Fughe parallele: Pirandello legge Rosso di San Secondo

Di Michelangelo Fino

Fughe parallele, dunque, quelle di Pirandello e di Rosso di San Secondo, fughe così vicine tra loro da poter quasi coincidere, eppure fughe che non sembrano mai intersecarsi, proprio come i binari di un treno: il sostanziale fallimento dei viaggi narrati dai due autori, le corrispondenze simboliche e narrative non riescono tuttavia a fissare un riconoscibile e ben individuabile punto di tangenza.

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Pirandello e Rosso di San Secondo
Rosso di San Secondo (1887 – 1956)

Fughe parallele: Pirandello legge
Rosso di San Secondo

La critica ha ampiamente riconosciuto il forte legame che, in ambito teatrale, unisce Pirandello e Rosso di San Secondo, autore, quest’ultimo, notoriamente apprezzato dallo scrittore agrigentino. Probabilmente parlare di debito pirandelliano nei confronti di alcune pièces del Rosso sarebbe inopportuno, ma è indubbio che opere come Marionette, che passione! abbiano inciso non poco sulla grande stagione teatrale di Pirandello, e che personaggi quali Il Signore in grigio, Il Signore a lutto e La Signora dalla volpe azzurra – «personaggi […] privi d’un nome proprio» (L. Pirandello, Marionette che passione!, in «Il Messaggero», 1° aprile 1918, ora in Saggi, Poesie, Scritti varii, a cura di M. Lo Vecchio-Musti, Mondadori, Milano, 1993, p. 1007.) – anticipino, per certi versi, Il Padre, La Madre e La Figliastra dei Sei personaggi. D’altra parte, queste notevoli corrispondenze del teatro hanno forse determinato una minor attenzione nei confronti degli intrecci, altrettanto suggestivi, che avvicinano i due autori sul piano narrativo. Eppure, gli elogi pirandelliani non si limitano alle opere teatrali del Rosso, se è vero che nella prefazione al romanzo La Fuga, Pirandello parla di «libro totale», di «opera d’uno scrittore di prim’ordine; l’affermazione piena e possente d’una giovine fantasia creatrice destinata a lasciare di sé una traccia profonda e incancellabile» (L. Pirandello, “La Fuga” di Rosso di San Secondo, in «L’Illustrazione italiana», 1° luglio 1917, ora in Saggi, Poesie, Scritti varii, pp. 1006-1007.)

Di più, nel tratteggiare alcuni aspetti del motivo centrale del romanzo (il viaggio), Pirandello cita il viaggio oltremondano di Dante e quello lunare dell’Ariosto, i quali condividono con il viaggio tutto terrestre del protagonista sansecondiano lo scopo dell’erranza:

«un viaggio anch’esso, che ha tutta l’aria e i modi del fantastico e dello spirituale, in cerca della salute» (L. Pirandello, “La Fuga” di Rosso di San Secondo, p. 1002.)

Viaggio, fuga, malessere, salvezza, illusione, disinganno; un viaggiatore che vaga senza meta nelle labirintiche e spettrali strade di un’anonima città, che scappa da una realtà percepita sempre più negativamente, avvertita sempre più come estranea proprio perché il personaggio è insensibilmente assuefatto ad essa e ad essa aggrappato come un parassita. È questa la sintetica radiografia della storia narrata da Rosso di San Secondo, e questa è la diagnosi crudele che incombe sulla testa di tanti personaggi pirandelliani, individui per i quali, spesso, l’unico “rimedio”, l’unica speranza di salvezza è la fuga, il viaggio senza meta, come quello (immaginario) che intraprende il protagonista della novella Rimedio: la Geografia. Come il viaggiatore di Baudelaire che ne Le Voyage «fugge felice una patria obbrobriosa», «l’orrore della propria culla» o «la tirannica Circe» (C. Baudelaire, Il viaggio, in I fiori del male, Opere, a cura di G. Raboni e G. Montesano, Mondadori, Milano, 1996, p. 263, vv. 9-12.), quello di Pirandello fugge altrettanto felice una casa obbrobriosa, l’orrore della propria famiglia e l’altrettanto tirannica – forse meno maga e più strega – Circe-moglie. Quanto agli esiti e al senso del viaggio, c’è la stessa dinamica che segna il passaggio dalle illusioni alle disillusioni, lo scacco dell’ingenua inconsapevolezza e il conseguente crollo dei sogni e delle speranze, ma con implicazioni e soprattutto gradi di consapevolezza (dei viaggiatori) diversi. Il viaggiatore baudelairiano, così come il protagonista de La Fuga del Rosso, si rende perfettamente conto di non poter evadere dalla realtà meschina da cui era fuggito, perché qualunque luogo non è che la monotona ripetizione di quella realtà. Il viaggiatore pirandelliano di Rimedio: la Geografia, invece, persiste nel suo ingenuo errore, credendo di poter effettivamente allontanare e allontanarsi dall’orrore della quotidianità, non comprendendo che di un rimedio appunto si tratta. Ma è un errore assolutamente giustificabile perché compatibile con il suo statuto di personaggio, con il grado di consapevolezza che l’autore gli ha assegnato, e con quella congenita mancanza di coraggio che sembra essere elemento distintivo dei personaggi pirandelliani. Se il personaggio non comprende che lo scotto da pagare per queste sue fughe è l’alienazione, è perché il suo autore ha voluto che continuasse a vivere nell’autoinganno, nella felice incomprensione dei suoi atti. Quando, invece, il personaggio sembra essere perfettamente consapevole della stravaganza dei suoi comportamenti e, anzi, questa presunta anormalità deriva proprio da una consapevolezza superiore agli altri (un folle savio, come i personaggi di Nerval, Nodier e Gautier), da una visione umoristica della realtà, ecco che non traduce in atto le potenzialità di un’esistenza davvero diversa. Perché il protagonista di Rimedio: la Geografia si accontenta di una Giamaica immaginaria e di un viaggio immaginario. Se da una parte è la coscienza umoristica ad impedire qualsiasi possibilità di cambiamento, dall’altra è la mancanza di forza e di coraggio a far soccombere il personaggio sotto il peso della propria meschina realtà; preferisce, dunque, giocare a un nuovo gioco da lui inventato, una sorta di geografia umana con cui associare, per esempio, la moglie alla Lapponia, piuttosto che fuggire dalla sua moglie-Lapponia.

Nella novella Fuga emerge con chiarezza l’inconsistenza di questi viaggi, il loro non concludere, attraverso l’implicita contrapposizione tra la fuga immaginata e sognata dal Bareggi e quella effettivamente realizzata, che si riduce ad un gesto folle, ad un grido di ribellione (vedi l’«inconcepibile ribellione» di Belluca ne Il treno ha fischiato…) che resta come strozzato in gola. Come Belluca anche Bareggi è costretto, o meglio, vuole accontentarsi. Il suo sogno di fuga definitiva, di epico viaggio senza ritorno si concretizza nella folle e breve corsa sul carretto del lattaio, in un viaggio davvero poco epico, in una fuga tutt’altro che definitiva (in questo senso il titolo della novella ha un effetto decisamente antifrastico). È difficile stabilire se nel bilancio negativo dei viaggi pirandelliani pesi di più «lo spirito umoristico cosciente» (L. Pirandello, “La Fuga” di Rosso di San Secondo, p. 1003.) dei personaggi o la mancanza di coraggio per affrontare cambiamenti radicali. Stando all’interpretazione che Pirandello dà del romanzo La Fuga di Rosso di San Secondo, si direbbe che il primo aspetto è quello che influisce maggiormente nell’economia del viaggio:

«Per intendere chiaramente l’indole del romanzo e gustarne il sapore, che è amarissimo, bisogna vedere con quale animo è intrapreso il viaggio. Qua non abbiamo uno che parte in cerca della salute con la ferma fiducia di trovarla. Chi parte, qua, sa che il suo non può essere che il disperato esperimento di un’illusione, perché ha ormai l’atroce coscienza che nulla consiste fuori, vicino o lontano, che non sia un’illusione.» (L. Pirandello, “La Fuga” di Rosso di San Secondo, p. 1003.)

Secondo Pirandello il senso ultimo del romanzo è racchiuso nei primi quattro capitoli,

«dov’è la vera essenza dell’opera», «le fondamenta profondamente umoristiche»: «L’uomo che intraprenderà il viaggio per la sua salute, non è come altri ha detto, in uno stato di letargo: la sua non è indifferenza: tutt’altro! è la tragica sfiducia di trovare, perché è impossibile trovare fuori di sé, alcuna consistenza, pur sentendo come necessaria l’illusione di trovarla! Qui è tutto. In quest’atroce coscienza» (L. Pirandello, “La Fuga” di Rosso di San Secondo, p. 1004.)

Questo è il punto: avere la tragica coscienza della necessità del viaggio e nello stesso tempo della sua illusorietà, dell’esito inevitabilmente catastrofico di questo disperato esperimento. È lo stesso protagonista a dover ammettere insieme con la propria sconfitta esistenziale (che è poi sconfitta collettiva) il fallimento del suo viaggio, il fallimento di tutti i viaggi:

« […] Che cosa aspettate da me, povere creature, poveri esseri cari, anime della mia stessa anima? […] Che vi dica in termini precisi, certi, inconfutabili perché siete nati, […] perché si debba soffrire, e che ragione c’era di nascere se nulla ha senso, se ieri è eguale ad oggi, e domani sarà uguale all’eternità? […] Ma io devo disingannarvi, io non posso permettere che voi rimaniate nella vostra illusione: vi dirò, […] la vita è una favola che ci inventiamo.» (P.M. Rosso di San Secondo, La Fuga, in «Nuova Antologia», 1917, poi Treves, Milano, 1917, ora in La Fuga, a cura di E. Lauretta, Vallecchi, Firenze, 1986, pp. 116-117.)

Se l’individuo non ha consistenza, non ha una collocazione nell’universo è perché la vita è una «favola» da lui inventata. Se il nord è uguale al sud, se ieri è uguale a oggi e oggi è identico a un eterno domani è perché l’esistenza non è altro che una monotona ripetizione di ciò che siamo, o meglio, non siamo. L’immagine di noi stessi ci perseguiterà identica – come un’ombra – ovunque andremo. D’altronde, la struttura circolare del romanzo allude a questa condizione di eterna ripetizione. L’immagine iniziale e quella finale sembrano speculari in quanto mostrano il protagonista “in movimento, in viaggio”. All’inizio lo si vede vagare per le strade senza una meta e senza un perché (alla maniera di Serafino Gubbio o dell’anonimo protagonista della novella pirandelliana Una giornata). Alla fine, eccolo aggregarsi ad una carovana di zingari, vera e propria incarnazione del viaggio senza fine, con la medesima tormentosa ansietà. La lacerante consapevolezza dell’“immobilità” dell’esistenza, il protagonista non la acquisisce una volta giunto a destinazione, e neanche, come suggerisce Pirandello nella sua prefazione, prima di partire. Certamente già allora presentiva questa illusorietà, ma la certezza la ottiene su quel treno, quell’«inverosimile ippogrifo» che dal sud lo conduce al nord, attraverso la constatazione, di ascendenza leopardiana e baudelairiana, dell’esasperante e opprimente uguaglianza del mondo e della realtà:

«[…] si è presi da una così profonda malinconia per l’estatica rassegnazione delle cose che una disillusione prematura ci assale per il viaggio intrapreso e ci vien voglia di scendere alla prima fermata e passar la vita in un albergo qualunque, senza muoverci più; tanto, qui o altrove, è eguale dovunque.» (P.M. Rosso di San Secondo, La Fuga, p. 43.)

Ecco la visione umoristica della realtà, ecco la coscienza superiore del viaggiatore che porta dolorosamente dentro di sé il suo personale sentimento del contrario. Ed è in virtù di questo sguardo disincantato e disilluso che il viaggiatore può guardare con un pizzico di ironica compassione agli altri viaggiatori, a quelli che «per fortuna non hanno voglia di malinconiche riflessioni»:

« […] fumano grossi sigari, con soddisfatte boccate, ciarlano senza interesse di mille cose che il treno lascia dietro di sé nella corsa insieme con le loro ciance; […] E la macchina che sbuffa innanzi, per pianure e tra montagne, par che ci gongoli dentro di sé portando ognuno di quei smemorati al suo inesorabile destino.» (P.M. Rosso di San Secondo, La Fuga, p. 44.)

Sembra di leggere una delle tante novelle di Pirandello che narrano di viaggi ferroviari, non solo per l’impianto umoristico della narrazione, ma anche e soprattutto per l’immagine di un treno che trascina i viaggiatori verso un destino già scritto. La Fuga di Rosso è del resto assimilabile a quella di tanti viaggiatori pirandelliani in quanto viaggio che non conclude. Eppure c’è una differenza significativa e consiste in quel secondo elemento (il coraggio) che, assieme allo «spirito umoristico cosciente», costituisce il bagaglio ideale dei viaggiatori: pur prefigurando il fallimento della propria impresa, il protagonista del romanzo sansecondiano ha infatti il merito di tentare il superamento dello stato di impasse esistenziale che lo tormenta. Il viaggio pirandelliano non conclude perché, in fondo, quelli pirandelliani non sono, in un’ottica ancora baudelairiana, dei veri viaggiatori che «partono per partire e basta». Il viaggiatore di Pirandello parte perché deve partire, parte «col cuore pesante» (Nino Borsellino, Ritratto e immagini di Pirandello, Laterza, Bari, 2000, p. 185.) Se, come afferma Fasano ,«persiste nell’epoca moderna una concezione dell’“erranza” dolorosa e necessitata», (Pino Fasano, Letteratura e viaggio, Laterza, Bari, 1999, p. 21.)  ebbene è questa la concezione fondamentale del viaggio pirandelliano, un “travaglio” appunto; e l’esempio più lampante ce lo offre proprio il viaggiatore-Pirandello, un “viaggiatore senza bagagli” perseguitato dalla necessità di viaggiare.

Nelle fughe dei personaggi di Pirandello e del protagonista del Rosso è fortissima la valenza simbolica della topografia del viaggio: la contrapposizione geografica tra nord e sud allude alla antinomia salute-malattia, liberazione-prigione, salvezza-condanna, ragione-istinto, per quanto tale antitesi si riveli più fittizia che reale (per il viaggiatore che lascia l’inferno della terra natia non c’è nessun luogo edenico, alcuna possibilità di redenzione). Questo perché quella «terrificante insularità di animo» celebrata da don Fabrizio ne Il Gattopardo, resta radicata in lui ovunque e comunque, e anche quando il viaggiatore non è propriamente un siciliano, è pur sempre un abitante dell’emisfero meridionale del Continente, cittadino di un altro mondo, di un’altra realtà. Come quelle pirandelliane, la fuga sansecondiana è dunque una fuga mancata; «il viaggio, l’esperimento», come suggerisce Pirandello, hanno «un esito del tutto contrario», dal momento che il «male della vita e del sole […] s’attacca insidiosamente a chi è eletto a guarirlo», per cui la «cura proposta e prestata con rigida e sapiente diagnosi ha un effetto letale per il medico» (L. Pirandello, “La Fuga” di Rosso di San Secondo, p. 1003.) E giustamente Pirandello evidenzia un momento del romanzo che sintetizza in modo esemplare il senso di questa sconfitta, l’incendio della casa, così interpretata dall’autore agrigentino: «l’edificio, o piuttosto la legnosa impalcatura della ragione crolla, incendiata dalle fiamme, il malato fugge, più ardente che mai della sua febbre di sole» (L. Pirandello, “La Fuga” di Rosso di San Secondo, p. 1003.) L’immagine finale del libro del Rosso evidentemente non coincide con la fine del viaggio e della ricerca, e un viaggio che non conclude è un po’ come la vita che, pirandellianamente, non conclude: sempre in fuga, sempre alla ricerca di qualcosa, ma con un differente “sentimento” di sé e degli altri, soprattutto, con una maggiore consapevolezza. La coscienza del proprio malessere crea una frattura quasi impercettibile ma assai significativa tra l’immagine iniziale e quella finale del romanzo del Rosso; la stessa che c’è tra il vagare senza meta con la recondita e quasi inconfessabile speranza di salvarsi, e il vagare senza meta con la certezza della condanna. Anche i viaggiatori pirandelliani sono “malati”, tormentati da un senso di inadeguatezza che li spinge ad “allontanarsi”. Nei rari casi in cui la fuga è definitiva, il non ritorno non coincide con la prosecuzione del viaggio (come ne La Fuga sansecondiana), ma con la sua fine e con quella del viaggiatore. Sintomatica, in tal senso, la novella Il viaggio: in qualità di «personaggio cometa» Adriana Braggi non può concludere il suo primo viaggio che con la morte stessa. (Confronta F. Zangrilli, Lo specchio per la maschera: il paesaggio in Pirandello, E. Cassitto, Napoli, 1994, p. 91.) Il caso della protagonista di questa novella è particolarmente emblematico proprio nel confronto con la fuga sansecondiana: medesimo viaggio da Sud verso Nord, stessi mezzi di trasporto, quei treni ossessivamente ricorrenti nelle pagine pirandelliane, identico stato di immobilità esistenziale dei viaggiatori, che cercano di sfuggire alla «soffocante e atroce afa della vita» (L. Pirandello, La veste lunga, in «Noi e il Mondo», febbraio 1913, poi in La trappola, Treves, Milano, 1915, ora in Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, 3 volumi, Mondadori, Milano, 1993, volume I, tomo I, p. 707.) La scelta della protagonista pirandelliana di continuare il viaggio invece di tornare a casa, di farsi amante appassionata piuttosto che rientrare nella sua immagine di vedova e di madre, è assai rilevante. Il personaggio pirandelliano sembra scegliere fino in fondo l’“essere” e non l’“apparire”. Adriana preferisce “vivere” piuttosto che vedere un’ultima volta gli occhi dei propri figli (“vedersi vivere”). Alla fine, tuttavia, anche lei risulta un personaggio sconfitto, schiacciato dal peso della trasgressione, per cui prevalgono le «composte apparenze oneste», i «rigidi costumi», l’«inaudito sacrilegio» (L. Pirandello, Il viaggio, in «La lettura», ottobre 1910, poi in Terzetti, Treves, Milano, 1912, ora in Novelle per un anno, volume III, tomo I, p. 228.)

Una volta passata la frontiera (il mare), Adriana sa già che non c’è alcuna possibilità di ritorno ed è proprio in questo “presentimento” che si consuma la sua sconfitta: l’impossibilità, infatti, non è oggettiva ma tutta soggettiva. Sono le categorie di pensiero del personaggio a impedire il suo ritorno, è l’onta per la follia commessa. Paradossalmente, dunque, è proprio l’autenticità ritrovata, l’epifania del personaggio a negare il ritorno: se Adriana fosse ritornata a casa sarebbe stata una donna che i figli non avrebbero riconosciuto. Lo spettro della mancata agnizione porta dunque la protagonista a soccombere sotto il peso di una colpa irredimibile e insolubile: quella di aver vissuto. Il suicidio della protagonista non è condannabile come gesto in sé, quanto nella valutazione del movente, nella natura per così dire pirandelliana dell’estremo gesto. Adriana Braggi e l’anonimo viaggiatore del romanzo sansecondiano: personaggi in fuga, individui delusi e oppressi, desiderosi di un riscatto impossibile. Eppure, nel momento in cui il viaggio mentale si fa reale, ecco che proprio un’illustre sconfitta come Adriana Braggi sembra avere la meglio in questa triste lotta tra disperati: già, perché a differenza del viaggiatore sansecondiano, Adriana riesce finalmente a trovare la propria autentica dimensione. Certo il protagonista del romanzo continua a viaggiare, continua la sua fuga, continua a vivere, mentre il personaggio pirandelliano incontra la morte; ma in fondo chi può dire se la vita sia migliore della morte, o meglio ancora, e in un’ottica tutta pirandelliana, l’apparenza e l’inconsistenza di una non vita sono preferibili alla verità e all’autenticità di una morte come quella raccontata nella novella Il viaggio?

Fughe parallele, dunque, quelle di Pirandello e di Rosso di San Secondo, fughe così vicine tra loro da poter quasi coincidere, eppure fughe che non sembrano mai intersecarsi, proprio come i binari di un treno: il sostanziale fallimento dei viaggi narrati dai due autori, le corrispondenze simboliche e narrative non riescono tuttavia a fissare un riconoscibile e ben individuabile punto di tangenza. Nel romanzo del Rosso abbiamo un viaggiatore coraggioso che alla fine non va incontro a un reale cambiamento, perché non trova una effettiva consistenza. Nelle novelle di Pirandello il coraggio non fa parte del dna dei personaggi, e questa assenza li rende viaggiatori immobili perché immaginari; e quando invece tale coraggio inaspettatamente sopraggiunge, ecco che il personaggio, altrettanto inaspettatamente, prima di soccombere, consiste.

Michelangelo Fino

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Rosso di San Secondo Pier Maria

(Caltanissetta 1887 – Lido di Camaiore 1956)
Scrittore e autore drammatico.

Da Parchi Letterari

Di nobili origini e raffinato intellettuale, Pier Maria Rosso di San Secondo si pone come figura di primissimo piano nella storia letteraria europea contemporanea, sia per la sua produzione narrativa che per la sua opera teatrale.
Nasce a Caltanissetta il 30 novembre 1887 dal conte Francesco Maria, padrone di alcune miniere del bacino zolfifero ricadenti nel territorio nisseno ed ennese, e da Emilia Genova. Compie gli studi nella sua città natale e vi consegue la maturità classica al Liceo Classico “Ruggero Settimo”, sito in quel tempo presso il Collegio dei Gesuiti (attuale Biblioteca Scarabelli).
Nel periodo della sua giovinezza la città si ingrandì grazie alla ricchezza delle miniere. In occasione della visita di Re Umberto I e della Regina Margherita erano stati realizzati il Viale Regina Margherita e la Villa Amedeo ad esso adiacente, che rappresentarono i luoghi principali delle eleganti passeggiate nissene dell’epoca.

Alla regina, allora principessa, era stato intitolato il teatro comunale, denominato da quel momento Teatro Regina Margherita, inaugurato nel 1875 e a lei intitolato nel 1881. Riportato all’antico splendore con il recente restauro, è uno dei più antichi e più belli dell’Italia dell’epoca. Dopo aver svolto gli studi in Giurisprudenza a Roma, lo scrittore e giornalista nisseno inizia, dal 1907 in poi, una serie di viaggi nel Nord Europa (Olanda, Francia, Germania). In Olanda si avventura su un peschereccio per chiedere «ai freddi mari del Nord sollievo al suo ardore isolano e mediterraneo». Nel 1915 partecipa alla prima guerra mondiale. Intorno agli anni ‘20 comincia ad affermarsi come autore teatrale e romanziere. Nel 1930 sposa Inge Reidlich, una studentessa tedesca, di diversi anni più giovane, conosciuta durante uno dei suoi soggiorni berlinesi.

Tutta l’opera sansecondiana si presenta come un lungo percorso circolare a tappe, che inizia come una “fuga” dall’estremo Sud, rappresentato (in questa fase) da una Sicilia pervasa da un sole che brucia e inaridisce, da un entroterra insulare che odora di zolfo ed evocato (spesso in una forma allucinata e delirante) con amarezza e delusione, perché condizionato e sopraffatto da tutto ciò che è apparenza e perché incapace di comprendere e assecondare i sogni, le potenzialità e le aspirazioni degli animi più sensibili: «… Ah io ben conosco la perfidia struggente del sud! Ogni volontà s’attutisce, ogni nobiltà ingenua si smorza, ogni sacra aspirazione è travolta dall’alito sulfureo: ogni virtù, adescata, cade, poi mefistofelicamente derisa, imputridisce: folgoranti apparenze di laici desideri, abbagliante sfaccettìo d’un’unica miseria, fosforica incandescenza della più triste magia dei sensi» (La Fuga, 1917). Il cammino artistico rimane, dunque, saldamente legato al viaggio reale e metaforico della sua vita avventurosa e “vagabonda” (come egli stesso la definì), che lo porta a ricercare il senso dell’esistenza umana, vivendo esperienze belle, dolorose, inquietanti, curiose e che lo spingono a guardare il suo mondo interiore e quello della società del suo tempo con occhi a volte incantati come quelli di un bambino, e a volte disperati come quelli di chi non vede nessuna via d’uscita all’infelicità umana e alla decadenza sociale.

Una seconda tappa è costituita dai ripetuti soggiorni in l’Olanda e successivamente in Germania, durante i quali lo scrittore nisseno sviluppa una formazione espressionista che gli consente di esternare le sue passioni attraverso una stile espressivo aperto e spesso disarmonico, disorientando in tal modo la critica e lasciando spesso perplesso il pubblico, ma che rappresenta il suo punto di forza e la vera innovazione all’interno del Teatro del grottesco, avanguardia letteraria nella quale molti critici lo hanno confinato. Le esperienze nel Nord Europa sono fondamentali per lo scrittore perché gli rivelano se stesso nel confronto e nelle relazioni con le culture altre. Egli acquisisce, così, la consapevolezza di quelli che erano in nuce i motivi e le forme della sua drammaturgia, che si arricchisce, si evolve e si raffina e che conduce l’autore stesso a dedicarsi spasmodicamente all’analisi e al rapporto-contrapposizione Nord-Sud. Animato da questo fervore Rosso si avvia verso la tappa conclusiva del percorso intrapreso anni prima, attuando così un ricongiungimento metaforico e “mitico” con la Sicilia delle sue origini, il cui sole, adesso, torna a scaldare, accarezzare e cullare.

Tra le prime opere si ricordano le raccolte Elegie a Maryke (1914) e Ponentino (1916), pregne di un lirismo creativo e fantasioso che è caratteristico anche di molte delle sue opere teatrali in cui gli eroi e/o gli antieroi appaiono come proiezioni sbigottite ed ammaliate da quella contrapposizione fra ragione e istinto che è alla base della sua ispirazione. Le commedie sansecondiane, da Marionette, che passione! (rappresentata per la prima volta il 26 novembre del 1918 al Teatro Argentina di Roma, che è forse la più conosciuta) a La bella addormentata (1919), L’ospite desiderato (1921), Lazzarina tra i coltelli (1923), La danza su di un piede (1923), L’avventura terrestre (1925), Il delirio dell’oste Bassà (1925), Le esperienze di Giovanni Arce filosofo (1926), Tra vestiti che ballano (1927), La scala (1927) ecc. sono presentate dall’autore stesso come “avventure colorate”, “incubi”, “deliri”, nelle quali un ruolo fondamentale giocano la scena e l’atmosfera, rette frequentemente da “urlati” e “sapienti silenzi”.
Uno dei temi più amati dallo scrittore nisseno è la cultura della zolfara con lo stile di vita dei minatori, dei “carusi” e il loro modo di sentire, di pensare e di vivere i rapporti sociali dentro e fuori la realtà delle miniere, la cui attività estrattiva dello zolfo (come è già stato sopra detto) segnò un grande sviluppo economico per Caltanissetta, tanto da farle conferire il titolo di “capitale mondiale dello zolfo”.

Lo scrittore riscopre pienamente il senso di appartenenza alle proprie origini e il legame alla sua terra nell’ultima fase della sua produzione. Il componimento teatrale Il Ratto di Proserpina (opera per banda, danza, canto e parola) riassume e conclude, infatti, la sua lunga attività di drammaturgo. Qui personaggi appartenenti alla mitologia classica e inseriti in un contesto paesaggistico che rievoca le antiche origini elleniche delle Sicilia, si congiungono e si mescolano a figure che simboleggiano “nuovi mondi” e raffigurano realtà sociali e culture “altre”, che agli occhi del drammaturgo rappresentano un rischio di inquinamento, alterazione, contaminazione e decadimento per tutto ciò che (secondo la visione conseguita in età matura) di sano e genuino offre ancora ai suoi occhi la comunità del mondo siciliano.

Afflitto e indebolito da una lunga malattia, Rosso di San Secondo trascorre l’ultimo decennio della sua vita nella villetta di Lido di Camaiore, costruita grazie al premio ricevuto dall’Accademia d’Italia su proposta del caro amico Luigi Pirandello. Assistito dalla moglie Inge, muore il 22 novembre 1956. Le spoglie si trovano nella parte più antica del Cimitero storico monumentale degli Angeli di Caltanissetta, nella parte che dal basso consente di contemplare le rovine del Castello di Pietrarossa (così come espresso dallo stesso scrittore), dove la moglie Inge lo raggiungerà ben quarantasei anni dopo. Nel sarcofago, una citazione, tratta da un canto popolare e ripresa dallo scrittore: «Caltanissetta fa quattro quartieri la meglio gioventù li zolfatari».

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