Di Mario Minarda.
Riproporre oggi una lettura dell’opera pirandelliana in chiave multiculturale significa quindi prendere atto di certe rotture epistemiche, di barriere comunicative e degli inveterati pregiudizi; significa altresì travalicare con estro irriverente i confini ideologici, sfidare le resistenze sociali, attuando con coraggio mirabili dinamiche impreviste e sabotatrici.
Pirandello operatore multiculturale
Leggi e ascolta. Voce di Giuseppe Tizza.
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Deve essere rimasta impressa nella storia della critica letteraria italiana e internazionale la metafora del «grosso artigiano» attraverso la quale Giovanni Macchia descriveva il modus operandi di uno scrittore come Luigi Pirandello. In quell’immagine viene riflessa la base polimorfica rubricata dai sapienti filtri retorici disseminati nelle sue pagine: citazionismi, riscritture accorgimenti linguistici, numerosi sostrati e reminescenze letterarie (dal mondo classico di Aristofane ed Euripide fino a Cervantes, solo per citare alcuni) che aggiungono sempre più interessanti canali interpretativi, come quello offerto dagli studi culturali e di genere. Ricordo a proposito i lavori recenti di Rossner Pirandello e l’identità europea (2008) e di Sorrentino L’Altro pirandelliano. Per una lettura post-coloniale di Luigi Pirandello (2010).
Ora, proprio il volume Pirandello e la traduzione culturale a cura di Michael Rossner e Alessandra Sorrentino (Carocci, 2012), seguendo il tracciato teorico del transnational turn inteso come «processo di negoziazione tra un contesto d’origine e un contesto nuovo», rilegge il magmatico mondo pirandelliano, soprattutto quello delle novelle e dei drammi, alla luce di una fluida ibridazione tra i generi letterari e di una trasmigrazione meditata da un codice all’altro. Andando dentro la prima formazione e la prima produzione di Pirandello, si rivela avvincente la strada che porta a riflettere sulle operazioni plurali e parallele condotte dallo scrittore su lingua e retorica (la retorica è intesa come sistema stilistico da destrutturare, a partire però dalla salda conoscenza dei suoi ‘regolamenti interni’), sempre assecondando un interno lavorio teorico svolto sotto una preziosa e controllata autocoscienza dell’‘alterità’. Nella Prefazione al volume si legge, infatti, che «Pirandello praticò la doppia traduzione trans mediale per tutta la vita, dalla narrazione al teatro e viceversa, includendo anche il cinema, e tale attività ebbe inizio già all’epoca di Bonn […]. La cosa più sorprendente è però che nelle sue riflessioni teoriche egli si occupa in modo molto profondo della traduzione e anticipa già nel 1908 parecchie idee del transnational turn e, nella pratica della sua opera, va persino oltre i concetti dell’ibridità e dell’innovazione – nella sua legge “aurea” della comprensione e del rispetto per l’altro».
Il verbo trans-ducere, nell’originario significato di ‘condurre attraverso- trasportare al di là’, implica in questo caso un viaggio esegetico sui testi di tipo interattivo e multiforme, fatto da ri-usi, momenti e soste in campi non abitualmente praticati: la cultura visuale, la filologia classica e romanza, la prassi socio-economica, la sociologia, un’etica dall’identità complessa, sfilacciata. Ipotesi di ricerca che risulterebbero suggestive se introdotte, con opportuno dosaggio, anche nei programmi di insegnamento della scuola e dell’università.
Si scoprirebbe, come mostra d’altra parte l’intervento di Paola Casella, un inedito e affascinante Pirandello esperto di comunicazione, di filosofia del linguaggio, di pratiche socioculturali sfocianti spesso nel conflitto aperto. È il caso della novella Lontano, nella quale si assiste ad un lento esautorarsi dei rapporti amorosi tra il marinaio norvegese Lars Cleen e la giovane siciliana Venerina in un ambiente stipato da ammiccamenti e malintesi, dove l’estraneità verbale deriva proprio da una non lineare traduzione di emozioni, pensieri e sentimenti, spesso soffocati sul nascere. Problematiche che risultano tuttavia legate allo stesso mondo delle parole e si estendono anche verso difficoltà comunicative generali, metafora a loro volta di ulteriori complicazioni: «le difficoltà nella comunicazione interculturale affondano le radici nelle difficoltà di ogni comunicazione interpersonale e sono inerenti al codice linguistico tout court […] é per la sfiducia nella capacità comunicativa del linguaggio verbale e, quindi, nella possibilità di un’autentica comunicazione interpersonale che i personaggi pirandelliani tendono a monologare piuttosto che a dialogare» (P. Casella).
Le diversità linguistiche presenti nelle novelle, come indica Bart Van den Bossche, oltre a mostrare tic provenienti dall’interiorità dei personaggi protagonisti, sono specchio frantumato di più roventi questioni sociali o politiche, tenute forzatamente a freno all’inizio e poi pronte ad esplodere con drastica paradossalità. Il rischio è quindi quello di cadere nello sconforto totale, o addirittura, come aveva sin dal 1893 pronosticato Pirandello stesso nel suo saggio Arte e coscienza d’oggi, di entrare in un convulso vortice di pensieri dove «nessuno più riesce a stabilirsi un punto di vista fermo e incrollabile». Addirittura palesandosi sul piano linguistico, «la condizione post-copernicana», scrive Van den Bossche, implica una «confusione babelica, che non di rado sfocia nell’incomunicabilità e nella follia».
In molti altri testi novellistici si notano, inoltre, rapporti iterati di frizioni e rovesciamenti, ascese economiche e speranze di riscatto interrotte, mutamenti di vita radicali. Leggi per traslati: nuove emigrazioni Sud-Nord (anche in Italia) o condizioni lavorative di giovani precari. Contesti culturali percepiti come luoghi antropici pulsanti ed estremi; ma anche spazi di reiterato scontro mentale che ospitano effervescenti coaguli di contraddizioni. Intersezioni sbilenche e strappi relazionali resi con voluta icasticità dall’autore nel passaggio dalla prosa alla scrittura scenica, grazie ad efficaci interventi lessicali o descrittivi. Nell’analisi della vicenda racconta in Lumiè di Sicilia, ad esempio, Domenica Elisa Cicala afferma che «rispetto al testo narrativo, in obbedienza a concrete esigenze sceniche, nella commedia vengono inserite descrizioni di gesti e sguardi che teatralizzano la vicenda, conferendo alle battute un tono di intensa vitalità. Considerando il modo in cui Pirandello descrive i personaggi, appare evidente come i vari elementi della loro caratterizzazione siano veicolo di informazione nell’ambiente in cui vivono. […] Ad essere rappresentata è pertanto la vita con i suoi contrasti».
Se è vero d’altra parte che Antonio Gramsci parlava di Pirandello come profondo conoscitore critico delle tradizioni siciliane, facendone quasi uno strabiliante etnologo (famose le pagine di Letteratura e vita nazionale, nelle quali il politico sardo scriveva che i personaggi pirandelliani sono «reali, storicamente , regionalmente, popolani siciliani, che pensano e operano così, proprio perché sono popolani e siciliani») oggi questa sorta di patina culturale è da riformulare in diramazioni del tutto plurali.
Un Pirandello custode di ancestrali memorie popolari che diviene attivo operatore transmediale nel mondo globalizzato di oggi: traghettatore non di contenuti standard, ma di tangibili giochi di flessibilità e virtualità metaforica implicanti legami conoscitivi a più livelli o differenti orizzonti percettivi. Ciò con evidenza sposta l’asse localistico verso ambienti a prima vista meno noti.
Ecco la sorpresa di ritrovare perfino nei fumetti manga “Nanairo Inko” del giapponese Tezuka, le strutture iterative, ironiche, metalettiche, autoreferenziali degli sguardi al quadrato dei Sei personaggi in cerca d’autore. Manipolando una rete di topoi si perviene infatti all’essenza delle analogie ‘mondo-teatro’ e ‘attore-essere umano’, valide in ogni parte del globo per «svelare la struttura di potere, decostruire le maschere sociali, smascherare i falsi giochi dei potenti» (Monika Schmitz-Emans).
Riproporre oggi una lettura dell’opera pirandelliana in chiave multiculturale significa quindi prendere atto di certe rotture epistemiche, di barriere comunicative e degli inveterati pregiudizi; significa altresì travalicare con estro irriverente i confini ideologici, sfidare le resistenze sociali, attuando con coraggio mirabili dinamiche impreviste e sabotatrici. Si potrebbe così provare, come fa il protagonista della novella Rimedio: la geografia, ad assegnarsi, tramite lieve catarsi immaginativa, «una parte di mondo» per accogliere in sé la bellezza caleidoscopica della diversità. Lo sforzo di tradurre concetti etici come benevolenza/diffidenza, ospitalità/divergenza, responsabilità/dissolutezza è così compensato dal piacere di leggere attraverso nuove forme di rappresentazione artistica e letteraria, transitando da una sfera percettiva ad un’altra.
Mario Minarda
NOTA
Una versione ridotta di questo articolo è uscita su «Alias», supplemento culturale della domenica del «Manifesto», il 02/06/2013.
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