Modelli e interferenze nell‘esordio di Pirandello drammaturgo: «La morsa»

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Di Arnaldo Bruni

Pare opportuno insistere nell’indagine sul debutto teatrale di Pirandello, concentrandosi ancora una volta sulla dimensione ridotta dell’ atto unico. La proposta intende privilegiare una circostanza obiettiva che favorisce la possibilità di riconoscere entro l’arco di una misura breve i meccanismi del congegno compositivo nel trapasso di codice.

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Elisa Gegani, Amedeo Nazzari, La Morsa. Dal Film “Altri tempi – Zibaldone n. 1”,1952

Modelli e interferenze nell‘esordio di
Pirandello drammaturgo: «La morsa»

Da Revistas Científicas Complutenses, PDF con note al testo

Pare opportuno insistere nell’indagine sul debutto teatrale di Pirandello, concentrandosi ancora una volta sulla dimensione ridotta dell’ atto unico. La proposta intende privilegiare una circostanza obiettiva che favorisce la possibilità di riconoscere entro l’arco di una misura breve i meccanismi del congegno compositivo nel trapasso di codice. Perché per l’appunto di questo si tratta: la storia interna ha il pregio di visualizzare sotto il rispetto del genere le scelte di base che propongono in successione le calcolate strategie dell’approccio. Novella e teatro difatti si susseguono senza soluzione di continuità e l’esercizio certifica subito la varia casistica: visto che l’evoluzione della scrittura comporta un addestramento sistematico a uscire, a norma del lessico della narratologia, da una tecnica diegetica per assumere il passo della proposta mimetica. Ora proprio l’elastica flessibilità della maniera segnala, più degli indizi biografici o dell’ aneddotica periodicamente risorgente e pure non trascurabile, la cogenza di una vocazione a lungo maturata, secondo una prospettiva che prepara da lontano l’esito definitivo. Sotto questo rispetto non risulta casuale, si sa, l’insistenza sul genere del racconto, tematicamente ad angolo giro. di modo da triturare per via di analisi la realtà fino a far risaltare gli elementi umoristici, cioè contraddittori e divaricati: come dire, in termini funzionali, le potenzialità drammaturgiche del «‘nido’ dei suoi personaggi».  Si avvisa che di seguito si sigla E L’epilogo (1892), cioé la prima redazione del dramma che sarà poi La morsa, apparsa solo nel 1898 (M1) nella rivista «Ariel»; ( testo della prima stampa in rivista si ricava per sottrazione dall’apparato qui alle Pp. 705-10), M2 la redazione della Morsa del 1936. La novella a monte (La paura= P) si cita secondo il testo del 1897.

Cosi stando le cose, l’indagine si configura allora nel segno di un tentativo volto a ricostruire l’articolato puzzle che fa da ponte entro la polarità di un percorso il cui tracciato va messo debitamente in luce per rilevarne gli snodi non sempre evidenti. Del resto la metamorfosi perseguita avverte in questo caso fin dal titolo della profondità del sommovimento strutturale e stilistico promosso dall’interessato riuso. Ad intendere il quale conviene intanto far sosta sul nucleo generatore della forma in transito con una sottolineatura necessaria, capace di rilevare la singolarità in questione. In effetti contribuisce a rendere vantaggiosa l’inchiesta avviata una difformità basilare che costituisce probabilmente (la cautela dell’ avverbio é indotta, allo stato attuale, dall’incertezza della risposta) un esempio eccezionale ed anzi unico di un testo teatrale che. cronologia alla mano (L’epilogo – 1892), precede la novella (La paura – 1897). La sorprendente novità é attenuata da una considerazione complementare relativa all’effettiva consistenza del dato che riguarda in realtà un vero e proprio ‘copione’, consegnato all’inizio del 1893 al capocomico Cesare Rossi (1829-1898) per una messa in scena mai realizzata: e perciò rimasto confinato nel limbo dei cartoni preparatori, atteso che si é in presenza di un punto di arrivo del quale manca verosimilmente la stazione di partenza. Nell’impossibilità di sciogliere con sicurezza il nodo, sembra ragionevole soffermarsi in prima battuta sul consueto dittico novella (La paura – 1897) – dramma (La morsa – 1898) che di seguito si indaga in base alle prime stampe: estendendo solo più avanti il confronto alla inevitabile triangolazione. Con questo criterio si ha l’opportunità di acquisire il vantaggio conoscitivo di un Pirandello debuttante in senso assoluto, i dati a disposizione obbligando a riconoscere un impegno addirittura prenovecentesco.

La consapevolezza acquisita di uno spazio analitico primario é ribadita dall’aggancio intertestuale che fa da premessa. Perché il titolo e il tema (l’etichetta e l’impiego risultano nella fattispecie un inscindibile sinolo) rinviano dirittamente a un motivo caratterizzato da addentellati molteplici nella deriva positivistica di fine secolo. Per cominciare dal contesto nostrano, in omaggio al criterio della contiguità, é inevitabile rammentare subito un libro di successo, firmato dal fisiologo Angelo Mosso (1846-1910), già alla terza edizione nel 1885, che si situa in particolare sulla scia degli studi di Darwin (The expression of the emotions – 1872) o, in ambito nazionale, di Paolo Mantegazza (1831- 1910) «colle sue celebri ricerche sul dolore». Al gradimento del pubblico avrà contribuito, sembra lecito inferire, non solo l’indubbia qualità letteraria del trattato, ma anche l’estensione paradossale dell’indagine, in esibita autonomia rispetto al «sommo maestro e filosofo inglese»: «Vedremo che il medesimo fenomeno (dell’arrossamento), notato nelle orecchie del coniglio, appare nella cresta e nei bargiglioni del gallo; che le caruncole e la pelle del collo nei tacchini, presentano nelle emozioni una pallidezza ed un rossore assai vivi, e che l’uomo e il cane impallidiscono ed arrossiscono non solo nella faccia, ma anche nei piedi». La “vivisezione del cuore umano coi metodi della scienza”, applicati cosi alla catena biologica in solido, contempla anche – tanto da rendere inevitabile la considerazione entro l’ambito difforme – un appello all’«artista» che “deve conoscere il perché, o un qualche perché, delle cose”: il nesso fra le cause e gli effetti: deve convincersi che nulla é dovuto al caso, e che ogni fenomeno ha la sua ragione di essere».

     Ora Pirandello, se é consentito accostare questi passaggi a un’ esperienza deversata in altra area come se fosse in qualche misura collegata, non si rivela sensibile in alcun modo all’accorato appello, al quale potrebbe rispondere in figura con una battuta sillabata di Andrea Fabbri: «Non c’é psi-co-lo-gia!». Difatti la sua indagine riduce al minimo il referto sulla fisiognomica («pallidissima»; «Se tremi», «Se hai tremato»), intendendo evitare la gabbia obbligata delle reazioni meccaniche per concentrarsi invece sulle pulsioni interne, quasi a perimetrare uno spazio di fatto impedito all’occhio indagatore dello scienziato, inteso a notomizzare perfino «I movimenti irresistibili» per scandagliare addirittura «le funzioni della midolla spinale» (Angelo Mosso, La paura, 1885, Milano, Treves): come per cercare, si potrebbe postillare, l’anima col bisturi. Lo scavo analitico del drammaturgo rileva invece una chimica delle emozioni non solo inattingibile allo specillo improprio, ma attenta alla complessità psichica della persona sotto inchiesta in nessun modo collocabile nella serialità fisiologica della scala inferiore.

Delimitata per antifrasi l’autonomia dello spazio riservato all’arte, non diversamente Pirandello si atteggia, a ben vedere, nel confronti di una prova di un collega in letteratura di poco precedente, La peur (1882) di Maupassant, il cui andamento dimostrativo colloca su un piano alternativo la prospettiva di ricerca. In quel caso infatti il conte, dedicato auguralmente a Huysmans alle prime armi, é ambientato entro la cornice straniante «de la lumiére de lune bouillonnant», nel mentre il narratore interno e il suo uditorio sono dominati da oscuri presagi, accostandosi al misteri dell’«Afrique lointaine». Lo scavo della semantica del termine assunto a pretesto fa capo a una griglia razionalistica in ambedue gil esempi implicati che viene dichiarata in modo inequivocabile: «La peur […] c’est quelque chose d’effroyable, une sensation atroce. comme une décomposition de l’âme, un spasme affreux de la pensée et du coeur, dont le souvenir seul donne des frisson d’angoisse». Di piú, l’approdo conclusivo divarica la sensazione in parola fino ad avvolgere la globalità dell’orbe terracqueo: «Mais la peur, ce n’est pas cela. Je l’ai pressentie en Afrique. Et pourtant elle est filie du Nord; le soleil la dissipe comme un brouillard». Sicché «le mystérieux tambour des dunes […] une sorte de mirage do son» che rintocca sinistro nel deserto o la presenza fantasmatica che insidia la pace di una famiglia assediata dal terrore in una notte tempestosa si sciolgono nel sollievo dello scampato pericolo, ridotto dalia consapevolezza a posteriori a fenomeno naturale: giustificabile cosi in ogni sua parte, a norma della razionalistica analisi interna.

     L’interpretazione di Pirandello opera invece secondo la logica di un progetto oppositivo e anzi polare che interiorizza la problematica, vera e propria spada di Damocle incombente sulla coppia adultera: di qui il ritomello dell’iterazione del lemma che affiora con insistenza binaria o ternaria entro il corpo della novella: quasi per confermare lungo la travatura narrativa la sindrome irresolubile di una vera e propria ossessione.

Perciò la sensazione in parola non può consentire la fuoriuscita dall’incubo: essa pertiene alla struttura profonda dell’esposta psicologia coinvolta.

     Una lettura provvisoria, ma scandita secondo i nuclei interni in serie, rende conto di questa progressiva trasformazione di un dubbio logico in un momento esistenziale. Il racconto si apre con la festosa accoglienza dell’amante, Antonio Serra, da parte della donna. Ma il ricongiungimento é avvelenato subito dal tarlo del dubbio di essere stati scoperti dal marito, secondo il sospetto che Serra enuncia d’un fiato: si apre cosi un procedimento all’interpretazione dei fatti, d’impossibile risoluzione ma che ne evidenzia la pluralità delle letture potenziali. L’ insicurezza che ne deriva giunge non solo alla scomposizione di una realtà disaggregata e instabile, ma al riconoscimento della difficoltà di una decodifica impedita dalla pertinenza di ipotesi in conflitto: che paiono prefigurare addirittura il rischio della dissolvenza. Perché in un universo in cui é ragionevole sostenere valutazioni oppositive con l’avallo di sostegni logici coerenti é vietato naturalmente tentare di introdurre un qualche plausibile ordine. L’assenza di statuto unitario, avvertibile nella superficie della fattualità (il ‘diritto’ per cosi dire della fenomenologia vitale), riaffiora di conseguenza nel riflesso del ‘rovescio’: cioè su una relazione erotica che può sopravvivere solo a patto di rispettare la certezza dei ruoli acquisiti nel segreto connivente. Violata la parvenza della copertura elementare a causa dello spiraglio del dubbio, gli amanti avvertono la dissoluzione di ogni forma di convenienza e anzi si arrendono alla perdita della necessaria liceità di statuto. Di conseguenza essi debbono da ultimo convenire solidalmente in un giudizio comune. in base al quale risultano superate le ragioni stesse dell’infrazione alle regole: che diviene impraticabile se l’interferenza dell’ombra incombente del manto ne cancella ogni prospettiva. Di qui la crisi che si consuma prima dei fatti (Pirandello sa già che «I fatti […]  non sono fatti: sacchi vuoti che non reggono…» (Il dovere del medico – 1911)), il cui percorso interno assume la configurazione geometrica di una circonferenza: atteso che il personaggio si posiziona da ultimo in una dimensione simmetrica, identica ma oppositiva, avendo dismessa la «maschera» dell’amante per riassumere quella della moglie. Il diagramma cosi schematicamente delineato approda perciò a un’alterità esibita rispetto al modulo narrativo di Maupassant: non per caso incrocia di scorcio, per una dinamica allusiva ricorrente, la tecnica di quel modulo narrativo che viene rubricato alla stregua di ‘flusso di coscienza’.

     L’adattamento scenico comporta anzitutto una torsione strutturale violenta: intanto insieme col titolo cade il presupposto oggettivo, non risultando più funzionale la sospensione del giudizio per mantenere convenientemente l’impianto entro la cornice dell’atto unico e anzi minimo: che per giunta impone in tempi brevi la risoluzione dell’amletico intoppo tramite il penso della recitazione fittizia, pervenendo a una soria di anticipata catastrofe di primo grado («Tra noi tutto é finito»; «Ti dico addio»). La continuità del dramma impone ancora, come secondo atto implicito, l’incarnazione del flatus vocis della novella, là evocato ma non descritto, che é la figura del marito,  strappato al limbo dell’immaginario e chiamato in attività di servizio per svolgere sotto il rispetto fattuale altra vicenda. Egli infatti, di necessità, ha capito tutto e sottopone a tortura in successione nell’ordine il rivale e poi l’imprudente consorte. Non senza che l’emanazione del diverso ma altrettanto cogente titolo generi uno svolgimento conseguente. A rammentare di continuo l’inflessibilità meccanica attivata interviene (come per un trasferimento metaforico della diffusa istanza positivistica censita in principio) la sollecitazione mirata dei nomi dei protagonisti che alimentano di continuo la procedura logica di una stretta progressiva. Dalla scelta dei cognomi risulta il ruolo convergente di Serra e Fabbri (il secondo derivato da un meno perspicuo Fabbris di E) e lo spicco della nuova energica Giulia. Che nella fermezza di un nome romano (non immune da colpa, a voler sottilizzare, già nelle memorie antiche relative alle vicende della figlia di Augusto) prende atto lucidamente dell’insostenibilità della sua situazione come il salottiero Lillina non avrebbe consentito. Cosi le parole del manto, fingendo di ragionare di altro esempio, in realtà delineano in figura la «morsa» di un cerchio concentrico che si stringe progressivamente intorno alla vittima designata, indotta ad uscire di scena attraverso un colpo di rivoltella ma in effetti cadendo vittima di un vero e proprio procedimento a spirale. Sicché il pretesto (la gelosia) e le modalità (il soffocamento reale o metaforico) riconducono per linee interne al capostipite che, nella modernità, assume a pretesto «the green-ey’d monster» (W.Shakespeare, Otello) e conclude l’inesorabile partita con il soffocamento di una, in quel caso, innocente eroina. Lo «strappo nel cielo di carta» che prevede più avanti la sostituzione di Oreste con Amleto come protagonista eponimo comporta dunque, in anticipo sull’enunciato, una variante significativa, anche se declinata al femminile, secondo un messaggio che l’onomaturgia pirandelliana fa circolare entro l’aura promossa allusivamente perfino dai titoli del cartellone.

     Le affinità tematiche e strumentali (gelosia e soffocamento) sottolineano per contrasto la novità situazionale che opera intanto uno scambio indiscutibile fra l’innocente Desdemona e la colpevole Giulia, nel mentre allo scioglimento drammatico si giunge attraverso un processo indiziario distorto che culmina in una costrizione indiretta ma obbligata. La scansione avviene per un effetto di spiazzamento della vittima perché il marito può ripetere al suo ingresso in scena la proposizione di Jago, «I am not what I am» (W.Shakespeare, Otello), dal quale mutua a criterio orientatore la forsennata gelosia, poi comunicata per contatto al Moro.

Andrea Fabbri insomma si muove con disinvolta speditezza perché ha patito in proprio l’effetto devastante di «An unauthoriz’d kiss», assumendo dunque come enunciato affermativo il dubbio proposto dal perfido suggeritore («To kiss in private?»): perciò «so prove it, / That the probation bear no hinge nor loop / To hang a doubt on». Logica vuole allora che egli intenda farsi paladino di quanto ha trascurato Desdemona («She is protectress of her honour too»), evidentemente convinto di una doppia metamorfosi sopraggiunta nel fisico («A horned man’s a monster and a beast») e nella psiche («No, my heart is turned to stone»).
Il riuso tematico di Pirandello sembra presupporre l’exploit del predecessore, di cui rovescia la premessa collocando al centro non l’illibatezza della donna ma la sua trasgressione e calcolando l’impatto della colpa entro le pieghe della femminilità angosciata. Sotto questo rispetto il suo scavo, si parva licet, si situa sul piano della complementarità, dichiarata da una distanza dei gesti ridotti a uno solo dopo la rievocazione del bacio furtivo, quello dell’autosoppressione: secondo una logica polarizzante già attratta dal baricentro astratto della metafattualità. Non senza che la relazione sia sigillata da una cifra allusiva evidente,  il correlativo oggettivo di un «guancialetto di piume» perduto che segnala, come «the handkerchief» di Desdemona, una cesura affettiva: là supposta, qui reale e con inversione di polarità del dono (in questo caso della moglie al marito).

     L’approdo alternativo risulta palese nel confronto fra E con l’ultima redazione (M²), in rapporto alla quale l’autore promuove una serrata strategia correttoria, distinta da una rete complessa di varianti instaurative e sostitutive. Tra le prime si segnalano almeno alcuni inserti macroscopici come l’introduzione di qualche didascalia o la dilatazione della prospettiva scenica attraverso una sequenza di meta-teatro: il racconto della notte trascorsa dal manto nella stessa camera di albergo di Andrea, vera e propria prova generale della tortura psicologica poi inflitta, in dosi quantitativamente intollerabili, a Giulia.

     L’arte del levare è invece largamente impiegata nella potatura dell’ ultima pagina, densa di allusioni e di minacce contraddittorie rispetto all’assunto perché riconducono impropriamente sul piano della fattualità, balenandovi addirittura il ricatto del delitto di onore: dunque con incoerenza nella coda di un dramma la cui novità consiste per l’appunto nell’assenza di gesti concreti. Perciò più convenientemente il testo si contrae nella seconda redazione, per caduta della dissonanza, nella fulminea battuta dell’ atto di accusa:

E

Antonio (dalla soglia, chiamando): Andrea?
Andrea (volgendosi d‘un subito) Ah! – avanti – sei tu? – avanti, avvocato…
Antonio (sempre sulla soglia): Chi adoravi dietro l’uscio?
Andrea (guardando all’uscio con ansia paurosa): Ah – si – ero cosi… – vieni avanti – vieni avanti… Adoravo, dici tu… mi piace…
Antonio: Cos’hai?
Andrea: lo? Nulla – Adoravo!… Mi trovi… un po’ agitato… Nulla… Dispiaceri… Soliti dispiaceri… Ho gridato un po’… Non vuoi venire avanti?
Antonio (come tra sé): lo non so…
Andrea (pronto): Che non sai? nulla ti dico – Vedi – é passato… Siedi qui – Si direbbe che bah paura di sedere…

Antonio: Questa tua agitazione…
Andrea: Sei curioso… Te l’ho detto… Ho gridato un po’… Non vuoi sedere? Andiamo… Ti ringrazio d’esser venuto… Parliamo d’affari. Del mio affare (guarda verso l‘uscio a sinistra – divenendo sempre più inquieto)
Antonio (additando l‘uscio): Che… (s ‘interrompe)
Andrea (quasi inconsciamente): Mia moglie è di là… Si, è di là… Ho sgridato lei… – non ho trovato in casa i miei figli…
Antonio: Ah – è per questo –
Andrea: Si – per questo… E ora… capisci?… ma non…

(si ode internamente un colpo di rivoltella)
Antonio (dà un grido, e guarda Andrea, atterrito): Che accade qui?

(si precipita verso l’uscio a sinistra – l’ apre – guarda – poi grida):

Tua moglie s’é uccisa!
Andrea (pronto): Tu l’hai uccisa! -Silenzio! Pel mio onore – pel nome di lei! – pei miei figli. A questo solo patto ti concedo la vita –
(Cala precipitosamente la tela).

Andrea (resta perplesso, smarrito dietro l’uscio, con le mani sulla faccia. Entra nel frattempo Antonio Serra; il quale, vedendo Andrea in quell’atteggiamento, sí tratterrà esitante sulla soglia. Si ode dall’ínterno un colpo di rivoltella.)
Antonio (dà un grido.)
Andrea (volgendosi di scatto): Tu l’hai uccisa!.

     Per documentare la levigatura sottile delle varianti sostitutive é utile fare ricorso, limitandosi all’esemplificazione più economica, alla considerazione della «fonologia di giuntura». Nell’ambito di simile campionario l’attenzione di Pirandello, implacabile di solito nell’evitare le cacofonie vocaliche, inverte l’asse direzionale di questa dinamica stilistica, provocandole volutamente quando la suspense impone lo iato della sillabazione tragica di Giulia, sotto l’urgenza della catastrofe incombente:

E

E t’ha lasciato;

l’aspettavo;
m’interessi…

E ti ha lasciato;

lo aspettavo;

mi interessi…

     Il giro di orizzonte non riuscirebbe completo se non si considerasse infine, per completezza, un «bozzetto scenico» come La caccia al lupo (1901) di Verga che propone la stessa tematica (adulterio e gelosia entro la geometria di un triangolo) e si presta a definire per contrasto il rilievo della diversità. Il confronto risulta tanto più istruttivo perché concerne senza dubbio testi poligenetici, visto che la cronologia prenovecentesca di Pirandello esclude ogni rapporto con l’elaborazione successiva di Verga. La quale é già tutta dichiarata nell’avantesto: perché le didascalie di apertura certificano per via di metafora ma senza possibilità di equivoco il motivo conduttore e perfino l’inevitabile conclusione:

     Notte di vento e pioggia – vero tempo da lupi […] Lollo, grondante d’acqua, col fucile in mano e il viso torvo. […] La moglie (Mariangela), al vedersi dinanzi il marito a quell’ora insolita, con quel tempo, e con quella faccia, comincia a tremare come una foglia, ed ha appena il fiato di balbettare.

     Il diverso taglio ambientale (il «Casolare di pastori» di contro alla «stanza» -salotto di «casa Fabbri») segnala la pertinenza dell’indugio e giustifica lo sviluppo tutto concreto del sistema allusivo impiegato dal «pezzetto di legno lungo poco più di un palmo» a un pretesto trasparente perché citato apertamente («S’é visto Bellamà?») e minacciato senza possibilità di equivoco: «Dobbiamo prendere un lupo stanotte. […] neanche il diavolo lo salverebbe…».

L’evidenza palmare non risparmia le conseguenze, per giunta entro la scala di una crescita quantitativa (l’unica consentita) della griglia prescelta («Ma stavolta ci lascia la pelle»), soccorrendo ancora in modo convergente il pedale della didascalia: «Scroscio di tuono – Un lampo illumina vivamente la scena». Non per caso compare qui per la prima volta. appuntata scopertamente sulla colpa di Mariangela, un lemma implicato che mai avrebbe potuto nella fattispecie assurgere alla definizione di titolo: «Avranno [le galline] paura anch’esse… come te». La crescita esponenziale di uno stato psicologico cosi scoperto si svolge allora entro uno spazio breve, potendo solo ripetere se stesso in iterazione («Paura? Di che hai paura, di’?!»), in rapporto alla modulazione del passaggio successivo: ormai dischiudendosi lo scenario della pratica barbarica preventivata per il seguito («ché suo manto almeno, quando si sarà lavata la faccia nel sangue di quell’altro…»).
In tale contesto il colloquio di Mariangela con Bellamà, strutturalmente posposto rispetto al dramma di Pirandello a conferma della logica alternativa che guida i due scrittori, si svolge senza sorprese, riproponendo peraltro una contrapposizione fra complici non necessaria e ripetitiva ma inevitabile per assicurare la scontata conclusione. La simmetria fra i due tempi, sottolineata dalla superflua decifrazione dell’immagine del lupo da parte di Mariangela, emerge senza possibilità di equivoco nella ripicca successiva, segnata dalla coincidenza anche formale delle parole dell’amante con quelle di Lollo che presuppone addirittura il paradosso di una doppia morte in agguato: «Com’é vero Dio, ti faccio la festa, prima di tuo marito». A rendere scontato l’esito, tutto pienamente esibito nella premessa, interviene nell’ultima battuta l’ingresso dei giustizieri, l’unica cautela di autore riguardando la figura della reticenza che fa calare il sipario immediatamente prima del gesto omicida.

     La divaricazione fra i due drammi in parola, non preordinata ma polare, del tutto comparabile con quella riconosciuta in precedenza rispetto a Maupassant, esonera dal procedere nel commento a questo punto superfluo. Semmai, tanto per fissare da ultimo in termini di storia letteraria la distanza verificata, conviene concludere con un rilievo inteso a sottolineare, sul versante qui privilegiato, il significato di un esito già abbondantemente «fuori di chiave»: tanto più ragguardevole perché realizzato nell’ambito di quella «legge siciliana» relativa all’adulterio che configura un filone evidente fra La lupa di Verga e Malia di Capuana. Prendendo le distanze dal più prestigioso condizionamento storico ancora operativo (Shakespeare) e dischiudendo un’alternativa rispetto al naturalismo di oltralpe o nostrano (da Maupassant a Verga), Pirandello avvia una ricerca indiscutibilmente orientata, nel segno di un’originalità allora priva di riscontro. La quale tuttavia, per essere stazzata convenientemente, necessita di una contestualizzazione affidata a una lettura progressiva, non retrograda, della cronologia in parola: senza inforcare dunque gli occhiali inadeguati, tipici dei tardi fruitori del teatro di Pirandello. L’adozione di questa cautela elementare consente di acquisire la consapevolezza piena dell’impact factor prodotto al suo debutto da un drammaturgo destinato di lì a poco a conquistarsi il rango di un udienza europea di spicco.

Arnaldo Bruni – Università di Firenze

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