Magie, maschere ed Epifanie nella scrittura Pirandelliana – (Con Audio)

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Di Salvo Sequenzia. 

I miti “dichiarati” di Pirandello sono i tre drammi che ne recano, come sottotitolo, l’inequivocabile explicit: “La nuova colonia” (1928), “Lazzaro” (1929), “I giganti della montagna” (1931-34).

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Pirandello dà istruzioni agli attori durante le prove di “La nuova colonia” – 20 marzo 1928

Magie, maschere ed Epifanie nella scrittura Pirandelliana

da Letteratitudine

Audio lettura di Giuseppe Tizza

Il nesso fra sogni, desideri e realtà, le identità delle persone e la necessità della libertà, la violenza schiacciante dei regimi totalitari, la durezza della società di massa, la crisi perenne del teatro e dei ‘teatranti’, sono alcuni fra i temi cogenti dell’opera di Luigi Pirandello.
Se è vero che nella produzione teatrale pirandelliana realismo analitico e visionarietà si alternano – ma spesso convivono anche – succedendosi con una regolarità quasi ciclica, è altrettanto vero che nell’ultima fase della vicenda creativa dello scrittore agrigentino si coglie un incremento dell’irrazionale.
Questo percorso riassume i momenti salienti di un lavoro di indagine sul rapporto tra l’opera di Pirandello ed il mito nel confronto più ampio con la cultura del primo Novecento.

Rapporto complesso, stratificato, spesso enigmatico e polisemico, non solo per la ‘portata’ del messaggio che lo scrittore agrigentino ha consegnato al mito e ai ‘miti’ all’interno della sua produzione poetica, novellistica, narrativa e teatrale – e perciò non attestabile e non esauribile, in modo esclusivo, soltanto all’ultimo periodo della produzione del Nostro – bensì anche per le implicazioni che la ‘funzione mito’ assume all’interno della riflessione pirandelliana sulla vita, sull’arte, sulla società e sul destino della storia dell’Occidente. Pirandello analizza approfonditamente – e, direi, dolorosamente – le ragioni della morte del mito nella modernità, valutandone con lucidità critica le numerose implicazioni.
E il nodo fondamentale di questa riflessione va a mio parere individuato nel primo decennio del secolo Novecento, negli anni della ideazione del “Fu Mattia Pascal” e della composizione del saggio su “L’umorismo”.

L’interesse per il mito, frequente in molti autori del primo Novecento (dagli espressionisti ai surrealisti, da Kokoshka a Cocteau fino al Brecht dell’Antigone, da D’Annunzio a Thomas Mann fino a Cesare Pavese) consiste, nella stragrande maggioranza dei casi, in una ‘riscrittura’ della tragedia classica o della mitologia ellenica o altro; oppure, in una ‘attualizzazione’ a fini propagandistici diretti o indiretti – Kèrenyi ha definito tale operazione come “tecnicizzazione” – del mito svuotato del suo carattere genuino originario.
Pirandello non appartiene alla categoria dei ‘rifacitori’, bensì a quella dei creatori di miti (nonché a quella dei ‘distruttori’ di miti, come ha ben messo in luce Rössner; e qui valga ancora una volta l’esempio del ‘Serafino Gubbio’, opera demolitrice del mito cinematografico allora in ascesa).

I miti “dichiarati” di Pirandello sono i tre drammi che ne recano, come sottotitolo, l’inequivocabile explicit: “La nuova colonia” (1928), “Lazzaro” (1929), “I giganti della montagna” (1931-34); mentre la frequentazione della materia mitologica avviene già in giovanissima età, durante il soggiorno a Bonn, con il poemetto “Pasqua di Gea” (1991), versificazione nostalgica di epifanie telluriche pagane.
Ma “mito” si presterebbe ad essere definita anche “La Sagra del signore della nave” (1925), opera, comunque, anticipatrice di quelle tematiche che sottintendono uno studio degli archetipi del comportamento individuale e collettivo, anteriore a qualsiasi discorso sull’essere e sull’apparire, discorso che pure non manca di ripresentarsi in quest’opera; “mitiche” sono le apparizioni, le epifanie che alitano sulle tavole del palcoscenico in pieces teatrali come “La giara”, “Il piacere dell’onesta”, “Sei personaggi in cerca d’autore” (Madama Pace, i ‘sei Personaggi’ stessi), “Questa sera si recita a soggetto” ( il Dottor Hinksuff), “Il berretto a sonagli” (il notaio Ciampa); “mitici” sono personaggi che si muovono tra le pagine de “ Il fu Mattia Pascal” ( Adriano Meis, Anselmo Paleari”), de “I quaderni di Serafino Gubbio operatore”; “mitici”, infine, sono le grandi creazioni legate ai “Colloqui”: la Madre, i Personaggi, i fantasmi, le lucciole, la luna: visitazioni notturne, dolorose nella enormità di ”storia” che bramano “raccontare”, tragiche per il dissidio che li divora.

Privi di un ordine conoscitivo e di una gerarchia nell’esperienza, i personaggi dell’opera pirandelliana si ritrovano schiavi della casualità e investiti da un’infinità di dettagli inessenziali – ‘superflui’ – fra i quali tentano di selezionare quelli con i quali poter ri-comporre la trama «disajutata» della vita, necessariamente concatenata e solidamente provvista di senso; per arrendersi, infine, e dichiarare lo “scacco”, divenendo come il mago Cotrone o come la compagnia della Contessa Ilse Paulsen ne “I giganti della montagna”, «dimissionari» da tutto.
L’inconscio, il caos, l’assenza di Dio, il crollo della fiducia nella Legge – sociale, morale o scientifica che sia – l’insensatezza della Storia: qualunque tentativo di meglio specificare quei «mali influssi» risulta necessariamente forzato o riduttivo.

Lo «strappo» nel cielo di carta della realtà rivela la natura precaria e illusoria delle certezze sulle quali gli uomini si sono costruiti la vita; al di là delle quali c’è appunto il «mistero» – o, come Pirandello scrive nell’ “Umorismo”, «l’abisso».
Oltre quell’abisso si situa l’orizzonte mitico, come ‘esibizione’, dis-velamento dell’ultima possibilità di accostarsi al mito, che costituisce l’esito finale cui, di per sé, tende inesorabilmente la riflessione pirandelliana: l’artista che sente di essere al tramonto di un’era culturale avverte l’urgenza di offrire l’ultima versione dei miti in cui essa si è espressa e riconosciuta, una versione tale da non ammettere alcuna rielaborazione ulteriore, così che il lettore non possa fare a meno di chiedersi: «cos’è ancora possibile dopo questo?».
Lo scardinamento della “prometheia”, come possibilità della civiltà di dare continuità e senso alla storia, assume in se la fine del mito come possibilità di dare all’uomo l’illusione “eroica”, prometeica appunto, di poter governare il mondo e continuare a muovere le fila della storia.

Questo ineluttabile ‘tramonto del mito’, che Pirandello avverte splenglerianamente come «tramonto dell’occidente», instaura lo statuto ‘epifanico’ e ‘prodigioso’ dell’opera pirandelliana, che irrompe in “Lazzaro” e nella “Nuova colonia”, e che ne “I Giganti della montagna” assume un senso ed un significato “testamentario”, dove non più vige una rappresentazione naturalistica del reale – come nella forma meta-teatrale che ha nei “Sei personaggi” la sua massima espressione – la quale venga, all’improvviso e per un solo istante, infranta dall’irruzione del prodigio (miracoloso terribile), rivelando epifanicamente la presenza di una realtà altra – il mistero, l’universo degli archetipi o la mistica comunione dell’Essere. Nei Giganti – lo sentiamo dalla voce del mago Cotrone – lo “strappo” nel cielo di carta del reale si è fatto “soglia” dalla quale il mistero penetra nel reale, ampliandone le possibilità e mutandone profondamente la fisionomia, in un senso per molti aspetti analogo a quello sintetizzato nella formula novecentista del «realismo magico».

E alle parole “infatuate” di mistero e di magia, alle apparizioni poeticissime di lucciole e di creature notturne, uscite come da un acquarello di Casimiro Piccolo, alla poesia di Ilse Paulsen, tormentata, ferita, uccisa nella sua “favola”, Pirandello affiderà l’ultima espressione della possibilità, per l’uomo contemporaneo, di sperimentare l’incontro con il mito.
Nel teatro, sua ultima dimora. Prima che giungano i Giganti.

Salvo Sequenzia

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