente aveva operato nel mento di Neli lasciando solo il moribondo cugino nella stalla, per cui tanto non si può più fare nulla, in compagnia della mosca colpevole che ancora qui permane.
Il bel contadino, canterino e sfortunato, Neli diventerà, nel 1916, il Nico Schillaci detto Liolà nella commedia campestre in tre atti che Luigi Pirandello scrisse in dialetto agrigentino.
10. Il racconto La Trappola
Nella novella La Trappola pubblicata sul Corriere della Sera il 23 Maggio 1912 e, poi, nel quarto volume delle Novelle per un anno nel 1922 si parla di un uomo che assiste l’anziano padre gravemente infermo, con l’aiuto di una governante di cui diviene amica una bella vicina che:
“Si lagnava del marito imbecille che sempre la rimbrottava di non essere buona a dargli un figliolo… Quando uno comincia a irrigidirsi, a non potersi più muovere come prima, vuol vedersi attorno altri piccoli morti, teneri teneri, che si muovono ancora come si muoveva lui quando era tenero tenero, altri piccoli morti che gli somiglino e facciano tutti quegli attucci che lui non può più fare“,
perché la Trappola, che dà il titolo alla novella, non è altro che la vita in cui ogni uomo entra attraverso la nascita, la quale però comprende in sé anche l’inevitabile invecchiamento dell’individuo e la sua morte, magari dopo un lungo periodo di sofferenze fisiche e psichiche.
Il protagonista ed io narrante del racconto, che odia la trappola della vita generata dalla nascita, prova interesse per questa donna sua vicina, infatti, dice:
“Mio malgrado sentivo di ammirare quella femmina, non già per la sua bellezza, era bellissima e, tanto più seducente quanto più mostrava, per modestia, di non tenere in alcun pregio la sua bellezza. La ammiravo perché non dava al marito la soddisfazione di mettere in trappola un altro infelice. Credevo che fosse lei e invece no, non mancava per lei, mancava per quell’imbecille. E lei lo sapeva o, almeno, se non proprio la certezza, doveva averne il sospetto, perché rideva di me, rideva che l’ammiravo di quella sua presunta incapacità. Rideva in silenzio nel suo cuore malvagio ed aspettava“.
Finché, una sera la donna riuscì ad ottenere l’amore del narratore della vicenda ed, anche, il figlio che il marito tanto desiderava e, dopo aver ottenuto il suo scopo:
“E’ andata via… con il marito promosso professore di liceo in Sardegna. Vengono a tempo certe promozioni. Io non vedrò il mio rimorso. Non lo vedrò ma ho la tentazione in certi momenti di correre a raggiungere quella malvagia e di strozzarla prima che metta in trappola quell’infelice cavato così a tradimento da me“.
Il protagonista del racconto non condivide dunque, a seguito della triste vita famigliare, che conduce il desiderio della donna di avere un figlio ad ogni costo per fare cessare i rimbrotti del marito, desideroso di avere un erede.
In questo racconto è la donna che prende l’iniziativa di seduzione del vicino di casa per avere il figlio e non l’uomo, a differenza di quanto avviene nel Fu Mattia Pascal e nella commedia campestre dove è Liolà a convincere Mita di come si possa, con semplicità, fare felice zio Simone dandogli il tanto desiderato figlio ed erede.
Il racconto originale, pubblicato a pagina tre del quotidiano Il Corriere della Sera di Giovedì 23 Maggio 1912, di cui occupa una buona parte è uguale, a differenza di altri racconti di Pirandello, alla versione del racconto poi apparsa in volume, se non che, nel racconto apparso sul quotidiano milanese, l’io narrante della vicenda in prima persona dice anche il suo nome: Fabrizio Stella.
Il nome dell’io narrante scompare, invece, nell’edizione in volume del racconto.
11. Liolà
La versione in dialetto agrigentino fu rappresentata al Teatro Argentina di Roma il 4 Novembre 1916, la versione in lingua italiana fu invece presentata a Milano l’8 Giugno del 1942 con Vittorio De Sica eccezionale interprete del ruolo di Liolà, dopo essere stata volta da Pirandello in italiano, forse nel 1927, per la pubblicazione a Firenze presso Bemporad nel 1928.
Nella avvertenza pubblicata con la commedia, dove si parla della versione italiana e dialettale della stessa, si dice che questa commedia campestre in tre atti fu:
“Scritta nella parlata di Girgenti che tra le non poche altre del dialetto siciliano è incontestabilmente la più pura, la più dolce, la più ricca di suoni per certe sue particolarità fonetiche che forse più di ogni altra l’avvicinano alla lingua italiana“.
La commedia, però, non fu ben capita in questo dialetto dal pubblico che assisteva e comprendeva altri lavori pirandelliani presentati nella versione dialettale e questa incomprensione era accaduta perché: “Quasi tutti gli altri lavori presentano personaggi, usi e costumi borghesi e sono scritti o recitati in quell’ibrido linguaggio tra il dialetto e la lingua che è il così detto dialetto borghese… che, con qualche goffaggine, appena arrotondato diventa lingua italiana, cioè quella lingua italiana parlata comunemente e, forse, non soltanto dagli incolti in Italia. Liolà commedia campestre fu recitata, per espressa volontà dell’autore, così come è scritta in vernacolo, quale si conveniva a personaggi tutti contadini della campagna agrigentina“, da ciò si evinceva che:
“Se i comici siciliani recitassero sempre e strettamente nel loro dialetto, primo non sarebbero più compresi, se non con molto stento, dai non siciliani”
e l’avvertenza terminava così:
“Luigi Settembrini faceva obbligo agli italiani di conoscere questo dialetto siciliano che fu veramente ed è lingua più che dialetto, non solo per la sua antichissima tradizione letteraria ma, anche, per il suo vario e complesso stampo sintattico, ricco di sottilissimi nessi come per copia e colorita efficacia di vocaboli. Aspettando che gli italiani acquistino, se mai vorranno, questa conoscenza l’autore di Liolà presenta qui, accanto al testo dialettale, la traduzione della commedia in una lingua italiana che vuol serbare, fin dove è possibile, un certo colore, un certo sapore del vernacolo nativo“.
11.1 Atto primo in lingua italiana e dialetto agrigentino
La storia è ambientata nella campagna presso Agrigento in epoca contemporanea alla narrazione della vicenda, come nel racconto La Mosca, siamo nel mese di Settembre e si stanno raccogliendo e schiacciando le mandorle nel ricco podere di proprietà di zio Simone Palumbo, in cui risiede sua cugina la zia Croce.
Questo ricco possidente è un uomo di una certa età che rimasto vedovo e senza figli e padrone di una immensa ricchezza, che non sa a chi lasciare in eredità, per avere un figlio, a cui lasciare tutte le sue proprietà, ha deciso di sposare la giovane Mita, che è orfana ed ha come unica parente la zia Gesa ed ha rinunciato a sposare la nipote Tuzza, figlia di sua cugina zia Croce, per non arrecare offesa alla memoria della prima moglie che era una donna ricca e di prestigio sociale.
Sono però già trascorsi alcuni anni dal matrimonio e Mita non gli ha ancora dato nessun figlio e zio Simone diventa furibondo quando le contadine che lavorano per lui gli rinfacciano la grande cura che ha per le sue proprietà senza aver nessun figlio a cui lasciarle in eredità, eredi saranno i suoi parenti e ne ha tanti di parenti zio Simone, perché se il marito muore senza avere dei figli da lasciare come eredi alla moglie in eredità non spetta nulla.
Zio Simone è, dunque, in questa commedia l’alter ego del Malagna del romanzo Il Fu Mattia Pascal, è vedovo, senza figli e ricchissimo, a differenza del Malagna, però, zio Simone non si è arricchito derubando altri come, invece, ha fatto il Malagna che ha rubato a coloro di cui amministrava le proprietà ed ha sposato la giovane contadina Mita alter ego dell’Oliva del romanzo, la quale là aveva un padre, qui ha solo una zia, scatenando, con questa sua scelta, la rabbia della zia Croce alter ego della vedova Pescatore del romanzo che voleva che il cugino sposasse sua figlia Tuzza alter ego di Romilda, perché voleva che tutti gli averi dell’anziano possidente diventassero di sua esclusiva proprietà.
L’atto si apre con le contadine che cantano la Passione di Cristo e sono giunte al momento della vicenda in cui si dice che Maria è dolente per le scudisciate che hanno colpito il Cristo suo figlio.
Zio Simone non vuole che le donne cantino se, anche, è tradizione che si canti durante i lavori di campagna, così come era usanza che i lavoranti ricevessero del vino da bere dal datore di lavoro al termine della giornata di fatica.
Zio Simone si lamenta, come fanno i contadini nel racconto La Mosca, che questa è una cattiva annata per le coltivazioni dei campi e risponde alle donne che gli dicono:
“Come se non si sapesse le mandorle come sono! Cariche un anno e l’altro no!“,
“Come se fossero soltanto le mandorle. Anche la vigna è tutta presa dal male. E tutte le cimette degli ulivi bruciolate che fanno pietà“.
Tra queste contadine che lavorano per zio Simone c’è anche Nela, che abbiamo visto è il nome che, nella versione per balletto della Giara, ha la figlia di Don Lollò e che non è un personaggio creato da Pirandello e, quindi, non è presente nella commedia originale né nel racconto della Giara ma è, invece, una delle contadine presenti nella commedia Liolà.
La madre di Liolà, zia Ninfa, si aggiunge al gruppo di donne arrivando con i tre figli che ha avuto Liolà dalle sue relazioni con donne di facili costumi e che egli ha deciso di allevare presso di sé con l’aiuto di sua madre e che sono definiti i tre Cardelli di Liolà.
La donna, che come le altre che stanno lavorando al podere nel giorno di Domenica e che non hanno potuto ancora andare alla Messa del giorno festivo e sperano di potere andare a quella della sera, dice alle altre contadine che suo figlio Liolà di figli:
“Ne vuole una covata dice, insegnare a tutti a cantare e poi in gabbia portarseli a vendere al paese“,
quasi, proprio, questi bambini fossero gli uccelli che l’uccellatore Papageno, messo in musica da Mozart, cattura attirandoli con il suono del suo magico flauto.
Le donne commentano che Liolà è troppo uno spirito libero che corre dietro ad ogni donna che vede e la madre lo difende dicendo che fa così perché forse non ha ancora trovato la donna del suo cuore.
Zia Ninfa, poi, racconta alle altre contadine di come alla Messa della precedente Domenica si fosse distratta dalla funzione per osservare come muovevano i ventagli, in modo differente a seconda del loro stato sociale, le ragazze in età da marito, le donne sposate e quelle vedove, per tutta la durata della funzione sacra e per zia Ninfa il movimento del ventaglio di queste donne corrispondeva al loro sentimento interiore e, quindi, alla gioia delle giovani che presto avranno un marito, alla sicurezza e stabilità sociale delle donne già sposate e alla desolazione e timore per il futuro di coloro che erano rimaste vedove.
Arriva, poi, cantando alla guida di un carretto Liolà ed abbraccia i suoi tre figli dicendo:
“E questo è Li e questo è O e Là e tutti e tre che fanno Liolà“.
Le donne gli dicono che zio Simone è furibondo e non ha dato loro da bere il vino come aveva promesso perché, parlando, gli avevano ricordato che ha tanta ricchezza ma nessun figlio a cui lasciarla e zio Simone viene, allora, fatto chiamare da Liolà che, sentito ciò che gli hanno detto le donne, vuole vendergli uno dei suoi tre figli e gli dice, a questo proposito:
“Hanno fatto una legge nuova fatta apposta per noi. Dico per alleggerire le nostre popolazioni… Chi ha una troia che gli fa venti porcellini è ricco non è vero? Se li vende e più porcellini gli fa più ricco è. E così una vacca, quanti più vitellini gli fa. Con ciò per ora un pover’uomo, con queste donne nostre che, Dio liberi, appena uno le tocca patiscono subito di stomaco. Il governo ci ha pensato ha messo la legge che i figli d’ora in poi si possono vendere e comprare, zio Simone. E io guardi (gli mostra i tre bambini) posso aprir bottega, vuole un figlio? Glielo vendo io. Qua questo (ne prende uno) Guardi come è bello in carne. Pesa venti chili. Tutta polpa. Prenda lo soppesi. Glielo vendo per niente, per un barile di vino cerasolo“.
Ma zio Simone non accetta la proposta di Liolà ed, allora, il giovane gli dice che non avendo figli lo potrebbero anche spossessare dei suoi averi dicendogli:
“Anche questa legge possono mettere domani. Qua c’è un pezzo di terra. Se lei la sta a guardare, senza farci nulla, che le produce la terra? Nulla, come una donna non le fa figli. Bene vengo io in questo suo pezzo di terra, lo zappo, lo concimo, ci faccio un buco, vi butto il seme, spunta l’albero, A chi l’ha dato quest’albero la terra? A me, ma se viene lei e dice no che è suo. Perché suo? Perché è sua la terra.
Ma la terra, caro zio Simone, sa forse a chi appartiene? Dà il frutto a chi la lavora. Lei se lo piglia perché ci tiene il piede sopra e perché la legge le dà spalla. Ma la legge domani può cambiare e allora lei sarà buttato via con una manata e resterà la terra a cui getto il seme”
e Liolà dice che non invidia zio Simone che deve rovinarsi il cervello per i suoi denari che non sa a chi lasciare lui, invece, non ha nulla e preferisce vivere e dormire all’aperto ed intona, quindi, una canzone in cui dice:
“Angustie, fame, sete, crepacuore, non mi importa di nulla so cantare. Canto e di gioia mi si allarga il cuore è mia tutta la terra e tutto il mare. Voglio per tutti il Sole e la salute“.
Liolà è andato al podere di zio Simone perché da qualche tempo corteggia Tuzza e vuole chiederla in moglie a zia Croce ma la ragazza, che ha preso parte senza gioia al lavoro delle altre contadine per tutta la giornata, dice alla madre che non vuole saperne di sposare Liolà e la madre capisce che la figlia ha qualche segreto che vuole nascondere e riesce, alla fine, a farsi dire che ella è così stizzosa perché è in gravidanza di un figlio di Liolà ma lui non lo sa ancora e vorrebbe che questo figlio zio Simone lo considerasse suo e che tutti nel paese lo credessero essere veramente figlio di zio Simone, per vendicarsi nei confronti di Mita, che prima di sposarsi aveva degli interessi sentimentali verso Liolà e, poi, le aveva sottratto come marito zio Simone e per questo, per un senso di ripicca verso Mita, Tuzza si era messa ad amoreggiare con Liolà ma, ora che è in attesa di un figlio da Liolà, vuole che tutti lo credano figlio di zio Simone per prendersi su Mita una vendetta piena e zia Croce accondiscende alla richiesta della figlia per impossessarsi degli averi di zio Simone, dunque, le due donne, Tuzza e zia Croce, si comportano verso zio Simone come Romilda e sua madre verso il Malagna nel Fu Mattia Pascal.
Liolà, che vede che zia Croce fa entrare in casa zio Simone perché parli tranquillo con Tuzza, capisce che le donne hanno maturato un piano per impossessarsi degli averi di zio Simone e dice a zia Croce, dimostrando di aver capito il gioco delle due donne:
“Si figuri che gli volevo vendere un figlio, lo vuole gratis e mi pare che abbia già bell’e trovata la via d’averlo gratis”
e detto questo dice alla donna che avrebbe voluto sposare Tuzza, tagliandosi le ali di uomo libero e senza vincoli se, anche, lui è sempre stato:
“Uccello di volo, oggi qua domani là, al Sole, all’acqua, al vento, canto e m’ubriaco e non so se mi ubriachi più il canto o più il Sole“.
E quando zia Croce gli rinfaccia che non può essere un buon marito per sua figlia perché ha già tre figli da donne diverse lui, con un forte senso della paternità propria del mondo contadino, che più braccia ci sono e meglio è per il lavoro dei campi, dice:
“Maschierelli, quando cresceranno, lei lo sa, per la campagna quante più braccia c’è più ricchi siamo”
e, lui stesso, Liolà faceva ogni tipo di lavoro campestre senza alcun tipo di problema o fatica alcuna ma zia Croce, ancora, respinge Liolà che si allontana dal podere pensando ad una rivalsa mentre zio Simone, che nel dialogo con la nipote, ha saputo dello stato di Tuzza decide di accogliere quel figlio che la giovane aspetta come se fosse suo se nessuno al paese sa che questo figlio nascerà a Tuzza a seguito della sua relazione con Liolà.
Nella versione in dialetto girgentano, che è quella originale in cui è stata scritta la commedia, Mita non è in scena ma, anche nella versione italiana, Mita resta assai poco in scena però è a lei che viene chiesto di andare a prendere il vino per dare da bere alle donne che hanno schiacciato le mandorle e Mita non ci vuole andare senza un ordine preciso del marito, zio Simone, perché il padrone è lui.
Nella versione in dialetto, invece, viene chiesto a Gesa, zia di Mita, di andare a prendere il vino per fare bere le donne e pure questa si rifiuta di farlo se non le viene comandato dal padrone di casa e, poi, Mita, nella versione italiana della commedia, viene mandata via da zio Simone che le dice che la sua presenza sull’aia del podere serve solo a farlo deridere dalle altre donne a seguito della mancanza di figli di cui incolpa la moglie.
Nella versione in dialetto di Agrigento zia Gesa dice che zio Simone maltratta sua nipote approfittandosi del fatto che di parenti ha solo la zia, non ha un padre od un fratello ma è orfana di entrambi i genitori ed è stata cresciuta dalla zia ma, sappiamo dal Fu Mattia Pascal, che l’avere un padre non ha impedito ad Oliva di essere aspramente offesa dal marito Malagna perché non riesce a dargli un figlio.
Nella versione italiana, zia Gesa dice, invece, a proposito della nipote:
“Disgraziata da quando è nata, lasciata in fasce dalla madre e a tre anni orfana anche di padre. Me la sono cresciuta io. Vorrei vedere se avesse almeno un fratello. Non la tratterebbe così, ve l’assicuro. Per miracolo non se la pesta sotto i piedi“.
E, visto che con il matrimonio è diventata una signora, nella versione agrigentina del testo si dice Donna Mita, aggiungendo al nome il titolo che l’essere diventata la moglie di un ricco le comporta e, quando Liolà parla a zio Simone, dicendo della legge che è stata fatta secondo cui si possono vendere i figli, nella versione in dialetto girgentano si dice che questa legge è stata fatta in modo esplicito per le popolazioni della Calabria e della Sicilia.
11.1.1 Il cerchio di gesso del Caucaso di Bertolt Brecht
Il testo, scritto tra il 1943 ed il 1945, è ambientato in un Caucaso rurale dove un bambino Michele è conteso tra una contadina Grusa, che lo ha salvato quando rischiava di essere ucciso durante una guerra civile, che aveva portato alla decapitazione di suo padre, che era il Governatore di quella terra e la Madre del bambino, la moglie del Governatore, che lo aveva abbandonato nel momento del pericolo, fuggendo e pensando a mettere in salvo i suoi vestiti anziché suo figlio, la quale, però, lo reclama alla fine dei tumulti perché se ritrova il figlio, erede delle proprietà paterne, potrà entrare in possesso delle ricchezze del defunto marito, che sono il suo solo interesse.
Il bambino conteso sarà assegnato alla giovane contadina che lo ha salvato dal pericolo a rischio della sua stessa vita ed è per lui come una madre vera, assai più vera della sua madre biologica, la quale è attratta solo dalla ricchezza e dal potere.
Il dramma termina con un pensiero del Cantore che è simile a quello che dice Liolà a zio Simone, a proposito dei frutti della terra e della loro appartenenza:
“Ogni cosa deve appartenere a chi le si conviene, i bambini ai cuori materni perché prosperino, i carri al buon guidatore perché siano ben guidati, la valle a chi la irriga perché dia frutti“,
infatti, Liolà dice a zio Simone nel primo atto della commedia, in un pensiero quasi analogo ma più dilungato, rispetto a quello conciso espresso da Brecht, più sopra citato ma che vale la pena di riproporre:
“Qua c’è un pezzo di terra. Se lei la sta a guardare senza farci nulla che le produce la terra? Nulla, come una donna non le fa figli. Vengo io in questo suo pezzo di terra la zappo, la concimo, ci faccio un buco, vi butto il seme, spunta l’albero. A chi l’ha dato quest’albero la terra? A me, viene lei e dice di no che è suo. Perché suo? Perché è sua la terra. Ma la terra, caro zio Simone, sa forse a chi appartiene? Dà il frutto a chi la lavora. Lei se lo piglia perché ci tiene il piede sopra e perché la legge le dà spalla. Ma la legge domani può cambiare e, allora, lei sarà buttato via con una manata e resterà la terra a cui getto il seme“,
ovvero, la morale del pensiero di Liolà è la stessa di quello del Cantastorie nel finale del testo di Brecht, ovvero, che la terra deve appartenere a chi la irriga perché dia frutti, ovvero, le cose devono essere di chi ne ha cura e non di chi ha su di loro solo il titolo di proprietà e magari non si occupa di esse e non le fa prosperare nel giusto modo ed i lavori devono essere fatti da chi ha la capacità, la conoscenza e l’amore per svolgerli nel miglior modo possibile.
11.2. Atto secondo in lingua italiana e dialetto agrigentino
L’atto è ambientato non più nel ricco podere di zio Simone, gestito da zia Croce ma nella casa della zia di Mita, Gesa che è situata di fronte a quella di Liolà.
Mita giunge a casa di sua zia disperata perché il marito l’ha malmenata brutalmente nel dirle che sta attendendo un figlio da sua nipote Tuzza e Mita si è permessa di mettere in dubbio l’onestà della ragazza e, quindi, la paternità di zio Simone e questo ha fatto scatenare le ire del marito che vuole avere un figlio ad ogni costo e, quindi, la giovane ha deciso di lasciare il marito e di tornare a vivere presso la zia, per non fare da serva a Tuzza ora che darà un figlio a zio Simone e diventerà la nuova padrona della casa e la zia lascia la nipote nella sua casa per recarsi al paese per avere giustizia dei maltrattamenti che la giovane ha subito da parte dell’anziano marito. Le donne, che confortano Mita nel suo dolore, dicono tutte che non credono che il figlio che attende Tuzza sia di zio Simone, il figlio deve essere, senza ombra di dubbio di Liolà, perché tutti in paese lo hanno visto fare la corte a Tuzza da qualche tempo ma Liolà, che ritorna a quel punto alla sua casa, non vuole confessare che il figlio che attende Tuzza sia suo, neanche alla sola Mita, quando restano a dialogare da soli e ricordano di come fossero innamorati prima del matrimonio di lei con zio Simone, anzi, Liolà invita Mita a dare un figlio a zio Simone nello stesso modo in cui lo ha fatto Tuzza.
Mita, però, rifiuta questa offerta se non che, irata dal fatto che zio Simone sia venuto a cercarla a casa di sua zia, per ricondurla alla casa coniugale dove Mita non vuole più ritornare, dopo aver respinto la richiesta del marito ed averlo rimandato a casa, Mita fa entrare, perché passi la notte con lei, Liolà e viene così ad accondiscendere al suo suggerimento sul modo migliore per avere un figlio e fare felice zio Simone e, così facendo, di prendersi, anche, una rivincita su Tuzza e sulla sua astuzia portata a danneggiare gli altri.
Liolà prima aveva, anche, spiegato a Mita che se, anche, avesse detto a tutti in paese che il figlio di Tuzza era suo e non di zio Simone e, anche, se tutti al paese gli avessero creduto zio Simone, voleva tanto un figlio a cui lasciare le sue proprietà, che non avrebbe creduto a quanto andava dicendo in giro Liolà:
“Mi lego un campanaccio al collo e mi metto a gridare per tutte le campagne e le strade su al paese: Don, don, don il figlio di zio Simone è mio. Chi ci crede? Si, magari, ci crederanno tutti. Ma lui no, lui non ci crederà mai, per la ragione appunto che non ci vuol credere!… Ti pare che domani il figlio di Tuzza nascerà con il cartello in fronte Liolà… Neanche se lo scannano, stai sicura, egli crederà che il figlio non è suo. Ne io ho il mezzo di farglielo riconoscere per mio” e il giovane, continua la sua lezione di vita, dicendo a Mita:
“Tu stessa, prima di tutti, devi dirgli che è vero che il figlio è suo e che finora non è mancato per lui ma per te. Tanto è vero che lui sta per averlo da Tuzza e, come ora sta per averlo da Tuzza, domani lo potrà avere da te!“,
ovvero, zio Simone se è convinto in se stesso e crede fermamente che il figlio di Tuzza sia suo, per avere il desiderato erede delle sue proprietà, a maggiore ragione crederà che sia suo un figlio che la moglie, in un prossimo futuro, gli dirà di attendere.
Nella versione in dialetto di Agrigento le donne del villaggio vanno a trovare zia Gesa, che vive dirimpetto alla casa di Liolà, per sentire come lo fa cantare il dispetto di essere stato respinto come marito da Tuzza e, sempre nella versione in dialetto, zia Gesa dice che per andare al paese per chiedere giustizia per la nipote deve prima indossare la mantellina, nella versione in italiano si avvia verso il paese così come è e dice, anche, che passerà la notte al paese a casa di sua sorella Tina ed il nome di questa parente scompare dalla versione in italiano del testo e, nella versione in dialetto, zia Ninfa, per dire che il figlio Liolà è sincero quando afferma che non è suo il figlio che Tuzza attende da zio Simone, dice che suo figlio:
“E’ Santa Chiara!”
e, nella versione in dialetto, Liolà dà del “Voi” a Mita, invece, le dà del “Tu” nella versione in italiano e, nella versione in dialetto, Mita dice a zio Simone che non sarebbe tornata nella casa coniugale con il marito neanche se avesse mandato i carabinieri a prenderla per ricondurla al tetto coniugale.
11.3. Atto terzo in lingua italiana e dialetto agrigentino
Questo atto è ambientato in periodo di vendemmia e si apre con Tuzza che sta preparando il corredo per il figlio che le nascerà ma è preoccupata, come pure lo è sua madre, perché da alcuni giorni zio Simone non si recava più a trovarle e, anche, i lavoranti, irati per l’affronto che le due donne hanno fatto a Mita, rifiutano di andare a partecipare al lavoro della vendemmia nei loro poderi, solo Liolà si è offerto di prendere parte a questi lavori agresti ma, poi, si viene a sapere che tutti i contadini, che si erano rifiutati di partecipare alla vendemmia ora vogliono prendervi parte con molta allegrezza e, tra i vendemmiatori ci sono anche i figli di Liolà, che hanno la gioia di poter piluccare gli acini lasciati dai lavoranti, senza fare danno ai rami della vite posti più in alto, dove con le loro mani non possono arrivare e Liolà dice che i suoi figli sono educati molto bene, infatti:
“Il grappolo alto, a cui non s’arriva con la mano, si lascia lì e non gli si dice che è acerbo“.
Arriva, poi, al podere il tanto atteso zio Simone e dice che nei giorni precedenti, quando è stato assente, è andato a trovarlo un suo amico, il quale gli ha detto, in presenza di Mita:
“Che si è dato il caso di avere figli, non dopo quattro anni di matrimonio ma, anche, dopo quindici dal matrimonio“.
Al che, la zia Croce gli risponde:
“Quindici anni? Sessanta più quindici quanto fanno settantacinque, mi pare, Cugino, a sessanta no e a settantacinque si”
e, allora, zio Simone confida alle due donne che la moglie gli ha detto, proprio quella mattina, che è in attesa di un figlio e Tuzza, stizzita dalla notizia, dice che, di sicuro, questo figlio è di Liolà ma zio Simone riprende la nipote, rimproverandola che non deve dire male di Mita.
Zio Simone, quindi, dice a Tuzza ed a sua madre che non può più occuparsi del bambino che nascerà alla giovane, non avendo mai avuto alcuna relazione con lei ed avendo scelto di occuparsi di questo nascituro, facendolo passare per suo figlio, come opera di carità mancandogli un erede ma, ora, che aveva un figlio da sua moglie a cui pensare non poteva più occuparsi del figlio di Tuzza.
Zio Simone, a differenza del Malagna nel Fu Mattia Pascal, non impone a Liolà di sposare Tuzza, se, anche, glielo consiglia per riparare al danno verso la giovane e Mita, giunta anch’ella alla masseria, dice a Tuzza, che la guarda con odio:
“<Chi tarda e non manca non si chiama mancatore>. Ho tardato, è vero, ma non ho mancato. Tu sei andata avanti ed io ti son venuta a presso“.
In questo modo, la giovane fa intendere a Tuzza quale strada abbia intrapreso per conseguire la maternità e Mita dice, ancora, alle due donne che non hanno badato ad offendere l’onore di Tuzza facendo sapere a tutti che era l’amante di zio Simone per entrare in possesso delle sue ricchezze ed avevano ordito l’inganno perché guardavano alle:
“Ricchezze di mio marito di cui, a costo della vostra stessa vergogna, volevate approfittarvi!“.
Zio Simone suggerisce a Tuzza di sposare Liolà e si offre di essere portavoce per la giovane presso Liolà ma Tuzza non vuole questo intervento dello zio e quando Liolà ritorna dalla vendemmia è la madre, zia Croce, che lo redarguisce per avergli rovinato la figlia ma Liolà dice che lui non vuole saperne di sposare Tuzza perché era stato respinto dalla giovane quando era andato a chiederla in sposa e dice, con fare beffardo, che visto il ritmo con cui zio Simone si era messo ad avere dei figli le ragazze del paese dovevano tutte guardarsi dalle attenzioni di questo anziano possidente.
A questo punto zio Simone, con fare gentile e non nel modo aggressivo del Malagna del Fu Mattia Pascal, dice a Liolà:
“Vedi che tra me e mia nipote non c’è stato, ne poteva esserci, peccato! C’è stato solo che mi si buttò ai piedi, pentita di ciò che aveva fatto con te, confessandomi lo stato in cui si trovava. Mia moglie adesso sa tutto. E io sono pronto a giurarti davanti a Gesù e davanti a tutti che mi son vantato a torto del figlio che, in coscienza, è tuo!“.
Liolà rifiuta però di prendere, ora, per moglie Tuzza e zio Simone allora gli dice:
“Te la puoi e te la devi prendere Liolà perché, come è vero Dio e la Madonna Santissima, non è stata d’altri che tua!”
e Liolà ribatte:
“Volevo si prima. Per coscienza, non per altro. Sapevo che sposando lei tutte le canzoni mi sarebbero morte nel cuore, allora non mi volle… Ora che il gioco v’è fallito? No ringrazio… Vedo che qua c’è un figlio di più. Bene, non ho difficoltà. Crescerà il da fare a mia madre. Il figlio, lo dica pure a Tuzza, zia Croce, se me lo vuol dare me lo piglio!“.
A questo punto, Tuzza si slancia verso Liolà con un coltello e ferisce di striscio Liolà, che riesce a disarmarla e le passa sulle labbra le gocce di sangue che escono dalle ferita che gli ha inferto Tuzza e, andandosene con i suoi figli, canta una canzone rivolta a Tuzza, che dice così:
“Non piangere, non ti rammaricare! Quando ti nascerà dammelo pure, tre e uno quattro. Gl’insegno a cantare“.
Liolà, dunque, mantiene la sua libertà nella commedia, non si imprigiona nei vincoli del matrimonio come, invece, fa Mattia nel romanzo, il quale si sente costretto a sposare Romilda e che, per ritrovare la libertà, deve fingere di essere il morto che al suo paese hanno trovato annegato nell’acqua presso il mulino che era di proprietà della sua famiglia e che i suoi famigliari hanno riconosciuto essere lui, Mattia Pascal, mentre, in realtà egli si trovava a tentare la fortuna al Casinò di Montecarlo.
Nella versione in dialetto della commedia, quando zio Simone si presenta da zia Croce e da Tuzza per dire che sua moglie attende un figlio le due donne gli chiedono se abbia le prove che questo figlio che attende Mita sia proprio suo e zio Simone risponde insistendo con il dire che il figlio che Mita attende è suo e che, se le due donne credono altro, diventerà verso di loro più irato di Dio Padre quando è sdegnato verso l’umanità.
E Liolà, quando ritorna dalla vendemmia e zio Simone gli dice che Mita attende un figlio, vuole iniziare a comporre una poesia, uno stornello sul tema ed inizia a recitare:
“Piccolino, Maschietto”
ma, zio Simone, che nella versione in dialetto del testo è Don Simone, titolo che gli è conferito dalla sua ricchezza e dalle sue vaste proprietà, tappa la bocca con la mano al giovane cantore ed, alla fine della commedia, quando Liolà ferito da Tuzza si allontana, cantando con i suoi figli, nella canzone che interpreta in dialetto c’è un diretto riferimento a Tuzza, che chiama Tuzzidda, nella prima strofa e nella seconda dove dice:
“Quando ti nasce non lo fare morire”
e, poi, continua con la strofa terminale della canzone che si trova anche nella versione in italiano del testo:
“Tre e uno quattro. Gli insegno a cantare!“.
Liolà sembra, quindi, nel testo in dialetto che abbia paura che, nella rabbia che ha maturato verso di lui, Tuzza possa portare a cattivo compimento la gestazione della gravidanza del nascituro in arrivo, così come nel romanzo Romilda gestisce male la gravidanza delle figlie di Mattia, al punto che una delle gemelle nate muore poco dopo la sua venuta al mondo e la seconda gemella prima di poter compiere l’anno di vita.
Nel testo in dialetto agrigentino ritorna più volte la parola “robba” che esprime la roba, ovvero le proprietà, intese come ogni forma di ricchezza materiale che ha zio Simone e che vanno dalle proprietà dei campi a quelle degli edifici, perché anche le case coloniche, così come tutti gli annessi ad esse pertinenti, sono definiti come “robba” e, questo termine e questo concetto esasperato di proprietà e di possesso che hanno questi contadini, si ritrova già nei testi, romanzi e novelle, dell’altro grande narratore siciliano vissuto tra Ottocento e Novecento, Giovanni Verga.
12. Giovanni Verga: La Roba e Jeli il pastore
Nella novella rusticana dal titolo La Roba Verga parla di un certo Mazzarò, il quale da misero lavoratore a giornata, a quattordici ore di lavoro per tre tarì, era diventato ricco possidente di campi, vigneti ed uliveti, che in precedenza erano stati di proprietà del barone presso cui lavorava a giornata e che gli aveva ceduto ogni sua proprietà, tranne la pietra scolpita con lo stemma della sua famiglia nobiliare, un oggetto che del resto il popolano Mazzarò, che firmava con la croce, non era interessato ad avere in suo possesso.
A lui interessavano solo, anche, le monete di metallo prezioso, non i soldi di carta che usava solo per pagare le tasse e gli piaceva accumulare proprietà terriere, infatti, nel racconto, lo scrittore catanese dice che Mazzarò:
“Non aveva lasciato passare un minuto della sua vita che non fosse stato impiegato a fare della roba… sapeva quel che ci era voluto ad acchiappare quella fortuna, quanti pensieri, quante fatiche, quante menzogne, quanti pericoli di andare in galera e come quella testa, che era un brillante, avesse lavorato giorno e notte meglio di una macina del mulino per fare la roba“,
ovvero, Mazzarò si era arricchito con le proprietà altrui che aveva fatto diventare sue, come il Malagna non in modo sempre onesto e, come zio Simone, non aveva alcun erede a cui lasciare le sue proprietà, unica sua parente era la madre che, però, era morta quando lui era ancora povero e non aveva alcun interesse per le donne e, così, non aveva degli eredi a cui lasciare i suoi averi e, questo fatto, dice l’autore, era una cosa che gli doleva tantissimo perché cominciava:
“A farsi vecchio e la terra doveva lasciarla là dove era. Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora dovete lasciarla”
ed in questo modo Mazzarò era invidioso dei suoi giovani garzoni che lavoravano nelle sue proprietà e faceva loro dei dispetti, come farli cadere quando portavano sulle spalle dei carichi pesanti, perché invidiava la loro gioventù se, anche, non avevano alcuna proprietà di cui disporre mentre lui, che era anziano, aveva tanto e con la morte avrebbe dovuto lasciare tutti i suoi averi nell’al di qua e così, quando Mazzarò seppe che non gli restava più molto da vivere, decise di distruggere le sue proprietà per non lasciarle ad altri estranei alla sua vita, principiando ad uccidere a colpi di bastone il pollame del suo cortile urlando:
“Roba mia vientene con me!“.
Una posizione di attaccamento alle sue proprietà è quella di Mazzarò che è ancora più esasperata di quella di zio Simone, il quale cerca solo, ad ogni costo, di avere un figlio a cui lasciare le sue proprietà, non importa, poi, che effettivamente questo figlio non sia suo, zio Simone lo crede, comunque, tale per avere una successione ai suoi averi che sia a lui diretta e consanguinea.
Un’altra novella verghiana in cui il protagonista ha delle affinità, questa volta non più con zio Simone ma con Liolà, è quella contenuta nella raccolta Vita dei campi che ha per titolo Jeli il Pastore.
Jeli è un guardiano di cavalli in terra di Sicilia che viveva all’aperto e trascorreva le giornate, suonando lo zufolo nei momenti di libertà, il quale, oltre ad avere la compagnia della musica del suo strumento, come Liolà, ha anche quella del suo canto e, come Liolà, sa fare ogni tipo di lavoro, oltre a quello del guardiano di bestiame, sa fare, anche, dei lavori con l’ago e suona il suo zufolo di sambuco nei momenti di riposo ed ammirando la libertà degli uccelli che volano e cantano nel cielo tutto il giorno ed, anche, Liolà paragona se stesso ed il suo spirito libero agli uccelli che volano di ramo in ramo senza mai avere una dimora stabile e che, anzi, proprio come Liolà, non sembrano desiderarla tale stabilità di dimora.
13. Liolà dalla commedia teatrale alla commedia in musica
Il librettista di Giuseppe Mulè, Arturo Rossato, che gli creò il testo per la commedia in musica, derivata da quella in prosa di Luigi Pirandello, pone in scena i personaggi della vicenda chiamandoli solo per nome, mentre, sia zia Croce che zio Simone, nella commedia originale, hanno anche il cognome, Azzara la donna, Palumbo il burbero uomo, per alcuni personaggi, poi, come avviene per lo stesso protagonista Liolà, questi vengono ad essere presentati con il solo soprannome, che per il protagonista è appunto Liolà, ma nella commedia Pirandello lo presenta come Nico Schillaci detto Liolà e, anche, la Moscardina, una delle contadine, è presentata, nel testo originale, come Carmina detta la Moscardina e, nel primo testo teatrale, quello in dialetto di Agrigento, si parla di questa donna pettegola solo con il suo nome di Carmina.
Le tre giovani contadine, Ciuzza, Luzza e Nela, che nel libretto di Rossato diventa Nella, compaiono, derivate come voci soliste, da un coretto di una decina di giovani popolane che, nel secondo atto della commedia in musica, vogliono sapere come Liolà ha preso il rifiuto di sposarlo da parte di Tuzza, solo in questa breve scena, perdendo una presenza più consistente che esse hanno, invece, nei tre atti della commedia pirandelliana ed, anche, uno dei tre figli di Liolà cambia nome nel libretto, Tinino diventa, infatti, Titino mentre gli altri due figli restano con il nome invariato di Calicchio e Pallino.
13.1. Atto Primo
Esso ha un’ambientazione simile a quella del primo atto della commedia originale.
Siamo nel mese di Settembre e le donne di Domenica stanno schiacciando le mandorle di proprietà di zio Simone, lavorando sui terreni di questi presso la casa colonica di zia Croce, che è la cugina di zio Simone.
Per meglio connotare il fatto che l’azione si svolge di Domenica nella didascalia, al termine della descrizione della scena di ambientazione del primo atto, si legge:
“Or si or no si odono le campane del paese lontano che annunciano la Messa”
e l’opera inizia coinvolgendo le diverse voci delle donne che cantano, secondo l’usanza che si ha durante lo schiacciamento delle mandorle e degli altri lavori in campagna, la Passione.
Nella commedia originale le strofe che vengono cantate della Passione e vengono cantate in coro da tutte le donne presenti in scena sono le seguenti:
“E Maria, dietro le porte nel sentir le scuriate: Non gli date così forte sono carni delicate”
e più oltre:
“A lui portami Giovanni. Camminar non puoi Maria!“.
Mentre nella commedia in musica la prima strofa è cantata da Gesa, la zia di Mita e da zia Croce, la madre di Tuzza e, prima dell’ultima strofa presente nella commedia, che è cantata da tutte le donne in coro, nella versione musicale, vengono messe in musica anche altre strofe di questa Passione, che le donne erano use cantare durante i lavori dei campi e specialmente alla schiacciatura delle mandorle.
Mita, infatti, dopo i versi cantati dalle due anziane donne e tra i commenti delle altre lavoratrici e, specie della Moscardina, che lamentano l’avarizia di zio Simone e, anche, la sua bruttezza fisica, perché è vecchio e calvo e, quindi, dicono che:
“Albero senza foglie non dà frutto“, canta la strofa:
“Che v’ha fatto, egli, mio figlio, l’agnelletto immacolato” e Tuzza, un po’ dopo, canta:
“Era bianco come un giglio, ora è tutto insanguinato” e la Moscardina seguita cantando:
“Per sentieri e per contrade sette volte è già caduto” e zia Gesa risponde dicendo:
“E il mio cuore sette spade, sette spade, hanno fenduto“,
per, poi, tutte cantare la strofa finale che è presente, anche, nella commedia originale.
Nel libretto non si accenna al fatto che zio Simone è vedovo ed, anche, dalla moglie defunta non ha avuto figli e si dice, invece, che zio Simone e Mita sono sposati da un anno, mentre, nella commedia originale, è più tempo che i due sono sposati, infatti, dal matrimonio sono già trascorsi quattro anni e zio Simone può ben arrabbiarsi con la moglie non vedendo giungere il desiderato erede dei suoi molti possedimenti, anzi, nel libretto Mita, moglie di zio Simone, viene paragonata dallo stesso ad un podere e la perfida Moscardina gli dice:
“Ma non lo lavorate”
e zio Simone, in questo dialogo tra i vari personaggi che è allusivo e metaforico e viaggia facendo dei paragoni tra la fecondità della terra e quella della donna, dice:
“Da un anno intero aro, preparo, semino” e sempre la feroce Moscardina gli replica:
“Ma i frutti dove sono… Aveste almeno un figlio!”
ed ecco che a questo punto, colpito sul vivo, zio Simone, come nella commedia pirandelliana, se la prende con Mita e le rinfaccia la sua sterilità ed a essere utile solo a farlo prendere in giro dalle altre donne del paese.
Le donne, quindi, cantano, passandosi le strofe dall’una all’altra nella commedia in musica, descrivendo il carattere burbero e privo di amore, se non per i suoi averi, di zio Simone e pensano al fatto che, quando ci si sente ormai anziani e con le rughe, non è bene che l’uomo in tale condizioni prenda moglie, perché l’amore è quella pianta che dà il suo frutto solo a Primavera.
Queste strofe sono intervallate dal coro di tutte le donne che cantano il ritornello, all’indirizzo di zio Simone, che dice:
“Vuole un figlio? E se lo faccia!“,
la prima strofa che ha questo ritornello è intonata da zia Gesa e dice:
“Ogni dì, ruvido e torvo, gira intorno alle sue robe, palpa, strepita, minaccia e, poi, nero come un corvo, gracchia torbido e si rode“,
la seconda strofa spetta alla Moscardina ed è la seguente:
“Parla! E il figlio? Pensa! E il figlio? Prega! E il figlio? Urla iracondo? Ha il figliolo sulle braccia“,
quindi, è la volta di zia Croce che nel suo canto dice:
“Quando cadono le foglie non si sparge al piano o al monte il buon seme onde si sfaccia, se le rughe hai sulla fronte, bello mio, non prender moglie“.
La canzone, a quattro voci con il coro che intona il ritornello, è terminata da Tuzza che vede l’amore come un dono della gioventù: “E’ l’amor come una pianta che dà il frutto a Primavera, quando il sol lieto lo abbraccia, bello mio, se il cor ti canta non attendere la sera“. Le donne, quindi, vengono a concludere il brano a quattro voci con una risata, che è diversa, come intonazione, per ciascuna delle quattro donne:
“Allegra Moscardina, amara Tuzza, sarcastica Gesa, iraconda Croce“.
Quindi in scena giunge Ninfa, la madre di Liolà, con i tre nipoti ed i bambini fanno l’inchino alle donne presenti sull’aia, zia Ninfa lamenta che questi figli costano molto e le altre donne, malefiche, le dicono che, per lo stile di vita che conduce Liolà, dovrebbe essere contenta di avere solo tre nipoti e non trenta, perché i frutti del lavoro di Liolà, dicono le malefiche comari, si vedono in questi suoi figli, zia Ninfa difende il figlio e dice che la raggiungerà in chiesa e che sta andando a quella che zia Croce definisce la Messa delle dame e, invece, zia Ninfa la chiama la Messa del diavolo e, quindi, inizia dalla voce di zia Ninfa, con il coro di tutte le donne che ripete il verso finale di ogni strofa da questa cantata, l'”Aria del Ventaglio”, in cui zia Ninfa descrive come le signore del paese, a seconda se nubili, o sposate, o vedove, sono use farsi aria in chiesa venendo in questo modo a mettere in evidenza il loro stato sociale:
“Bisogna vedere come muovono i ventagli e bisogna sentir quanto, pian piano, raccontan quei buffissimi pendagli. Ascoltate… (fa il gesto di scuotere fitto, fitto il ventaglio) Inginocchiate e pie le signorine senza marito, movon rapide e lievi le manine, or si or no ed il ventaglio dice, allora ardito: L’avrò l’avrò l’avrò… (facendo il gesto più lento e grave) Le maritate con sicuro gesto, senza sostare, lo muovono così, agile e presto, più si che no ed il ventaglio sembra sussurrare: Ce l’ho ce l’ho ce l’ho… (Muovendo la mano in gesto sconsolato) Le vedovelle sotto il velo nero chiusa la mano lo scuotono così, lento e leggero, ora su ora giù ed il ventaglio sembra dire piano: L’avevo e non l’ho più!“.
Nella commedia Pirandello scrive che Liolà sta tornando al paese con il carretto, per fare entrare in scena il giovane protagonista, dunque, Rossato scrive la seguente didascalia:
“Una voce chiara e festosa sale stornellando dalla campagna, accompagnata da un tintinnio allegro di sonagli“,
sicuramente sono questi i sonagli che decorano i cavalli, asini o muli da traino dei carretti dei carrettieri e con uno di questi Liolà fa ritorno al paese.
Liolà per Pirandello esordisce in scena cantando il seguente motivo: “Ventidue giorni e più che non ti vedo, come un cagnolo alla catena abbaio“,
nella commedia in musica, invece, il protagonista esordisce così: “Son giorni e giorni, ormai, che non ti vedo e che davanti alla tua casa passo… Dicono che vuoi fuggirmi ed io non credo, dicono che il tuo cuor fatto è di sasso ma io, cantando innamorato, aspetto“.
Mentre, nella commedia originale, quando le giovani contadine lo vezzeggiano, perché tutte le donne del paese sono innamorate di Liolà, giovane contadino-cantore, libero come l’aria, lui canta loro un’altra canzone su come deve essere, che caratteristiche e qualità deve avere, la donna che avrà il suo cuore per sempre ma, questa canzone scritta da Pirandello e che dice:
“Regina di bellezza e di valore dev’essere colei che avrà potere di mettermi a catena mente e cuore“,
non viene ripresa da Rossato per la commedia in musica, invece, sono identiche a quelle scritte da Pirandello le altre due canzoni che Liolà canta in questo primo atto della commedia, solo che, nella versione musicale sono invertite rispetto a come si presentano nella versione per teatro di prosa, infatti, nel testo di Pirandello c’è prima la canzone:
“Ho per cervello un mulinello” e dopo
“Io questa notte ho dormito al sereno“.
Invece nella commedia in musica, quando le donne sono in estasi perché trovano bello ed elegante Liolà e gli chiedono se è stato ad un ballo la notte trascorsa, lui risponde e, le parole di Rossato sono quelle di Pirandello, con la differenza che, mentre il drammaturgo siciliano scrive il verbo avere coniugato in modo grammaticalmente corretto, ovvero con la presenza della lettera H quando è necessaria, il librettista, quasi sempre, quando utilizza la coniugazione del verbo avere, non mette tale lettera ma pone la vocale che segue la H nella coniugazione del verbo con l’accento, ad esempio scrive O’ per HO e così via.
La prima canzone, che nella commedia originale è la seconda dice: “Io questa notte ho dormito al sereno, solo le stelle m’han fatto riparo, il mio lettuccio un palmo di terreno, il mio guanciale un cardoncello amaro. Angustie, fame, sete, crepacuore, non mi importa di nulla so cantare! Canto e di gioia mi si allarga il cuore, è mia tutta la terra e tutto il mare, Voglio per tutti il Sole e la salute. Voglio per me le ragazze leggiadre, teste di bimbi bionde e ricciolute e una vecchietta, qua, come mia madre“.
E, poi, nel libretto della commedia in musica, Liolà procede dicendo: “Son giovane, amo la vita. Canto. Ho in capo un mulinello che gira tutto quanto”
e qui inizia la seconda canzone di Liolà, su testo originale di Pirandello:
“Ho per cervello un mulinello, il vento soffia e me lo fa girare, con me gira il mondo e pare un carosello. Oggi per te mi struggo e mi arrovello, sembro uscito di cervello ma tu domani, cara comare, non m’aspettare. Ho per cervello un frullo, un mulinello, il vento soffia e me lo fa girare“.
Poi, Liolà dice, come nella commedia originale, a zio Simone della legge che permette ai poveri prolifici di vendere i propri figli, in strofe che sono fedeli al testo originale ma, mentre in questo testo Liolà parla a zio Simone di questa legge, perché sa che egli, infuriato, non ha dato da bere alle donne che hanno lavorato per lui tutta la Domenica ed il motivo della sua furia è dovuta al fatto che esse lo hanno ripreso perché non ha figli, che siano eredi delle sue immense proprietà, nel libretto della commedia in musica non c’è un motivo per cui Liolà debba parlare di questa vendita dei figli a zio Simone, perché nessuno dei presenti gli ha detto che egli è irato con Mita perché non ha saputo dargli il desiderato erede e, quindi, sembra nella commedia musicale che Liolà voglia liberarsi del peso dei figli che gravano su di lui e su sua madre, diminuendo il grande senso di paternità che questo personaggio ha nella commedia originale e Liolà qui dice:
“Chi ha una scrofa che gli faccia dieci o venti porcellini se li vende, non è vero? Vendendoli accumula quattrini… Chi ha una mucca e vitellini essa gli dà, più ne vende e più guadagna… Or pensate ad un pover’uomo ch’abbia invece una donna come queste… Son figlioli è una rovina. E, allor, la legge così dice: E’ in facoltà di ogni padre di famiglia che si trovi in povertà di poter comunque vendere a buon prezzo i suoi figlioli… Io per ora ne ho tre soli. Ma, se vuole, uno lo vendo. Guardi questo come è bello! Venti chili, tutto polpa. Glielo do per un vasello di buon vino cerasolo. Veramente una miseria!“.
E resta, anche, uguale al testo di Pirandello, intervallata proprio come nel testo originale dalle risate di Liolà, l’aria che questi canta alla fine del primo atto, quando capisce che Tuzza rifiuta il matrimonio con lui perché, in accordo con sua madre, ha delle mire sulle proprietà di zio Simone e Liolà canta, allontanandosi dalla casa della giovane e ritenendo che il cattivo agire di Tuzza non le darà la ricchezza che cerca, perché ha tradito l’amore di Liolà solo per interesse materiale: “Ora com’ora nessun ci fai caso. Ah! Ah! Ah! Rischi se sali di romperti il naso. Ah! Ah! Ah! Ma resterai con un palmo di naso. Ah! Ah! Ah!“. Nella versione in dialetto agrigentino della commedia la canzone di Liolà termina dicendo:
“Resterai con i piedi di fuori“,
che è un altro rimando, la frase qui citata, alle usanze dell’isola ed al mondo letterario di Giovanni Verga, infatti, nella novella Nedda con cui l’autore catanese approda alla descrizione con realismo e verità del mondo agreste della Sicilia scrive che le classi popolari di contadini che lavorano le terre dei signori, quando andavano a dormire nei poderi, dopo il lavoro, si posizionavano per riposare in modo tale che tra di loro:
“Chi ha freddo mette i piedi nella cenere calda“. Il verso della canzone di Liolà che dice: “Resterai con i piedi di fuori“,
nella versione in dialetto girgentano della commedia, è dunque un rimando a questa usanza contadina e, quindi, un ricordare che il contadino, poco accorto e poco sveglio nel gestire la sua vita, rischiava di arrivare tardi la sera presso il focolare e, quindi, di non trovare spazio nella cenere calda del camino per tenere in caldo i piedi durante la notte e, quindi, dovrà dormire con i piedi al freddo.
Si ricorda, a questo proposito, che con gli scarti delle olive, tra cui il nocciolo, si otteneva un combustibile, che era la sansa, il quale veniva usato anche a scopo di riscaldamento e, quindi, era spesso questo prodotto ad essere posto in grandi bracieri che erano dotati di una sorta di ripiano su cui si potevano appoggiare i piedi per riscaldarseli, quindi, il restare con i piedi di fuori della canzone di Liolà è, anche, un rimando alla possibilità del contadino, poco rapido nel trovarsi il luogo migliore dove passare la notte, di non riuscire a trovare spazio attorno a questo braciere per riscaldarsi i piedi e, da qui tutto il corpo, con il combustibile derivato dagli scarti delle olive.
13.2. Atto Secondo
Questo atto, sia nella commedia per teatro di prosa che in quella per teatro di musica, è ambientato presso la casa e l’orto della zia Gesa, la zia di Mita.
La donna sta pulendo le patate ed ha presso di sé i tre figli di Liolà. Nella commedia di Pirandello la donna si fa aiutare dai bambini nei suoi lavori di preparazione del cibo e li manda a cogliere delle cipolle nell’orto, nella versione musicale i bambini ascoltano la donna che narra loro la Storia del villano e della fava, mentre i piccoli sono anche attratti da:
“Un cestello di mele sul quale allungano di soppiatto la mano”
e la zia Gesa deve riprendere i bambini che avrebbero il desiderio di fare merenda con quelle mele e per distrarli, da questo loro interesse, mima la fiaba del contadino e della fava, presentandola nello stile di quelle filastrocche per bambini che, oltre alla parte cantata, vengono, anche, a presentare una gestualità mimica che è per lo più comica, fatta apposta per divertire e coinvolgere nel mimo i fanciulli e farli divertire con semplicità.
La filastrocca, presente solo nel testo di Rossato, è la seguente:
“Il bel villano mangia la fava. Quando la mangia, la mangia così. Mangia un poco e poi si riposa, poi si mette le mani così. La pianta così, la strappa così, la sbuccia così, la cuoce così, poi si mette le mani così“.
Questa filastrocca mimata viene ripresa più avanti nell’atto da Liolà quando deve portare a dormire i suoi tre figli ed in questa ripresa la filastrocca che i ragazzi, che sono parti parlanti e non cantanti, concludono, in questo atto, urlando:
“Viva Bacco“,
diventa:
“Il bel villano mangia la fava, quando la mangia, la mangia così. Mangia un poco e poi si riposa, poi si mette le mani così… Si sveglia così, si leva così… va a letto così e poi si mette a dormire così“.
Poi alla casa di zia Gesa arrivano le giovani contadine attratte da Liolà e, questo avviene sia nella commedia in prosa che in quella in musica.
La prima a giungere è Ciuzza, a cui serve l’aglio per la tavola domestica, poi, giungono insieme Luzza e Nela ma, nel testo di Pirandello, queste ragazze si recano alla casa di zia Gesa ufficialmente per aiutarla nei lavori di cucina ma questa è una scusa che permette loro di essere accanto alla casa di Liolà mentre, nella commedia in musica, le giovani vanno a casa di Gesa per chiederle delle cipolle, quelle che nel testo di Pirandello zia Gesa fa raccogliere nell’orto ai bambini di Liolà, poi, nel testo di Rossato, giungono altre ragazze del paese nell’orto di zia Gesa che vogliono sapere come Liolà ha preso il rifiuto di Tuzza di diventare sua moglie e, infatti, in coretto dicono:
“Vogliam sapere se è vero che zia Croce, anzi che Tuzza, è stata chiesta in moglie ed ha risposto no. Proprio a Liolà. Facendolo quasi trasecolare. Gli ha detto un no, gli ha detto. Imparerà a burlare. Pareva che ogni donna cadesse ai suoi ginocchi, morisse fra gli spasimi guardandolo negli occhi ed una, finalmente, gli ha detto no, un bel no. E adesso canti, canti d’amor se può“.
Arriva, poi, all’orto la Moscardina a dire che zio Simone sta picchiando sua moglie Mita perché le ha detto che sta per avere il sospirato figlio ed erede da sua nipote Tuzza mentre lei non è stata in grado di dargli eredi, ovviamente, le donne sanno che questo figlio che Tuzza attende è figlio di Liolà e dicono che il giovane contadino produce molti frutti:
“E’ una pianta che ne ha piene le braccia“.
Zia Gesa lascia le altre donne e si reca a casa della nipote, per liberarla dalle mani dell’anziano ed aggressivo marito e, quando torna alla sua casa, dice alle altre donne che si recherà in paese per avere giustizia per la violenza subita da Mita da parte dell’anziano e dispotico marito ed esprime una constatazione, non presente nella commedia originale:
“La uccideva a botte. Se non giungevo la trovavo morta“, in cui descrive l’aggressività di zio Simone verso Mita.
Mita giunge alla casa della zia sconsolata e canta in un’aria il suo dolore:
“Ormai è un anno e più che peno e inghiotto veleno, sono stanca, non so quello che voglia, che pretenda da me. Parole che a ripeterle ho vergogna: Tuzza mi dà quello che tu non hai saputo darmi e resta qui padrona, vattene via di qua. Così come si getta uno straccio per via… Me lo diceva il cuore di rimanere qui, povera e sola. A Primavera l’orto poverello mi donava un suo fiore, la mia spola faceva da ritornello a ogni canto d’amore e potevo sorridere alla vita e sperare e sognare nella mia povertà triste e sfiorita“.
Giunge, quindi, alla sua casa Liolà e canta una canzone che viene ampliata nel libretto in musica, rispetto alle prime due righe della stessa che Pirandello pone nella commedia originale:
“Tutti gli amici miei me lo hanno detto, l’uomo che prende moglie resta sotto”
e, nell’opera, la canzone continua dicendo:
“Prendila per amore o per dispetto finisci sempre per pagar lo scotto“. Liolà nega alle donne che glielo chiedono che il figlio che Tuzza attende sia suo ma queste lo accusano di essere bugiardo nella sua affermazione e gli dicono che se nega tale paternità gli:
“Verran le doglie”
ed, a questo punto, Liolà canta un’aria in cui dice che tutti i mali delle donne del paese vengono attribuiti, come causa, a Liolà:
“Una ragazza lagrima? Son io la colpa. Muore. Son io la colpa. Perde senza saperlo il cuore? Sono io che l’ho rubato. Ecco, diventa madre ed io, che non so nulla, divento tosto il padre. Vi supplico, signore, troppa abbondanza. Grazia, codesti bei miracoli mi porteran disgrazia”
e, poi, quando viene la sera e le altre donne se ne vanno, inizia un duetto tra Liolà e Mita, che gli dice che vuole lasciare il marito e tornare a vivere presso la zia Gesa e Liolà le risponde:
“Come torna la rondine ferita”
e, poi, la invoglia a dare un erede a zio Simone nello stesso modo in cui ha fatto Tuzza.
Infatti, le dice:
“Non sai, dunque, perché zio Simone s’è preso or ora Tuzza? Lo sai? Non per amore ma per il figliolo che essa gli darà. Egli cerca l’erede” e, poi, i due giovani, in duetto, ricordano la loro giovinezza trascorsa insieme ed il loro primo innamoramento reciproco:
“LIOLA: Sei rimasta innocente come allora. Ricordi il tempo bello, quando in quell’orto si giocava insieme MITA: Com’è dolce in tristezza ricordare LIOLA’: Ricordi le sfide e le corse sui prati a Primavera? E quando ti ghermivo un bacio in bocca MITA: Ma qualche volta ti sfuggivo ardita LIOLA’: Ed io, cercando, ti chiamavo: Mita vieni qua MITA: Ed io nascosta tra i cespugli in fiore: Liolà! Liolà! LIOLA’: Le voci s’inseguivano nel vento MITA: Si spegnevan nel vento LIOLA’: E poi silenzio e poi ciascun riprese la propria via ma è rimasta nel cuor la nostalgia di quelle care voci che non s’odono più. Tu fosti di quel vecchio ed io di tutte ma senza un nido mio“.
Il duetto tra i due giovani è interrotto dall’arrivo di zio Simone, che si fa luce con una lanterna notturna, il quale vuole ricondurre alla casa coniugale Mita e invita quindi la moglie ad uscire dal guscio, ovvero, dalla casa della zia in cui si sente protetta ma Mita non vuole seguire il marito e la madre di Liolà lo convince a lasciarla tranquilla a riflettere sulla situazione che si è venuta a creare almeno per quella notte e dalla porta del giardino-orto, che Mita ha lasciato aperta, Liolà entra in casa della giovane mentre zio Simone è fatto uscire dalla porta principale di questa casa e, mentre nella commedia, zio Simone si ricorda di aver lasciato la lanterna nell’orto mentre parlava con zia Ninfa e chiede a Mita di rientrare in casa per andare a riprenderla e Mita gli dice che può prenderla entrando direttamente nell’orto, attraverso l’uscio di questo, senza più transitare dentro alla casa, qui, zio Simone, recupera la lanterna dimenticata nell’orto direttamente senza più disturbare Mita e, mentre l’atto nel testo di Pirandello si conclude con zio Simone che dice:
“Al buio, per la campagna, c’è pericolo di rompersi le corna“,
alla fine di questo secondo atto della commedia in musica, zio Simone dice:
“Donne! Sciagure a chi ci casca!”
e, poi, la didascalia così conclude l’atto:
“Le stelle brillano vive, un canto dolce d’amore si leva lontano. Simone entra nell’orto per il rastrello della siepe, prende la lampada, la alza per vedere s’è accesa bene ed esce, avviandosi piano piano. La finestra a pianterreno della casuccia si illumina. Il canto d’amore si spande alto e sereno, si vedono le ombre di Mita e di Liolà abbracciarsi“.
13.3 Atto terzo
Questo atto è ambientato in periodo di vendemmia e siamo presso il vigneto di zia Croce.
Nel libretto per la commedia in musica si legge:
“Da metà scena al fondo, in distesa più che è possibile, si vedono i filari carichi di pampini e di grappoli maturi che si perdono lontano sotto il Sole vivissimo“.
I contadini, irati contro Tuzza e sua madre per il cattivo tiro giocato a Mita, rifiutano di andare a fare vendemmia nei loro terreni e zia Croce, desolata da questo rifiuto, dice:
“Le vespe e il Sole finiran così di mangiar questi grappoli di Dio in pochi dì“.
Tuzza è irata per il fatto che la madre abbia chiamato anche Liolà per la vendemmia e che costui sia, anche, l’unico, tra tutti i contadini interpellati, che ha detto che sarebbe venuto a svolgere il lavoro.
Tuzza sta preparando il corredo per il figlio che deve nascere e canta a questo figlio che verrà una “Ninna Nanna” che è un canto misto di amore e dolore:
“Se non ci fossi tu, mia bella creatura, non mi vedrebbe più. Ma tu che colpa n’hai, bello innocente, s’egli ti nega il santo battesimo del nome e dell’amore? Tu non sai niente, forse conosci, appena appena, il canto che culla con il tuo anche il mio cuore“.
La Moscardina, però, annuncia che sapendo che Liolà veniva per la vendemmia, anche, tutti gli altri contadini e contadine hanno deciso di partecipare alla raccolta dell’uva e zia Croce è insospettita da questo improvviso cambio di idea da parte dei contadini e pensa:
“O stan per farmela, oppure, me l’hanno fatta“. A questo punto la didascalia del libretto dice:
“Voci allegre di donne e di uomini che si avvicinano… Liolà entra trascinando una pittoresca brigata di vendemmiatrici e di vendemmiatori che canta allegra“.
Nel testo dell’atto, poi, i cori saranno solo indicati per voci femminili, ovvero, ci sarà solo più il coro delle vendemmiatrici a cantare la “Canzone della Vendemmia” come sfondo al canto di Liolà che è la stessa, ovvero, ha le stesse parole scritte da Pirandello per la canzone della commedia:
“Pesta bene tu di qua. Pesta bene ché più pesti nel tinello e più forte il vin ti viene. Più di quello dell’altr’anno… Se tu pesti ben compare, un barile te ne farà. Un barile, che a berne un sorsetto a terra mi getto con il mal di mare, perché vagellare la testa mi fa“.
Ed in questo coro, per accompagnarsi nel canto, i vendemmiatori e le vendemmiatrici battono in cadenza i piedi, poi, si recano alla vigna per svolgere il lavoro ancora cantando e, questa volta, a cantare è il solo Liolà accompagnato dal coro delle vendemmiatrici:
“LIOLA’: L’un più guarda il Sol più si fa biondo, bella dagli occhi levati la benda VENDEMMIATRICI: Il fiume ingrossa e la tua barca affonda, affonda la barca che guida non ha LIOLA’: Acini che son miele, ne volete, uno per ogni bacio che mi date“.
A questo punto è Tuzza, che è gelosa che le vendemmiatrici stiano corteggiando Liolà, a dire alla madre che non vuole più che lo zio Simone riconosca come suo il figlio che lei dovrà avere, anche perché, poco dopo, si viene a sapere che zia Croce era già a conoscenza del fatto che anche Mita era in attesa di un figlio e che, come moglie di zio Simone, era, a tutti gli effetti, il nascituro figlio di Mita l’erede delle grandi ricchezze dell’anziano possidente, legittimo nella sua successione alle proprietà di zio Simone mentre, nella commedia di Pirandello, zia Croce e Tuzza vengono a sapere di questo figlio di cui Mita è in attesa quando giunge in scena zio Simone e, poi anche Mita, che, invece, non è presente in questo terzo atto del libretto dell’opera in musica e, quindi, manca nella versione musicale della vicenda lo scontro diretto tra Tuzza e Mita che, invece, è presente nella commedia originale in cui Mita fa capire a Tuzza di avere seguito il suo esempio per ritornare ad esercitare, a pieno titolo, i suoi diritti di moglie di zio Simone però, sia nella commedia che nell’opera in musica, zio Simone cerca di operare, con belle maniere, affinché Liolà sposi Tuzza, essendo egli il vero padre del bambino che questa attende e dicendo che, per garantire ciò, ovvero che si svolga il matrimonio tra i due giovani, è disposto, anche a dare, ai due giovani un aiuto economico e dice a Liolà:
“Qual gusto puoi provarci a improvvisar dei figli per la strada mentre potresti averceli anche tu ma in una tua casa. Ce l’han gli stessi lupi alla montagna una tana, lo so, ma con la propria lupa e i propri lupacchiotti. E’ bello credi avere un tetto e un letto con la pergola e l’ombra nell’Estate e il braciere all’Inverno“.
Liolà è perplesso perché dice che Tuzza e la sua famiglia guardavano più agli averi materiali che al cuore e all’amore, infatti, dice:
“Tuzza, il casato così: per cuore un registro di conti”
e, poi, Liolà procede cantando un’aria in cui dice:
“Lo so che Tuzza fu soltanto mia e le volevo e mi voleva bene e con valide braccia ed allegro cantare, bella com’è, l’avrei fatta felice. Ma non volle sposarmi. Aspetta a dir di si un principe di sangue (Intona un canto siciliano, come quelli che gli innamorati cantano, a suon di chitarra, sotto le finestre delle loro belle): <Aprimi, sono figlio a Re Ruggero, per ogni bacio tre corone d’oro. Ogni corona cento perle in giro…>. Apri e sposalo“.
E Liolà dice, ancora, quando Tuzza manda via zio Simone e dice che sposerà chi più a lei piacerà in futuro:
“Uccellaccio di rapina, hai detto il vero. Uccellaccio che svolazza senza tregua da questa a quella vigna, da un uliveto all’altro e d’Inverno e d’Estate per un tozzo di pane, anche se, qualche volta, all’ombra di una quercia per me s’apriva il calice di un fiore. Prendere e dare e spesso davo più di quanto non prendessi e a una, che non dico e che tu sai, ho dato tanto da svuotarmi il cuore. Uccellaccio di rapina, pure un giorno, dopo tanto svolazzare, vedo un pino, in un giardino, ha le foglie di smeraldo, ha la frutta di rubino: <Aprimi, donna, fammi riposare. Aprimi, sono stanco del cammino>. Fu vano il mio pregare e me ne andai seguendo il mio destino“.
Tuzza, poi, nella commedia in musica, piena di rabbia, ferisce ad un dito, anziché al petto, come avviene nella commedia originale, Liolà dopo che zio Simone ha lasciato l’aia dicendo:
“Questo è un covo di vipere. Libera nos Domine!“.
Liolà, come nel testo di Pirandello, fa assaggiare il suo sangue a Tuzza che minaccia di morderlo, allora, le vendemmiatrici, dicono a Liolà:
“Strappa la vigna che non vede Sole, peggio la donna nemica d’amore è quella senza grappolo, è quella senza amore. Che cosa aspetti, se più non ti vuole? Lasciala là e vieni con noi”
ma Tuzza si ricrede e decide di diventare moglie di Liolà dicendogli: “Più non vedrai, cinquanta miglia in giro, una gonnella“.
E, la commedia in musica, finisce con la danza di tutti i contadini, aperta da Liolà e da Tuzza, con Liolà che canta:
“Miracolo, il Paradiso sceso sulla terra. Ma, se mi frulla, rinnovo la guerra e torno a svolazzar dove mi piace!“.
Un Liolà, dunque, che sposa l’ammansita Tuzza senza però promettere, in senso assoluto, di rinunciare alla sua vita di libero “Don Giovanni” mentre, nella commedia originale, Liolà non ne vuole più sapere di Tuzza che lo aveva respinto ma le dice di dargli il figlio che avrà e che alleverà insieme agli altri suoi figli.
Quindi nell’opera di Mulè, con la modificazione del finale, non viene musicata la canzone di Liolà con cui Pirandello conclude, con totale coerenza verso il personaggio e la sua psicologia etica, che, invece, manca nel finale di Mulè, la sua commedia agreste girgentana:
“Non piangere, non ti rammaricare, quando ti nascerà dammelo pure. Tre e uno quattro, gli insegno a cantare“.
14. I giudizi critici sul Liolà in musica
Giuseppe Mulè fu il direttore della prima rappresentazione assoluta della sua creazione al Teatro San Carlo di Napoli il 2 Febbraio 1935, ovvero, del Liolà derivato dalla commedia di Luigi Pirandello su libretto di Arturo Rossato.
Per ricreare musicalmente questa commedia pirandelliana il siciliano Mulè si ispirò alla musicalità popolare della Sicilia e ai canti popolari dell’isola.
Dopo la prova generale di Liolà al Teatro San Carlo, Mulè aveva concesso un’intervista all’articolista del principale giornale di Napoli Il Mattino ed aveva detto che, sempre, nelle sue opere si era ispirato alla sua sicilianità, se anche Liolà era, per il suo soggetto campestre e popolare la più siciliana di tutte le sue creazioni, in Dafni il musicista aveva trovato ispirazione nella mitologia greco-sicula, la leggenda lo aveva ispirato per La Monacella alla fontana e la tragedia, di ambientazione feudale, era stata la base per le vicende della Principessa di Carini e di Al Lupo, con Liolà il musicista voleva portare sulla scena del teatro di musica la commedia campagnola e da tempo Mulè era stato attratto dal soggetto di Liolà e ne voleva trarre un’opera in musica, fin da quando aveva visto la commedia di Pirandello interpretata da Angelo Musco e dalla sua compagnia e, questo perché aveva subito percepito che Liolà era la creazione per teatro più musicale tra tutte quelle che Pirandello aveva destinato al teatro di prosa.
Mulè creò Liolà come opera quasi esclusivamente vocale facendo si che l’orchestra assumesse una funzione subordinata a quella delle voci e, anche, il coro acquisisse, in questa nuova creazione, un ruolo di sfondo ornamentale che doveva dare risalto alle figure soliste che sono le protagoniste della commedia.
Il coro presente sulla scena è quasi solo un coro femminile, per fare risaltare il personaggio di Liolà, come gallo del pollaio, circondato dalle donne e da esse desiderato, Mulè ha tolto, quindi, quasi del tutto, il coro maschile dalla sua creazione musicale.
Quando, poi, il 3 Febbraio 1935 uscirono le recensioni alla prima rappresentazione dell’opera, che aveva suscitato tante aspettative nel panorama musicale italiano, si disse che, pur ispirandosi al soggetto pirandelliano:
“L’originale di Pirandello è stato frainteso per opera del librettista, in primo luogo, questo è visibile nel radicale mutamento della conclusione della commedia, infatti, Liolà aveva detto a Tuzza resterai con un palmo di naso e, se in ultimo, finisce per prenderla in moglie, il palmo di naso non c’è più. La commedia di Pirandello è una lezione di morale di Liolà a Tuzza e a sua madre e non c’è lo spirito pirandelliano nella commedia in musica che ha un lieto fine e quattro piroette di cattivo gusto, che tradiscono lo spirito dell’originale di Pirandello“.
Dal punto di vista musicale l’opera inizia con una “Sinfonia” che presenta il tema di Liolà che Mulè ha trasformato in un cantante di stornelli e molto affascinante, era per i critici, anche, la melodia di oboe su sfondo di sordine che apriva il terzo atto dell’opera dove, pure era apprezzabile come creazione musicale, la “Ninna Nanna” che Tuzza canta pensando al figlio che avrà ma, altri momenti della commedia, come l’episodio che descrive l’uso del ventaglio in chiesa da parte delle signore del paese, narrato da zia Ninfa, nel primo atto della commedia, risultava essere troppo caricato e grottesco, come se il musicista, per certi versi, si fosse ispirato all’opera buffa del tardo Settecento-inizio Ottocento.
Così lavorando, il compositore fa si che nel corso dell’opera in musica, Liolà non diventi mai un personaggio ma sia solo un cantante che canta, con la stessa potenza e gli stessi atteggiamenti, qualsiasi cosa il suo canto debba comunicare.
Questa, per i critici, era comunque un’opera che, oltre al canto, richiedeva capacità attoriali e fisiche agli interpreti perché c’erano momenti di recitazione e situazioni vocali che, più che canto erano dei veri e propri effetti di grido.
Lo spettacolo a Napoli resse per sole tre repliche, di cui la terza era a prezzi ridotti per le associazioni di dopolavoro.
Giuseppe Mulè scelse di mettere in musica Liolà incoraggiato dal successo che aveva avuto il balletto La Giara con le musiche di Alfredo Casella ma questo suo Liolà non ebbe un grande successo se, anche, fu ripreso al Teatro Regio di Torino, con la direzione di Franco Ghione, tra il Gennaio/Febbraio del 1936 e, questo, fu l’ultimo spettacolo che venne allestito nel settecentesco teatro torinese, che venne a bruciare, distruggendosi, proprio durante il periodo di repliche di Liolà, che divenne per Torino ed il suo teatro un titolo da scongiuri.
14.1. Liolà a Torino: Gennaio/Febbraio 1936
Nella ripresa di Torino della commedia in musica piacque molto la “Sinfonia” introduttiva che era divisa in quattro movimenti “Largo-Allegro-Lento-Allegro” e il cui tema rappresentava la giovinezza ed il vigore del protagonista, così come, poi, si vedevano espressi nel suo canto nel corso dell’opera.
Gradevole era stato anche l’ascolto della Laudata, ovvero, del canto della Passione che fanno le donne nel primo atto, mentre schiacciano le mandorle e che erano canti frequenti, fatti durante i lavori agresti, nella cultura popolare della Sicilia e, bene reso nella commedia in musica, di viva suggestione, era poi il coro delle vendemmiatrici per voci sole, quasi senza il supporto sonoro dell’orchestra.
In quello stesso 1936, ispirato al periodo agricolo della vendemmia, Giuseppe Mulè scriverà un poema sinfonico, appunto, intitolato La Vendemmia.
I critici dicevano che la musica di Mulè era profondamente legata al mondo del teatro classico della Grecia antica, infatti, il musicista aveva creato le musiche di scena per gli allestimenti di tragedie greche nel teatro greco-romano di Siracusa, a partire dal 1921, dove si era occupato delle Coefore per poi nel 1924 occuparsi di I sette a Tebe di Eschilo e, negli anni Trenta del Novecento, si era occupato di Ifiginia in Aulide ed Ifiginia in Tauride di Euripide e, anche, dell’Edipo Re di Sofocle ma, pure, dell’Oreste di Alfieri nel 1929 e creò, pure, la colonna sonora per il film Processo e Morte di Socrate e, quindi, la sua cultura era pervasa da una grande classicità.
I critici che videro Liolà a Torino trovarono che in questa opera, il musicista, aveva messo in luce:
“Una psicologia collettiva di ambiente, anteponendola alla psicologia dei singoli personaggi del dramma“.
Franco Ghione, con la sua direzione d’orchestra, aveva valorizzato l’esecuzione di questa musica di descrizione paesistica e di ambiente di vita dei campi.
Giuseppe Mulè, forse, si considerava legato a Pirandello, oltre che dalla sicilianità, anche da influssi astrali, essendo, sia il musicista che il drammaturgo, entrambi nati il 28 Giugno, nel 1867 Pirandello, nel 1885, a Termini Imerese, Giuseppe Mulè.
15. Liolà per teatro di prosa
Liolà di Pirandello è una commedia che si pone sulla scia della Mandragola di Macchiavelli.
E’ una creazione che guarda al rapporto tra i sessi ed ha un forte rimando al richiamo ed alla potenza dei sensi ed ha una forte carica di vitalità e fecondità.
Gramsci, quando recensì la commedia pirandelliana, parlò di: “Furore dionisiaco e di paganesimo naturalistico”
e, per Pirandello, il vero protagonista, perno attorno a cui si muove tutta la vicenda, era Tuzza e, questo si vede bene nell’opera di Mulè, dove Tuzza ha una parte importante, sia nel primo ma, specie, nel terzo atto della commedia in musica, mentre Mita ha solo un ruolo di rilievo nel secondo atto dell’opera, nel primo atto ha poca parte e nel terzo atto, a differenza che nella commedia originale, scompare proprio del tutto dalla scena.
Pirandello diceva che la sua commedia era: “Una storia di passioni, di invidia e di vendetta“.
Una commedia fatta di donne, con un solo altro uomo, protagonista in scena oltre a Liolà, zio Simone e, la dove Liolà rappresenta la vitalità e la fecondità, ovvero, si presenta come un dio Bacco spumeggiante di vita, zio Simone, l’altro protagonista maschile, è il simbolo dell’impotenza e, quindi, dell’Inverno della vita, il quale ha bisogno dell’impulso vitale del dio Bacco/Liolà per diventare padre ed avere un erede delle sue proprietà.
Liolà è anche una commedia degli inganni, giocata sul rapporto tra l’apparire e l’essere e in essa si osservano dei paralleli tra la fertilità della terra, che dà i frutti nelle diverse stagioni e la fertilità dell’uomo, che produce una numerosa discendenza e, allo stesso modo, nella commedia, c’è un rimando tra la sterilità dell’uomo, zio Simone e quella della Terra, che in certe stagioni è avara dei suoi doni.
L’anziano padrone, infatti, si lamenta che i frutti che la sua terra gli dà non sono corrispondenti alle aspettative che si hanno sul rendimento possibile di queste terre.
In una ripresa francese della commedia pirandelliana, del 1963, al Vieux Colombier, il protagonista Liolà muore nel finale, la coltellata che gli infligge al petto Tuzza risulta fatale, il seduttore, dunque, in questa edizione soccombe alla collera della sedotta Tuzza.
Uno dei migliori allestimenti di Liolà fu l’edizione del 1935 e, dunque, contemporanea all’opera di Mulè in dialetto napoletano curata da Eduardo De Filippo, come versione e come regia, che aveva ritagliato per sé il ruolo di zio Simone e coinvolgeva i suoi due fratelli come interpreti, in modo particolare Peppino De Filippo era il protagonista Liolà, assai acclamato come interprete in questo ruolo, che mette in risalto la figura di questo “Don Giovanni”, contadino e generoso, che alleva i figli avuti dalle sue relazioni, mentre, le donne della commedia vengono presentate come avide ed interessate al possesso del denaro e delle terre.
Nella versione di Eduardo De Filippo del 21 Maggio 1935 i nomi di alcuni personaggi cambiano, zio Simone diventa zio Emilio, nel ruolo che sostiene Eduardo stesso, Maria è il nome che viene dato a Tuzza, la scontrosa amata da Liolà, nel ruolo che fu di Titina De Filippo, mentre aveva nome Margherita la Mita originale, giovane moglie di zio Simone, qui zio Emilio, disperato perché non riesce ad avere un figlio ed erede ai suoi averi.
Vittorio De Sica sarà sia interprete, il primo interprete del ruolo protagonista della commedia in lingua italiana, a Milano nel Giugno 1942 e, poi, sarà anche regista di un allestimento di Liolà negli anni Sessanta del Novecento e ricrea la figura di questo personaggio di cui era stato interprete, che è un uomo fatto di aria e di vento, ponendo come base della commedia le musiche di Angelo Musco, il figlio dell’attore che era stato il primo protagonista del ruolo nella commedia in dialetto agrigentino e avendo il supporto delle scene di Renato Guttuso e lavorando sul conversare delle donne tenendo a mente Le Baruffe chiozzotte di Goldoni, un testo teatrale che Pirandello molto apprezzava.
Nel 1956, per una ripresa di Liolà alla Biennale di Venezia, le musiche di scena vengono affidate alla creatività di Roman Vlad che trasforma in operetta la commedia pirandelliana, tanto che il pubblico pensa che i protagonisti della vicenda siano dei cantanti d’opera e non degli attori e il critico presente allo spettacolo notava che in sala, tra il pubblico, c’era chi si informava su chi fosse il Tenore che sosteneva il ruolo di Liolà, infatti, l’interprete, proprio come se si trovasse in un ambiente da operetta o di musical, si presentava in scena scendendo da una scala e accolto al suo arrivo da una danza di contadine, mentre, la zia Croce, nella scena della commedia in cui ripuliva l’aia dai gusci delle mandorle schiacciate, doveva eseguire una vera e propria danza con la scopa e si diceva anche che la musica che aveva scritto per la commedia Roman Vlad era quanto mai abbondante e per nulla legata al folklore siciliano ma presentava molti elementi di folklore slavo.
Se, anche, per i critici di teatro Vittorio De Sica, con la sua interpretazione del 1942, fu un insuperabile interprete del ruolo di Liolà, ci furono, anche, dei cantanti che si proposero come attori per sostenere il ruolo del protagonista pirandelliano, ad esempio, Domenico Modugno, nel 1968, fu interprete ed autore delle musiche e vedeva nel canto la componente essenziale del personaggio Liolà e, poi, anche Massimo Ranieri fu interprete del ruolo, come pure lo furono Lando Buzzanca, Gigi Proietti e Turi Ferro e Tino Buazzelli sostenne, invece, il ruolo di zio Simone.
Per l’edizione della commedia interpretata da Massimo Ranieri le musiche erano state composte da Nicola Piovani.
15.1. La Mandragola di Niccolò Machiavelli ed i rimandi al Decameron di Giovanni Boccaccio
Niccolò Macchiavelli nella creazione del personaggio di Nicia per la sua Mandragola fa una caricatura del desiderio di paternità che ha un uomo ormai anziano e, per queste caratteristiche, Nicia è simile allo zio Simone del Liolà di Luigi Pirandello, solo che zio Simone è un contadino, se anche è molto ricco, mentre Nicia è un laureato, se, anche, è molto sciocco nelle questioni pratiche della vita.
Callimaco, nella commedia di Macchiavelli, è il giovane innamorato di Lucrezia, la giovane moglie dell’anziano Nicia e vuole diventarne l’amante e per riuscire nel suo intento fa si che Nicia lo creda un medico giunto dalla Francia che conosce il modo per fare si che le donne, che fino a quel momento non hanno ancora avuto dei figli, possano procreare e Nicia è così desideroso di avere dei figli che crede a ciò che gli dice questo sedicente dottore, che gli spiega che la pozione che Lucrezia dovrà bere per avere un figlio, creata con una base di Mandragola, sarà velenosa per il primo uomo che con lei avrà un rapporto sessuale, mentre, per la salute della donna non arreca danno alcuno, quindi, è necessario che, prima di Nicia, si porti alla presenza della donna un altro uomo che prenda su di sé, attraverso il rapporto carnale con Lucrezia, il veleno che la bevanda ha introdotto nel corpo della donna per permetterle di procreare e, questo altro uomo, che diventerà vittima del veleno della pozione, sarà un qualche garzone che si troverà per la strada, un popolano di cui non si dovrà rimpiangere la morte.
Nicia accetta la singolare proposta che gli viene fatta, pur di riuscire ad avere il desiderato figlio ed il garzone, che viene scelto per passare la notte con Lucrezia, è, ovviamente, lo stesso Callimaco travestito, il quale, poi, dopo la notte d’amore, sul fare dell’alba si fa riconoscere dalla donna e le narra la truffa che ha tentato ai danni del marito di lei per diventarne l’amante e Lucrezia lo accetta come suo amante, avendo capito l’amore e la passione che questo giovane prova per lei, che è, anche, espressa da una maggiore passionalità e vigoria fisica rispetto a quella che mostrava nei rapporti coniugali l’anziano marito, se anche, in un primo momento, Lucrezia aveva cercato di rifiutare la proposta fattale di bere la strana pozione velenosa e di avere, poi, un rapporto carnale con un estraneo, prima che con suo marito, per così finalmente avere un figlio e si era convinta solo attraverso le insistenze di sua madre e del suo confessore, perché Lucrezia è, come la Mita di Pirandello, una donna molto virtuosa che non vuole tradire il marito, anche se questo è l’unico mezzo per avere il desiderato figlio ed erede e, quindi, il testo teatrale di Macchiavelli, forse comparso in stampa nel 1518 fu una delle basi creative del Liolà di Pirandello.
Callimaco, nel primo atto della commedia dell’autore toscano, dice al suo servitore, Siro, il motivo per cui pensa che la burla che giocherà a Nicia, per diventare l’amante di Lucrezia andrà in porto:
“La semplicità di Messer Nicia, che benché un dottore egli è il più semplice ed il più sciocco uomo di Firenze… la voglia che lui e lei hanno di avere figlioli che, sendo stata sei anni a marito e non avendo ancora fatti, ne hanno, sendo ricchissimi, un desiderio che muoiono“, quindi, come nel caso di Mita e di zio Simone, anche Nicia e Lucrezia sono sposati da vari anni senza che alcun figlio sia venuto a nascere, infatti, poco più avanti, nella scena seconda del primo atto, Nicia dice: “Ho tanta voglia d’aver figlioli che io son per fare ogni cosa”
e, proprio come zio Simone, Nicia non vuole credere, o ritenere possibile, che il fatto che dopo tanti anni di matrimonio non abbia ancora avuto dei figli sia dovuto ad una ragione di sua impotenza ma entrambi i personaggi pensano che la mancanza nella nascita dell’erede sia da imputarsi alle loro giovani consorti e, nel terzo atto della commedia, la madre di Lucrezia dice alla figlia, che non vuole tradire in alcun modo il marito, ciò che le donne siciliane dicono riguardo a Mita:
“Non vedi tu che una donna che non ha figlioli non ha casa. Muorsi il marito, resta come una bestia abbandonata da ognuno“.
Le vicende narrate nella Mandragola e la beffa che Callimaco ordisce ai danni di Nicia, Niccolò Macchiavelli le ricrea sulla base di alcuni racconti del Decameron di Giovanni Boccaccio ed in uno di questi racconti decameroniani il protagonista, antenato di Nicia, credulone beffato, ha nome Mastro Simone, stesso nome del, disposto a credere qualsiasi cosa pur di avere un figlio a cui lasciare la sua tanta roba, zio Simone del Liolà pirandelliano.
Lo zio Simone, qui Mastro Simone, di Giovanni Boccaccio è un medico laureato a Bologna che vive a Firenze, il quale, nonostante la sua laurea, è sciocco e credulone e si lascia convincere da due furbi fiorentini che questi facciano parte di una brigata i cui membri possono avere rapporti amorosi con importanti regine e, visto che questo sciocco medico, che è il protagonista della nona novella della ottava giornata del Decameron, si vanta di essere stato un grande amatore di donne quando era studente a Bologna, oltre che di essere molto ricco, i compari che lo vogliono canzonare, con il pretesto di farlo incontrare con una dama tra le più sublimi per virtù amatorie, la notte del presunto incontro amoroso lo gettano in una latrina, facendogli insudiciare gli abiti migliori che aveva indossato per l’occasione e facendolo aspramente rimproverare dalla moglie che se lo vede tornare a casa così sudicio e capisce il motivo dell’uscita notturna del marito, così curato nell’aspetto per andare a corteggiare altre donne e trova giusta la disavventura che gli è capitata di essere stato gettato in una latrina.
Altri racconti del Decameron che furono di spunto a Macchiavelli sono la Novella sesta della terza giornata e la novella settima della settima giornata in cui si parla di donne, molto belle e molto virtuose, che mai si sarebbe pensato che potessero tradire il consorte e che, invece, con l’inganno o con la valente perorazione amorosa, cedono alle lusinghe dell’amante e provano un vivo ardore in questa relazione clandestina più che non di quello vissuto nella relazione con il loro legittimo consorte.
Come le donne di questi racconti decameroniani, Catella e Beatrice, così pure si comporteranno, Lucrezia nella Mandragola e Mita in Liolà.
Solo che le donne dei racconti di Boccaccio e la Lucrezia di Macchiavelli continuano la relazione con colui che nel corso della vicenda è diventato il loro amante, mentre Mita con la relazione di una notte con Liolà riesce a dare il desiderato figlio ed erede legittimo a zio Simone e ritorna alla sua vita coniugale, mentre Liolà torna ad una vita errabonda ed ad allevare i figli nati dalle sue varie relazioni se, anche, non è detto che nella commedia originale, dato che Liolà ha respinto Tuzza come sposa e resta libero, non continui, il giovane, a provare una attrazione vera per Mita, che era stata il primo suo amore di gioventù anche per il futuro che la vicenda non ci racconta più, ne ci lascia presagire, a differenza dei testi di Macchiavelli e di Boccaccio. Nell’opera di Mulè, invece, Liolà, in totale contrapposizione al pensiero di Pirandello relativo al personaggio, sposa Tuzza che, con la sua gelosia verso il giovane innamorato, lo terrà sott’occhio e lontano da altre avventure amorose e, soprattutto, lo controllerà negli interessi sentimentali che questi può, ancora, provare verso Mita.
15.2. Liolà e l’inizio simile a quello delle Baruffe chiozzotte
Pirandello era affascinato dalla creatività teatrale di Goldoni e, nel suo Liolà, dove protagonista è il popolo, i contadini della Sicilia, rende omaggio alla capacità di descrizione dell’ambiente popolare del Veneto, composto di marinai e di pescatori, che ha Carlo Goldoni nel suo testo in dialetto veneto, ma con le specificità di linguaggio di Chioggia, nelle sue Baruffe Chiozzotte e, pure Goldoni, come autore di teatro, fu affascinato dal testo della Mandragola di Macchiavelli e, tale commedia, fu ciò che indusse il letterato veneziano ad intraprendere la carriera di drammaturgo.
Le Baruffe furono rappresentate a Venezia nel 1760, secondo le memorie dello stesso autore, secondo altre fonti nel 1762 e, questo testo affascinò, anche, Goethe, che lo vide rappresentato a Venezia al Teatro di San Luca nell’Ottobre del 1786 e, disse che finalmente poteva dire di avere assistito ad una commedia.
L’ambientazione corale e popolare della vicenda che fa Goldoni è identica a quella di ambiente popolare e corale presente nel Liolà di Pirandello, il quale si ispira all’inizio delle Baruffe per l’inizio del suo Liolà.
Le donne di Pirandello, all’inizio della commedia, stanno schiacciando le mandorle mentre cantano la Passione e parlano delle proprietà, per le quali non c’è nessun erede, di zio Simone.
Le donne di Goldoni, nella Chioggia della prima scena della commedia, sono:
“Tutte a sedere sopra seggiole di paglia, lavorando merletti suoi loro cuscini, posti nei loro scagnetti”
e parlano del loro lavoro di merletto, da quanto tempo ciascuna di loro è intenta al suo ricamo e con che tempistica prevede di finirlo, mentre attendono i loro uomini che devono ritornare dalla pesca in mare aperto, per ricongiungersi con i loro mariti, fratelli e promessi sposi o fidanzati, di cui, nel loro dialogo, rimpiangono la lontananza, senza però, nello stesso tempo, disdegnare la corte di altri popolani, che lavorano a terra o che fanno il perdigiorno e cercano di vezzeggiare le donne, rimaste senza presenza maschile, offrendo loro l’assaggio della zucca, che viene acquistata ancora calda dalle venditrici di strada ed è uno spuntino saporito ed assai gradito dalle popolazioni del Veneto.
16. Conclusione
Sia La Giara di Alfredo Casella che Liolà di Giuseppe Mulè sono due creazioni musicali del Novecento che vale la pena di conoscere se, anche, sia l’una che l’altra, non essendo state scritte con il diretto contatto tra i musicisti e Luigi Pirandello, tradiscono l’idea, lo spirito creativo e la psicologia dei personaggi creata dal drammaturgo siciliano che fu un creatore troppo complesso, profondo e con troppe sfaccettature e che sempre dovrebbe essere presentato ed, insieme a lui il suo lavoro, nella correttezza della sua originalità creativa, per fare meglio intendere allo spettatore la genialità incredibile e la grande modernità della sua produzione letteraria e teatrale che è lo specchio fedele in cui si riflette l’uomo di ogni tempo, con tutti i suoi vizi e con tutte le sue virtù.
Al genio creatore di Luigi Pirandello ed ai musicisti Alfredo Casella e Giuseppe Mulè attratti dal fascino delle sue creazioni teatrali, i quali, però, non furono in grado di renderle in musica con la stessa verità creativa del loro originale autore di teatro di prosa e a Giorgio Fanan, collezionista appassionato di melodramma e prezioso collaboratore alle mie ricerche e donatore generoso di preziosi e rari libretti d’opera, tra cui quello del Liolà di Giuseppe Mulè, nella versione della sua prima rappresentazione al Teatro San Carlo di Napoli nel 1935 e ad Alberto Testa, storico della danza e danzatore, memoria storica del balletto La Giara di Alfredo Casella, di cui non solo fu spettatore e critico coreutico ma di cui fu, anche, uno degli interpreti su palcoscenico.
Maria Cristina Riffero
Torino, Aprile 2019
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